Parte Prima

Stare in casa, lavorare, riposarsi, riprendere il ricamo cominciato, leggere giornali e qualche libro, fare intorno a sé il poco bene che poteva, questa era la linea quotidiana dell’esistenza e della pallida felicità della signora Noemi Davila.
Anche quella mattina, anzi più che mai quella mattina, ella si svegliò con la visione di tale strada diritta e chiara davanti a sé. Aveva dormito bene tutta la notte, e al suo primo svegliarsi ringraziò Dio anche di questo.
Era presto ancora per alzarsi: fuori faceva freddo, sebbene dalla chiarità sonora dei rumori anche i più lontani, e dalla luce azzurrina che rischiarava i vetri appannati, si sentisse la bellezza della giornata invernale: forse, dunque, era bene riaddormentarsi per un’altra mezz’ora, nel letto piccolo e tiepido di piume come un nido: ma la trasparenza stessa della fresca luce che penetrava di fuori infondeva nella signora Noemi un senso di vita, un bisogno di moto.
La camera si illuminava lentamente, e gli oggetti pareva si svegliassero anch’essi con serenità; lo specchio dell’armadio la rifletteva e la ingrandiva fantasticamente, questa camera già di per sé sognante, per la sua tappezzeria dorata, con sottilissime striscie serpentine, sul cui sfondo caldo, come di tramonto, i mobili di mogano spandevano ombre rossicce: e dentro lo specchio la signora Noemi vedeva anche il suo letto e la figura coricatavi, che, nella lontananza irreale non le sembrava la sua, o, meglio, sì, la sua, ma ancora quella della prima giovinezza: figura, del resto, esile e piccola, che non gonfiava la coltre di seta color mogano; mentre il viso in mezzo all’arruffio dei capelli scuri, risaltava di un pallore chiaro, con le sopracciglia nere molto arcuate sopra gli occhi di madreperla verde.
Giovinezza! Oh, sì, ricordi e rimpianti, ricordi e desiderî, le balenarono nel cuore: ella però li rimbalzò contro l’altra figura, quella dello specchio, che nella vacuità del suo mondo di sogno poteva giovarsene ancora; per conto suo ella voleva vivere solo nella realtà del presente: e per cominciare tese le orecchie ai rumori esterni.
Già si sentiva, nello sfondo, il ronzio d’alveare della città, che riprendeva anch’essa il suo ritmo quotidiano: fischi di treni lo attraversavano, come raggi di uno splendore metallico; mentre più vicino, un rombo di sirena salì da prima come una colonna di fumo, poi si assottigliò, si torse, sempre più acuto e fino, e terminò con un lamento quasi umano, che parve l’eco di quello dei malati dopo la notte di tormento insonne: poiché la sirena segnava la sveglia di un grande ospedale.
Ed ecco passano i carrettieri di campagna, coi sonagli dei muli e il lento crocchiare delle ruote che sembrano di pietra: è però un rumore quasi musicale, che racconta la frescura dei prati bianchi di brina e la mite rassegnazione delle bestie e degli uomini condannati alla monotona fatica quotidiana: e riconcilierebbero il sonno a quelli che invece riposano nel loro tiepido letto, senza i primi squilli delle automobili, che lacerano la quiete dell’aria e riaprono la sensazione della vita precedente. Si è in città, in una grande metropoli, dove l’esistenza di ogni giorno, anche per chi cerca di sfuggirne gli angoli, è un inevitabile combattimento. E anche la signora Noemi ha le sue piccole lotte: con gl’inquilini dello stabile signorile del quale è proprietaria; col portinaio che, fidato e affezionato, sì, ma autoritario e duro, pretende quasi di far da padrone; con gli operai per le frequenti riparazioni, e infine con la giovane serva che dormirebbe fino a mezzogiorno.
Suonò, dunque, per darle la sveglia; e la ragazza, che tutte le mattine le portava una tazzina di caffè, entrò silenziosa. Alta, bionda, con le babbucce di velluto rosso, il seno basso esuberante, aveva nel profilo e negli occhi di un giallo minerale, un’espressione di rapina; ma il suo modo di salutare, di servire il caffè, di camminare cauta, dimostravano la sua soggezione al dominio della padrona: anzi un certo affetto, come di scimmia addomesticata.
Domandò, sottovoce, prima di andarsene:
– Adesso la signora ha bisogno di altro?
– No, Pierina: pulisci in sala da pranzo; poi vai per la spesa; ricordati di tutto. E sbrigati.
– Sì, signora, in due salti sono qui.
I due salti sarebbero stati mille, la signora lo sapeva: d’altronde compativa. Compativa tutto; era paziente, calma, non aveva mai fretta. Si alzò, cominciò a vestirsi con una certa cura. La sua biancheria e la sottoveste sono semplici ma nitide, intatte: e quasi infantile è il vestito di lana, a maglia, di un colore neutro, fra il bigio e il verde, che però s’intona col colore dei suoi occhi.
Anche il modo col quale ella si acconcia i capelli, con la scriminatura dritta come un filo, in mezzo alla testa, e un nodo stretto sulla nuca, dimostra la sua indifferenza di piacere al prossimo. O è tutta una finzione, anche verso sé stessa, poiché in fondo ella si compiace di quella scriminatura bianca e sottile, che fa meglio risaltare l’oro scuro dei capelli nuovi che vi spuntano ai margini, e ancora indicano un segno quasi di fanciullezza.
Da sé rimise in ordine la camera: cosa del resto facile: il letto non sembrava neppure disfatto, e i mobili, anziché spolverare, pareva si lasciassero accarezzare dalle mani lievi e prensili di lei. Tutta la casa, d’altronde, era così, ricca silenziosa e morta come un museo: e la figura della padrona, che vi trasvolava rapida e, a volte, quasi furtiva, pareva non avesse maggior vita di quella che, uscendo lei dalla sua camera, sparì dallo specchio.
Il mistero ella stessa se lo spiegò anche quella mattina, entrando nel grande studio attiguo ai due salotti in fondo all’appartamento. Tra libri, quadri, vetrine e arazzi, vegliava un ritratto d’uomo, giovane ancora ma austero, col viso glabro d’un pallore azzurrino solcato da ombre di sofferenza fisica: il mento quadrato e gli occhi lunghi, castanei, esprimevano però una fermezza volontaria; gli occhi specialmente, vivi, fissi, a guardare un po’ di sbieco un punto indefinibile, e che pure s’incontravano sempre con gli occhi che li guardavano.
La lieve tinta rosea delle labbra sottili accresceva vita a questo ritratto, che pareva ascoltasse qualche cosa fuor di sé stesso, anzi dimentico di sé stesso, curandosi solo di chi lo guardava. E la signora Noemi, che era stata la sua compagna in vita e adesso lo era più che mai in morte, gli fece un segno con la testa come per dirgli: «Sì, eccomi, siamo sempre vicini», poi guardò se la giunchiglia, entro il vasetto d’argento sulla mensola sotto il ritratto, fra due supplici foglie di felci, era fresca e odorava ancora infine spalancò la finestra.
La stanza vibrò allora di luci, di riflessi, di colori: la figura di lui si animò ancora di più; un non so che di furbesco gli ravvivò le labbra; e i capelli folti, molli, di un nero lucido, mossi e quasi disordinati, si gonfiarono sullo sfondo verdognolo del quadro, rivelando in lui un uomo geniale e forte.
Ella si volse ancora a guardarlo, poi, attraversata la sala grande, spalancò la finestra del salottino in fondo. Qui ella passava buona parte della giornata, riceveva gl’inquilini dello stabile e i pochi conoscenti che venivano a cercarla anche dopo la morte del marito. Mensole di lusso, sofà maestosi e poltrone fonde affollavano la sala grande, mentre qui, tranne una piccola tavola centrale e un divano con una coltre di seta che pareva intessuta di erba fresca, i mobili erano di giunco, lievi e lucidi come d’avorio, con piccoli disegni neri. Stampe e vasi giapponesi, con l’area vaghezza dei loro colori, i rami in germoglio, gli uccelli graziosi, davano all’ambiente una gentilezza sempre primaverile. Sembrava anch’esso il salottino di una fanciulla di altri tempi, e di altri tempi il cestino da lavoro, coi suoi gomitoli di filo e di seta che parevano frutti, il ditale d’argento, il cuscinetto di velluto verde per le spille messe in fila come soldati: tutto in ordine, come in ordine simmetrico erano i libri, i giornali, le carte, sulla tavola che serviva anche da scrittoio.
E qui ella s’indugiò un momento, affacciandosi anche alla finestra, che con le altre dell’appartamento dava su una larga strada nuova, già lucente di insegne e di vetrine; ma aveva, pur di fronte, l’angolo di un giardino, con un fastoso cedro del Libano sempre verde che riempiva il breve orizzonte e nascondeva la sagoma di un villino signorile.
Il cielo alto, di un turchino fatto più vivo da una coda pavonesca di nuvolette bianche, richiamò lo sguardo della donna: un pensiero le fece brillare gli occhi; ma subito li riabbassò, chiuse i vetri e uscì nel corridoio. Corridoio che faceva parte del museo, dividendo in lungo il grande appartamento; le vetrate gialle che a loro volta lo dividevano, e quelle dello stesso colore degli usci delle camere, vi spandevano una luce dorata che si rifletteva sulle cassapanche, le cristalliere piene di vasi, di cocci, di oggetti rari, il pavimento a mosaico. Pure a mosaico era il pavimento della sala da pranzo; e qui si respirava addirittura una atmosfera di chiesa; con le antiche credenze di rovere ricoperte di trine, come gli altari, con vasi d’argento e cristallerie di stile; e i vetri smerigliati delle finestre bifore, color d’ambra, che davano una illusione di sole anche se fuori pioveva.
Via, via; la signora Noemi vi scivolò appena, tanto per la solita ispezione, e andò a rifugiarsi in cucina. Nonostante le sue cose meccaniche, tutte laccate, tutte d’un bianco da laboratorio, la cucina era, dopo la camera da letto e il salottino, l’ambiente più vivo e ospitale della casa: tanto che la tavola parve far chiasso e festa, quando Pierina vi depose d’un colpo la sporta campestre della spesa e questa si rovesciò. I pomi rossi e gialli rotolarono per terra, il pacchetto col sale si spaccò.
– Disgrazia, disgrazia, – urla la ragazza, ficcandosi le dita fra i capelli corti; – eppure nelle scale ho incontrato il signore gobbo.
– Zitta; va e finisci le pulizie: qui metto in ordine io.
Ordine: questa è la sola preoccupazione della signora Noemi. Prima di tutto raccoglie le mele; è ancora abbastanza agile per piegarsi fin sotto la credenza, dove ha occasione di scoprire una metà di cartolina illustrata, con due amanti che si baciano, e l’indirizzo soldatesco per la bella Pierina; poi mette a posto il sale e raddrizza la sporta: ad uno ad uno ne vengono fuori gl’involti, con prudenza quello delle uova, con cautela quello della carne, per non insanguinarsi le dita.
Quando tutto fu a posto, accese il fornello a gas e vi rimise su il bricco del latte, tenendolo d’occhio con fare quasi torvo, quasi si trattasse di un nemico pericoloso.
Di là Pierina, che già aveva fatto una prima colazione e, del resto, si portava sempre in tasca pezzi di pane e frutta dure, sbatteva i mobili cantando e fischiando. Aveva una voce animalesca, che unita agli intermezzi sibilanti, dava l’impressione ch’ella fosse arrivata di recente da qualche foresta inesplorata: eppure questo chiasso selvatico, ma schietto e giovanile, non dispiaceva alla padrona; le ricordava qualche cosa di fresco, di primordiale; i boschi, appunto, ch’ella aveva veduto nella sua fanciullezza, le voci e i canti degli operai che segavano i tronchi, i fischi delle ghiandaie fuggenti dai loro nidi.
Del resto bisogna ammettere che Pierina si prodigava nel suo lavoro con tutta l’esuberanza del suo bel corpo di giovane tigre grassa; sbatteva i tappeti con gioia di crudeltà, parlando con loro come con nemici frustati: «Prenditi questa, bello: prenditi quest’altra, se non sei contento»; e saltava con un solo piede sulle sedie, per arrivare a togliere la polvere sopra gli armadi: ma anche lì erano bòtte, con lo strofinaccio, e schiaffi, e parolacce se questo si permetteva di attaccarsi dispettoso agli spigoli: e la peggio toccava al piumino da spolverare che usciva dalle sue mani come un uccello spennacchiato.
D’un tratto però si ferma, mentre, nel silenzio improvviso, il suono del campanello della porta d’ingresso, squassa come un grido allarmante la quiete della casa. E quasi davvero minacciata da un grave pericolo, la signora Noemi si chiude dentro la cucina, spingendone d’impeto l’uscio: ma Pierina lo riapre con garbo, e tutta felice di schietta malignità, annunzia:
– C’è il signor ingegnere Franci.
Noemi ha già capito che è lui, tuttavia ne prova un senso di sorpresa, di gioia, di malessere ed anche, sì, di paura.
– A quest’ora? – dice, più a sé stessa che alla ragazza. – Che vuole? Digli che sono uscita, – aggiunge sottovoce.
– Eh, il signor ingegnere sa benissimo che lei è in casa.
– Digli che torni, allora.
Ma Pierina sta lì, sorniona, sorridente, incoraggiante: tanto che la padrona si aggiusta istintivamente i capelli, mormorando:
– Beh, tanto quello torna lo stesso. Fallo entrare nel salottino e tu torna qui e non far chiasso.
– Bene, bene, – dice a sé stessa Pierina. Tutto le andava bene, quel giorno, tutto a seconda del suo spirito turbolento e avventuroso e sopra tutto quella visita ambigua, a quell’ora, del giovane signor Conte Ingegnere Franco Franci, che, sebbene da poco sposato con una bella e ricca signorina, visitava spesso, con scuse di affari, la melanconica e magra signora Noemi.
E appena questa fu uscita dalla cucina, ella cominciò a scimmiottarla con allegra abilità: «Che vuole? Digli che sono uscita. E digli che torni. Che vuole?» – «Lo domanda a me? Oh, sì, lo so ben io, quello che vuole; ma lo sa pure lei».
Cercò di andare a origliare; ma la padrona aveva chiuso a chiave la vetrata centrale del corridoio, ed anche gli usci di comunicazione fra lo studio e la sala e la sala e il corridoio. Come, del resto, faceva sempre, quando non voleva essere spiata.
Il visitatore, che si era abbandonato su una sedia, piegandosi per una invincibile stanchezza, anzi per un malessere che gli contraeva i lineamenti, appena vide la donna balzò su, come elettrizzato, e tentò di ricomporsi in viso. Era un viso quasi brutto con la grande fronte sporgente che premeva sul naso corto e la bocca sensuale; il tutto di un colore bronzeo, in quel momento ancora più illividito da un corruccio profondo. Ed anche il suo corpo era sproporzionato, troppo alto e grosso per le mani e i piedi d’una piccolezza quasi ridicola: le spalle curve pareva spingessero in avanti l’addome, quasi di persona anziana; ma gli occhi turchini ingranditi dall’arco delle sopracciglia nere, avevano un fulgore interno, di bontà, di sogno, che non si smentiva neppure in quel momento, anzi smentiva l’agitazione cattiva del viso, e imploravano aiuto alla donna.
Ella però lo accolse fermamente e apertamente ostile, con la sua persona dura e grigia di pietra, le mani inerti, gli occhi col riflesso gelido di quel cielo invernale.
– Mettiti a sedere, – dice; e quel tu, quell’invito, sono più inospitali di un’accoglienza scortese.
Egli si rimette a sedere, chinando la testa fin quasi alle ginocchia: ella si tinge lievemente in viso di un colore di pietà, ma riprende la sua maschera di ghiaccio, quando egli solleva d’improvviso la testa e si scuote tutto come spogliandosi di un vestito pesante. Con voce dura e rauca, e quasi sgretolando le sillabe di ogni parola, dice:
– Dopo tutto la colpa non è mia: e bisognava farla finita una buona volta.
Aspetta ch’ella domandi che cosa è accaduto: i suoi occhi, adesso, implorano almeno la curiosità, se non l’interessamento di lei, ma ella rimane chiusa, con le ciglia ferme. Allora egli riprende.
– Questa notte abbiamo litigato: ma che dico questa notte? È già da una settimana che non si fa che questionare, come popolani affannati; peggio ancora, come villanzoni incoscienti. E non c’è stato un attimo di tregua. Lei mi odia, io la odio; e con tutto il male che mi vuole, con tutta la ripugnanza fisica che io le desto, è trivialmente gelosa, e accusa di nefandezze le persone alle quali io porto rispetto e venerazione. E gli improperî contro di me sono terribili: pare un’ossessa, lei che pure ha avuta una educazione fin troppo stretta e religiosa, lei che è fine e aristocratica per natura. E poi quasi ancora una bambina. Ma è proprio posseduta dal demonio.
Noemi, che ha preso il suo posto davanti alla tavola, come quando riceve gl’inquilini per i loro reclami, parla sordamente.
– È per questo che devi compatirla. È sola; è una bambina, tu stesso lo dici.
Ma egli s’irrita maggiormente: è quasi in furore, e agita le mani come flagellandosi.
– E io non sono solo? Non sono malato anch’io? Oh, ben più malato di quando tu mi hai conosciuto la prima volta, nella clinica dove era anche lui, tuo marito. Compatirla? L’ho fatto finora; fin troppo. Adesso basta; adesso è necessario finirla, in un modo o nell’altro. Ella mi rinfaccia continuamente la sua dote; mi rinfaccia la povertà della mia famiglia, il lavoro sacrosanto delle mie sorelle, la mia inabilità a crearmi una grande posizione: persino il mio sciagurato titolo, mi rinfaccia, con crudeltà raffinata; e sogghigna come una pazza quando la chiamano «signora contessa». Persino le persone di servizio sanno del suo disprezzo, del suo odio per me. Come continuare così? Adesso dice che vuol tornare a casa sua. Casa di pazzi: tutti pazzi: ma che vada pure. Pazzi, egoisti, malvagi. Che vada pure; all’inferno, al manicomio, dove vuole: altrimenti la finiamo male.
Di nuovo Noemi chiude le labbra: ma un impercettibile fremito l’agita tutta. Egli riprende, più calmo, triste:
– Avessi avuto un conforto nella mia vita. Nulla. Nulla: non ho neppure un amico, una persona che possa intendermi, aiutarmi, o almeno compassionarmi. Il torto è sempre stato mio, sempre mio. Sempre. Fin da ragazzo, neppure mia madre ha potuto capirmi; neppure le mie sorelle, che sono buone e pietose. Sempre mio, il torto: perché amavo la verità, la semplicità, la purezza della vita. Queste cose me le ha insegnate la mia famiglia stessa: eppure in me non le capivano. Il meno che non si poteva dire era che rasentavo la debolezza e l’abulia. Eppure non ho mai commesso un errore volontario: tutto ho fatto con profonda coscienza: lo stesso mio matrimonio non è stato un colpo di leggerezza o di calcolo: leggerezza e calcolo, se vi furono, furono da parte della famiglia di lei. Sono ricchi, volevano un titolo: l’hanno comprato, con la dote di lei: ma io non ho toccato un centesimo, di questa maledetta dote. Se la riprendano; vadano all’inferno. Ho amato sinceramente la Pia: l’ho veduta giocare in riva al mare, ma triste e solitaria: m’è parsa un’orfana, una bambina sperduta: e ho avuto desiderio di prenderla in braccio, di ricercare i suoi parenti. E prima di sposarci ho ben aspettato che i suoi parenti, e sopra tutto lei, mi conoscessero, e non si illudessero sul mio conto. Ma sono essi, che mi hanno ingannato, valendosi appunto delle mie qualità buone e generose. Avrò torto; sono diverso dagli altri uomini; lo so, non sono cattivo come gli altri.
– E tu, – ella riprende, con voce sorda, ma in qualche modo convinta, – continua ad essere buono e generoso: vedrai che le cose cambieranno. Devono cambiare.
Ma ogni parola di lei era un colpo di martello sulla testa di Franco. Si portò le mani alla fronte, parve volesse fasciarsela; tornò a dibattersi tutto, torvo e pesante.
– No, no, no. Mai, mai più: non si torna indietro. Era meglio fossi morto, quella volta, quando tu entrasti nella mia camera, nella clinica, e mi hai dato del tu, come una madre, poiché si dà del tu ai moribondi. Adesso sono di nuovo moribondo; ma la tua pietà è finita. E va bene: ma, tanto, qualche cosa di terribile deve accadere.
Allora Noemi credette che egli avesse propositi di suicidio, e pensò che era suo dovere di tentare di salvarlo. Disse, con voce tenue e buona di fanciulla:
– Franco, che dici? Sì, una madre; lo sono stata, per te, vorrei esserlo ancora. Ma tu non hai avuto confidenza, in me; tu hai creduto, forse lo credi ancora, che un legame diverso potesse unirci. Io ti ho mandato via, una prima volta, perché era mio dovere di farlo. Era vivo lui, era malato; era il mio amore, il mio bene, la mia vita stessa. Sei andato via; nulla più ho saputo di te. Sei tornato, sì, come il figlio torna sempre alla sua casa; ma eri già il figlio prodigo; e la tua storia io la so a memoria da molto tempo, e vorrei che la fine non fosse questa di oggi. Oh, no; ma che posso fare? Che posso fare per te? Non si cambiano le leggi, i regolamenti della vita. Quando sei tornato, ho tentato di guidarti, di aiutarti. Ti dissi, ricordati, fin dalla prima volta; portami qui tua moglie. Sarebbe stato un bene per tutti e non hai voluto.
– È lei, che non è voluta venire; che non ha voluto vederti.
Adesso è Noemi a stringersi la testa: confessa:
– Forse aveva, forse ha ragione: forse è meglio. Certe cose non si nascondono. Però devi farle capire che nulla di male c’è stato, fra noi due: devi dirle che ti ho mandato via una prima volta, che ti ho mandato via una seconda volta questa è la terza e definitiva. Va, Franco: io non posso far nulla per te: e lei lo sentirà, e si placherà. Va. Fatti coraggio. Ci sono cose molto più tristi nella vita. Per tanta gente non esiste che il dramma dell’accoppiamento sessuale: e anche per te, per voi due, forse: ma ci sono altre cose: povertà, malattie, delitti; posso dirlo per esperienza, Franco, oh, Franco, per esperienza. E forse quello che ti ha colpito, in me, nei miei occhi, è stato questo cumulo di dolore, dolore vero, non immaginario come il tuo, che non mi schiaccia, ma mi separa per sempre dalla vita di voi altri, di tutti voi altri. E, dunque, va: milioni di coppie di sposi somigliano alla vostra, eppure vivono, sia pure come il mare, oggi in burrasca, domani in calma. E poi, se è proprio necessario, potete separarvi, d’accordo, come tanti fanno. Non avete figli; essa è ricca; tu hai il tuo lavoro. Ma le cose, vedrai, con un po’ di buona volontà da parte tua, si calmeranno.
Parole: parole savie, ma perfettamente inutili.
Egli non si sollevava, fermo a fissare l’abisso del suo disastro: quando però Noemi, per confortarlo come si confortano i malati, raccontando loro le nostre malattie, disse, timida, anzi pudica, che nei primi tempi del suo matrimonio, anche fra lei e suo marito erano corsi malintesi, dissapori, ripugnanze fisiche, egli balzò in piedi con uno scatto di furore quasi bestiale.
– Non parlarmi di lui. Egli ti tiene schiava anche dopo morto, ed è lui, solamente lui, che s’interpone fra noi.
Anche lei si era alzata, con atteggiamento di difesa; e nello stesso tempo pareva tendersi in ascolto, verso le stanze attigue, come se il fantasma del marito potesse sentire le parole insensate del vivo. Ma lui proseguiva, più veemente, alzando la voce:
– È lui, sì, che si interpone fra noi. Una prima volta si interpose, mentre tu sapevi ch’era già un cadavere, e mi hai cacciato via. E la nostra vita sarebbe stata diversa, oh, ben diversa, quella appunto che tu chiami la vita secondo le leggi e i regolamenti umani, poiché io ti amavo, con amore sano e dritto, e non ti domandavo che di aspettarmi. E anche tu mi amavi, e ancora mi ami, con tutto il tuo sangue e il tuo diritto di vivere. Ma tu mi hai cacciato, e ancora mi scacci, come un lebbroso; hai paura, e non è la legge, non è la religione, che ti impedisce di soccorrermi: è la superstizione, è il terrore di lui.
Ella s’era fatta verde e rigida in viso, come un vecchio bronzo: accennò anche ad andarsene, dura di sdegno e quasi di spavento; ma egli le balzò dietro, la fermò per le braccia, la costrinse a volgersi, si piegò, parve rifugiarsele in grembo, floscio, davanti a lei, come un sacco vuotato di tutte le sue cose immonde. Singhiozzava:
– Perdonami. Ma se tu, come in un primo momento di abbandono, te lo ricordi, vero, almeno questo? avessi continuato a dirmi una parola di conforto, le cose mie non sarebbero precipitate a questo punto. E io non ti domandavo altro, se non di lasciarmi venire qui, ogni tanto, per lamentarmi, per rivedere i tuoi occhi pietosi. Null’altro, ti domandavo. Ne convieni? Dì la verità, dì una buona volta la verità.
Adesso era lei, a piegare la testa; e il contatto dell’uomo in bufera, l’ardore del corpo febbricitante di lui, la stretta delle mani tenaci, le davano un senso di vertigine, di nausea fisica, ma anche di potenza e di libertà.
– Lasciami, Franco, lasciami. Tu forse hai ragione, ma tu sai meglio di me come queste cose vanno a finire. E poi non ti accorgi, disgraziato, che io sono vecchia? Vecchia, per te, per me, per la vita.
Egli non badò a queste ultime parole, già attaccato alle altre con esasperazione piangente.
– Come vanno a finire? No, tu non mi conosci; non mi hai conosciuto mai. Nessuno mi ha conosciuto, e tu meno degli altri. Io non ti avrei mai fatto male, e non te ne farò. E poi, e poi, che cosa è il male? È forse l’evitare il bene e il nostro bene era quello di intenderci, poiché Dio aveva permesso il nostro incontro; e lo aveva permesso ai limiti della morte, per farci risorgere tutti e due. Tu non hai voluto; tu hai preferito e preferisci la morte. Tu vivi con un morto: sola, peggio che sola.
– Lasciami, – ella impose, fissandolo con occhi duri: – io non sono sola, né vivo coi morti. Vivo con me stessa e con la coscienza del mio dovere. Vattene.
Allora egli la lasciò, anzi s’irrigidì anche lui, e parve ricordarsi di qualche cosa di oscuro, di lontano, che lo distaccava completamente da lei.
– Scusami, – disse, cercando il cappello; – è vero, c’è ben altro da fare.
E s’avviò per andarsene. Ella lo seguì, fino al corridoio. Si era di nuovo fatta pallida, fredda, ma di un gelo, adesso, che le arrivava al cuore: perduta la sua potenza, si sentiva di nuovo piccola, curva; e batteva i denti. Aveva l’impressione sinistra che l’uomo andasse verso un pericolo mortale: bastava una parola per salvarlo; ella non la pronunziò.
Dopo che ebbe chiuso la porta, sentì però un senso di liberazione. Adesso, sì, tutto era finito; tutto era stato osservato secondo i regolamenti della vita; della vita ch’ella si era imposta.
Eppure, nel tornare indietro per il corridoio, esitò un momento davanti all’uscio dello studio; si sentiva i fianchi e le braccia come macchiate da ecchimosi, dopo una caduta sia pure involontaria: e le selvagge parole di verità che Franco le aveva detto, le turbinavano intorno come vespe.
Entrò. Il ritratto era lì, con lo sguardo vivente, con l’orecchio in ascolto. Ella lo fissò, dal basso, come gli animali fedeli guardano il loro padrone. Ne cercava l’approvazione, l’aiuto, l’amicizia; non il perdono; poiché sapeva che ancora una volta, sia pure contro la sua volontà, il suo istinto, il suo stesso dolore, lo aveva tradito: col ricevere Franco, col lasciarsi toccare da lui e dal suo torbido delirio.
Ed egli, di là, dove tutto è davvero chiaro e fissato da leggi invincibili, non perdonava; non per lui, ma per il male ch’ella aveva fatto a sé stessa.
Ella insisté, tuttavia; e un rapido colloquio parve svolgersi fra loro due: o meglio, con quel senso di allucinazione che sempre l’avvolgeva davanti al fantasma, ella sentì ancora il soffio misterioso della voce afona di lui, negli ultimi mesi dopo la lunga malattia che già lo aveva sbranato della sua carne.
«Noemi, io credo in una vita eterna. Ti aspetterò, di là, e ci riuniremo nella gioia che non ha fine. Ma bisogna, per questo, morire senza peccato. Io, sì, credo di farlo, almeno riguardo a te: se anche tu lo potrai, il regno di Dio sarà nostro».
Erano parole precise, quasi matematiche: e rimanevano incise nel cuore di lei come cifre sulle tavole di pietra delle antichissime leggi umane.
Per questo ella tentò di ribellarsi.
«Dopo tutto, non ho reagito, contro il peccato? Una, due volte? Così, adesso tutto è finito».
«Era meglio non cominciare, Noemi. Perché gli hai aperto la nostra porta? La prima e seconda volta?».
Allora ella si buttò bocconi sul tappeto, e cominciò a singhiozzare come una bambina.
«Perdonami: è vero, avevo dimenticato le tue parole, tu ancora vivente, e adesso ancora, perdonami».
«Non posso: poiché tu hai fatto male anche ad altri; e bisogna espiare, adesso».
Allora ella si sollevò, quasi confortata.
Rinnovò gli ordini a Pierina, e riprese il suo lavoro degli altri giorni; un piccolo ma finissimo ricamo, per una lotteria di beneficenza a favore di bambini malati. Seduta nell’angolo del salottino, sulla cui parete una damina giapponese le faceva compagnia, sollevava di tanto in tanto gli occhi a guardare lo spigolo del giardino di fronte alla finestra; e le pareva che il cedro del Libano, e un pino che lo seguiva, questo coi suoi aghi tutti infilati di sole, l’altro con la sua scala di rami che finiva in una guglia di smeraldo, si sollevassero a gara, il più in alto possibile, per veder meglio dentro la sua casa.
Da anni ella li conosceva; e li vedeva crescere, nel sole, nella luna, nel grigio dell’inverno, nel rosso dei monti estivi; sempre tesi all’alto, puri e potenti nel cerchio delle miserie intorno; l’uno tentando di sopravanzare l’altro, ma sempre eguali, nobili, amici: e le sembrava di essere una loro terza compagna.
Anche adesso la confortavano, col loro esempio, col loro fresco splendore; e quando riabbassava gli occhi e riprendeva il lavoro, aveva la impressione di farlo con uno dei loro aghi, sul disegno dei loro trafori; tanto immersa nella sua volontà di solitudine che trasalì, quasi per la minaccia di un’altra visita simile alla prima, nel sentir bussare all’uscio.
È Pierina, che si rallegrò ancora una volta, in cuor suo, nel veder la padrona, quel giorno, così stordita e remissiva da potersene abusare: le chiese dunque il permesso di scendere un momento dalla merciaia, per comprare due metri di fettuccia che, dopo tutto, servivano per il grembiale di cucina.
– Va pure: torna subito.
– Signora, volo.
Il suo volo è come quello delle rondini migratrici: passa un momento, ne passano due, passa mezz’ora e Pierina non torna: la padrona sa che questo era inevitabile, e comincia ad irritarsi, non per la volontaria assenza della ragazza, ma perché sente di essere burlata da lei.
Sporgendosi però dalla finestra, vide giù nella strada uno spettacolo al quale non solo la sua ma numerose altre servotte, – teste lucide di uccelli spensierati, collane di tutti i colori, baveri di coniglio e agili gambe tutte ben calzate a spese dei padroni, – assistevano come ammaliate da un prestigiatore: e dietro di esse, per azione naturale, una siepe di giovinotti sfaccendati e di ragazzini con le faccie solcate da smorfie e sberleffi di tutti i generi.
In mezzo al gruppo sfolgorava una testa di donna, una Venere tra cittadina e campagnola, coi lunghi capelli d’oro ondeggianti sul busto rivestito di seta azzurra; un giovane in camice bianco da parrucchiere, coi capelli anch’essi fulgidi di brillantina, pettinava e lisciava con la mano che sembrava di sapone candido, questa chioma di fata; pareva, anzi, s’indugiasse ad accarezzarla come quella di un’amante: arrivato in fondo ne attorcigliava l’estremo ciuffo intorno ad una specie di pernio di celluloide, a molla: e su e su, l’avvolgeva in un rotolo, fin sopra la nuca; finché la molla scattava, fermando a semicerchio i bei capelli di seta, fra l’uno e l’altro dei due grandi riccioli ricadenti sulle orecchie della leggiadra testa.
Era, certo, una pettinatura armoniosa, angelica, ed il primo a restarne incantato, in religioso silenzio, era lo stesso artefice; ma poi d’un subito egli sollevava il braccio destro, scuotendo in giù la manica della giubba, e, mostrando fra l’indice e il pollice volteggianti, una delle numerose stanghette esposte sulla mensola che sosteneva il manichino, gridava con strilli d’aquila:
– Venticinque soldi; venticinque soldi appena; all’industria della vera beltà.
Le ragazze avevano tutte i capelli corti; eppure guardavano affascinate; qualche donna anziana abboccava all’amo, comprando a prezzo ridotto la stanghetta portentosa; e i giovinastri si giovavano della scena per palpare le fanciulle.
Uno gridò:
– Io la comprerei, la molla; ma la mia fidanzata ha la testa pelata come un uovo.
– Questa signorina, invece, ha una bella chioma – dice un altro, additando il manichino; – prova però a tirargliela e vedrai che rimane anche lei pelata.
Serio e dignitoso il parrucchiere ambulante volge in là il busto del manichino, ne scioglie i capelli, ricomincia la sua opera.
Così, come Dio vuole, Pierina rientra in casa, e si scusa con la padrona offrendole una stanghetta.
– Ecco, ho pensato che può andare bene ai suoi bellissimi capelli: la prenda, la prenda: gliela offro io.
Poi, senza darle tempo di rispondere una parola, fissandola in viso con due immoti occhi di serpente, le offre anche una notizia:
– Sa chi è morta? La signora dell’ingegnere Franci.
– La signora? – domanda minacciosa la padrona, quasi sfidando la ragazza a ripetere le sue parole.
– La signora, la moglie del Conte Franci, quello che è venuto qui stamattina.
– Tu vaneggi.
– Lo sa anche il signor Francesco, il portiere. Glielo ha detto la portinaia del palazzo dove abita il signor ingegnere: pare anzi sia venuta apposta, per dirglielo. Pare che la povera moglie del signor ingegnere l’abbiano trovata avvelenata; pare, anzi, che accusino il signor ingegnere.
– Non è possibile, non è possibile, – gridò Noemi, con disperazione e sdegno. Ed ebbe voglia di battere Pierina, poi di trascinarla fuori, giù per le scale, fino in portineria, per sapere dal signor Francesco la verità: ondate di sangue la travolgevano, le riempivano gli occhi, la bocca, le orecchie di fuoco e di orrore: ma passarono; ella tornò a galla, rivide la luce. Prudentemente Pierina era sparita; né lei andò a cercarla. Anzi si rimise al posto dove stava prima; con le dita della mano sinistra strinse l’altro polso, quasi per fermare il corso del sangue, e tentò di uscire dal cerchio tenebroso della morte dell’altra.
«Perché? Perché?».
«Pare accusino il marito…».
«Perché? Perché?».
S’era avvelenata, o l’aveva avvelenata lui? La figura di lui era ancora lì, aggrappata a lei: ella ne sentiva l’odore, l’ansito, le parole di tragedia: e macchie violette le passavano davanti agli occhi. Sì, le ecchimosi che le mani di lui le avevano fissato sui fianchi, sulle braccia; ebbe voglia di scoprirle, di accettarle, poi si riebbe, scosse la testa, calcolò.
– Quando egli venne qui, il fatto era già avvenuto. Ecco perché egli parlava così. La responsabilità è tutta sua.
Ebbe voglia di muoversi, di uscire, correre, interrogare il portiere, la portinaia, la gente della strada, e, in fine, di vedere la vittima. Sapere, sapere, squarciare con le sue mani il mistero; sapere, sapere. Ma che doveva sapere, che già non sapesse dentro di sé? E non si mosse, anzi sentì di nuovo un brivido di spavento che le destò un senso di imminente paralisi. E, durante quel momento, le parve di sentir suonare di nuovo alla porta, ma uno squillo lieve, interno, come quando ci ronzano le orecchie. Chi era? Il portiere, il signore gobbo suo inquilino, che si ficcava spesso nei fatti di lei, e che ella, superstiziosa sopportava per vaga credenza di fortuna; o la grossa signora di lui; o un altro inquilino? O lui, che tornava per nascondersi da lei? Paura, paura. Ma di che cosa? Il suono non si ripeté: tuttavia ella si alzò, furtiva, e andò ad assicurarsi che la porta era fermata col catenaccio. Eppure, quando ritornò nel salottino le parve che una persona estranea vi fosse entrata di nascosto. Era Pierina, che voleva sapere se la signora desiderava la minestra o solo il brodo.
– Ma fa quello che vuoi. Va via.
Pierina va via; ma la sua apparizione ha, per la prima volta, suscitato in Noemi l’immagine viva della morta: poiché un giorno Franco aveva detto che la moglie somigliava alla ragazza: solo era più magra e con gli occhi neri. Da questa visione materiale, anzi quasi grossolana, ecco però sorgere un barlume tremulo, come quello che il vento, passando, suscita nelle ombre dei rami sulle pareti.
È passato: qualche cosa è passato, sì, illuminando le ombre dentro l’anima sua in delirio. Ella crede fermamente al di là, dove lo spirito dei morti, lasciate le apparenze terrene, vive la vera vita. Da questo spazio infinito, che non conosce limiti né distanze, l’anima di Pia Franci, era per un attimo discesa accanto a lei, e le aveva parlato.
– Noemi, sono qui. Non muoverti, non agitarti. Tu sai la verità: sei tu che hai avvelenato il mio sangue, prima del vero veleno: ma non per questo io posso volerti del male; solo il bene adesso esiste per me, e voglio che tu non soffra, e che nessuno, mai più, soffra nel mondo.
Allora Noemi si sollevò davvero, e si guardò attorno come uno che dopo un’operazione dolorosa ha riacquistato la vista. Sentì ch’era stata, ancora una volta, la sua coscienza a parlare. Via i fantasmi: avvenga che può. Ella non soffre già più; e se ha da subire un castigo, per il suo presunto delitto, lo accetta con coraggio. Verranno forse gli uomini della giustizia a portarla via, come complice responsabile del Franci; vengano pure: ella vede già la scena, gli occhi ostili che la guardano come un’appestata, il calvario che deve salire sotto la sua croce. Il suo compagno stesso la cacciava via dalla loro casa, come da un tempio del quale non era stata degna. E andò, per l’ultima volta, nella sala da pranzo, sedette alla tavola apparecchiata, mangiò: ma ricordava, pur senza soffrire, una leggenda del suo paese: i morti che, in certe occasioni famigliari, ritornano nelle loro case dove i superstiti pietosi hanno per essi imbandito la mensa.
E tutto infatti le appariva attraverso un velo di lontananza irreale; il vino s’era pietrificato come un rubino nella bottiglia smerigliata, il pane sembrava di quelli trovati in qualche scavo archeologico: la fruttiera con le arance di croco e le mele di carminio, era dipinta sulla tovaglia. Ed ella aveva perduto il senso del gusto, del tatto, e il sangue le si era seccato nelle vene come l’acqua di un ruscello in estate. Solo le orecchie ascoltavano. A poco a poco questo senso di attesa si fece quasi di desiderio: perché non venivano? Ella era come uno che deve assolutamente partire e aspetta, nella stazione, che si apra lo sportello dei biglietti. Ma non si mosse finché non ebbe, come gli altri giorni, fatti i soliti gesti, ripiegata la salvietta, raccolte e gettate sul piatto le briciole della tovaglia: infine, con un atto quasi di dispetto contro sé stessa, bevette un bicchiere di liquore e andò nella sua camera. E come certi prigionieri che si abbandonano alla loro sorte, cercando solo un momentaneo scampo nel sonno, chiuse gli occhi: ma pochi momenti dopo, uno squillo di campanello disordinò ancora il silenzio della casa, sebbene fosse, questo squillo, garbato come quello degli inquilini che supplicavano di essere ricevuti, e nello stesso tempo astuto come quello del ladro che si accerta se la casa è abitata o no. Ella lo sentì così, nel suo cuore, che rispose con un’eco di terrore ma anche di coraggio e quasi di sfida: balzò quindi, con agilità fantastica, e corse lei stessa per aprire, dopo aver respinto silenziosamente Pierina pallida di curiosità. Prima di allargare la catena della porta si volse a guardare lungo il corridoio, quasi per assicurarsi se tutto era a posto: tutto era a posto, come sempre: eguali le luci e le ombre, i riflessi e i colori: dall’uscio aperto della sala da pranzo ancora il sole, velato dalla trasparenza delle vetrate, stendeva sul pavimento un rettangolo di riverbero quasi lunare. Mai più significativa e densa era stata l’intimità del luogo, aderente a lei come una seconda veste: eppure ella ne provò sgomento: di nuovo le parve che qualcuno la scacciasse dal tempio; ch’ella dovesse uscirne per un giusto esilio e forse non rientrarvi mai più. Era giusto. Ma spaventoso. Aprì.
Tre uomini stavano davanti alla porta: due, alti, quasi eguali anche nel viso scuro, quadrato e caricaturale; il viso dei poliziotti come se lo immagina chi non lo ha veduto che sui manifesti cinematografici: l’altro, al quale essi facevano da sfondo, era di media statura, distinto come un piccolo borghese elegante. Aveva intorno al collo, sotto il bavero del soprabito, un fazzoletto di seta scozzese, il cui colore incrociato di marrone e di azzurro scuro, rendeva più chiaro il pallore del viso fine, quasi fragile. Dolci, castanei erano gli occhi; ma egli corrugava le folte sopracciglia nere per indurirne l’espressione: e pareva sporgesse le labbra sottili e il mento quadrato per accrescersi importanza. Ma quello che più colpì Noemi, fin dal primo sguardo, fu l’impressione di aver veduto altre volte quel viso, e sopra tutto quegli occhi. Dove? Quando? Non poteva, in quell’attimo, frugare nella sua memoria, eppure un baleno di luce le rischiarò il sangue: le parve che quell’uomo, venuto a lei in armatura nemica, dovesse invece recarle aiuto.
Domanda egli, con voce mascherata:
– La signora Noemi Davila?
Risponde lei, con voce severa.
– Sono io.
– Ho l’incarico di parlarle.
– Si accomodino.
Entrano, i tre: egli con passo per natura lieve e signorile, gli agenti quasi intimiditi e paurosi di scivolare sul pavimento. Ella chiude la porta col catenaccio.
Senza reticenze, ma anche con tono lievemente amichevole, l’uomo si presenta.
– Sono un commissario di pubblica sicurezza ed ho il compito di eseguire presso di lei una perquisizione.
Ella ripete, stendendo una mano come a dire: «Il luogo oramai è vostro».
– Si accomodino.
Ma già la voce è mutata, vibrante di sdegno represso. Alla perquisizione ella non aveva pensato e, fulmineo, fa mentalmente l’elenco delle cose che le dispiace veder violate dagli agenti. Nulla e tutto: nulla che potesse comprometterla; tutto che avrebbe in qualche modo fatto intravedere l’intimità nuda del suo corpo e della sua anima.
La faccenda tuttavia procede meno pesante di quanto ella s’immagina. Anzitutto uno degli agenti rimane nel primo vestibolo del corridoio, come a guardia della porta; mentre l’altro segue in punta di piedi il Commissario: ne sembra l’ombra; e tutti e due rassomigliano a stranieri educati che visitano un museo privato.
Noemi li guidava: e un po’ per volta, a misura che venivano aperti i cassetti, gli armadi, le librerie, si distaccava dalla sua angoscia sdegnosa, quasi presa da un senso di curiosità per le cose che da lungo tempo non rivedeva. Così come quando un autore rilegge un suo libro giovanile e vi rivede passioni dimenticate. Ma per Noemi era anche un senso allucinato, di ricordi balenanti, che s’incrociavano, brillavano, svanivano: luci nella notte, intorno ad uno che si è smarrito e non ritrova la strada pur sapendo che è vicino a casa sua.
Fu dapprima frugato nella sua camera: niente carte, niente libri, tranne quello della messa con la copertina di pelle tigrata, che si scaldava come un animaletto al contatto delle mani: niente carte, niente libri nelle altre sale, tranne gli spartiti musicali sulla mensola del pianoforte: solo nello studio del marito morto risero i libri, tanti, rilegati in pergamena, dagli scaffali, dalle librerie; ma era un sogghigno d’irrisione, macabro, come quello dei teschi di giovani, che mostrano la dentatura intatta: e dai cassetti saltarono fuori fascicoli di carte e pacchi di lettere ben disposte entro buste solide ma già qua e là morsicate dal tempo.
L’agente se li trovava in mano quasi contro sua volontà; poiché erano quelli che saltavano fuori per protestare la loro innocenza; e il Commissario, quando l’altro glieli porgeva, si piegava un attimo, quasi a fiutarne l’odore, a sentirne le parole di difesa: l’agente li rimetteva a posto, senza sgarbatezza, ma con un certo naturale ordine: e questa era la maggiore inquietudine di Noemi. Quel disordine, quello spostamento, le si comunicavano fisicamente. Mai più ella avrebbe ripreso, nelle sue abitudini, nei suoi bisogni, il ritmo vitale di prima: tutto in lei doveva procedere come in un orologio che continua a camminare pure essendo profondamente guasto.
D’altronde la perquisizione fu più rapida di quanto potesse credersi: poiché il Commissario per primo pareva convinto della sua inutilità. Eppure anche lui forse vedeva il mistero, negli occhi stessi della donna; e non procedette all’interrogatorio di lei nello studio, perché un veloce sguardo al ritratto gli fece intendere che il vero padrone del luogo era ancora quel fantasma, e che la vedova non avrebbe mai confessato tutta la verità davanti a lui.
Ritornarono dunque nel salottino, ed egli, ordinato all’agente di restare col compagno nel corridoio, sedette davanti alla piccola tavola, al posto ov’era già stato l’altro. Lentamente trasse un taccuino d’appunti, ma evidentemente con intenzione di non farne uso, perché lo tenne, senza aprirlo, fra le mani incrociate. Noemi gli stava di fronte, rigida, decisa a rispondere alle domande di lui con la più perfetta sincerità, ma senza abbandono né speranza d’indulgenza, sebbene le sembrasse che egli, adesso che erano soli, la guardasse con umanità, come si guarda una donna ancora giovane e graziosa, nell’atmosfera di lusso e di quiete della sua casa: una donna che, a sguardi superficiali, può apparire invidiabile e sicura, mentre è profondamente sola e infelice. E il pensiero ormai fisso di aver veduto altre volte quell’uomo, o almeno uno che molto gli somigliava, non la sollevava più: anzi le dava un senso di fastidio, come quando in un giorno di miseria s’incontra qualcuno che ha conosciuto la nostra passata ricchezza.
Disse il Commissario: e la sua voce era sempre come senza suono:
– Lei, signora, ha già inteso quale è il mio compito. Devo interrogarla sul suo passato, le sue relazioni, la sua vita, insomma.
– Domandi pure; – ella risponde calma, già piegata sul panorama della sua vita; panorama che le si presenta come quello di una pianura invernale, nudo, fatto di linee, con soltanto qualche macchia di colore; sotto un cielo limpido simile a quello della giornata che si attraversava: sì, ma quelle sue macchie erano rosse, nere, verdi: sangue, dolore, veleno.
– Mi dica anzitutto qualche cosa della sua famiglia.
– Della mia famiglia ho conosciuto solo mio padre. La mamma era morta in parto. Mi allevò una serva già anziana, che mi si affezionò talmente da essere gelosa quando io le chiedevo di parlarmi di mia madre. Io, al contrario, non le volevo bene: mi sentivo lontana da lei, per istinto, per razza, per quella nostalgia continua della mamma morta. Non amavo neppure mio padre, che era un uomo sempre pieno di affari, e quindi poco si curava di me. Abitavamo una piccola città, nella quale però si era stranieri. Mio padre ci era andato come capo di una squadra di carbonai, per il taglio di un bosco; a poco a poco diventando lui stesso speculatore di legname, di carbone, di cenere. Comprava intere foreste: le disboscava, ci guadagnava molto. La popolazione, sebbene si avvantaggiasse del lavoro dato da lui, ne parlava come di un negriero o di un mercante di veleni. Invidia. Persino le stagioni di siccità e di conseguente carestia erano incolpate a lui, attribuendo al taglio dei boschi la mancanza di pioggia. Ma egli non si curava di nessuno, e davvero trattava i suoi dipendenti come schiavi. Ma in fondo era buono, e faceva elemosine segrete, e lavorava solo per me. La nostra casa era sempre piena di operai, per le paghe: poveri diavoli melanconici, mal vestiti, scuri, per lo più stranieri, che finivano con lo sposare donne equivoche del paese e vi si stabilivano. Eppure io avevo paura di loro, come del resto avevo paura di tutto, perché mi sentivo sola e quasi indifesa. Non avevo amiche, non parenti, non conoscevo nessuno. La scuola era di fronte alla nostra casa, e per arrivarci attraversavo di corsa la piazzetta, tenuta d’occhio dalla serva, che poi veniva a prendermi all’uscita e non mi lasciava parlare con nessuno. Anche la Maestra, che per quattro anni fu sempre la stessa, non s’interessò mai a fondo di me. Così passò la mia fanciullezza, scialba, innocente, di una innocenza quasi idiota. Mai un libro, mai un giornale che non fosse di commercio; e bambole di straccio, e giocattoli ridicoli. Passavo le giornate nel cortile; mi fabbricavo fornelli di pietruzze e di fango e vi cucinavo semi e granellini di riso; parlavo con le galline e il maiale, che erano i miei soli amici. Mai un fatto che spezzasse la monotonia grigia dei miei giorni sempre eguali; l’avvenimento più grande, pieno di ansia, di paura, di fatica, ma anche di gioia indicibile, era quando Giovanna, la serva, mi portava con sé nei boschi dove mio padre dirigeva il taglio delle piante, per cogliere ghiande per il nostro maiale. Le stavo sempre appresso perché avevo sempre paura degli uomini del luogo, e mi piegavo a cogliere le ghiande tra le felci, il muschio, il capelvenere; ma trovavo anche i ciclamini, i funghi, le violette; sentivo i gridi, le bestemmie, i canti degli operai; respiravo un’aria di fiaba. Ancora non posso ricordare quei giorni senza un brivido di piacere e di terrore. Forse era un presentimento. Perché un fatto avvenne, infine, nella mia pallida adolescenza, ma terribile. Mio padre fu trovato morto, poco distante da una carbonaia, intorno alla quale egli faceva un giro d’ispezione notturna. Io, neppure lo vidi, né mai ho saputo come fu ucciso; ma ancora lo immagino steso bocconi tra le foglie bruciate, nere di sangue, in quel cimitero di alberi. Furono arrestati molti degli operai che lavoravano per conto di lui, poi tutti furono rilasciati. Venne giù un cugino di mio padre, ma aveva una famiglia numerosa, e non volle assumersi la responsabilità di prendermi con sé: provvide, con le Autorità del luogo a nominarmi un tutore, a liquidare le lavorazioni imprese da mio padre, ad acquistare, col ricavo, titoli di rendita, che furono depositati per conto mio in una Banca; poi se ne tornò a casa. Avevo, del resto, diciotto anni, e potevo continuare a vivere da sola, con la mamma-serva che piangeva mio padre quasi fosse stato suo marito: e forse, in un certo modo, lo era stato.
Il tutore, un grasso e ricco possidente nostro vicino di casa, ubbriacone ma di cuore generoso, si illudeva di sorvegliarmi; mi diceva barzellette, mi mandava le figlie a farmi compagnia. Tutto scivolava sulla mia anima come su una lastra di cristallo. Il dolore, lo smarrimento, la più desolata sfiducia della vita mi congelavano. Stavo ore ed ore immobile, come ho veduto fare a una donna del popolo che aveva il marito disperso in guerra e lo aspettava in quel modo. Anch’io aspettavo un miracolo: che mio padre tornasse dalla foresta. E adesso, sì, gli volevo bene; e il rimorso di non averlo potuto far prima, accresceva la mia pena. Non mi preoccupavo del mio avvenire, avevo una buona rendita, e basta. Il mio tutore mi cercava marito; qualche suo affine, s’intende: io provavo già paura e repugnanza di questo marito, decisa a non volerlo: lo sentivo puzzare di vino come il mio tutore: ma tacevo; sembravo una idiota. Eppure un giorno mi svegliai. Forse attirato anche lui dal miraggio della dote, ma anche da curiosità e pietà umana, cominciò a frequentare la nostra casa un nipote di Giovanna, la serva. Era un avvocatino, appena laureato, venuto su dal nulla, cioè da una famiglia di contadini che aveva venduto la metà del suo campo per aiutarlo negli studi. Era ambizioso, intelligentissimo; e vide subito in me una cosa che bisognava scuotere, ravvivare, scoprire come la brage sotto la cenere. E fu dapprima ragazzo con me; come quei ragazzi intraprendenti e cordiali che si avvicinano al compagno scontroso e gli domandano: Come ti chiami? Che fai? Che mestiere fa tuo padre? – Così si diventò amici: solo amici; poiché egli capiva che così bisognava comportarsi con me: poi, a poco a poco, si strinse fra di noi una specie di alleanza contro quelli del paese, che continuavano a nutrire astio per me e avversavano anche il mio giovane amico perché aveva già un certo successo nella sua carriera, ma sopra tutto perché frequentava la mia casa. Più che altro, forse, questo distacco dall’ambiente che ci stringeva nemico, fece nascere in entrambi il desiderio di andarcene lontano, di tentare assieme, con l’attività e l’ingegno di lui e i mezzi che io possedevo, una sorte migliore. Fu questa la prima ragione del nostro matrimonio: l’amore venne dopo, già fondato su basi che di solito, fra due sposi, sorgono dopo anni di convivenza e di solidarietà. Egli era religioso, Giacomo, perché tale era la sua famiglia di patriarchi: mi fece conoscere la Bibbia, e mi condusse alle nozze come ad un nuovo battesimo. Si andò subito via dal paese. La vecchia Giovanna non volle seguirci: rimase nella casa che considerava sua, e là è morta di solitudine. I primi tempi, qui, sarebbero stati per noi, se non duri, alquanto inquieti, senza la nostra ferma volontà di vincere, e la gioia di vivere, di esser liberi finalmente, di non aver nemici. Mio marito era tenace, forte, quasi aspro: inoltre credeva di avere, di fronte a me, un impegno preciso, morale ed anche economico. E la fortuna, d’un tratto lo aiuta. Egli aveva messo su un piccolo studio di avvocato, ma le cause si facevano aspettare. Frequentava anche lo studio di un penalista celebre: ed ecco che questo lo chiama ad assisterlo in un processo passionale, di gente ricca e aristocratica, tutto un intrigo spaventoso di menzogne, di calunnie, di livore, che lei forse ricorderà: il processo detto degli Ebrei. Basta; il giorno in cui il grande avvocato deve pronunziare la sua difesa, gli succede una disgrazia: muore d’improvviso la moglie. Il Pubblico Ministero respinge la proposta di rimandare sia pure di pochi giorni il proseguimento della causa. Allora parla mio marito. Fu un successo clamoroso. Gli accusati assolti; la fama del mio Giacomo assicurata.
Cominciò per noi una fortuna fantastica: ma bisogna dire che egli lavorava giorno e notte, e non si prestava se non alla difesa di accusati che egli riteneva assolutamente incolpevoli. Eravamo felici: solo un’ombra; la mancanza di figli: e poi un’altra ombra più terribile. Avevamo appena acquistato questo palazzo e messo a posto l’ultimo oggetto di questo appartamento che Giacomo si ammalò. Giorni terribili. Si va in una clinica: Giacomo è operato; sembra guarisca, ma non può più lavorare. Due anni durò la sua agonia. Fu operato una seconda volta: passò mesi e mesi nella triste clinica: poi me lo riportai a casa, ed egli morì qui. Ma per me è sempre vivo, è sempre qui.
Ella tace, adesso, e quasi non vede più la persona per la quale ha parlato: poiché le sembra di essere scesa nel suo passato solo per rievocarlo a sé stessa e farsi sentire dal ritratto in ascolto nella casa.
Ma la voce sempre eguale del Commissario, quasi senza suono, eppure inesorabile sebbene impersonale, come quella del confessore dietro la grata, la fa riaffiorare alla realtà del presente.
– Questo palazzo, dunque, è suo? Che altre rendite possiede?
Ella sorrise, lievemente beffandosi della ingenuità del Commissario.
– Ho solamente questo stabile; senza ipoteche, senza oneri. Non è grande, ma è signorile: otto appartamenti, senza questo, due botteghe, giù, un deposito di automobili. Ci sono le tasse e le spese di manutenzione, ma sempre rimane qualche cosa, per una donna che vive sola.
– Ha un’amministratore?
– No, grazie a Dio. Ma ho un ottimo portiere, intelligente, onesto, affezionato e quasi geloso di me come la serva Giovanna. È un ex-maresciallo di finanza: s’incarica lui di tutti gli affari dello stabile, del pagamento delle tasse, degli operai per i lavori, persino della coltivazione di una specie di giardinetto che ha impiantato su una delle terrazze della casa, per mio uso.
– Chi frequenta la sua casa?
– Ma… quasi nessuno. Gl’inquilini, che vengono a lamentarsi, a pagare, a domandare riparazioni: qualche rara visita di gente conosciuta quando era vivo mio marito.
Ci fu un momento di silenzio grave: poi il Commissario senza mutar tono, domandò:
– Mi dica adesso delle sue relazioni col signor Franco Franci.
Ella aprì e subito rinchiuse gli occhi; poi tornò a fissarli sull’uomo: e uomo veramente egli adesso le appariva, avvicinatosi da una distanza nebbiosa ove dapprima le era sembrato anche lui un po’ fantasma: ne distinse il viso chiaro, fino, con le narici diafane e la bocca fanciullesca contrastante col mento pietroso. E questi occhi, dove li aveva già veduti? Così velati d’oro, intenti a mascherarsi con l’ombra delle ciglia e il gioco delle sopracciglia che sembravano finte? Dove? Più che la loro ambigua espressione, questa incertezza del dove e quando li aveva veduti, la tenne un momento sospesa: poi ebbe desiderio di cambiare strada, di mentire, di affermare che fra lei e il Franci non c’era stata che una fredda e momentanea relazione. Prove contrarie non esistevano.
Ma subito l’istinto l’avvertì che le strade false conducono sempre al pericolo. Disse:
– Ho per caso conosciuto il Franci nella clinica dove mio marito era stato operato la seconda volta. Il Franci era gravemente malato di polmonite. La suora mi disse che egli stava per morire. Cieca anch’io per il mio dolore, entro nella sua cameretta: egli mi vede; nel delirio mi scambia per una sua sorella lontana: si attacca a me, non mi lascia più in pace. Dopo la morte del mio povero marito non l’ho più veduto: ma pochi mesi or sono venne di nuovo a trovarmi; m’annunziò il suo matrimonio, si lamentò di non essere felice. Questa mattina stessa è venuto qui, dicendo che aveva questionato con la sua signora. Cercai di calmarlo, gli diedi buoni consigli.
– Può dirmi qualche cosa del suo carattere?
– Non so; è difficile giudicare il prossimo. Il Franci m’è parso sempre un buon giovane, un po’ visionario, forse, molto sentimentale.
– Nulla, fra voi due, si svolse di colpevole? Neppure nelle intenzioni?
Ella risponde sommessa, ma ferma e quasi ironica:
– Le intenzioni sono in potere di Dio.
– Tanto è vero, – scatta d’improvviso il Commissario, – che la strada dell’inferno ne è lastricata.
Ma il suo accento non è scherzoso; anzi le incute una vaga paura; tanto più che egli solleva la voce e domanda, rude:
– Ella conosceva la signora Franci?
– No.
– Che diceva di lei il marito?
– Ne parlava con angoscia: diceva ch’ella, giovanissima, quasi ancora bambina, era nervosa, capricciosa, scontenta di lui e di tutto.
– Crede lei che ella fosse gelosa?
– Sì, egli diceva ch’era gelosa.
– Di lei?
– Non so, non credo: il marito non le parlava mai di me. Eppure…..
– Eppure?
Noemi si scuote tutta: è stanca, sebbene l’interrogatorio non sia stato lungo né tormentoso: ma ha paura che lo diventi, che, dopo lunghe inutili parole si venga ad una conclusione facile a ottenersi subito. Dice dunque:
– Eppure, sì, credo che la debolezza del marito verso di me abbia potuto esasperarla.
– Oh, brava, – esclama il Commissario, sollevandosi sulla schiena; e i suoi occhi scintillano, come se egli cominci solo adesso a interessarsi della cosa. – Ella sa benissimo che tutto un mondo sotterraneo si agita entro di noi. Il signor Franci non parlava di lei alla sua signora; questa, però, intuiva tutto, e la sua inquietudine nasceva da questo.
– Non ho precisamente affermato questo, – tenta di difendersi Noemi.
– Non lo ha precisamente detto; ma lo ha pensato: il che è lo stesso. Allora…
La voce di lui s’è fatta sempre più dura e fredda, come d’un tratto agghiacciata. Noemi ne sente il soffio fino al cuore: pensa:
– Adesso egli conclude che la vera colpevole sono io: io che ho messo la discordia fra i due sventurati; il veleno in mano dell’una o dell’altro.
Il Commissario prende appunti nel suo misterioso taccuino: parole nere che non si cancelleranno mai più. «Adesso mi dichiara in arresto».
Ella attende, mordendosi il labbro inferiore per nasconderne il tremito. È pronta: perché dunque ha paura? Vede anche le labbra del Commissario muoversi; non ne sente però le parole.
E si svegliò, con un senso di angoscia, ancora più profondo di quello dell’incubo.