5 A Concludere

L’avvento di un nuovo statuto dell’immaginario sempre più virtualizzato porta ad una disputa sull’immagine prodotta dai nuovi media e sull’operare artistico che di questi nuovi media si serve. La critica d’arte contemporanea tenta di far fronte all’innovazione tecnologica assimilandone talvolta la logica eminentemente mediatica oppure contrapponendo categorie che possiamo ricondurre al pensiero di Martin Heidegger che vedono l’uomo perennemente incapace di comprendere l’essenza della tecnica, un’impostazione che lascia più che mai l’arte radicata nella lontananza dell’Essere. La téchne, concernente ogni dimensione produttiva del fare, appartiene all’ambito della poiesis e ciò può essere pacificamente compreso per quell’arte superiore che era l’arte dell’Umanesimo, ma questa convergenza di senso fra fare tecnico e fare poietico, per il filosofo tedesco, non può valere per la tecnica moderna. Per Heidegger, infatti, il destino della tecnica è piuttosto quello di oscurare e mascherare nel suo carattere di imposizione il senso della poiesis[1]. Il dubbio sulla possibilità di fare arte è ormai radicato nell’esperienza contemporanea. Una delle ultime grandi opere d’estetica, la Teoria estetica di Adorno conferma così come l’arte abbia perduto ogni sua ovvietà: “È ormai ovvio che niente di ciò che concerne l’arte è ovvio né nell’arte stessa né nel suo rapporto col tutto; ovvio non è più nemmeno il suo diritto all’esistenza[2]. Le speranze utopiche che si prefiggono la totale assunzione dell’orizzonte tecnologico come immensa possibilità poietica si confrontano con tale giustificata perplessità. Comprendere le nuove tecnologie e attingere alle nuove possibilità percettive ma soprattutto comunicative offerte, vuol dire anelare al superamento di tale disagio. Richiamare ancora Benjamin permetterà di andare oltre tale perplessità in quanto egli non riconosce hegelianamente la morte dell’arte, ma la rinuncia dell’arte ad essere deposito tradizionalmente oggettivo di verità. Le tesi  benjaminiane si sono dimostrate di una straordinaria pertinenza e lungimiranza durante l’intera trattazione nel descrivere, con molti anni di anticipo, il fenomeno dell’esteticità diffusa che oggi è sotto gli occhi di tutti. La sua indagine estetica è dunque, in primo luogo, una ricognizione sullo statuto dell’immagine e sul concetto di opera che comincia a cedere il passo a fenomeni nuovi e irriducibili alle categorie dell’estetica tradizionale. Per Benjamin la riproducibilità, coinvolgendo nell’intimo il fare artistico, rivela una caratteristica essenziale della tecnica moderna, quella di saldare in un unico processo innovazione, comunicazione, riproduzione. Si potrebbe dire quindi che la chance tecnologica sta nel caratterizzare in senso eminentemente riproduttivo la sua produzione[3].

Fotografia, cinema, televisione, computer e reti telematiche sono tappe di una trasformazione radicale, hanno contribuito a costruire un nuovo statuto d’immagine contemporanea che si attesta come simulacro a causa del carattere scettico e nichilistico della società di massa. Il rapporto tra le arti visive e questi nuovi universi d’immagine è ovviamente molto complesso in quanto ogni medium possiede specifici modelli linguistici di comunicazione. Dalla scoperta della fotografia il mondo delle immagini visuali non è più quello di prima: “Nella fotografia il valore di esponibilità comincia a sostituire su tutta la linea il valore cultuale[4], allontanandosi dal valore sacrale e rituale che apparteneva al simbolo. Qui sta la differenza tra simbolo e simulacro: il primo attinge il proprio potere dalla religione, dal mito; il secondo dallo scetticismo e dalla derealizzazione sociale. L’immagine contemporanea si allontana dal simbolo con la conseguenza che, in tutti gli aspetti dell’attività sociale, il simulacro sembra avere la meglio sulla realtà al punto da dissolverla. “Ma le difficoltà che la fotografia aveva procurato all’estetica tradizionale, erano un gioco per bambini in confronto con quelle che il cinema avrebbe suscitato[5]. Nel cinema ufficiale lo stesso valore sacrale dell’uomo è sacrificato in quanto “l’uomo [l’interprete] viene a trovarsi nella situazione di dover agire sì con la sua intera persona vivente, ma rinunciando all’aura. […] L’aura che circonda l’interprete deve così venir meno, e con ciò deve venir meno anche quella che circonda il personaggio interpretato[6] L’industria cinematografica ovvia a tale perdita: “Il cinema risponde al declino dell’aura costruendo artificiosamente la personalità fuori dagli studi: il culto del divo, promosso dal capitale cinematografico, cerca di conservare quella magia della personalità che da tempo è ridotta alla magia fasulla propria del suo carattere di merce[7]. In antitesi con tali istanze mercificanti lavora la cinematografia d’avanguardia che, come visto, entra presto in contatto con artisti visivi fra i quali Richter, Man Ray, Duchamp e Léger che si interessano al carattere visivo del cinema, più che alla sua struttura teatrale e diegesica. L’antitesi fra mercificazione mediatica e artisti visuali è mantenuta anche nel medium televisivo. Sia la televisione come medium di massa, sia il video come medium artistico usavano il medesimo supporto materiale, ovvero segnale elettronico che può essere trasmesso in tempo reale o registrato su un nastro, e comprendevano le medesime condizioni di percezione, ovvero un monitor televisivo. Le uniche giustificazioni per un trattamento come media distinti erano sociologiche ed economiche e l’interesse degli artisti visivi deviò sul videotape.

L’avvento del computer in ambito artistico ha ritagliato scenari impensabili nella recente storia dell’arte. Tutto ciò che oggi chiamiamo arte elettronica passa da questo strumento e neologismi come video arte, computer arte e arte multimediale appartengono a questa macroarea. Tutta la tecnoarte trova la propria identità nella sperimentazione e nel continuo scambio di linguaggi. L’artista o il semplice creativo dà ordini ad un mezzo che è simultaneamente espressione orale e segno, immagine acustica e visuale, il tutto in uno spazio virtuale in cui interagire in itinere con tali espressioni è sempre possibile. L’arte elettronica è, dunque, un’arte differente, non solo perché strettamente connessa alle tecniche di riproduzione e produzione, ma per la capacità di essere innanzitutto una forma di comunicazione ed espressione che ha sconvolto radicalmente il concetto di creatività. Uomini e macchine si sono sempre più reciprocamente inglobati durante questi decenni di tecnocultura[8] fino al connubio espresso dalla virtualità.

Ultimo, solo in ordine di tempo, è il World Wide Web capace di stabilire sistemi di distribuzione e circolazione delle immagini inediti. Le frontiere della comunicazione si sono allargate con impressionante rapidità e si è venuto a creare un mondo parallelo a quello reale in cui si sono inserite anche le strategie artistiche. Grazie al risvolto democratico del web si possono oggi proporre al pubblico un’alternativa alle vecchie istanze critiche. Le opere si offrono all’interazione dei virtuali fruitori e si predispongono potenzialmente alla loro rielaborazione. L’opera virtuale/interattiva, in corrispondenza con la logica della rete, è sempre potenzialmente pronta ad una nuova immersione. Parallela a Internet un’altra evoluzione, la rivoluzione digitale degli anni Novanta, ha sancito il passaggio della maggior parte dei mezzi di produzione, immagazzinamento e distribuzione alle tecnologie digitali. L’adozione di questi nuovi strumenti da parte degli artisti sconvolse le tradizionali distinzioni basate sul medium e le sue condizioni di percezione. La tecnologia digitale, infatti, ha reso facilmente possibile la realizzazione di versioni differenti, dello stesso progetto, per media diversi, differenti reti di distribuzione e differenti fruitori, spezzando così la secolare relazione fra l’identità di un’opera d’arte con il suo medium. Marshall McLuhan nell’opera Gli strumenti del comunicare[9] compie una svolta di enorme rilievo nella quale i problemi della forma estetica sono ripensati in rapporto con i media. Egli è l’interprete entusiasta del mondo compiutamente tecnicizzato dei nostri giorni. Per McLuhan il potere formativo del medium è in se stesso, da qui la celebre conclusione secondo cui “il medium è il messaggio”. Egli ritiene che il requisito essenziale della tecnica moderna sia la sua tendenza ad attestarsi sul piano della comunicazione, espandendo e specializzando l’efficacia dei media. Marshall McLuhan fu il primo ad individuare la stretta connessione tra media, psiche umana e sistemi sensoriali. Le sue rivoluzionarie teorie sulla comunicazione si fondano sulla convinzione che il criterio attraverso il quale la comunicazione viene organizzata abbia sull’individuo un impatto di portata ben maggiore rispetto di quello prodotto dal contenuto stesso del messaggio veicolato. McLuhan indica i media tecnologici non più come strumenti neutri atti solo a veicolare un messaggio ma, per la loro natura specifica, sono essi stessi ad esprimere le mutazioni del nostro modo di pensare ed agire, indipendentemente dall’uso che di loro viene fatto, finendo così per imporsi come vero ed unico contenuto del messaggio. McLuhan segna così il passaggio dalla filosofia dell’arte alla filosofia dei media. Pochi sono tuttavia i pensatori che condividano l’entusiasmo di McLuhan verso i nuovi media. La coincidenza tra il medium e l’opera, il tramite che diventa messaggio nella ridefinizione del concetto di arte contemporanea, è uno dei fondamenti dell’arte contemporanea e risiede nel suo rapporto con la tecnologia, nel fatto che la tecnologia sta diventando il medium costitutivo.

La digitalizzazione, la virtualità e l’interattività, inserendosi in quell’istanza innovativa e comunicativa prefigurata da Benjamin si immettono in quel percorso che progressivamente dematerializza e concettualizza l’opera d’arte, introducono conseguenze che hanno portato a compimento la smaterializzazione del prodotto artistico: consacrando il passaggio dall’oggetto al concetto fino a rendere l’opera effimera. Il processo ha portato verso l’assottigliamento, verso la scomparsa dell’oggettualità dell’arte, ma non di ogni forma artistica. In questo processo di dissoluzione ha giocato un ruolo fondamentale l’industria culturale e la comunicazione mediatica basata sulla simulazione che usando e abusando di sofisticate tecnologie, capaci di produrre degli effetti sempre più sensorialmente coinvolgenti, riducono la cultura a merce e la socialità a consumo, corrodendo le basi di ogni acculturazione sociale. La concettualizzazione dell’oggetto artistico non va però intesa unicamente come una contrazione ma, paradossalmente, come una dilatazione. Attraverso il digitale e alle reti telematiche, infatti, si giunge a forme e processi creativi che non hanno bisogno di un luogo fisico. L’opera pubblicata in rete scardina la cornice imposta dalla galleria, non tende all’esclusività, ma ad un’arte senza confini e proprietari, in concordia con quanto presentito da Benjamin si è concretizzato il rapporto delle masse con l’opera d’arte. La tecnologia, intesa in questo senso, diviene un’utopia.

Quelle analizzate in questa trattazione possono essere considerate come grandi tappe di una rivoluzione culturale, ma nello specifico si può parlare di rivoluzione comunicativa. Il termine fu usato per la prima volta riferendosi al video ma oggi il richiamo è indiscutibilmente il computer, il web e il mondo del digitale che il video ingloba. In definitiva si può però osservare come il mito di una rivoluzione comunicativa non riguarda unicamente la tecnologia, ma riguarda soprattutto le capacità  del singolo individuo di comunicare con notevoli risvolti sociologici e antropologici destinati a produrre mutamenti sulla percezione dell’immagine, del suono, dello spazio, della comunicazione. Il tutto rimanda alla poetica Fluxus esaminata nel primo capitolo e ai suoi due principali obiettivi: stabilire un nuovo ambiente sociale in cui si possa realizzare una nuova comunicazione estetica in grado di ridurre la distanza sacrale tra artista e pubblico, sollecitandone il reciproco impegno dentro un unico campo di creative relazioni linguistiche; e opporre ai canoni e alle convenzioni dell’arte istituzionale nuovi aperti modelli in grado di stabilire permutazioni fra linguaggi diversi. Interpretare la mutazione di questo inedito universo è questione che impegna sia il critico che l’artista. Quest’ultimo per cultura e statuto sociale, è chiamato ad imbastire con lo spettatore una partita aperta che ha come obiettivo la determinazione di una realtà ormai minata. Un’analisi in questo senso va compiuta in termini filosofici emancipati da ogni tentazione di conservatorismo culturale.


  1. Fabrizio Desideri, op cit., p. 138.
  2. Th. W. Adorno, Teoria estetica, Torino, Einaudi, 1975.
  3. Fabrizio Desideri, op cit., p. 140.
  4. Walter Benjamin, op cit., p. 28.
  5. Ivi, p. 30.
  6. Ivi, pp. 32-33.
  7. Ivi, pp. 34-35.
  8. Il termine appare probabilmente per la prima volta in René Berger, La Mutation de signes, 1972.
  9. Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Milano, il Saggiatore, 2002.