1 Artisti e Tecnologia

Vi è, nella relazione fra arte e tecnica, qualcosa di costitutivo che ne fonda in qualche modo il contrassegno di reciprocità. Nell’antichità greca, del resto, la parola téchne copriva entrambi i concetti. I Greci non possedevano, infatti, un termine che comprendesse esclusivamente le Belle Arti, cioè architettura, scultura e pittura. Il loro ampio concetto di arte, a cui sostituiremmo oggi forse quello di abilità, sopravvisse all’antichità e persistette a lungo nelle lingue europee, le quali, volendo mettere in rilievo le speciali caratteristiche della pittura o dell’architettura, non poterono usare semplicemente il termine “arte”, ma dovettero definirle Belle Arti. Il termine téchne, che noi traduciamo arte, comprendeva quindi ogni prodotto dell’abilità tecnica e ciò attribuiva importanza alle conoscenze e non all’ispirazione[1]. Se la téchne, nella sua originaria accezione, indicava le abilità tecnico-pratiche necessarie a produrre un’opera, la poiesis indicava la creazione artistica. Ma nel pensiero estetico della Grecia antica l’aspetto poietico[2] della creatività umana, ciò che nel mondo moderno sarebbe diventato Ars[3], andava ad identificarsi solo nella poesia, mentre quello tecnico si conformò alle molteplici forme della prassi teorico-metodica.

Nel rapporto con la téchne, l’arte moderna ha sviluppato direttrici opposte in quanto da un lato essa ha sancito un’autentica presa di distanza dalla tecnica: basti pensare ai ready made di Duchamp e ai risvolti critici connessi; dall’altro ha guardato alla tecnica come a una fonte diretta di opportunità espressive: fotografia, cinema, fino alle attuali esperienze in campo elettronico e multimediale. Analizzando gli attuali rapporti fra arte e tecnica appare evidente che, con l’affermarsi dei mezzi digitali, non si può prescindere da una conoscenza dell’aspetto tecnologico degli stessi. Oggi la figura del poietés e la figura del technités sono più vicine e tendono alla contiguità ed è quest’ultima quella a essere maggiormente sconvolta e rivalutata. Il technités è in grado di svolgere un’azione di valore estetico, universalmente riconosciuta, disponendosi secondo principi e regole razionalmente posseduti, al fine di creare un’opera, nel nostro caso, d’arte visiva.

Come la tecnica/tecnologia possa sovvertire il tradizionale approccio dell’artista con la sua opera è ben definito dall’antropologia filosofica di Gehlen nel cui ambito la tecnica si lascia integralmente comprendere nella sua funzione di supplenza. L’oggetto tecnico sostituisce organi che l’uomo non possiede, potenzia ed espande facoltà esistenti o addirittura esonera[4] la prestazione dell’organo consentendo un decisivo risparmio di lavoro. La tecnica è dunque un’integrazione dell’inorganico nell’ambito dell’organico[5], un’integrazione crescente che resta subordinata alla progettualità dell’uomo e da questa guidata, anche se per Gehlen quest’ultima non potrebbe essere ricondotta soltanto all’elemento di una razionalità volta al conseguimento di fini, sussistendo nell’atteggiamento tecnico un’altrettanta decisiva componente inconscia o istintiva. Per quanto possa rendersi responsabile di trasformazioni decisive nel modo in cui l’uomo abita il mondo, la tecnica è comunque riconducibile a un fondamento antropologico in quanto è tratto distintivo  dell’uomo la volontà di farsi surrogare o supplire da qualcos’altro.

La maturazione del rapporto fra arte e tecnica, sviluppatosi nel contesto di talune avanguardie, ha naturalmente ricevuto l’impulso maggiore dall’espansione dei processi di comunicazione elettronica. Il nuovo rapporto fra arte e tecnologia, a causa dei recenti sviluppi delle tecnologie comunicazionali, ha necessariamente innescato un discorso metatecnologico e si vedrà, inoltre, come, nell’attuale dibattito, la riproducibilità tecnologica, tediosamente ostentata, sia in taluni casi producibilità tecnologica e, a partire da Moholy-Nagy, condizione e strumento dell’operare.

Tale rinnovata dialettica fra arte e tecnologia può fornire, anche sul versante artistico, un rilevante contributo operativo e metodologico per un’analisi dello statuto d’immagine e di opera d’arte. Lo sperimentalismo che ha caratterizzato tutte le avanguardie del secolo passato è destinato ad esasperarsi in quanto il digitale consente di attuare con estrema facilità contaminazioni culturali e formali tra linguaggi diversi, di produrre un’arte di frontiera, sempre al limite fra simulacro e realtà, grazie anche alle possibilità virtuali e interattive che la nuova tecnologia fornisce.

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Data cruciale per questo discorso è il 1839 quando a Parigi, con la presentazione ufficiale della dagherrotipia, il 19 agosto 1839 all’Académie des Sciences e all’Académie des beaux-arts di Parigi riunite, prende avvio il cammino della fotografia. Dovranno però trascorrere quasi un centinaio d’anni dalla sua invenzione prima che essa venga percepita nel suo valore di medium artistico capace di modificare radicalmente il concetto e la sfera applicativa dell’arte. Ciò avviene grazie a due vigorosi contributi: quello analitico di Walter Benjamin e quello teorico-pratico di László Moholy-Nagy, ambedue, non a caso, collocabili proprio nel terzo decennio del Novecento. Nel corso di questi cento anni le relazioni fra pittura e fotografia non mancheranno certo e si può rilevare come già all’indomani dall’invenzione di Daguerre si siano instaurate reciproche influenze fra queste due tecniche. Il loro rapporto fu però, per l’appunto, di natura metodica: concentrato in special modo sugli apporti innovativi che il procedimento fotografico produceva sul piano delle ricerche sul movimento, su quello della resa dell’immagine e sull’uso della luce. La stessa sperimentazione futurista, il cosiddetto fotodinamismo dei fratelli Bragaglia, risulta più un assecondamento all’estetica del dinamismo che non un approccio indirizzato a chiarire la struttura del nuovo medium. Un esplicito e diretto riferimento alla ricerca fotografica sul movimento giunge da Eadweard Muybridge ed Etienne-Jules Marey e conduce la successiva pittura futurista a forti e profonde innovazioni del linguaggio figurativo. Grazie alle sperimentazioni artistiche di Alvin Langdon Coburn, Christian Schad, dello stesso Moholy-Nagy e, soprattutto, grazie al movimento Photo-Secession, la fotografia diventa forma d’arte autonoma. Membri del movimento erano, tra gli altri, Gertrude Käsebier, Edward Steichen e Clarence White. Pubblicata dal 1902 al 1917, “Camera Work”, la rivista del movimento Photo-Secession, diede visibilità a questi artisti. Prima della Grande Guerra fotografi come Stieglitz, Strand e lo stesso Steichen usarono tecniche di stampa su carta con grana particolare, al fine di produrre effetti impressionistici che ricordavano le antiche stampe giapponesi o le atmosfere dei dipinti di J.A. Whistler. Negli anni Venti, tuttavia, il loro stile mutò e i foto-secessionisti si concentrarono su immagini che, astraendosi dalla forma del soggetto, si concentravano sulla cattura dei più piccoli dettagli: in questo modo, sostenevano, si riusciva a suscitare un intenso e preciso effetto emotivo rimanendo comunque liberi dall’influenza della pittura.

Oggi la pittura è morta” fu la profezia di Paul Delaroche rifernedosi all’invenzione della dagherrotipia, un’affermazione che entra unanimemente a pieno merito fra le gaffe più vistose della storia dell’arte. Di una cosa si può essere però sicuri: da quel lontano 1839 la pittura non potrà fare a meno di guardare con interesse alla fotografia. La luce della fotografia è ora, per l’artista, un elemento intrigante da esplorare, da dipingere. Viceversa, già intorno al 1870, si iniziò a ritoccare le tinte fotografiche per ottenere effetti simili a quelli della pittura. Non che per tutto il XIX secolo il problema della tecnica fosse stato limitato ad un mero interscambio fra i linguaggi della pittura e della fotografia. Walter Benjamin ricorda come l’avvento di quest’ultima vada, non casualmente, a coincidere con l’emergere della dottrina dell’Art pour l’art. Una reazione che il filosofo tedesco definisce teologica: “con la nascita del primo mezzo di riproduzione veramente rivoluzionario, la fotografia (contemporaneamente al delinearsi del socialismo), l’arte avvertì l’approssimarsi di quella crisi che passati altri cento anni è diventata innegabile, essa reagì con la dottrina dell’arte per l’arte, che costituisce una teologia dell’arte[6]. L’arte, nel respingere qualsiasi funzione sociale all’atto creativo, rifiuta ogni possibile determinazione da parte di elementi oggettivi.

Anche l’esperienza impressionista può essere letta come precoce testimonianza di un’acquisita consapevolezza dei limiti del linguaggio figurativo nei confronti delle istanze rappresentative-oggettive del mezzo fotografico. Causa di ciò, com’è noto, è qualcosa di esterno agli effetti puramente tecnici commisurabili sul piano della produzione dell’immagine: “Con la fotografia, nel processo della riproduzione figurativa, la mano si vide per la prima volta scaricata dalle più importanti incombenze artistiche, che ormai venivano ad essere di spettanza dell’occhio che guardava dentro l’obiettivo”. La mano è per la prima volta esonerata[7] dalle tradizionali funzioni artistiche, e poi: “Poiché l’occhio è più rapido ad afferrare che non la mano a disegnare, il processo della riproduzione figurativa venne accelerato al punto da essere in grado di star dietro all’eloquio. L’operatore cinematografico nel suo studio, manovrando la sua manovella, riesce a fissare le immagini alla stessa velocità con cui l’interprete parla. Se nella litografia era virtualmente contenuto il giornale illustrato, nella fotografia si nascondeva il film sonoro[8].

Il cinema è ancora fotografia, è una successione regolare di fotogrammi che grazie al fenomeno della persistenza retinica danno l’impressione del movimento. Anch’esso altamente reiterabile, il cinema irrompe e influenza lo sviluppo delle arti visive ed è capace di contagiare molta della ricerca artistica d’avanguardia. L’interesse degli artisti nei confronti delle immagini in movimento risale ai primi decenni del Novecento e coinvolge tutti i maggiori esponenti delle avanguardie storiche. Man Ray, che ha utilizzato ampiamente la fotografia e il cinema per la sua ricerca d’avanguardia scrive in una nota degli anni venti: “Ogni forma d’espressione ha i suoi puristi. Ci sono fotografi che sostengono che il loro mezzo non ha alcun rapporto con la pittura. Ci sono dei pittori che disprezzano la fotografia, per quanto molti, nell’ultimo secolo, si siano ispirati ad essa e l’abbiano utilizzata. Ci sono architetti che rifiutano di appendere un quadro nei loro palazzi affermando che la loro opera è un’espressione in sé completa. Nel medesimo spirito, quando è arrivata l’automobile, qualcuno avrebbe dovuto dichiarare che il cavallo è la perfetta forma di locomozione. Tutti questi atteggiamenti derivano dal timore che l’una soppianti l’altra. Niente del genere è successo. Nessuno cerca di abolire l’automobile col pretesto che abbiamo l’aeroplano.”[9]

Il rifiuto di modalità espressive correnti ed il desiderio di dare voce alle pulsioni dell’inconscio sono motivi che accomunano artisti dadaisti, surrealisti e futuristi. Essi operano su un sistema formale giovane ma già definito, il cinema ufficiale, negandone le strutture linguistiche già definite all’inizio degli anni Venti[10]. L’allontanamento dalla cultura tradizionale e dal cinema conforme ad essa viene manifestato attraverso nuove simbologie visive e differenti criteri di lettura dell’immagine: dinamizzazione di forme geometriche, tecniche di montaggio antinarrative, sinfonie visive basate sul ritmo, sono le caratteristiche delle ricerche filmiche delle avanguardie.

La cinematografia tedesca si muove in questa direzione; il risultato è l’Absolute Film, dal quale parte la sperimentazione del tedesco Hans Richter. Nato come pittore legato al dada zurighese, Richter si avvicina alla cinematografia intorno al 1920, realizzando una ricerca sui ritmi visivi delle forme geometriche. Sviluppa un ciclo di opere astratte: Rhythmus 21, Rhythmus 23, in cui dinamizza forme quadrate e rettangolari di diverse dimensioni o le alterna a linee mobili[11]. Tali opere risentono fortemente dell’influsso della poetica Bauhaus e delle ricerche del Costruttivismo e del Suprematismo sovietico. Successivo, d’impronta surrealista è Dreams that Money Can Buy, realizzato nel 1946 dopo il trasferimento dell’artista negli Stati Uniti. Si tratta di un film composto da sei episodi, ciascuno firmato da un famoso artista: Fernand Léger, Max Ernst, Marcel Duchamp, Man Ray, Alexander Calder ed infine da Richter stesso. Hans Richter è considerato un regista a tutti gli effetti, ma per altri esponenti dell’avanguardia il rapporto con il cinema assume un valore diverso, più legato alla volontà di destituire lo statuto dell’arte che all’elaborazione di un linguaggio cinematografico. Man Ray, in Le retour à la raison del 1923, associa in modo casuale spezzoni di immagini, readies made variamente ripresi, ma anche rayogrammi e puntine da disegno col solo intento di spiazzare e disturbare il fruitore[12]. Marcel Duchamp, fra il 1925 e il 26, realizza Anémic Cinéma[13], opera emblema di una visione concettuale del cinema che, basandosi su un puro effetto ottico, finisce per annullare qualsiasi struttura riconoscibile. Opere filmiche come Ballet Mecanique del 1924 di Fernand Léger o Emak Bakia del 1927 e Etoile du Mar del 1928 di Man Ray invertono il senso illusivo che questo medium va accrescendo con la nascente industria cinematografica, cercando di mettere in luce la continua alienazione dell’uomo nell’ambiente dominato dalle logiche meccanicistiche.

Più connesso alla dialettica fra artisti tradizionali e cinema è il proficuo rapporto di collaborazione che lega Salvator Dalí e Luis Buñuel. Lo scenario è quello della poetica surrealista che raccoglie l’eredità destrutturante del movimento Dada e la incanala verso lo psicologismo e verso la libera espressione di pulsioni inconsce. Un chien andalou, scritto da entrambi e realizzato dal regista spagnolo nel 1929, ha una carica di aggressività che lo differenzia dalle altre opere dell’avanguardia. Le ossessioni psichiche dominano la scena, il fulcro centrale intorno a cui si sviluppa la narrazione è l’identità sessuale del giovane protagonista e il suo rapporto ossessivo con una donna. Il montaggio, pur seguendo le regole cinematografiche tradizionali, si sviluppa come libera associazione ed allude alle tecniche del metodo psicoanalitico[14]. L’artista si cimenta col nuovo mezzo tecnico decostruendo la continuità omogenea della realtà.

Uno dei contributi più significativi al formarsi di un approccio estetico al cinema, concernente le condizioni di percezione del nuovo mezzo tecnico, è ancora benjaminiano: “Mentre il cinema, mediante i primi piani di certi elementi dell’inventario, mediante l’accentuazione di certi particolari nascosti di sfondi per noi abituali, mediante l’analisi di ambienti banali, grazie alla guida geniale dell’obiettivo, aumenta da un lato la comprensione degli elementi costrittivi che governano la nostra esistenza, riesce dall’altro anche a garantirci un margine di libertà enorme e imprevisto. Le nostre bettole e le vie delle nostre metropoli, i nostri uffici e le nostre camere ammobiliate, le nostre stazioni e le nostre fabbriche sembravano chiuderci irrimediabilmente. Poi è venuto il cinema e con la dinamite dei decimi di secondo ha fatto saltare questo mondo simile ad un carcere; così noi siamo ormai in grado di intraprendere tranquillamente avventurosi viaggi in mezzo alle sue sparse rovine[15]. Le sparse rovine alle quali Benjamin metaforicamente allude sono state in effetti un dato reale e tragico, maturato di lì a poco con l’avvento dei regimi totalitari europei e culminato nel secondo conflitto mondiale. È forse a partire da questi eventi che l’indefettibile immagine simbolica della tecnologia, su cui molti artisti e movimenti avevano fatto confidente affidamento per i primi tre o quattro decenni del secolo, comincia ad offuscarsi.

La riflessione filosofica che ne scaturirà è nelle acute analisi di filosofi come Max Horkheimer e Theodor Wiesengrund Adorno, i quali condividono molti spunti di riflessione con Benjamin. Il loro pensiero contribuirà a disegnare del mondo tecnologico un’immagine meno utopica, in alcuni casi fortemente critica, poiché si scopre che quel modello di riferimento creativo che per molti artisti era stata la razionalità tecnica è in realtà strutturalmente corresponsabile di ogni sistema totalitario del Novecento e quindi alla base dei suoi meccanismi di oppressione. “La razionalità tecnica, oggi, è la razionalità del dominio stesso. È il carattere coatto della società estraniata a se stessa. Automobili, bombe e film tengono insieme il tutto finché il loro elemento livellatore si ripercuote sull’ingiustizia stessa a cui serviva[16].

Il rapporto fra artisti e cinema ricorre con la produzione cinematografica underground. Tendenzialmente non industriale, visionario, assolutamente personale, il cinema underground è un cinema che privilegia l’elemento soggettivistico, poetico e rappresenta, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, la più vasta e articolata esperienza di cinema d’avanguardia[17]. La personalità che è riuscita a superare la marginalità dello sperimentalismo è quella di Andy Warhol il quale, paradossalmente, si libera da ogni elemento soggettivo annullandosi nichilisticamente nell’obbiettivo della macchina da presa. Lascia parlare il mondo oggettivo, rifiuta una diegesi e concentra il proprio interesse verso gesti apparentemente insignificanti, quotidiani, come mangiare e dormire: nascono così nel 1963 Sleep ed Eat.

Un anno dopo, in Empire, l’obbiettivo riprende la sommità dell’Empire State Building di New York dall’alba fino a notte fonda, otto ore in cui non accade nulla[18]. Questa fissità racchiude quell’aspetto voyeristico che lo spettatore assume nei confronti della realtà e ne sottolinea il ruolo passivo. La riflessione sull’atto stesso del vedere e l’indagine su una rappresentazione non descrittiva e non narrativa saranno recuperate dalla videoarte che si richiama proprio alle sperimentazione compiute dal cinema delle avanguardie storiche e dal cinema underground americano.

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La situazione, per quanto riguarda la televisione è legata alla tardiva affermazione del nuovo mezzo elettronico che si ha solo agli inizi degli anni Cinquanta. Una caratteristica che marca profondamente la televisione, distinguendola dal cinema è la diretta: si trasmette simultaneamente allo svolgersi dell’evento ripreso, grazie ad un rapidissimo processo di trasformazione elettronica. “Troppo spesso si dimentica che il registratore video, la conservazione su nastro magnetico, è un’invenzione assai tarda (1960), di molto posteriore a quella della telecamera (1936); e che da allora, prima cioè di tale invenzione, la Tv riprendeva e trasmetteva solo in diretta, senza però serbare alcuna traccia delle proprie immagini[19]. La diretta, quindi, apparenta tecnicamente la televisione alla famiglia dei media della simultaneità e della distanza come il telefono e la radio.

L’interesse del mondo dell’arte per la televisione è immediato: il Manifesto del Movimento Spaziale per la televisione[20] redatto nel 1952 da Lucio Fontana, in collaborazione con altri esponenti dello Spazialismo, teorizza un’arte capace di rinnovarsi e proiettarsi nello spazio attraverso i nuovi mezzi tecnologici fra i quali indica la televisione. Lo Spazialismo di Lucio Fontana rappresenta uno squarcio di consapevolezza scientifico-tecnologica all’interno di una congiuntura artistica fortemente motivata da spinte irrazionalistiche e da un’aperta sfiducia nei valori conoscitivi. Gli spazialisti intendono assorbire nella loro opera le scoperte tecnologiche e scientifiche per farla apparire in una dimensione dinamica ed eterna, in sintonia con le nuove tecnologie della comunicazione.

Come vedremo, il rapporto fra televisione e arti visuali presenta alcune situazioni paradossali in quanto dovremo distinguere fra televisione come organismo di comunicazione di massa e televisione come supporto video. Probabilmente inadeguata nella prima accezione giacché, la Tv, non aveva voluto perseguire quella comunicazione in senso proprio (in cui il fruitore non sia un passivo ricettore di messaggi), volendosi ancorare ai vecchi media, come la radio, già usurati dalla logica dell’intrattenimento e dal profitto. Non a caso le prime sperimentazioni artistiche sono caratterizzate da un’attitudine critica ai modelli culturali che presiedono all’uso massificante della televisione. La televisione diventa così per l’artista un elemento scultoreo, destinato a denunciarsi all’interno di installazioni che sono manifestazioni di una critica sociale più ampia. Nel 1958 Wolf Vostell inserisce il televisore fra i suoi dé-coll/ages, opera presentata compiutamente nel 63, con l’intento, esplicito, di denunciare l’ottusità ipocrita e condizionante dell’uso omologante del mezzo televisivo da parte della struttura sociale contemporanea. Secondo Adorno, contemporaneo di Vostell, tale struttura, giovandosi proprio di quelle scoperte tecnologiche che fanno l’orgoglio dell’individuo borghese, si è trasformata in un sistema. Si è trasformata, cioè, in un aggregato che offre tutti i beni necessari e tutte le superfluità, purché gli sia affidato in esclusiva il compito di determinare questi beni. Ognuno è racchiuso fin dall’inizio in un sistema di istituzioni e relazioni, che formano uno strumento ipersensibile di controllo sociale[21]. Il sistema sociale ha dovuto indebolire l’individuo per svuotarlo della propria capacità di giudizio e di critica e il principale meccanismo con cui il sistema consegue tale scopo è quella che Adorno chiama Industria culturale. Adorno e Horkheimer in Dialettica dell’Illuminismo[22] intendono per industria culturale quegli strumenti con i quali il sistema inganna l’individuo inondandolo di futili valori e modelli di comportamento prestabiliti. Tali strumenti sono essenzialmente i mass media, tra i quali il mezzo televisivo è quello più capillare ed invasivo. La Scuola di Francoforte fu la prima ad indicare i canali di comunicazione di massa come strumenti non neutri e ben lungi dall’essere imparziali, tali canali, non solo trasmettono, ma sono ideologia. La riproduzione meccanica dell’esistente, la ripetizione sempre più standardizzata delle proprie creazioni, l’esaltazione del sempre più perfezionato efficientismo tecnico sono elementi costitutivi dei mass media, strutture che, secondo Adorno, esercitano una potente e nefasta influenza sull’individuo. L’industria culturale abitua l’individuo ad una ricezione passiva, introiettando un’immagine univoca e asettica della realtà, lo persuadono ad adottare costumi e comportamenti stereotipati inibendo le funzioni immaginative e critico riflessive.

Vostell si muove nella stessa area concettuale adorniana: la televisione viene incastonata tra le memorie e i lacerti dei campi di sterminio nazisti Schwarzes Zimmer[23], Berlino 1958-59; viene distrutta simbolicamente negli happening o ne vengono deformate le trasmissioni Sun in Your Head 1963. La televisione, per ragioni tecnico commerciali, deve trasmettere un’immagine del mondo accettabile da parte di tutti, tende a creare un linguaggio uniforme e a ridurre qualsiasi messaggio a misure e modi prefissati. L’industria culturale, strettamente intrecciata con l’industria produttiva, nutre la pubblicità che, nella visione adorniana, è probabilmente l’aspetto più inquietante della comunicazione di massa: l’individuo crede di poter scegliere liberamente e di riflettere su prodotti reali, ma non si accorge di essere davanti a meri simulacri. L’immaginario acquista nel simulacro una dimensione sociale, non perché i suoi contenuti ricevano l’adesione, l’approvazione, il consenso dei soggetti, ma perché la società stessa si è derealizzata, ha acquistato una dimensione immaginaria la quale si impone ai soggetti. Il simulacro si schiera, secondo quei  principi compresi da Adorno, dalla parte della società. Cioè non sono le immaginazioni dei soggetti a diventare sociali e quindi effettuali, ma al contrario sono i simulacri della società che impongono la propria effettività ai soggetti, dissolvendo la loro realtà. “Nel simulacro la dimensione immaginaria non sta dalla parte dei soggetti, ma al contrario dalla parte della società: il simulacro è una effettività sociale, il cui statuto è quello di un’immagine priva di originale. L’immagine sociale non è il prodotto dell’iniziativa dell’individuo, ma qualcosa che è già data in partenza e a cui è impossibile sottrarsi, se non ricadendo nella marginalità, nel periferico, nel resto[24].

Tutt’oggi i contributi diretti e creativi degli artisti al mezzo televisivo vengono esclusi perché considerati incapaci di sostenere la larga udienza televisiva[25]. Già nel 1955 Ragghianti scriveva: “sarebbe […] assai utile se la televisione lasciasse a se stessa, pur nel pieno e anzi nella ressa delle ragioni e delle esigenze di ogni genere a cui essa vuole rispondere, un settore, e chiamiamolo pure sperimentale, un settore nell’ambito del quale persone munite della speciale attitudine dello spettacolo visuale e con capacità creative fossero libere di realizzare in quei termini le loro immagini. […] Auspico […] la costituzione di un laboratorio sperimentale di televisione[26] Ma la televisione non ha voluto scoprire la “dinamite” per riutilizzare l’espressione usata da Benjamin a proposito del cinema. Anche secondo l’impostazione di Vittorio Fagone la videoarte riguarda il rapporto fra le arti visuali e la televisione intesa non come “organismo di comunicazione di massa”, ma come medium video. È, infatti, nell’accezione di supporto video che le relazioni fra artisti e televisione si possono definire forti[27]: il coreano Nam June Paik ne è un esempio. Egli utilizza un tipo di decostruzione diversa dal diretto attacco ideologico di Vostell. Paik usa il dispositivo video mettendo in discussione la capacità stessa della televisione di poter riprodurre la realtà con creazioni spiazzanti. Nel 1963 presentò all’Exposition of Music Electronic Television di Wuppertal, considerata la prima esposizione di videoarte, un assemblaggio di media diversi con 13 televisori, 3 pianoforti e altre fonti sonore. Paik, musicista di formazione, fu uno dei primi artisti a lavorare sul mezzo in sé e non soltanto con esso: manipola il tubo catodico o, più semplicemente, aggiunge calamite e materiale elettrico atto a produrre campi magnetici che confondono le immagini trasmesse dallo schermo. La televisione non è più soltanto un oggetto, ma diventa un nuovo medium per produrre immagini eccentriche e depistanti. Altri tentativi concreti di utilizzare in modo artistico il mezzo televisivo risalgono alla seconda metà degli anni Sessanta intrapresi dallo stesso Paik con il giapponese Shuya Abe, esperto di elettronica, e con la violoncellista Charlotte Moorman. Con il primo realizza k546: un robot ispirato al tema dell’uomo-macchina; con la Moorman, invece, l’artista mette in scena alcune performances in cui la musicista indossa un corpetto composto da due monitor televisivi collegati ad un violoncello[28]. I monitor trasmettono l’immagine della donna deformata dall’interferenza elettrica provocata dal suono dello strumento. Con questi lavori Nam June Paik è anticipatore di alcune tematiche, come la contaminazione corpo-metallo, che diventeranno parte integrante dell’immaginario collettivo. Questa ricerca dei primi anni Sessanta, collocandosi ai margini delle arti visive, esamina le possibilità di stabilire un originale linguaggio espressivo utilizzando il nuovo medium elettronico. Ma è nel decennio successivo che il video si rivolge alla complessa dimensione temporale del mezzo televisivo analizzandone criticamente l’ambigua verità. Wolf Vostell, infatti, preferisce ricoprire televisori funzionanti col calcestruzzo Beton TV Paris [29], 1974 – 1981. Gli anni Ottanta si caratterizzano per una certa curiosità da parte dei creativi per la valenza eminentemente comunicativa del mezzo televisivo, la quale non assopisce comunque quell’attitudine destrutturante tipica di Vostell Tv Cubisme, 1985 e Paik Tv Buddha 1989, opera presentata in diverse versioni, la quale vitupera il narcisismo e il nichilismo dello spettatore che si annulla davanti ad un monitor[30].

Queste sono alcune tematiche che costituisco le premesse concettuali dell’odierna arte elettronica e del multimediale propriamente detto che, per definizione, nell’odierna accezione, si attesta con l’affermarsi delle tecnologie informatiche che saranno trattate compiutamente in seguito.

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Il Video si colloca in questa breve cronologia come ulteriore strumento nella catena di scoperte e dispositivi legati alla producibilità e riproducibilità tecnica dell’immagine. Il videotape da un punto di vista tecnico, non ha nulla di radicalmente nuovo rispetto alla sua progenitrice, la Tv. Se la televisione appariva agli occhi degli artisti legata al potere economico e politico, diversamente il video si apriva a possibilità culturali e artistiche volte alla sperimentazione e allo scambio comunicativo. Il video si dimostra quindi immediatamente un mezzo duttile e potente, in grado di stimolare la creatività e l’espressione.

La videoarte affonda le proprie radici nel clima di apertura verso l’extra-artistico che muta le coordinate del panorama artistico internazionale. Gli esponenti delle neoavanguardie, spinti dall’esigenza di sperimentare nuovi modelli espressivi, non identificano più l’opera d’arte con l’oggetto inteso in senso tradizionale. Essi spostano il proprio campo di azione verso il corpo, conquistano spazio e tempo, coinvolgono in maniera attiva lo spettatore mettendo in discussione le abituali categorie di percezione spazio-temporali. A battezzare i primi esperimenti di videoarte furono i membri del Fluxus, un movimento che radicalmente coinvolse nuclei d’artisti in diversi paesi, in primis gli Stati Uniti e la Germania. Erano gli anni Cinquanta, il decennio delle performances, degli happenings, anni in cui si esplora lo spazio della comunicazione e della dissipazione dei codici tradizionali con nuove proposte di comportamenti non finalizzati e liberatori. È da quest’area che nasce la dimensione complessa, non formalistica, della ricerca artistica della fine degli anni Sessanta, protesa al recupero dello spirito dadaista ma, soprattutto, protesa ad un nuovo scambio sociale. Membri del Fluxus e pionieri indiscussi della videoarte sono i già citati Wolf Vostell e Nam June Paik i quali influenzarono molti dei più autorevoli rappresentanti dell’arte concettuale che non di rado utilizzavano il proprio corpo come mezzo di espressione, oppure inscenavano e documentavano, mediante video e filmati, spettacoli temporanei, talvolta volutamente ripetitivi, in cui confluivano il teatro, la musica, la danza e la partecipazione del pubblico.

La ricerca artistica degli anni Sessanta genera forme espressive che trascendono i confini tradizionali, che sfuggono alle classificazioni riconosciute, generando forme ibride e nuovi linguaggi per derivazione culturale e territorio di appartenenza. L’aspetto più generale che percorre parte di questa ricerca artistica consiste nel voler attingere ad una dimensione temporale che permetta all’opera d’arte di avere una durata, uno sviluppo nel tempo, cercando per questa via di stabilire un legame con la contemporaneità basato in gran parte sul potere comunicazionale del mezzo prescelto: l’happening è infatti per definizione un’arte che accade. L’opera non tende più ad identificarsi con un oggetto compiuto e immodificabile, ma con un’azione compiuta nello spazio e nel tempo. Il video svolge inizialmente la funzione elementare di riprendere le performances ideate ed eseguite appostimene per la ripresa. Si dimostra immediatamente un mezzo espressivo estremamente poietico in cui sussiste ancora una vivida e convinta resistenza, irriducibilità al medium televisivo inteso come mezzo di comunicazione di massa, verso il quale la videoarte si pone in radicale alternativa, richiamandosi, inconsapevolmente, a quell’istanza eminentemente produttiva che animava a suo tempo le sperimentazioni ottiche di László Moholy-Nagy. Quest’ultimo, teorico fra i maggiori del Bauhaus, offre un contributo essenziale nello scindere l’apparato produttivo dall’apparato riproduttivo. In un suo saggio comparso in prima edizione nel 1925 scrive: “Poiché la produzione serve soprattutto allo sviluppo dell’uomo, noi dobbiamo cercare di estendere a scopi produttivi quegli apparati finora usati solo a fini riproduttivi[31]. Produzione qui intesa quindi come creatività produttiva atta allo sviluppo dell’uomo: un invito ad usare, di conseguenza, quei mezzi finora usati unicamente a fini riproduttivi per produrre qualcosa che prima non c’era, poiesis quindi. Moholy articola la propria posizione ricorrendo ad un esempio: il grammofono, il quale “ha avuto sinora il compito di riprodurre effetti acustici preesistenti […]. Un’estensione dell’apparecchio a scopi produttivi potrebbe avvenire in questo modo, che le scalfitture vengano praticate nel disco di cera dall’uomo stesso, senza l’intervento di una azione meccanica esterna, e producano, all’atto della riproduzione, un effetto sonoro, così da rendere possibile, senza nuovi strumenti e senza orchestra, un rinnovamento nella produzione sonora e con ciò contribuire alla trasformazione delle concezioni musicali e delle possibilità compositive[32]. Rovesciare di segno l’impiego degli “apparati tecnici”, portarli cioè dal semplice utilizzo riproduttivo a quello produttivo, ha implicazioni forti sulla creatività. Ancor più, significa, piegare l’apparato tecnico verso l’elaborazione di “nuovi esperimenti creativi”, di nuovi linguaggi, lontani da ogni orizzonte mimetico e/o rappresentativo. Fondamentale è ovviamente l’apporto tecnologico: la videocamera comincia ad essere disponibile proprio nel momento in cui si affermavano gli happening e le performances. A metà degli anni Sessanta la Sony mette a disposizione del pubblico una videocamera portatile: il port-pack con cui lavorò lo stesso Paik. La videocamera di massa apre agli artisti prospettive inedite, e furono in molti ad esplorarne le potenzialità. Dal 1969 il video comincia ad ancorarsi all’universo delle gallerie d’arte grazie, soprattutto, alla Howard Wise Gallery di New York che organizzò la prima mostra interamente dedicata al tema della TV as Creative Medium. L’anno successivo anche i musei iniziarono a presentare manifestazioni dedicate alla videoarte e ad acquisirne le opere. Oltre a New York, Colonia e Wuppertal vanno ricordate come le prime città ad avere ospitato opere in video.

Gli anni Settanta si caratterizzano come il decennio della creatività diffusa che ha permesso, come prefigurato da Benjamin, di trasformare da passiva in attiva la massa dei fruitori integrandola nel momento produttivo, permettendo allo spettatore di diventare operatore. La ricerca cinematografica d’avanguardia influenzerà sicuramente molta della sperimentazione video ma rispetto al cinema, che richiede una sala di proiezione, il monitor trasmettente le immagini video è facilmente collocabile in una qualsiasi sala o installazione. Il videotape si conferma come mezzo poco ingombrante capace di penetrare nella realtà con occhio critico. La diffusione degli strumenti adatti alla libera realizzazione di video prodotti ha favorito la videoarte, la cui dilatazione è strettamente legata ai mezzi tecnici disponibili. Altrettanto fondamentale è l’apporto di quei laboratori, come l’Art/Tapes/22 di Firenze, che svolsero un ruolo propulsivo, mossi da un mecenatismo tutto contemporaneo ad indagare le possibilità del mezzo. Proprio con l’Art/Tapes/22 collaborò, dal 74 al 76, una figura centrale che verrà approfondita in seguito: Bill Viola. Esaurito il fenomeno avanguardistico, a metà degli anni Settanta si pone il problema di un approccio meno soggettivo. Tale significativo passaggio verso un uso più professionale del medium elettronico è espresso dal tentativo di concepire opere video autonome svincolate da ogni funzione socializzante. Il video, insomma, proliferò reinventando un nuovo modo di raccontare svincolato da funzioni descrittive e narrative. Tuttavia, all’inizio degli anni Ottanta sembra affermarsi gradualmente, anche negli artisti video più irriducibili, un interesse per la narrazione, seppure rivisitata in virtù del medium stesso. Probabilmente il naturale esaurirsi della fase metalinguistica porta al desiderio di sperimentare le articolazioni del nuovo linguaggio riferendosi ad altri territori come il cinema e la televisione. Fra gli anni Ottanta e Novanta la platea di artisti che utilizzano il video si amplia notevolmente poiché le possibilità fornite da quest’ultimo decennio sono un produttivo terreno di ricerca per gli artisti in quanto le nuove tecnologie multimediali, che il video inglobano, si sono costituite in modo sempre più pervasivo come il terreno sperimentale prioritario delle arti. Mentre vengono anche indagati i rischi di una perdita di tatto e di contatto con un mondo sempre più virtualizzato, argomento su cui intervengono artisticamente le opere interattive di Studio Azzurro, le opere cinematografiche di Spike Jonze, regista di Being John Malkovich, e le opere di artisti totali come Peter Greenaway che ha coniugato, più di altri, cinema, letteratura, teatro, danza, musica e videoarte.


  1. Wladyslaw Tatarkiewicz, Storia dell’estetica. L’estetica antica, Torino, Einaudi, 1978, pp. 45-46.
  2. Da Póiēsis derivante da poiéin fare, era impiegato originariamente per ogni tipo di produzione, e poiētĕs significava ogni genere di artefice.
  3. Si sono succedute le seguenti accezioni per Ars/Arte: qualità nel periodo arcaico romano; abilità tecnica nel periodo greco-romano; arte bella nel mondo moderno come somma di abilità e qualità. Il concetto di arte che più si è inserito nella nostra cultura è quello di abilità, ma l’accezione più usata è quella di arte bella che sottende la dimensione estetica.
  4. Arnold Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, Roma, Armando, 2003, pp. 42-43.
  5. Ivi, pp. 31-36.
  6. Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 2000, p. 26.
  7. Arnold Gehlen, op cit., p. 42-43.
  8. Walter Benjamin, op cit., p. 21.
  9. Man Ray, La fotografia può essere arte, in Tutti gli scritti, Milano, Feltrinelli, 1981.
  10. Paolo Bertetto (a cura di), Introduzione alla storia del cinema, Torino, UTET, 2002, p. 67.
  11. Ivi, p. 69.
  12. Ivi, p. 70.
  13. Si tratta di un esperimento sulla visione realizzato da Duchamp mediante un sistema di macchine rotanti, i rotoréliefs, costituiti da dieci dischi con spirali e nove dischi con giochi di parole. La rotazione alternata crea un effetto di movimento spiraliforme che produce una visione tridimensionale.
  14. Paolo Bertetto, op. cit., p. 72.
  15. Walter Benjamin, op. cit., p. 41.
  16. Th. W. Adorno e M. Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo, pp. 131-132.
  17. Paolo Bertetto, op. cit., p. 303.
  18. Ivi, p. 307.
  19. Philippe Dubois, Marc-Emmanuel Mélon, Colette Dubois, Cinema e Video: compenetrazioni, in Sandra Lischi (a cura di), Cine ma video, Pisa, ETS, 1996, p. 106.
  20. http://www.hackerart.org/corsi/aba01/capuzzi/manifestomovspazialecentro.htm
  21. Adorno, Dialettica e positivismo in Sociologia, Torino, Einaudi, 1972.
  22. L’opera è del 1947.
  23. http://www.medienkunstnetz.de/werke/deutscher-ausblick/
  24. Mario Perniola, La società dei simulacri, Bologna, Cappelli, 1980, pp. 52-53.
  25. Vittorio Fagone, in Le arti visuali e il ruolo della Televisione,  p. 43.
  26. Carlo L. Ragghianti, La televisione come fatto artistico, in Sandra Lischi, Visioni Elettroniche, L’oltre del cinema e l’arte del video,Venezia, Marsilio, 2001, p. 6.
  27. Vittorio Fagone distingue fra rapporti forti e rapporti deboli, In Video, p. 35.
  28. http://www.medienkunstnetz.de/werke/tv-bra/
  29. http://www.medienkunstnetz.de/werke/beton-v-paris/
  30. http://www.medienkunstnetz.de/werke/buddha/
  31. László Moholy-Nagy, Pittura, fotografia, film, Torino, Einaudi, 1987, p. 28.
  32. Ivi, pp. 28-29.