2 Tecnologia e Filosofia

Uno degli argomenti basilari del discorso fin qui intrapreso è il rapporto fra tecnica e arte. Quest’ultima, fin dalle sue origini, intrattiene con la tecnica un rapporto di intensa ambiguità, espresso dall’etimologia stessa del termine tecnica: téchne, che indicava esattamente quelle tecniche che nella cultura latina e medievale sarebbero diventate artes. Molto di ciò che noi oggi chiamiamo arte, nel mondo greco, è stato chiamato tecnica. Le ragioni storico culturali e naturalmente linguistiche che portano a tale ambiguità sono ovvie, ma parte di questa confusione permane ancora oggi, soprattutto a causa della recente invasività tecnologica nel mondo delle arti. Partendo da questo residuo di ambiguità è quindi necessario formulare una teoria che tenti non di spiegare l’attuale dualità e/o l’antitesi fra arte e tecnologia ma la sua dialettica. Per comprendere il punto di partenza di questo rapporto è opportuno riferirsi al pensiero di Martin Heidegger grazie al quale la riflessione teoretica sulla tecnica raggiunge una matura consapevolezza di concetto e di visione. Egli intende la tecnica, respingendo ogni comprensione strumentale, come un modo essenziale di orientarsi nel mondo e di incontrare le cose. “La tecnica, dunque, non è semplicemente un mezzo. La tecnica è un modo del disvelamento. Se facciamo attenzione a questo fatto, ci si apre davanti un ambito completamente diverso per l’essenza della tecnica. È l’ambito del disvelamento, cioè della verità[1]

Ciò significa che la téchne fu originariamente compresa come un disvelamento dell’esistente, un modo di darsi alla verità, la quale richiede però una poiesis ovvero un coinvolgimento produttivo dell’uomo il quale disponeva di questi processi creativi per sussistere in armonia con la natura intesa come spontaneità creatrice e capacità autogenerativa, esattamente ciò che i greci chiamarono physis. Per questa via egli è in grado di individuare il legame costitutivo fra il concetto di natura e il concetto di tecnica e perché la questione della tecnica sia emersa solo nel pensiero moderno. Per Heidegger l’arte funge da termine sovraordinato rispetto alla tecnica nel senso che all’arte è riconosciuta la capacità di salvaguardare la memoria dell’essenza della tecnica stessa. L’arte ha per molti secoli assolto il compito di preservare la memoria del fondamento poietico della tecnica, ma è ancora possibile attribuirle questa definizione nel mondo totalmente tecnicizzato dalla modernità? “Che cos’é la tecnica moderna? Anch’essa è disvelamento.[…]. Il disvelamento che governa la tecnica moderna, tuttavia, non si dispiega in un pro-durre nel senso della poiesis. Il disvelamento che vince nella tecnica moderna è una pro-vocazione (Herausfordern) la quale pretende dalla natura che essa fornisca energia che possa come tale essere estratta (herausgefördert) e accumulata[2]

Heidegger pone particolare enfasi anche sulla nozione d’origine che dà il titolo al suo scritto di filosofia dell’arte più noto, L’origine dell’opera d’arte. Il carattere originario dell’arte non vuol dire che qualcosa dà origine all’arte, né che l’arte sorga da un nulla assoluto. Per Heidegger l’arte non ha origine, ma è origine la sua essenza stessa. Il nuovo paradigma del rapporto fra arte e tecnica si profila proprio dall’incompletezza della tesi heideggeriana che non si cimenta con i mezzi di riproduzione tecnica. Il riferimento è ovviamente alle tesi avanzate da Walter Benjamin nel saggio sulla riproducibilità tecnica dell’arte nel 1936[3] che sarà compiutamente trattato nel prossimo capitolo. Il pensiero heideggeriano influenzerà senz’altro Benjamin e gli altri maggiori teorici della Scuola di Francoforte, Max Horkheimer, Herbert Marcuse e Theodor Wiesegrund Adorno i quali sosterranno, grazie ad una più approfondita consapevolezza sociologica, il tema della tecnica come seconda natura. In questa prospettiva Horkheimer collega heideggerianamente la tecnica al destino storico di oggettivazione della natura, mentre Marcuse, sottolineando il carattere puramente strumentale della razionalità moderna, rivelatasi incapace di soddisfare le istanze libertarie del progetto illuminista, pone la tecnica come soggetto attraverso cui si realizza la subordinazione della ragione teoretica alla ragione pratica. Ma è in Dialettica dell’Illuminismo scritto dallo stesso Horkheimer in collaborazione con Adorno che emerge il dato interpretativo più significativo: la tecnica viene annoverata tra le forme di dominio borghese e capitalistico e quindi al modello di una società industriale di massa. È contemporaneo all’avvento della tecnica, insomma, il problema della società di massa, in cui è possibile riscontrare operante il modello di una standardizzazione sistematica. Tale uniformazione alla prassi, secondo i due autori, non va comunque imputata unicamente ad un’istanza tecnologica forgiante ma, semmai, alla funzione che questa stessa istanza assolve nell’economia attuale. Il problema verte quindi sulla tecnica come modello attraverso il quale il dominio assolve la sua funzione sulla massa e non nel capire se la tecnica sia in sé dominio. É chiaro che i processi tecnologici di standardizzazione non rispondono tanto alle richieste della massa dei destinatari, quanto alla struttura economica. In questo caso, la tecnica, rappresenta qualcosa di più di un mero strumento atto a conseguire determinati effetti; al contrario, essa si rivela come una forma di schematismo atto a collegare l’indispensabilità di quegli effetti alle cause che li richiedono. La tecnica svolge, in definitiva, una funzione mediatrice all’interno di un sistema, quello capitalistico, in cui è l’offerta a determinare la domanda e non viceversa[4]. Anche il successivo pensiero postmoderno punta a porre in evidenza quegli aspetti della problematica tecnologica collegati alle modificazioni che l’espansione globale dei processi comunicazionali introduce nella concezione del sapere. Per questo fenomeno sembra valere, insomma, il destino già indicato da Benjamin per l’opera d’arte, ovvero la transizione verso l’anauratico.

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Il saggio di Walter Benjamin su L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica è, degli scritti del filosofo tedesco, senza dubbio il più citato ed essendo punto di partenza di molte considerazioni svolte durante questa trattazione si approfondirà qui la riflessione estetica in esso contenuta. Grande è la predisposizione di Benjamin al nuovo, precoce l’attenzione per l’avvento delle nuove tecniche considerate in relazione alla società di massa. Benjamin ritiene che la riproducibilità abbia introdotto profonde modifiche nella natura dell’esperienza estetica non solo nel senso che è diventata un’esperienza di massa, ma anche nel senso che i valori di culto tradizionalmente connessi all’arte sono decaduti lasciando il posto a nuovi valori che il filosofo definisce espositivi: la fruizione distratta, l’esteticità diffusa, il carattere effimero e sempre disponibile dell’evento estetico. Il saggio è il punto di partenza problematico dell’arte contemporanea in quanto il rapporto fra originalità e copia diventa ora un elemento ineludibile.

Benjamin parte da dove Heidegger lascia l’opera d’arte. Il tema è per entrambi il paradigma filosofico che definisce l’opera d’arte nell’età della tecnica. Entrambi distanti dal risolverla meramente nello spazio interiore dell’esperienza e in un’ingenua produttività creatività soggettiva, trovano il loro punto di partenza nella hegeliana morte dell’arte: l’arte non è più “il modo più alto in cui la verità si procura esistenza”. Per Heidegger l’arte è la “messa in opera della verità”, nell’opera la verità appare fissandosi come Gestalt, ma la Forma ha bisogno di una sua struttura, di un’intelaiatura che dà il caposaldo ad ogni arte: quello di essere costruzione. L’Intelaiatura heideggeriana atta a reggere la forma diventa in Benjamin Apparecchiatura che, nell’epoca della riproducibilità tecnica, getta una nuova luce sull’opera d’arte, sulla sua originalità e sulla sua messa in opera della verità. Il saggio benjaminano va oltre l’eterna diatriba fra filotecnica e misotecnica in quanto percepisce la tecnica non come un feticcio del tramonto, ma bensì come una chiave per la felicità, tuttavia la sua non è di certo un’enfatizzazione utopica dello sviluppo tecnologico. Come il pharmakon greco che è veleno e rimedio nello stesso tempo, la tecnica, può significare distruzione o potenziamento[5].

Benjamin insiste su due temi destinati ad assumere sempre, maggiore rilievo: la tecnica e la fruizione che considera elemento costitutivo dell’esistenza stessa dell’opera d’arte. L’elemento tecnico riguarda il principio della costruzione dell’opera ma anche la natura stessa del proprio generarsi, il suo essere essenzialmente riproducibile, riproducibile dall’origine. Ma cosa s’intende per autenticità dell’opera d’arte? Il suo carattere d’originalità, opera unica e irripetibile, é dato dal suo hic et nunc, il qui e ora costitutivo dell’opera autentica, che consiste nel carattere di testimonianza storica dell’opera d’arte. Il valore rituale e quello espositivo sono serrati in un unico simbolo[6]. L’aura diventa sotto la penna di Benjamin un concetto estetico. L’aura di un’opera è quell’elemento che le appartiene propriamente ed esclusivamente, in quanto traccia irripetibile di una storia sedimentatasi con il tempo nel fondo della sua struttura e materialità. L’aura, apparizione unica di una lontananza, rappresenta una lacuna irrimediabile per le riproduzioni. Inoltre, l’opera d’arte riprodotta, diviene in sempre maggiore misura la riproduzione di un’opera disposta alla riproducibilità. Questo radicale cambiamento priva l’opera d’arte del suo valore cultuale/rituale mentre si dilata fortemente il suo valore di esponibilità. Il senso dell’esporre è quello di rendere accessibile, pubblico e ciò deprime l’aspetto rituale e cultuale dell’opera d’arte. Il carattere di originalità dell’opera è sradicato dalla stesa idea di tradizione e questo fa vacillare la sua stessa qualità di testimonianza storica. Le opere d’arte, osserva Benjamin, sono state sempre riproducibili, basta pensare ai copisti, ma l’opera autentica rimane salvaguardata nella sua unicità. Quello che muta con l’invenzione della fotografia e quella del cinema è proprio l’idea di autenticità e di originalità, ma ciò che interessa a questa trattazione sono soprattutto le modificazioni nell’ambito produttivo e ricettivo. La riproducibilità tecnica bandisce “l’hic et nunc dell’opera d’arte, la sua esistenza unica e irripetibile nel luogo in cui si trova[7]. Questo processo riguarda lo stesso momento produttivo che si emancipa dall’orizzonte autoriale. Opporsi a questi sconvolgimenti introdotti dall’opera d’arte “riproducibile nella sua stessa origine”, mettendo ad argine categorie tradizionali quali la creatività e il genio, è inutile, in quanto queste giungono ormai al loro compimento. Per esempio categorie solidificate da secoli quali autore e pubblico si avviano a perdere il loro carattere sostanziale in quanto il lettore, oggi più che mai, “è sempre pronto a diventare autore[8]. Le riflessioni benjaminiane in merito all’atto creativo, mettono in luce i cambiamenti avvenuti rispetto alle arti tradizionali. Si può partire dalle differenze individuate da Benjamin fra pittura e cinema: “L’atteggiamento del mago, che guarisce un ammalato mediante imposizione delle mani, è diverso da quello del chirurgo, il quale intraprende invece un intervento sull’ammalato. Il mago conserva la distanza tra sé e il paziente; […] il chirurgo rinuncia a porsi di fronte all’ammalato da uomo a uomo; piuttosto, penetra nel suo interno operativamente. Il mago e il chirurgo si comportano rispettivamente come il pittore e l’operatore. Nel suo lavoro, il pittore osserva una distanza naturale da ciò che gli è dato, l’operatore invece penetra profondamente nel tessuto dei dati[9]. Il pittore osserva una distanza naturale dal dato su cui lavora nella sua interezza, l’operatore invece penetra profondamente nel tessuto immaginale, la stessa pellicola cinematografica è una vivisezione della realtà, il dato è scomposto. Le immagini che entrambi ottengono sono enormemente diverse. Quella del pittore è totale, quella dell’operatore è frammentata, e le sue parti si compongono secondo una legge nuova. Frammentazione, ma anche dilatazione del tessuto spazio temporale: concetto che ritroveremo affrontando l’opera di Bill Viola. L’operatore agisce e procede come un “chirurgo” che seziona il dato, penetra negli anfratti della materia, gioca con la lentezza e la velocità: “Col primo piano si dilata lo spazio, con la ripresa al rallentatore si dilata il movimento, scrive ancora Benjamin, E come l’ingrandimento non costituisce semplicemente chiarificazione di ciò che si vede comunque, benchè indistintamente, poiché esso porta in luce formazioni strutturali della materia completamente nuove, così il rallentatore non fa apparire soltanto motivi del movimento già noti: in questi motivi noti ne scopre di completamente ignoti, che non fanno affatto l’effetto di un rallentamento di movimenti più rapidi, bensì quello di movimenti propriamente scivolanti, plananti, sovrannaturali. Si capisce così come la natura che parla alla cinepresa sia diversa da quella che parla all’occhio. Diversa specialmente per il fatto che al posto di uno spazio elaborato dalla coscienza dell’uomo interviene uno spazio elaborato inconsciamente[10].

In quanto al momento fruitivo/percettivo Walter Benjamin aveva contrapposto il modo di ricezione proprio della pittura a quello prodotto dal flusso delle immagini cinematografiche: [il dipinto] invita l’osservatore alla contemplazione; di fronte ad esso lo spettatore può abbandonarsi al flusso delle sue associazioni. Di fronte all’immagine filmica non può farlo. Non appena la coglie visivamente, essa si è modificata. Non può venir fissata[11]. L’analisi di Benjamin sottolinea la differenza tra l’immagine pittorica e quella cinematografica. Il filosofo ha come modello, per quanto riguarda la pittura, l’opera d’arte dadaista che “diventò un proiettile. Venne proiettata contro l’osservatore. Assunse una qualità tattile. In questo modo ha favorito l’esigenza di cinema, il cui elemento diversivo è appunto in primo luogo di ordine tattile, si fonda cioè sul mutamento dei luoghi dell’azione e delle inquadrature, che investono lo spettatore a scatti[12]. Il dipinto dada, quindi, rinnega lo spettacolo gradevole alla vista e rinnega ogni contemplazione, shocka l’opinione pubblica: ha un potere traumatizzante e, proprio come il cinema quindi, ricorre ad un’estetica fondata sullo shock fisico. Un elemento ancora presente in molta dell’attuale ricerca video. Le opere d’arte antecedenti alla loro riproducibilità tecnica, sono state sempre disposte con estrema cura in quanto la coscienza estetica tradizionale fa sì che l’opera debba imporsi allo sguardo che la contempla. “Il dipinto ha sempre affacciato la pretesa peculiare di venir osservato da uno o da pochi. L’osservazione simultanea da parte di un vasto pubblico, quale si delinea nel secolo XIX, è un primo sintomo della crisi della pittura, crisi che non è stata affatto suscitata dalla fotografia soltanto, bensì, in modo relativamente autonomo, attraverso la pretesa dell’opera d’arte di trovare un accesso alle masse. Il fatto è appunto questo, che la pittura non è in grado di proporre l’oggetto alla ricezione collettiva simultanea[13]. Benjamin individua, riferendosi alla cinematografia, una nuova “appercezione del mondo” propria dell’età delle masse. La nozione di Ricezione distratta preme proprio in questa direzione: ogni spettatore, anche distaccato da ogni assorbimento, può esercitare la funzione di critico. Il risveglio percettivo è annunciato dal riso che si libera nella percezione filmica come un riso arcaico. Questa fruibilità dell’arte da parte del grande pubblico rivela quindi potenzialità liberatorie che possono stimolare la critica dell’esistente. L’immagine filmica provoca un’essenziale appiattirsi, un distendersi della stessa idea di verità che induce a considerare la sua immagine come una mera astrazione. Nel film l’immagine isolata è solo un fotogramma estraibile da un’apparenza di continuità, da un flusso temporale di immagini. La contemplazione del quadro, attraverso la riorganizzazione percettiva indotta dal medium tecnico, diviene contemplazione distratta, il quadro stesso viene contemplato come un ritaglio di tempo, un astratto della temporalità. La technische Apparatur sradica l’idea di origine dell’opera d’arte e con questa l’idea stessa di verità, ma libera l’immagine estetica alla pura percezione. Nel saggio Benjamin insiste molto sulla natura di secondo grado che produce il film come risultato del montaggio. In esso scompare il luogo da cui si può percepire la natura illusoria di quanto viene rappresentato. L’apparato tecnico, nella cinematografia, è penetrato così profondamente nella realtà che quest’ultima è divenuta nient’altro che il risultato di una particolare procedura. La realtà viene così prodotta come seconda natura che nel film è una natura riflessa.

Nell’era elettronica assistiamo ad un’ulteriore rottura in quanto l’immagine elettronica è una produzione di immagini senza copia, senza copia perché manca l’originale. L’immagine elettronica è, infatti, conversione di informazione in forma visiva e la digitalizzazione, nello scavalcare l’ordine analogico, tratta, come afferma Virilio “la visione come materia prima”, come qualcosa di plasmabile. E pare profetico Benjamin quando scrive: “Così come nelle età primitive, attraverso il peso assoluto del suo valore cultuale, l’opera d’arte era diventata uno strumento della magia, che in certo modo soltanto più tardi venne riconosciuto quale opera d’arte, oggi, attraverso il peso assoluto assunto dal suo valore di esponibilità, l’opera d’arte diventa una formazione con funzioni completamente nuove, delle quali quella di cui siamo consapevoli, cioè quella artistica, si profila come quella che in futuro potrà venir riconosciuta marginale[14].

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La fotografia nasce come tecnica e strumento per una riproduzione oggettiva della realtà, come mezzo per registrarla e produrre una prova documentale di tutto ciò che è visibile, dimostrazione concreta della vera esistenza di ciò che è riprodotto, dell’indubbio e reale accadimento di un evento, della genuina credibilità di una testimonianza. Il contributo più significativo sulla via di una definizione teorica della fotografia viene proprio da Benjamin nel 1931, non lontano dalle sperimentazioni di Moholy-Nagy sui media ottici. Nella sua Breve storia della fotografia, evitando ogni concetto precostituito d’arte, osserva come il vero problema sollevato dall’avvento del nuovo medium non sia quello di porre in discussione la propria artisticità ma, piuttosto, se attraverso la scoperta della fotografia non si sia modificato il carattere complessivo dell’arte. Questa impostazione del problema è estremamente  innovativa: in quanto antiaccademica non mira a privilegiare alcuna tradizione artistica preesistente ricercando la soluzione del problema non a partire da principi assunti a priori. Benjamin, infatti, parte da una data situazione storica e culturale dove la diffusione della fotografia è strettamente connessa all’ascesa della borghesia: “Quelle immagini sono nate in ambienti in cui, per il cliente, la persona del fotografo incarnava un tecnico di recentissima scuola, e per il fotografo, d’altra parte, il cliente era un appartenente a una classe in ascesa[15]. Benjamin era del resto ben consapevole della dimensione sociale entro cui i fenomeni dell’arte vanno ad articolarsi e riteneva quindi che il fattore essenziale della svolta artistica determinata dalla fotografia risiedesse nel medium e nella sua caratteristica principale: essere collegamento fra il momento produttivo e quello fruitivo, individuando nella fotografia la capacità di porsi come “inconscio ottico”, ovvero quella capacità di registrare fenomeni inaccessibili all’occhio umano. Nella riproducibilità tecnica si identifica l’essenza stessa del medium fotografico, la cui capacità riproduttiva conduce ad un fondamentale cambiamento di funzione dell’opera d’arte: “Nella fotografia il valore di esponibilità comincia a sostituire su tutta la linea il valore cultuale. Ma quest’ultimo non si ritira senza opporre resistenza. Occupa un’ultima trincea, che è costituita dal volto dell’uomo[16]. Il valore “cultuale”, legato all’unicità dell’opera, scema mentre quello “espositivo”, direttamente legato al grado di diffusione dell’immagine, aumenta. Solo il volto dell’uomo, protagonista delle prime lastre d’argento, mantiene una parvenza d’aura. L’aspetto più significativo resta comunque la possibilità del medium fotografico di riprodurre e diffondere le opere d’arte che la loro immobilità cultuale aveva finora reso accessibili a pochi. Questa sua peculiarità colloca integralmente l’azione più importante della fotografia nel momento fruitivo del processo comunicazionale: “Nonostante l’abilità del fotografo, nonostante il calcolo nell’atteggiamento del suo modello, l’osservatore sente il bisogno irresistibile di cercare nell’immagine quella scintilla magari minima di caso, di hic et nunc, con cui la realtà ha folgorato il carattere dell’immagine[17].

Il mezzo fotografico influenzerà profondamente i modelli di crescita e di collocazione in campo sociale di ogni opera d’arte visiva. Benjamin sposta, inoltre, il concetto dalla fotografia in quanto arte all’arte in quanto fotografia poiché “l’effetto della riproduzione fotografica delle opere d’arte riveste per la funzione dell’arte un’importanza molto maggiore dell’elaborazione più o meno artistica di una fotografia, per la quale l’esperienza vissuta diventa una sorta di bottino dell’apparecchio[18]. Ciò precisa il carattere essenzialmente strumentale che il pensatore tedesco attribuisce alla fotografia e ne sottolinea il carattere essenzialmente comunicazionale.

È significativo notare come gli sviluppi della fotografia successivi al saggio benjaminiano si siano indirizzati verso una direzione documentaria: fotografia scientifica, fotografia sociale, ritrattistica, come a realizzarne l’essenza fondamentalmente comunicazionale teorizzata da Benjamin.

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La riproduzione delle opere d’arte non è un fatto recente: è dal Rinascimento, infatti, che gli artisti raccolgono, in una sorta di album, gli elementi visivi della cultura artistica in cui erano immersi. Paradigmatico è quell’atteggiamento settecentesco che vedeva l’artista al seguito di nobili viaggiatori per i quali riproduceva, o meglio dipingeva o disegnava, le bellezze paesaggistiche e le grandi architetture di quel determinato luogo. Basta pensare a Jean-Honoré Fragonard che accompagna in Italia un intellettuale francese, l’abbé Saint-Non, intento a compiere, com’era uso, il suo tour. Un intellettuale scettico, infatti, affianca al suo pittore Robert e fa rappresentare ad entrambi la villa d’Este a Tivoli: uno stesso soggetto per due atteggiamenti. Queste rappresentazioni possono offrire un quadro di cosa in quell’epoca era considerato degno di attenzione e costituivano una sorta di museo portatile. L’invenzione della fotografia sconvolse tutto. Oltre ad essere un elemento di democratizzazione in quanto permette di accedere con facilità alle bellezze del patrimonio artistico, la fotografia, è in grado di riprodurre il reale con una fedeltà mai raggiunta fino ad allora.

Questa fusione fra Ars e nuova Téchne ha elevato la simulazione oltre i problemi tecnologici fino al campo della filosofia. Già nel 1931 Paul Valéry osserva come in tutte le arti si dà una parte fisica che non può più venir considerata e trattata come un tempo a causa dello stupefacente aumento dei mezzi tecnici che introducono cambiamenti molto profondi nell’antica industria del bello. Successivamente lo stesso Benjamin osserva come né i teorici della fotografia, né quelli della cinematografia, si posero la domanda preliminare e fondamentale: “se attraverso queste scoperte non si fosse modificato il carattere complessivo dell’arte[19].

È nel corso degli anni Cinquanta e nella prima metà degli anni Sessanta che risultano evidenti le premesse per un profondo rivolgimento dei rapporti tra reale e immaginario. Tale rivolgimento, che è strettamente connesso alle conseguenze sociali e psicologiche dei mass media, dell’industria culturale, della nuova pubblicità, si manifesta in primo luogo con la derealizzazione della società, per cui in tutti gli aspetti dell’attività sociale l’immagine sembra avere la meglio sulla realtà al punto da dissolverla, in secondo luogo con la sua culturalizzazione, mediante la quale ovunque i significanti prevalgono sui significati, i referendi sui referenti, le mediazioni sull’immediato[20].

Si può parlare di una crisi della rappresentazione ante litteram, la troviamo in alcuni semiotici francesi: negli anni Sessanta Jacques Derrida, partendo dal lavoro pioneristico di Ferdinand de Saussure, aveva sostenuto che ogni testo dato può riferirsi solo ad altri testi, così che rimane solo il significante poiché il significato, il mondo afferente, si è perso nell’universale rumore di fondo del già scritto, del già detto. Il merito di aver applicato questi pensieri agli audiovisuali è di Jean Baudrillard che affronta la questione soffermandosi sulla perdita dell’autenticità. Platonicamente realtà e verità si smarriscono in quanto si smarrisce l’originale, ciò che ci rimane è il simulacro e, probabilmente, ciò a cui anela Baudrillard è proprio il recupero dell’aura decantata da Benjamin. Quest’ultimo sostiene, infatti, che gli artefatti storici di preziosa singolarità e i fenomeni naturali possiedono per l’osservatore un’aura di autenticità che non può essere riprodotta; una qualità trascendentale che viene irrimediabilmente perduta nell’atto della riproduzione.

Il simulacro non è un’immagine pittorica che riproduce un prototipo esterno ma un’immagine effettiva che dissolve l’originale[21]. In questo processo di dissoluzione ha giocato un ruolo fondamentale l’industria culturale che riducendo la cultura a merce e la socialità a consumo ha corroso le basi di ogni acculturazione sociale[22]. La funzione socializzante non è più svolta oggi dal pensiero, ma dall’immaginario. “Se l’Illuminismo è stato la socializzazione del pensiero, la direzione verso cui è orientato il movimento contemporaneo è la socializzazione dell’immaginario[23]. Qui Perniola non si riferisce alla socializzazione intesa come mera diffusione dell’arte mediante gli strumenti di comunicazione, ma al fenomeno rilevato da Benjamin dell’ineffabile perdita dell’aura nella riproduzione tecnica delle immagini. Che senso ha andare in cerca di una stampa fotografica autentica? Benjamin definisce l’aura qualità della distanza che rimane tale per quanto da vicino si possa osservare l’oggetto che la possiede. Per Baudrillard l’aura d’autenticità è perduta per sempre in un mondo, quello dei media, simulato, che si definisce come il prodotto di un iperreale autoreferenziale che non ha né origine né realtà. Feuerbach scriveva che la nostra epoca preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essenza. L’apparenza come piaga sociale, come disturbo narcisistico, ricorda il borghese che si specchia nei benjaminiani Passages parigini: “città degli specchi dove l’uomo più velocemente che altrove conquista la sua immagine[24] e dove l’esposizione della merce si presenta nell’apparenza feticistica della moda e della pubblicità.

Tutto ciò implica la fine dell’opera d’arte conforme alla tradizione e l’avvento di un nuovo statuto sociale dell’immaginario che ha in sé la dissoluzione del soggetto, sia di quello individuale che di quello collettivo. La socializzazione dell’immaginario non è quindi un processo di identificazione, ma al contrario, racchiude una spersonalizzazione. Nella cultura dei media la verità ha lasciato spazio ad un universo autoreferenziale fatto di simulacri, di simulazioni che si contrappongono agli apparati concettuali estetici che si fondano sulla presenza. Questa secessione richiede una nuova epistemologia e quindi, ciò di cui abbiamo bisogno oggi, è di una filosofia dei fantasmi[25].

Non sono più i principi, le idee, le rappresentazioni a garantire l’integrazione tra società e cultura, ma i simulacri, le immagini, le copie prive di originale: mentre i primi presupponevano ancora l’esistenza dei soggetti (se non di persone), i secondi si muovono in uno spazio che annulla per definizione ogni originarietà, autenticità, soggettività[26].

Tocca a Deleuze redimere il simulacro: l’effige ha il merito di eludere ogni autorità in quanto include lo spettatore e il suo angolo visuale, l’illusione è prodotta nel punto in cui è collocato l’osservatore. Secondo Deleuze il simulacro rifiuta i punti di vista privilegiati e l’idea di presentarsi come platoniano inganno. Questi simulacri, oggi prevalentemente digitali, possiedono un’aura? Sono la vivida chimera di un nuovo tipo di visione eidetica. Sicuramente possiedono quella qualità della distanza che vanifica ogni nostro tentativo di manipolazione semplicemente perché esistono solo nell’immateriale virtualità. Per altro verso, il potente processo di riduzione concettualistica dell’arte innescato da Duchamp ci ha condotti, come Baudrillard rilevava nel 1988 con ironico distacco, ad un agnosticismo estetico che ci permette di parlare di arte senza peraltro interrogarci sulla sua autenticità di prodotto intellettuale, sulla possibilità insomma che essa esista davvero, a prescindere dal convenzionalismo che anima tutto il suo sistema. A questo stato agnostico si contrappone peraltro solo la stentorea, spesso ottusa, desuetudine di una “normalità” artistica che proprio per le temperie immateriali di oggi crede di poter accedere ad ulteriori rivitalizzazioni e questo rende la situazione ancora più difficile da districare.

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È necessario ora, per arrivare a comprendere i termini in cui l’opera d’arte elettronica muta rispetto alla grande arte del passato, anche in virtù del virtuale confronto che verrà presentato nell’ultimo capitolo, indugiare brevemente sul rapporto che alcuni grandi maestri dell’Umanesimo intrattenevano con la tecnica. Nella cultura rinascimentale si possono distinguere due indirizzi predominanti: da un lato l’orientamento dei filosofi e degli artisti che rivolgono la loro attenzione a Platone, contrastando l’egemonia culturale aristotelica; dall’altro l’indirizzo di quei pensatori che riscoprono il “genuino” Aristotele, andando oltre l’interpretazione che del suo pensiero era stata data dalla filosofia scolastica medievale.

Nel pensiero greco arcaico la téchne era relegata all’ambito della materia priva di funzione conoscitiva. Platone, fra il V ed il IV secolo a.C. riscatta la téchne dall’ambito puramente materiale e servile. Egli svolge la sua riflessione nello Ione, opera in cui argomenta la sua dottrina sull’ispirazione poetica: puntualizzando comunque la superiorità del poietés, dell’artista inteso qui come poeta, sul technités;  rivaluta quest’ultimo e la funzione tecnica la cui azione si ordina a “principi e regole razionalmente posseduti, dimostrabili e discutibili[27]. La téchne entra qui in relazione con l’episteme, ovvero con la conoscenza di quei principi e di quelle regole tecnicamente applicabili. Suddetta relazione rimane molto forte anche nel pensiero aristotelico, nel cui ambito essa si sviluppa ulteriormente come legame fra conoscenza e metodo, fra speculazione e prassi. Aristotele definisce arte non solo la produzione artistica, ma anche l’abilità, fondata sulle conoscenze, nel produrre. Aristotele precisa che: “ogni arte (téchne) riguarda la produzione e il cercare con l’abilità e la teoria come possa prodursi qualcosa […] il cui principio è in chi produce e non in ciò che è prodotto[28]. Quest’ultima puntualizzazione individua nella téchne un principio di causa efficiente che rimarrà pressoché inalterato nelle successive accezioni del termine tecnica[29]. Il suo concetto dell’arte come abilità e conoscenza rese labili i confini tra arte e scienza[30]. L’essenza metodica e pratica della téchne e la sua applicabilità a diverse sfere disciplinari, sarà sostanzialmente ereditata dal mondo latino comunque più propenso ad accogliere le teorie aristoteliche piuttosto che quelle dell’estetica speculativa platonica. L’ambiguità del termine greco téchne fu ereditata dal latino ars. Per Aristotele però il significato principale di téchne era quello di “abilità del produttore”, ma nel medioevo l’ars diventò il bagaglio di conoscenze proprie dell’artista[31]. È con l’Umanesimo che la relazione fra artisti e tecnica si accosta alle nostre attuali concezioni in quanto il concetto di arte e la figura dell’artista vengono ricollocati nella società. È grazie a questo vasto processo di ricollocazione che nasce l’immagine moderna dell’artista e sempre grazie a questo processo che matura quella consapevolezza tecnica delle arti figurative, che proprio per la loro riconosciuta peculiarità, cominciano ad essere considerate come un insieme unitario di discipline, separate dalle tecniche e dai mestieri. La figura dell’artista acquisisce un ruolo proprio nel contesto sociale e culturale e tende ora a distinguersi da quella del tecnico e dell’artigiano. Fondamentale per l’artista rinascimentale platonico sono due testi il Fedro e il Simposio, in quest’ultimo prende la parola Socrate distinguendo tra amore generativo e amore contemplativo, due modi diversi per arrivare alla bellezza. Nel Fedro la bellezza è descritta come valore che in terra porta al cielo, l’amore per le cose terrene rimanda l’uomo verso la bellezza ideale. Platone riteneva che i pensieri e le azioni fossero superiori alla bellezza del corpo. La bellezza spirituale è una bellezza più alta. Un ruolo importante nella formazione di una teoria filosofica della bellezza spetta al filosofo neoplatonico del III secolo Plotino, per il quale la contemplazione del bello sensibile è un primo gradino della scala che l’anima deve percorrere per ricongiungersi all’Uno, cioè al principio assolutamente trascendente di tutte le cose. Il genio di Michelangelo, che partecipa pienamente a questi concetti platonici, così scrive nelle sue Rime:

“Mentre ch’alla beltà ch’i vidi in prima

appresso l’alma che per gli occhi vede,

l’imagin dentro cresce, e quella cede

quasi vilmente e senza alcuna stima[32]

Alla bellezza sensibile succede una crescita interiore, la beltà visiva cede: ciò significa una scala di valori e come nel Simposio vi è una risalita verso la bellezza. Anche Ficino commentando le Enneadi di Plotino, secondo cui l’irrazionale è il senso superiore e il razionale quello inferiore, si accostò a questo tema. Quindi l’immaginazione sensibile deve essere sopravanzata da una bellezza superiore. La tecnica dell’artista umanista è totalmente assoggettata ad una bellezza superiore, irrazionale e inafferrabile. Anche il Tribolo, ammirato dallo stesso Michelangelo, é scultore unitario, proporzionale, assorbito nella contemplazione. In lui troviamo quel concetto cristiano di grazia che andrà crescendo nel XVI secolo, concetto soprattutto platonico: “quel certo non so che”, qualcosa di inesprimibile quindi, una bellezza impalpabile ed ulteriore. Idee pienamente platoniche anche in pieno Seicento con il Volterrano che nel 1644, nella chiesa di Santissima Annunziata dipinge la Cappella Grazzi con concerti angelici[33] che rappresentano il potere elevativo della musica, concetto questo pienamente platonico. Egli rappresenta la pura grazia che è il mistero dell’angelica bellezza: qui gli angeli che si protendono verso il basso, verso la terra, sopra quei marmi della cappella splendono di una bellezza che non ha bisogno di commenti[34]. Il cuore innamorato dell’artista dipinge questi angeli e la loro musica con suprema libertà espressiva. Di tali idee neoplatoniche partecipano gli artisti? Nel caso del Buonarroti ovviamente sì, le opere dei grandi artisti dell’umanesimo sono ben diverse, ma la folta varietà percepibile è sovrastata da un ordine intellettivo misterioso e puro.

È evidente che nel pensiero postmoderno, intrinsecamente, si agita una sostanziale svalutazione di quei valori umanistici verso cui molti pensatori fanno peraltro forte riferimento in vista di una possibile “umanizzazione” della tecnica. La causa di tale svalutazione è il ruolo che proprio questi valori hanno svolto nello sviluppo del pensiero razionalistico moderno partendo dalla teoria della Pura visibilità, e dalla sua impresa di rappresentazione od oggettivazione della realtà culminata nella civiltà tecnologica. La demitizzazione postmoderna tocca pienamente l’arte, e ciò non solo perché le condizioni stabilite dalla riproducibilità e dalla producibilità tecnologica ne minacciano l’esistenza, ma soprattutto perché l’arte non può più fare appello a quei valori umanistici che tradizionalmente hanno fondato l’essenza dell’opera e la sua autenticità. Tale demitizzazione investe in pieno l’arte attuale nella sua transizione verso lo stato di simulacro transitorio dove il contenuto lascia spesso spazio all’apparenza. Questo concetto ha le sue radici nella sofistica, l’arte del dire, scuola rivale a quella di Platone dove si ignora il contenuto, e l’effetto retorico è sottolineato dal fare artistico. Questa transizione si compie concettualmente lungo quella linea autoanalitica dell’arte postmoderna che approda alla domanda di meta-arte, in altre parole ad una forma di conoscenza autoreferenziale.



  1. Martin Heidegger, Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 1976-1980, p. 9.
  2. Ivi, pp. 9-17.
  3. Coevo quindi al saggio heideggeriano sull’opera d’arte.
  4. Th. W. Adorno e M. Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo, Torino, Einaudi, 1980.
  5. Fabrizio Desideri, Il fantasma dell’opera, Genova, Il Nuovo Melangolo, 2002, pp. 134-135.
  6. Cfr. Ontologia del simulacro.
  7. Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 2000, p. 22.
  8. Walter Benjamin, L’autore come produttore, Torino, Einaudi, 1973.
  9. Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 2000,  37-38.
  10. Ivi, p. 41.
  11. Ivi, p. 43.
  12. Ibidem.
  13. Ivi, p. 39.
  14. Ivi, p. 28.
  15. Breve storia della fotografia, Walter Benjamin, in op. cit., p. 68.
  16. Walter Benjamin, op. cit., p. 28.
  17. Breve storia della fotografia, Walter Benjamin, in op. cit. p. 62.
  18. Ivi, p. 73.
  19. Walter Benjamin, op. cit., p. 28.
  20. Mario Perniola, La società dei simulacri, Bologna, Cappelli, 1980,  p. 8.
  21. Ivi, p. 20.
  22. Ivi, p. 47.
  23. Ivi, p. 51.
  24. Walter Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo, Torino, Einaudi, 1986, p. 139.
  25. M. Foucault, Theatrum philosophicum, in D. F. Bouchard (ed.), Lenguage, Counter-Memory, Prectice.
  26. Mario Perniola, op cit., p. 52.
  27. G. Vattimo, Estetica, in Dizionario di filosofia, Milano, Garzanti, 1993.
  28. Cit. in M. Modica, Che cos’è l’estetica, Roma, Editori riuniti, 1987.
  29. Alessandro Tempi, Il nome e la cosa. Per una genealogia del rapporto Arte-Tecnologia, in “XÀOS, Giornale di confine”, Anno II, N. 3, Novembre-Giugno 2003/2004.
  30. Wladyslaw Tatarkiewicz, L’estetica antica, Torino, Einaudi, 1979, pp. 168-170.
  31. Ibidem.
  32. Michelangelo Buonarroti, Rime, Rima 44, Milano, Rizzoli, 1998.
  33. Fig.  1.
  34. Fig.  2.