3 Virtualità e interattività

Nell’arte multimediale possiamo distinguere due ambienti tecnologici: il primo è la realtà virtuale grazie alla quale è possibile interagire con un ambiente artificiale modificabile attraverso stimolazioni. L’interazione può essere non immersiva o immersiva, ovvero quando è  provocata dall’uso di strumenti che il fruitore deve indossare. Il concetto di esperienza multisensoriale entra così, prepotentemente, nell’attuale ricerca artistica. L’opera viene totalmente affidata al fruitore come processo e non più come una realtà compiuta e immutabile. Tale rivoluzione è accostabile alla teoria dell’opera aperta, formulata in un saggio del 1962 da Umberto Eco[1]. Secondo Eco l’opera appare sempre diversamente in quanto non compiuta e necessita dell’apporto (emotivo, intellettivo, creativo) di colui che la osserva per essere portata a compimento. Al concetto benjaminiano che vedeva nelle nuove tecnologie un fattore di  democratizzazione per l’arte, si affianca, grazie alla virtualità, quello di opera d’arte aperta.

Il secondo ambiente tecnologico è quello delle reti telematiche e lo spazio di comunicazione in cui i fruitori possono interagire viene definito cyberspazio. Utilizzare la rete per creare arte, elaborando percorsi ipertestuali e multimediali, in cui vari individui possano interagire tra loro in tempo reale è un aspetto del cyberspazio. Roy Ascott, pioniere della cibernetica, della telematica e dell’interattività nell’arte, è autore di alcuni dei più importanti progetti di questo tipo per la rete. Per questo artista e per altri come lui il museo e la galleria d’arte hanno ormai lasciato il posto all’universo informatico di internet. Il passaggio da un universo naturale ad un universo tecnico è evidente. Ciò che interessa non è più l’opera compiuta, ma il processo, in una concezione più antropologica e sociologica che riporta all’attualità la poetica Fluxus di creatività come fatto sociale. La rivoluzione apportata dal digitale ha ovviamente favorito tutto ciò. Fa riaffiorare anche in questo ambito il sogno dell’opera d’arte totale, ovvero un’esperienza perennemente modificabile dall’artista e dal fruitore. Il rischio di questa prospettiva è paradossalmente una contrazione esponenziale di opportunità che trasforma il cyberspazio in “un universo chiuso e autoreferenziale che sbarra l’orizzonte del possibile restituendocelo sempre meno come una sfida della libertà, un’esposizione all’evento, e sempre più come qualcosa che coincide con l’innovazione tecnica della Tecnica[2]. Un ulteriore rischio di questa prospettiva è comunque quella di una ipervalutazione di questo medium promosso a strumento per un’immediata autolegittimazione dell’opera, un pericolo che rischia di trasformare l’esperienza artistica nel regno della mediocrità socialmente condivisa[3].

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Le sperimentazioni in campo artistico adoperanti il computer hanno inizio nei tardi anni Sessanta e si sviluppano in particolar modo nella computer grafica e nell’animazione, ma è grazie agli sviluppi della tecnologia digitale nell’ultimo decennio del Novecento che il computer si attesta come insostituibile strumento creativo. Il discorso sul trattamento digitale può portare molto lontano e per affrontare questa realtà in funzione di questa trattazione è opportuno ripartire dal concetto di fotografia e sottoporlo ad una nuova riflessione critica in quanto ancora anacronisticamente accostata all’ambito della verosimiglianza. Questo approccio appare oggi estremamente limitativo. È  indubbio, infatti, che anche in una fotografia tradizionale intervengono una serie di scelte che prevedono una presenza autoriale. L’intervento dell’umano intelletto è, seppure in termini diversi ed in misura certamente minore, l’attuazione di una valutazione soggettiva. Un margine di intervento entro il quale il fotografo poteva personalizzare il risultato è sempre esistito ma, oggi, i mezzi digitali rendono la possibilità di manipolazione tanto ampia da giungere ad un prodotto che può trascendere radicalmente dall’originale, irrimediabilmente diverso da esso. Inoltre il digitale permette una riproducibilità immediata ed illimitata a qualità costante.

La digitalizzazione si frappone fra i nostri occhi e il reale aspetto del mondo e la veridicità fotografica viene, a causa di tale rivoluzione, a mancare. Una fotografia ottenuta con procedimento digitale non può essere considerata come evidenza di qualcosa che le è esterno. La simulazione figurativa digitale ha privato la fotografia della sua autorevolezza raffigurativa proprio come nel secolo XIX, la fotografia aveva intaccato la pittura, ma questa volta la questione della rappresentazione è completamente trascesa. L’opinione che lega il concetto di fotografia al concetto di realtà oggettiva è rimasto immutato per anni, ed è ancora oggi strutturato nel nostro patrimonio culturale. L’avvento delle tecnologie digitali hanno minato tale fedeltà, facendo così decadere sia la veridicità dell’immagine fotografica, in quanto risultato di una serie di operazioni artificialmente influenti sull’esito finale, sia hanno nuovamente minato la paternità autoriale dell’opera, soprattutto in quanto quest’ultima non è necessariamente attribuibile ad un’unica persona. Le nostre capacità percettive si sono, di conseguenza, rapidamente modificate per adeguarsi ad un nuovo concetto di realtà a fruizione eminentemente visiva: ma è d’obbligo dubitare di ciò che si vede ed è fondamentale essere consapevoli che la realtà può essere manipolata. Perciò é indispensabile dotarsi di un nuovo atteggiamento mentale nel rapporto con i mezzi digitali: le immagini che ci vengono quotidianamente sottoposte non sono necessariamente coerenti con la realtà, non sono scontatamente vere, al contrario sono spesso radicalmente ed intenzionalmente alterate. Le tecnologie digitali, infatti, assecondano la manipolazione delle immagini di un mondo che, per ragioni varie e complesse, tende verso una progressiva perdita dei contatti con la realtà fisica. Parlando, infatti, di rivoluzione digitale è riduttivo limitarsi a considerare unicamente il campo tecnologico: tale rivoluzione sta configurando un nuovo modello sociale in cui il virtuale si sostituisce alla realtà. Un  processo già denunciato da Jean Baudrillard: Il virtuale ha ucciso la realtà. Senza lasciare tracce.

I nuovi formati digitali si caratterizzano per l’estrema leggerezza, col chiaro obbiettivo di voler ridurre l’enorme quantità di dati relativi a questo tipo di informazioni a un valore agilmente gestibile dai mezzi informatici. In quanto alla circolazione digitale il World Wide Web si attesta come il mezzo più capillare. Lungo miliardi di fili corrono le informazioni sotto forma di parole, suoni, immagini e ora video grazie alla banda larga, alle fibre ottiche e le nuove tecnologie di trasmissione. Mentre sul piano estetico è evidente come il Web abbia imposto il documento multimedia/interattivo come nuovo standard di comunicazione e come abbia ridimensionato le prospettive spazio-temporali evitando che l’opera d’arte venga incentrata su coordinate preferenziali. Diffusi fenomeni come le gallerie d’arte digitale, per esempio, liberano gli artisti dal condizionamento dei tradizionali canali di diffusione, un fenomeno che può essere visto idealisticamente come incompatibile con l’odierna mercificazione dell’arte e, a dirla con Benjamin definito anche per questo il padre di internet, anche il web ha agevolato, democraticamente, il rapporto delle masse con l’opera d’arte. Altre esperienze, comunque alquanto autoreferenziali, come i telematic networkings (operazioni in rete computerizzata), eliminando la tradizionale dicotomia fra artista e spettatore, offrono mezzi ed opportunità per partecipare ad un evento creativo che implica per sua natura non solo uno scambio di comunicazioni e idee, ma il diretto coinvolgimento di più persone, da luoghi e ruoli diversi, i quali concorrono alla creazione del significato, che conseguentemente diventa un evento che accade, dissolvendo in questa empirica circostanzialità ogni residua pretesa autoriale. La dissoluzione di ogni oggettività del significato diventa, nella teoria delle “arti tecnologiche”, anche un’istanza di carattere estetico. Essa conduce, come visto, in primo luogo alla dispersione della paternità autoriale, in quanto l’autore del flusso informativo-immaginale è frantumato e disperso su tutta la rete, ma ciò non implica necessariamente che esso debba trasformarsi in un’entità collettiva anonimizzante. Per i suoi sostenitori il telematic networking mira ad amplificare le istanze individuali del pensiero e dell’immaginazione, esaltando quella soggettività della percezione dal cui grado di interazione nel sistema comunicativo dipende in larga parte il processo di formazione del significato. In secondo luogo, quella stessa dissoluzione converte l’opera in un mutevole ed immateriale “scambio creativo”, ribadendo così un principio chiave di tutta la contemporaneità: l’opera è incompiuta senza l’apporto del fruitore. Esperienze di questo genere si pongono come espressioni di una certa cultura postmoderna che fa della mutevolezza e dell’immaterialità dei significati, come pure dell’inesauribile possibilità di mediare fra dati diversi, il paradigma del mutamento culturale presente, in specie della transizione verso uno stadio di ubiquità transdisciplinare che porterebbe a ridimensionare le pretese assolutistiche delle singole discipline conoscitive.

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Le opere virtuali esistono in potenza ed hanno la teorica possibilità di concretizzarsi in una rappresentazione per immagini basata sulla simulazione del reale mediato da mezzi elettronici. Prodotto di una sofisticata tecnologia che sta gradatamente infiltrandosi non solo nella vita pratica ma anche nelle modalità percettive, la creazione artistica digitale, frutto dell’ibridazione uomo-macchina, deve essere fruita mettendo in atto percorsi cognitivi che, seppur nuovi nell’analisi estetica, sono tuttavia quelli che governano il nuovo sistema derealizzato di pensiero che l’uomo utilizza. I nuovi percorsi cognitivi, infatti, mettono in grado il fruitore di recepire correttamente la progressiva integrazione della tecnologia nell’opera d’arte: mezzo per favorire l’instaurarsi di nuovi processi comunicativi e culturali.

La storia dell’arte del secolo passato è, come visto, notevolmente influenzata dall’avvento delle tecnologie. La premessa di quanto oggi sta accadendo ha le sue radici concettuali in un’idea di arte che sfugge da ogni oggettualità, che richiede una partecipazione dell’osservatore per essere compresa, che identifica il processo artistico nella decontestualizzazione dell’oggetto convertito in opera d’arte. Concetti presenti proprio a partire dalle avanguardie storiche del primo Novecento. Paradigmatica è la poetica dadaista della casualità che vincola l’osservatore ad una rilettura dell’oggetto sacralizzato dall’intervento dell’artista. Quest’ultimo sottrae l’oggetto alla banalità del quotidiano trasformandolo in opera d’arte. Il concetto si può accostare anche alla Pop Art, agli Happening, alla Body Art che finiscono per assottigliare il contenuto dell’opera d’arte fino ad eliminarlo del tutto. È palese come nell’arte concettuale ci fossero già indicative anticipazioni del digitale inteso come flusso comunicativo e linguaggio non oggettuale che ha bisogno di essere fruito per esistere.

Il rapporto fra realtà e apparenza non riguarda soltanto la cosiddetta realtà virtuale e gli aspetti tecnici della digitalizzazione in quanto ci si trova ad affrontare aspetti innanzitutto sociologici. L’informatizzazione di massa dei processi relazionali e le applicazioni telematiche, onnipresenti in ogni settore, portano a considerare le dimensioni di questo fenomeno e l’inarrestabile sovrapposizione di un sistema virtuale ad un sistema reale. Il concetto di simulacro, oggi strettamente connesso alle tecnologie di produzione e simulazione d’immagine, implica il rifiuto di un prototipo esterno e la tentazione di considerare l’immagine come un prototipo, e trova la sua massima realizzazione nell’esperienza virtuale. La realtà virtuale non ha bisogno di simboli per evocare significati o richiamare memorie storiche, ma di simulacri. Chiarisce bene l’antitesi Perniola spiegando come il termine tedesco Sinnbild, che vuol dire appunto simbolo, rimandi ad una ricchezza, ad una inesauribilità del significato (Sinn) a cui l’immagine (Bild) rinvia. Tutta l’immagine contemporanea non è più un Sinnbild, ma un Trugbild, l’immagine che rinvia ad una simulazione, ad una mancanza di realtà, di senso, di fede, in una parola un simulacro[4].

Il percorso che porta alla dematerializzazione e alla virtualità è relazionabile all’evoluzione stessa del pensiero filosofico in quanto, la virtualità, si può intendere in continuità con tutti quei processi di astrazione che caratterizzano molto del pensiero teoretico. Il tentativo di svincolarsi dall’oggettualità e dall’empiricità significa anelare l’idea che nella virtualità diviene ombra. Il valore conoscitivo dell’ombra è dubbio in quanto il suo valore è limitato all’apparenza. Ritorna qui il concetto di mimesis che affonda le proprie radici nella filosofia di Platone e Aristotele. Per Platone, la mimesi è produzione di immagini, che possono avere origine divina (è il caso dei sogni) o umana. Nella Repubblica considera la mimesi negativamente, riferendosi alla tragedia, alla commedia e all’epica, in quanto producono pallide imitazioni di eventi e realtà del mondo sensibile, che a loro volta non sono che copie imperfette del mondo delle idee. Imitazione d’imitazione quindi. Aristotele definisce ogni forma di poesia come mimesi. Riferendosi alla mimesi drammatica della tragedia osserva il suo potere di operare similmente alla natura. La rappresentazione del conflitto quotidiano degli uomini con gli dei e con il destino produce sullo spettatore un effetto di purificazione delle passioni che normalmente condizionano la sua percezione del reale. Lo conduce a considerarle con distacco. Il piacere estetico si identifica proprio in questa liberazione dell’animo dalle passioni e dalle paure, che permette poi di osservare con sguardo critico le contraddizioni del reale. Queste considerazioni possono aiutare a considerare la virtualità come un insostituibile contributo che permette di comprendere e meglio definire non tanto la realtà, ma le immagini della realtà: il valore obiettivo delle rappresentazioni. La virtualità, non intesa come platonico inganno ma come aristotelica catarsi, può rimettere in discussione e definire l’efficacia di ogni sistema di astrazione.

L’artista, sottraendosi al rischio di un’autocelebrazione delle proprie competenze tecnologiche può, legittimamente, figurare la sua mimesi nella virtualità. L’artista demiurgo ha la capacità, infatti, di far uso di ogni tecnica e tecnologia in totale libertà creativa in quanto possiede un’attitudine conoscitiva capace di rendere le nuove possibilità di cui dispone oggetto stesso di comunicazione. L’opera, ormai concepita come flusso comunicazionale, non ha o non ha più un’esistenza oggettuale: non può essere presentata nei luoghi tradizionalmente destinati all’esposizione e non può essere commercializzata se non nella sua riproduzione tecnica. L’opera non può essere conservata se non come traccia tecnologicamente costruita e non può essere esclusivamente posseduta perché immateriale o, meglio, inesistente. Dell’opera intesa come evento resterà solo un residuo “virtuale” da attivare all’occorrenza. Si potrebbe quindi definire virtualità anche il nuovo rapporto dematerializzato dell’uomo con la realtà.

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L’interattività è una delle principali tematiche della produzione artistica contemporanea mirante al coinvolgimento dello spettatore nella genesi dell’opera. Le tecnologie interattive sono sostanzialmente basate su sistemi multimediali facenti uso di connessioni di rete che rendono disponibili fonti d’informazioni accessibili in tempo reale e/o di ambienti tridimensionali detti realtà virtuale che costruiscono una realtà artificiale sempre predisposta ad una nuova immersione da parte dell’utente. L’interattività si caratterizza innanzitutto per avere una base visiva che permette all’utente di interagire consentendogli di strutturare molteplici percorsi che senza il suo intervento rimarrebbero potenziali. Le tecnologie interattive si qualificano, quindi, come flussi comunicativi che hanno bisogno di un fruitore attivo. Ciò li diversifica totalmente da media come cinema e televisione, anch’essi a base visiva, ma il cui utente è fondamentalmente un fruitore passivo di qualcosa che altri hanno ideato. Ma l’idea di arte interattiva può apparire ambigua soprattutto in relazione all’uso del termine “interattiva”. Questo termine, usato anche in relazione alla computer art, è una tautologia in quanto qualsiasi attuale interfaccia uomo-computer è interattiva per definizione: qualsiasi moderna interfaccia permette all’utente di controllare e manipolare in tempo reale l’informazione mostrata sullo schermo. Una volta acquisita da un computer l’immagine diventa automaticamente interattiva e chiamare arte interattiva l’opera elaborata mediante computer è la semplice affermazione di una delle caratteristiche basilari del computer.

Nell’opera interattiva ritorna nuovamente, portata all’estremo, l’idea dadaista e duchampiana che vede infranta la rigida bipolarità fra artista e spettatore a favore di una continua dialettica che definisce, grazie alla partecipazione attiva di entrambi, l’opera d’arte. Quest’ultima esiste in quanto viene percepita,  l’opera non risiede quindi nell’oggetto, ma nel processo dinamico che si instaura fra chi la crea e chi la fruisce. Non vi è più un’entità fisica con proprietà aspettuali, ma un contesto dinamico che si apre a partire dalla fruizione dell’opera d’arte. Questo è, tutt’oggi, ciò che avviene nell’arte elettronica: l’artista innesca processi affini a quelli teorizzati da Duchamp cimentandosi con quei linguaggi che costituiscono lo stadio più avanzato del processo tecnologico. Di particolare interesse in questo senso sono le sperimentazioni di Studio Azzurro che mirano a mettere in relazione immagine elettronica, ambiente e partecipazione dello spettatore. Quest’ultimo è invitato a scoprire, attivando un processo che unisce al coinvolgimento un’assunzione di responsabilità di tipo nuovo nei confronti dell’opera, le regole del gioco interattivo. Oggetti e figure immateriali si animano in virtù del controllo di dispositivi che agiscono conseguentemente ai movimenti di chi si accinge all’opera: Il soffio sull’angelo, primo naufragio del pensiero[5]. L’interattività permette al fruitore di elevare il proprio stato, di attingere a possibilità percettive capaci di accrescere le proprie capacità sensoriali. L’ambiente elettronico, sempre disponibile all’“immersione”, ha la proprietà di far riscoprire percettivamente immagini e suoni: lo spazio dell’opera si modella plasticamente, diventa acustico, tattile, l’osservatore vi si immerge, entra in uno stato alterato, sensorialmente amplificato. Ma l’opera interattiva si caratterizza soprattutto per il ricco e continuo scambio di linguaggi avvolte volutamente stridente, generando pratiche ibride, multimediali, dette Responsive Environment.

Nell’attuale dibattito sopra i nuovi media interattivi[6], riguardante i sistemi informatici e il loro utilizzo e le possibilità e le implicazioni dell’interattività, troviamo argomenti antitetici. Alle tendenze utopiche si contrappongono tendenze disfattiste con motivazioni che si mostrano ovviamente contrarie e irrimediabilmente inconciliabili. Da una parte si promette la possibilità di un utilizzo emancipatorio dei nuovi mezzi: paradigmatico è ciò che prefigurò, all’inizio degli anni Trenta per la radio diffusione Bertolt Brecht, per il quale la radio avrebbe dovuto trasformarsi da un apparato di distribuzione ad un apparato di comunicazione, il ricevente avrebbe dovuto trasformasi in mittente[7]. D’altra parte la tecnologia tende verso un’automatizzazione alienante che minaccia molte sfere del lavoro umano e verso un’invasività sempre più capillare, sintomatica di una tecnologia sempre più soggiogante. Secondo quest’ultima impostazione, heideggerianamente, l’essenza della tecnica sfugge al dominio dell’uomo e si contrappone a lui come un Gestell, un’imposizione.

La diatriba trova spazio anche in ambito artistico giacché la polarità fra i due approcci è mantenuta. Rivalutati concetti statici e immutabili per secoli quali artista e fruitore, l’attenzione si sposta ora su quest’ultimo che può essere utopisticamente inteso come co-creatore o, più disfattisticamente, come un fantoccio capace di mettere in atto solo le possibilità prestabilite dal mittente. Tali impostazioni non apparterrebbero però alla critica d’arte e soprattutto non servono ad una descrizione qualitativa del rapporto dialogico fra artista e fruitore. Il problema di fondo sta nel fatto che tutta l’arte elettronica non andrebbe semplicisticamente giudicata come un’interazione fra uomo e macchina. Non bisogna dimenticare come la funzione di quest’ultima sia ancora quella di medium e come l’interazione sia, di conseguenza, fra uomo e uomo: uno degli aspetti più importante dell’interattività. La critica d’arte dovrebbe mirare invece a comprendere la ricchezza della dialettica fra artista e fruitore, ma anche fra téchne e poiesis per evitare d’inquadrare ogni realizzazione in posizioni che riguardano più la politica dei media che non l’arte soprattutto in quanto non portano ad alcuna conclusione di tipo estetico. La base visiva di queste nuove tecnologie predisposte alla manipolazione è, infatti, fondamentale soprattutto in relazione alla comprensione e alla valutazione dell’opera.


  1. Umberto Eco, Opera aperta, Milano, 1962.
  2. Massimo Carboni, in Lo stato dell’arte, Bari, Laterza, 2005, p.109.
  3. Ivi, p.108.
  4. Mario Perniola, op. cit., p. 15.
  5. http://www.youtube.com/user/StudioAzzurro.
  6. La discussione sui media interattivi è figlia del dibattito riguardante i media elettronici.
  7. Bertolt Brecht, Scritti sulla letteratura e sull’arte, Torino, Einaudi, 1973, pp. 44-49.