XIII.

Fortunio fu certo, almeno in apparenza, fortunato con Cosima. Ma lo fu perché era audace e spinto, in fondo, da un misterioso senso di odio verso di lei e verso tutta la classe boriosa e orgogliosa senza motivo alla quale ella apparteneva. Ella era quasi ricca, quasi nobile, e nonostante le gravi pecche dei fratelli, considerata una ragazza di rango superiore. La sua stessa ambigua qualità di scrittrice le attirava, dopo tutto, l’attenzione di un intero paese, e di gente più lontana ancora: e Fortunio era abbastanza intelligente per capire ch’ella giocava una carta: poteva perdere ma poteva anche vincere. Lui sapeva benissimo, meglio di quelli del paese, che un vero artista non manca mai al suo avvenire. E in Cosima egli sentiva l’artista; mentre lui era diseredato in tutto, anche nelle sue velleità di intellettuale.
La passione che egli cominciò a provare sul serio per lei era in parte sincera, in parte avida e interessata. Le lettere che cominciò arditamente a scriverle, facendogliele pervenire incollate nelle copertine dei libri che si scambiavano apertamente, erano belle, poetiche, sensuali; forse le cose migliori che egli scrisse in tutta la sua, d’altronde breve, carriera di scrittore: Cosima se le sorbiva con avidità, e le nascondeva ben bene per il terrore che venissero scoperte da Andrea: se Andrea le avesse scoperte sarebbero successi certamente dei guai. Poiché Fortunio era per lui un essere assolutamente inferiore, socialmente e fisicamente: era peggio di un servo, peggio di un suonatore ambulante, e come tale gli perdonava, anche perché nulla ancora di sospetto gli passava nella mente, le serenate che, con chitarra e relative appassionate canzoni dialettali, il giovane zoppo, con altri suoi amici, si permetteva di eseguire sotto le finestre di casa. Era un uso locale, abbastanza antico sebbene del tutto diverso da quello delle vere serenate popolari composte di cori vocali e di canzoni arcaiche, quello delle serenate diremo borghesi, combinate da studenti e giovanotti della classe non esclusivamente paesana.
Canzoni semi-dotte accompagnate dalla musica della chitarra, del mandolino, anche della fisarmonica, facevano sollevare la testa dai loro guanciali quasi monastici, alle fanciulle sognanti: ma era un po’ difficile identificare a chi la voce appassionata che rompeva il silenzio notturno coi suoi richiami d’amore, era diretta: poiché l’amatore, per lo più ostacolato nelle sue aspirazioni amorose, per crearsi una specie di impunità non si fermava, con la sua compagnia solo sotto le finestre dell’amata, ma sotto molte altre dove c’erano fanciulle: così che il suo sfogo poteva passare per quello di un dilettante di serenate, di uno spirito innamorato del suo universale sogno d’amore: o anche di un artista in esercizio di canto e di notturne melodie.
Cosima non si ingannò un istante quando una notte sentì, dapprima lontana, poi sempre più vicina e quasi tempestosa e tiepida, quasi palpabile, come appunto il levarsi del vento dalle lontananze del mare e poi dalla valle, nelle notti di marzo, il vento che porta dalle terre d’Oriente l’annunzio della primavera, la voce di Fortunio. Bisogna dirlo, era una voce potente, calda, un po’ raffreddata come quella di un vero tenore, – e anche su questa le sorelle di Fortunio contavano, sperando di far di lui un cantante; – ed egli sapeva scegliere, aggiustandole con anelli di sua invenzione, le poesie più adatte a penetrare come in sogno nel letto delle fanciulle, ad avvolgerle con ali d’angelo sempre più calde, sempre più strette, fino a tramutarsi in un abbraccio umano appassionato.
Cosima tenta di reagire: in fondo non è romantica e già, per tante prove crudeli, conosce la vita; ma la monotonia dei giorni senza speranza di notevole mutamento le gravava intorno come una ingiusta condanna, – antica condanna delle donne della sua stirpe, – e lei ardeva tutta di desideri di volo, di più vasti orizzonti, di vita movimentata. Così diede ascolto alla voce lusingatrice, sebbene Fortunio le destasse diffidenza e quasi disprezzo.
Un giorno, in maggio, quando le prime ebbrezze della sua avventura letteraria erano dileguate, per lasciar posto, in lei, ad uno scoraggiamento pesante, per colmo di disdetta, le arriva una lunga critica, manoscritta, della sua povera ma sincera fatica: il romanzo, la novella, persino un timido racconto per bambini pubblicato in una rivistina per ragazzi, tutto e stroncato, e non con debole malizia, ma a vigorosi colpi di accetta: tutto, con logica, con coscienza: tutto ridotto a scheggie, buone, – conclude il critico, – per accendere il fuoco del forno ove la madre di Cosima cuoce il pane. Torni, torni, la piccola grafomane, nel limite dell’orticello paterno, a coltivare i garofani e la madreselva; torni a fare la calza, a crescere, ad aspettare un buon marito, a prepararsi ad un avvenire sano di affetti famigliari e di maternità.
Cosima piange; di rabbia, di umiliazione: piange, ma in fondo si sente tutta scossa, ha coscienza di aver sbagliato strada, decide di ritornare davvero al chiuso esilio del suo vero destino. Strappa il foglio di condanna, e riprende i suoi lavori di ricamo, di cucina, le passeggiate con le sorelle, le gite confortevoli nelle belle campagne rallegrate dalla fastosa primavera.
Ad una di queste gite presero parte anche le sorelle di Fortunio: anzi furono loro che portarono le provviste per fare una merenda sull’erba, accanto alla sorgente dell’acqua che scaturiva da una roccia alle falde del monte. E furono ore di schietta, innocente allegria; e Cosima poté anche, contemplando il tramonto sulle cime opposte della valle, sopra gli oliveti sognanti, mettere da parte i tenebrosi propositi di abbandonare i suoi sogni di poesia; la ferita si chiudeva, ed ella provava come una gioia di convalescenza, quando, a stendere un’ombra sulla luce del suo cuore, – la sola luce ch’ella sentiva di essere vera, limpida e dissetante come la sorgente della roccia, – apparve, sulla strada sovrastante, la figura di Fortunio.
Al solito, pareva che egli fosse sopraggiunto per caso. Dall’alto del paracarri si affacciò e parlamentò con le sorelle, che lo invitavano ad avvicinarsi, a prender parte alla merenda, con un certo diritto, poiché la roba l’avevano portata loro: ma egli rifiutò, severo e triste, conscio, anche lui, del posto che gli spettava: affacciato al parapetto dello stradone in modo che la sua gamba storta non si vedesse, e risaltasse la bella testa con gli occhi e le vivide fresche labbra lucenti al riflesso del tramonto, guardava con tristezza lontano, e appoggiava la guancia alla mano fina, dalle unghie che parevano di alabastro rosa. A Cosima pareva una di quelle figure romantiche che le piacevano nelle vignette di qualche antica edizione di Chateaubriand, possedute da Santus; così, un giovine sventurato, preso da una segreta passione, che si smarrisce nella solitudine di un tramonto campestre e appoggiato al riparo di un precipizio, o seduto sul tronco abbattuto di una quercia, fra tralci d’edera e rupi coperte dal fiore del muschio, medita sulla sua triste sorte. Triste, certo, era la sorte del giovine Fortunio, e il cuore di Cosima non poteva non accoglierne l’eco, fra le voci poetiche che le raccontavano l’eterna poesia del dolore umano: e così, quando la comitiva prese la via del ritorno, lasciando lo sventurato poeta solo appoggiato alla roccia della sorgente, intento a sentirne anche lui il mormorio melanconico, fra le ombre già dorate del crepuscolo, ella si sbandava, a capo chino, mentre le compagne si ricorrevano nello stradone e cantavano e ridevano come figlie di contadini, al ritorno dal lavoro dei campi.
Sorge la luna, fra i denti del monte, sopra i macigni che dànno l’illusione delle rovine di un castello: il suo chiarore lilla si fonde con quello arancione dell’orizzonte; l’odore della vegetazione inumidisce l’aria tiepida; canti lontani rispondono a quelli delle fanciulle che accompagnano e trasportano sull’ala del loro coro la tristezza indistinta di Cosima.
Che cosa vuole, Cosima? Non lo sa bene neppure lei: vorrebbe fermarsi, non tornare nella sua casa soffocante, appoggiarsi anche lei al parapetto dello stradone, sopra la valle piena di mistero, seguire il corso della luna sul cielo sempre più chiaro e luminoso.
Le compagne non badavano a lei: le sorelle, stordite dall’allegria delle amiche, si lasciavano trascinare avanti, e lei rimaneva sola, sperduta, come dimenticata nella strada e nel mondo. Sopraggiungeva qualche carro di contadini, trainato dai buoi sonnolenti, qualche uomo a cavallo, qualche tarda donnicciuola che ritornava dall’aver lavato i panni al torrente: le ombre si allungavano di traverso sulla strada bianca, le voci e i passi risonavano dolci nell’aria molle e profumata. Ed ecco un passo diverso dagli altri, con qualche cosa di ambiguo, come il passo di un essere fantastico, uno gnomo, un gigante che tenta di non far rumore, o un Belfagor fatale, o un arcangelo che con un batter d’ali può trasportarti fra le torri d’argento e gli spalti lunari della montagna.
È Fortunio: sarebbe stato più in carattere con la chitarra a tracolla, come un trovatore sceso appunto dai boschi d’elci che circondavano gli illusorii castelli dell’orizzonte: ad ogni buon fine aveva ancora un libro in mano: un libro che biancheggiava alla luna, con le parole magiche che aprono la porta dei sogni. Versi; versi d’amore.
Raggiunse Cosima e le si mise a fianco, silenzioso. Ella non si stupì: tutto doveva procedere così; e quando egli le cinse lievemente le spalle col braccio che tremava ella non protestò, non cercò di liberarsi. Tutto doveva procedere così: era una cosa ordita dalle sorelle maliziose di Fortunio, ma pareva anche un incantesimo prodotto dall’ora, dal luogo, dalla sorte che protegge gl’innamorati. Anche l’ombra folta che si stendeva al margine dello stradone, in una svolta ove le rocce scendevano fino al paracarri, parve una tenda di velluto, che avvolse i due giovani poeti e permise ai loro freschi volti di formarne uno solo: il volto dell’amore.
Tutto sembrava proteggerli: il modo facile di scambiarsi le lettere, la strada in comune, la vicinanza dei loro orti. E dell’orto di Cosima, di notte, quando si sapeva che la madre e le sorelle riposavano, la prima avvolta anche nel sonno dal suo velo di sofferenza e di preghiere, le seconde nei loro sogni ancora bianchi di innocenza, Fortunio riusciva, nonostante la sua infermità, a scavalcare il muricciuolo, e ritrovare, sinceramente ansante e appassionato, all’ombra di un angolo protettore, la sua piccola amica che sembrava, così sbalordita e silenziosa, il fantasma di sé stessa. Ella si lasciava baciare da lui, ne sentiva il calore della persona, i fremiti e gli ànsiti di eroe incatenato, la violenza impotente con la quale egli avrebbe voluto portarsela via; ma una fredda, quasi malvagia potenza di analisi la sosteneva in quella specie di lotta dei sensi contro sé stessa e contro l’altro; e ne usciva stanca, disgustata, amara di umiliazione e di rimorso. Anche di rimorso: poiché credeva, fra le altre cose, di commettere peccato: ella non avrebbe mai sposato Fortunio.
Finché la vicenda non trapelò, destando una nuova ondata di scandalo fra la gente per bene del luogo. Eh! si capiva; Cosima sola era capace di quelle avventure, con uno storpio, un bastardo, un rinnegato dalla sorte. E un giorno Andrea disse, in pubblica piazza, che avrebbe fracassato col bastone l’altra gamba del “suonatore di chitarra”; e a Cosima somministrò una dose di schiaffi e pugni che oltre le membra le pestarono l’anima come il sale nel mortaio.