XV.

Questa volta la fortuna le arrise compiuta. Ella tentò presso un editore di una certa notorietà, che non solo accettò e pubblicò il romanzo, ma lo fece accompagnare dalla prefazione di uno scrittore illustre: ed ecco d’un tratto la figura di Cosima balzò sull’orizzonte letterario, circonfusa d’un’aureola quasi di mistero. Mistero creato dalla lontananza di lei e della sua terra, dalle vaghe notizie sulla sua vita quasi selvatica, ma sopra tutto dalla forza ingenua e nello stesso tempo vigorosa del suo racconto, dalla sua prosa scorretta e primitiva eppure efficace, e dall’evidenza dei suoi personaggi.
D’un colpo ella diventa celebre: giornali e riviste le domandano novelle: e l’editore manda denari. Non molti, ma tanti quanti a lei bastano per non frodare più la cantina, e comprarsi un bel vestito di setina nera a puntini d’oro e un boa di piume di struzzo nere e bianche che ha del serpente e dell’uccello.
Quando apparve, con le sorelle alle quali aveva regalato per confortarle eleganti sciarpe di velo, alla Messa celebrata dal Vescovo, in una brillante mattina di autunno, una schiera di giovanotti, i più intellettuali e spregiudicati del luogo, che andavano in chiesa solo per sbirciare le donne, si allineò fra una navata e l’altra della bella Cattedrale, e i loro occhi la serrarono in un nutrito fuoco di fila. Anche le donne la guardavano, alle spalle, affascinate, più che altro, dal suo vestito e dal suo boa dai colori di notte stellata, piegata sul suo libro di preghiere. Ella volava: le pareva di essere una rondine; sentiva voglia di piangere; era un rigurgito di gioia, di trionfo, ma anche di dolore profondo; e se sollevava gli occhi umidi e vedeva i finestroni alti sotto la volta della chiesa, azzurri di miraggi quasi marini, pensava allo sfondo della finestra del frantoio e alle povere donne unte di olio nuovo che le raccontavano le loro pene. Allora una lieve vertigine le saliva dalle radici dell’anima, come quando bambina l’immagine della nonna le rimescolava nel subcosciente un mondo atavico avventuroso e fiabesco. La cerimonia e la musica accrescevano l’incanto. Il Vescovo era alto, aristocratico; ricordava i prelati pittoreschi dei grandi romanzi francesi dell’Ottocento; solo la sua voce era un po’ aspra, ma si sperdeva, col fumo dell’incenso, nel rombare nostalgico dell’organo, che suonava il coro del Nabucco: “Va pensiero su l’ali dorate” … E tutto, luce, suoni, colori, accresceva la luminosa illusione di Cosima, che si vedeva trasportata in un mondo fantastico.
Fu proprio da quei tempo che la sua vita prese un ritmo fiabesco. I giornali parlavano di lei. Arrivò persino, fino alla casa di lei, da una città lontana, un alto, grasso, biondo giornalista, la cui presenza mise in subbuglio tutto il vicinato. In Cosima quella visita suscitò il più alto orgoglio e la più cocente umiliazione. Umiliazione di doverlo ricevere in quella stanza terrena quasi povera, dove nella vecchia libreria si vedevano ancora le carte d’affari del padre morto; però, le sorelle avevano steso un’antica tovaglietta di pizzo sul tavolino dove fu servito il caffè: ella aveva indossato il suo vestito di seta stellata, ma non sapeva che dire, mentre l’uomo biondo la scrutava coi piccoli occhi verdognoli che, a guardarli di sfuggita, quasi con spavento, a lei ricordavano quelli dei gatti selvatici in agguato contro gli uccellini di primo volo. Egli però fu gentile, e nel suo giornale scrisse che la scrittrice “pallida, piccola, nervosa, (nervosa? non sapeva che cosa questa parola significasse: tuttavia la lusingò) questa fragile creatura che, senza mai essere uscita dal suo quieto nido, conosce tuttavia, in modo che fa quasi sbalordire, i misteri del cuore umano” eccetera. (Oh, grande uomo biondo che vivi nella metropoli, a contatto col mondo più tumultuoso, tu non saprai mai per tua esperienza quello che Cosima conosce attraverso la propria).
L’intervista fu commentata, riprodotta, colorita. Il libro di Cosima si vendeva; altri articoli lo resero quasi di moda. Ella, al solito, nonostante appunto le sue esperienze e i suoi saggi propositi, ricominciò a fantasticare: perché non avrebbe potuto sposare il biondo gigante?: l’avrebbe portata nel turbine della vita. Gli scrisse per ringraziarlo; egli rispose: la chiamava “piccola grande amica” parve farle la corte: tanto che un giorno Andrea intercettò una lettera, ma ne fu contento. Ecco uno che finalmente andava bene per la sorellina. E lei passeggiava intorno all’orticello, come un’aquiletta catturata, pronta a spiccare il lungo volo appena avesse potuto. L’orticello era tutto in fiore: rose paesane, gigli e garofani vi spandevano un profumo di altare quando si celebra il mese di Maria.
Anche per lei era arrivato il mese della sua gloria. Scrisse finalmente anche quel superbone di Antonino, che continuava a studiare per poter vivere in città: faceva i complimenti e gli auguri a Cosima, e le domandava anche notizie di Santus. Ella non rispose, ma conservò il biglietto di lui fra i ricordi che la seguirono nelle strade della vita. Adesso pensava all’altro, al grande biondo dagli occhi tigreschi: e dopo una lunga ambigua corrispondenza, egli un giorno le mandò, una lettera strana, dove, fra le altre cose spiacevoli, le diceva che ella gli era sembrata quasi una nana.
Pertanto le esperienze di Cosima continuavano.
Vi furono giorni di nuovo fulgore. Arrivarono contemporaneamente due lettere: e una veniva di molto lontano, dal castello di un principe tedesco, col sigillo d’argento e su impressa appunto una corona di principe. Forse era il suo segretario, che aveva letto il romanzo di Cosima e le scriveva ancora turbato, dicendole chiaramente, in ultimo “fi amo, signorina, fi amo”. Lo credette il segretario, poiché il nome era comune, e Cosima era corazzata di inguaribile diffidenza: ma perché non poteva esser lui, il principe? Ella rispose, ringraziando; ma poi, immaginandoselo anche lui biondo e alto e con gli occhi felini come il crudele giornalista, e per di più principe o granduca, non mandò la lettera.
All’altra invece rispose. Ed era anche questa di un principe di diversa specie; era di un giovine di ventidue anni, che doveva essere molto ricco perché le scriveva che stava per partire, con mezzi suoi, per una spedizione nell’America ancora inesplorata; e le chiedeva il permesso di mettere il suo nome alla regione che egli avrebbe attraversata per il primo: e le dava l’indirizzo della estrema città dell’America del Sud ove si sarebbe fermato per formare la carovana.
Ah, sì, Cosima adesso risponde, con lettera raccomandata, e non si proibisce di abbandonarsi con la fantasia, come un angelo viaggiante, al seguito dell’avventuroso suo cavaliere. Le pare di vivere al tempo delle Crociate: egli va, col nome di lei nel cuore, a combattere contro i pagani, i pellirosse, i serpenti, le foreste vergini, le erbe che uccidono.
Furono i giorni più belli della vita di Cosima, più belli ancora di quelli passati sul Monte, a respirare l’aria che respirava Antonino. Era il sogno vivo, adesso, l’avventura epica, alla quale ella prendeva parte cavalcando sulle nuvole rosse dell’orizzonte, sui glauchi mari delle sere di luna.
Tutto le sembrava grande e luminoso. Nella casa di faccia alla sua, essendo morto il nero canonico medioevale e sposata a un vecchio cugino la nipote, era venuto ad abitare un ricco attempato, ma ancora sanguigno e forte negoziante di scorze d’albero e di sugheri. Era anche un cacciatore famoso e ogni tanto radunava gli amici per una partita di caccia grossa. Scalpitavano i cavalli, nella strada stupita da tanta animazione quasi guerresca, e i cavalieri, armati di tutto punto, alcuni smilzi e dritti in sella, altri, già anziani, barbuti, grassi e un po’ cascanti, ma col viso duro e deciso come di vetusti razziatori abituati a far preda, aspettavano che il gruppo fosse al completo, mentre i cani s’incontravano e facevano, fra le zampe dei cavalli, una schermaglia rintronante di guaiti e latrati; e appena usciva dal portone spalancato il cacciatore rosso dalle coscie possenti e dagli occhi verdi brillanti di gioia beffarda e feroce, sul suo balzano quasi ancora indomito, la comitiva si slanciava al galoppo inondando la strada come un’orda diretta alla conquista di un luogo nemico: i passi dei cavalli risonavano a lungo, anche quando la strada ritornava deserta, e pareva uno scalpitio di treno che s’allontanava: Cosima, alla finestra, mentre ritirava, dopo averlo sgrullato, il piccolo soppedaneo del suo lettuccio, s’incontrava a seguire nell’aria l’eco della cavalcata: e pensava al suo esploratore, alla caccia dei selvaggi; e si sentiva anche lei in corpo una smania di amazzone, un ardore di eroina da avventure audaci; ma poi le toccava rifare i letti e pulire le camere, e, per risalire a galla da questo stagno di realtà, aspettare almeno il passaggio del portalettere.
Era un uomo rude, il portalettere, anche lui rosso di pelo e di pelle; e quando passava, con le sue grosse scarpe, battendo alle porte dei cittadini e gridando forte: “posta, posta”, tutti gli echi intorno si risvegliavano, persino i cani abbaiavano, l’aria prendeva un colore di inquietudine. Per Cosima rappresentava un personaggio quasi mitologico, apportatore di bene e di male, e quando ne sentiva la voce di lontano tremava come se il destino fosse in cammino verso di lei. Era stato lui, in fatti, a portarle le lettere di gloria e di amore, di umiliazione e di speranza, e il vaglia, e i giornali col suo nome scritto come su lapidi che le parevano eterne. Adesso ella aspettava notizie da un mondo misterioso, lontano, quasi di là dai confini del mondo reale: lettere dell’esploratore, che a quel suo mondo nuovo voleva mettere il nome di lei. Ma il portalettere passava con la borsa, che faceva un rumorino speciale, sulla cinghia di cuoio, come quello dei carnieri dei cacciatori, e picchiava con violenza il battente della porta del negoziante di scorze, traendo dalla borsa un pacco di lettere e di giornali. E a lei nulla: e la voce aspra dell’uomo della sorte che si andava affievolendo le pareva si burlasse crudelmente di lei.