2 Le licenze

Simone Aliprandi

1. Principi di base

Innanzitutto per evitare di cadere nei più comuni equivoci che emergono in fatto di licenze Creative Commons, fissiamo alcuni punti cardine validi per tutte le licenze di libera distribuzione.

a. Definizione di licenza d’uso

La licenza d’uso è uno strumento giuridico con il quale il detentore dei diritti sull’opera regolamenta l’utilizzo e la distribuzione della stessa. Si tratta quindi di uno strumento di diritto privato che, fondandosi sui principi del diritto d’autore, si occupa di chiarire ai fruitori dell’opera cosa possono fare e cosa non possono fare con essa. Il termine “licenza” deriva dal latino “licere” e indica genericamente un atto autorizzativo, poiché appunto la sua funzione principale (ma non l’unica, come vedremo) è quella di autorizzare alcuni utilizzi dell’opera.

b. Licenza e tutela dell’opera

Dal chiarimento del concetto di licenza già si coglie quanto sia infondato uno dei principali equivoci relativi alle licenze di libera distribuzione: cioè quello secondo cui la licenza sia una forma di tutela dell’opera. Infatti non è la licenza a tutelare l’opera; sono i principi di diritto d’autore a tutelare l’opera, mentre la licenza di libera distribuzione si muove proprio nel senso inverso. Ed effettivamente una delle principali funzioni di una licenza di libera distribuzione è proprio quella di autorizzare utilizzi dell’opera che non sarebbero normalmente consentiti nel modello di copyright tradizionale (cioè il modello “tutti i diritti riservati”).

Sottolineare questo aspetto è davvero fondamentale, poichè già molte volte si sono registrati casi di autori che si sono affidati alle licenze CC in virtù di questo equivoco. Se un autore si avvicina alle licenze CC e in generale alle licenze di libera distribuzione perchè è in cerca di una forma di tutela, ha sbagliato completamente strada.

c. Licenza e acquisizione dei diritti

Per lo stesso principio, l’applicazione di una licenza d’uso nulla ha a che fare con l’acquisizione dei diritti su di essa e tanto meno con l’accertamento e la tutela della paternità. L’applicazione di una licenza d’uso attiene a una fase successiva rispetto all’acquisizione dei diritti e all’acquisizione di una prova della paternità dell’opera. Di conseguenza, l’autore prima acquisisce i diritti sull’opera e poi decide di regolamentarli attraverso l’applicazione di una licenza.[1]

d. Contratto o atto unilaterale?

Fra i giuristi che si sono occupati dell’argomento non vi è consenso unanime sulla qualificazione giuridica delle licenze di libera distribuzione.

Alcuni infatti considerano questo tipo di negozio giuridico come veri e propri contratti sinallagmatici (cioè con prestazioni corrispettive da parte di entrambi i contraenti), coi quali il detentore dei diritti stipula idealmente un accordo con i fruitori delle opere. Secondo altri invece questo tipo di inquadramento rischia di essere fuorviante e risulta più opportuno considerare le licenze di libera distribuzione degli atti unilaterali con i quali i detentori di diritti concedono alcuni permessi condizionati per l’utilizzo della propria opera.

e. Licenziante e licenziatario

Partiamo dal presupposto che l’unico soggetto titolato ad applicare legittimamente una licenza d’uso all’opera è colui che detiene l’intero fascio di diritti d’autore previsti dalla legge. In via originaria nel nostro ordinamento questo soggetto è sempre l’autore dell’opera, ma questi può per contratto cedere tutti i diritti d’autore a un altro soggetto (ad esempio, un editore, un’agenzia, una casa di produzione…), dunque in questo caso perderebbe anche la possibilità di scelta sul tipo di licenza da applicare all’opera. Onde evitare equivoci, e dato che alla nostra analisi non interessa specificamente che tipo di soggetto compia questa scelta, parleremo sempre di “licenziante”, ad indicare genericamente il detentore dei diritti sull’opera che sceglie di applicarvi una licenza.

Inoltre, come già accennato, al di là del fatto che non vi sia consenso su che tipo di negozio giuridico sia una licenza di libera distribuzione, è cosa acquisita che si tratti di un documento che esplica i suoi effetti nei confronti di una serie di soggetti indeterminati: essi possono essere semplici utenti finali dell’opera (lettori, ascoltatori, spettatori…) ma in certi casi (pensiamo alle licenze che consentono la modifica e la ripubblicazione dell’opera) possono essere anche soggetti attivi nel meccanismo virtuoso di libera ridistribuzione tipico del mondo opencontent.

Dunque anche in questo caso utilizzeremo un termine onnicomprensivo riferito a tutti i potenziali destinatari della licenza: cioè “licenziatario”.

Infine, per mero scrupolo di chiarezza terminologica, parleremo di “opera licenziata” ad indicare l’opera a cui una specifica licenza è stata applicata; oppure di “diritti licenziati” ad indicare gli specifici diritti che il licenziante ha inteso concedere ai licenziatari attraverso l’applicazione della licenza all’opera.

f. Scrivere una licenza

Trattandosi, come si è detto, di un atto di diritto privato (pur con una non chiara configurazione giuridica) non esistono particolari procedure e formalità da seguire. Ogni autore (o altro detentore di diritti d’autore) è quindi libero di scriversi la propria licenza d’uso e applicarla all’opera. Ma come ogni atto di diritto privato, affinché ci si possa avvantaggiare di tutte le tutele previste dall’ordinamento giuridico, è necessario attenersi alle norme di diritto civile. D’altro canto, una licenza d’uso di opera dell’ingegno è un documento di natura giuridica che richiede una certa preparazione e specializzazione nel settore.

In altre parole, una licenza scritta male, con approssimazione, senza il linguaggio opportuno, priva di clausole importanti per il suo funzionamento, rischia di non svolgere correttamente la sua funzione o addirittura di trasformarsi in un boomerang nei confronti dello stesso licenziante. Si tenga presente però che ciò emergerebbe solo in via successiva ed eventuale, cioè solo qualora nascesse una controversia legale (di tipo civile) sull’utilizzo dell’opera; e una licenza mal concepita sarebbe facilmente contestabile e opinabile di fronte al giudice.

g. Il senso delle licenze standardizzate

Se escludiamo tassativamente il “fai da te”, da ciò derivano due possibili vie: o il licenziante può avvalersi di qualcuno di competente in campo giuridico per la redazione della licenza (lavoro che, se richiesto ad un professionista specializzato, può costare anche qualche migliaia di euro), oppure può affidarsi a licenze standardizzate messe a disposizione liberamente da progetti e organizzazioni non-profit (come ad esempio Creative Commons, Free Software Foundation, Open Source Initiative) che hanno affidato a giuristi preparati e ad esperti del settore la redazione delle licenze e il monitoraggio del loro enforcement.

Sia ben chiaro un aspetto fondamentale: queste organizzazioni non diventano in alcun modo una parte in causa, cioè non sono responsabili di ogni singola applicazione delle licenze; e nemmeno si occupano direttamente della consulenza e dell’assistenza legale connesse all’applicazione delle loro licenze. Questi enti fungono solamente da redattori e promotori delle licenze; è possibile interagire con i responsabili di questi progetti inviando commenti, segnalando casi di studio, sollevando dibattiti nei forum pubblici, ma non è pensabile che essi siano tenuti ad intervenire nei singoli casi concreti. Ogni detentore dei diritti che sceglie di applicare una licenza standardizzata sulla propria opera lo fa sotto la sua piena responsabilità; è importante quindi un certo grado di consapevolezza e di informazione.

2. I tre livelli delle licenze[2]

In questo paragrafo vedremo l’aspetto che più di tutti dà una marcia in più alle licenze CC rispetto ad altre licenze per contenuti liberi.

La scaltra trovata degli ideatori del progetto è stata quella di “confezionare” ogni licenza su tre livelli, differenti nella forma ma coincidenti nella sostanza. In altre parole possiamo dire che “ogni licenza CC è una e trina”; un unico strumento giuridico che però si manifesta in tre forme differenti a seconda dei casi. Vediamo in che senso.

 tre-livelli

a. Il Legal code

La licenza vera e propria, cioè quella rilevante a livello giuridico, è il cosiddetto Legal code (lett. “Codice legale”): un classico documento per addetti ai lavori (avvocati, giudici, consulenti), in cui si disciplina la distribuzione dell’opera e l’applicazione della licenza.

Ci si è però resi conto che l’utente medio delle licenze non è portato a leggere e comprendere un documento di quel tipo: a volte se ne disinteressa volutamente, altre volte invece non dispone degli strumenti culturali adeguati, dato che non tutti hanno alle spalle una cultura giuridica specialistica. Il rischio dunque è che le licenze vengano usate con approssimazione e scarsa consapevolezza, oppure che si diffondano facilmente informazioni false sul loro utilizzo, oppure ancora che prevalga una certa diffidenza e che quindi autori ed editori decidano di non avvicinarsi a questi strumenti.

b. Il Commons deed

Si è pensato perciò di realizzare delle versioni sintetiche di tali licenze, scritte in un linguaggio “accessibile a tutti” e strutturate in una veste grafica chiara e schematica: questa seconda “veste” delle licenze è chiamata Commons deed (lett. “atto per persone comuni”).

È importante però ricordare che «il Commons Deed non è una licenza. È semplicemente un utile riferimento per capire il Codice Legale (ovvero, la licenza completa), di cui rappresenta un riassunto, leggibile da chiunque, di alcuni dei suoi concetti chiave. Lo si consideri come un’interfaccia amichevole verso il Codice Legale sottostante. Questo Deed in sé non ha valore legale e il suo testo non compare nella licenza vera e propria.»[3]

Il Commons deed riassume dunque in poche righe il senso della licenza e con un link rimanda al Legal code, nonché alle varie traduzioni in altre lingue disponibili. È il caso di precisare che se vogliamo utilizzare il Commons deed come “disclaimer” in un’opera non multimediale o senza un diretto collegamento con Internet (ad esempio, un libro cartaceo), è buona norma aggiungere il preciso indirizzo web in cui poter trovare il “Legal code” onde evitare equivoci e incertezze sulla licenza scelta.

c. Il Digital code

Infine, il terzo livello della licenza è quella chiamata Digital code, ovvero una serie di metadati che rendono la licenza facilmente rintracciabile dai motori di ricerca. Per chi non ha molte competenze informatiche, in parole povere i metadati sono delle informazioni aggiuntive che noi possiamo allegare a qualsiasi file digitale; tali informazioni nascoste sono visualizzabili solo grazie ad alcuni procedimenti informatici.

Gli sviluppatori di Creative Commons hanno quindi ideato un sistema di embedding con cui è possibile incorporare le licenze all’interno del file in modo indissolubile e oltre tutto riconoscibile ai principali motori di ricerca, che hanno sviluppato degli appositi strumenti di rilevazione.

Avremo tuttavia modo di approfondire debitamente questi aspetti tecnologici nel prossimo capitolo.

Una precisazione in conclusione di questo paragrafo: delle tre forme di licenza di cui abbiamo fin qui parlato, solo il Legal Code è stato sottoposto ad un vero e proprio lavoro di “porting”, dato che è quello il livello in cui hanno rilevanza gli aspetti tecnico-giuridici. Il Commons deed, come abbiamo detto, ha solo uno scopo informativo/divulgativo, mentre il Digital Code nella sua sintassi e struttura è identico in ogni parte del mondo, dato che è scritto in linguaggio informatico.

3. Caratteristiche e funzionamento delle licenze

Come si è già avuto modo di anticipare, le licenze Creative Commons si ispirano ad un modello “alcuni diritti riservati”, ciò significa che il detentore dei diritti sull’opera applicando una licenza CC sceglie di riservarsi solo alcuni dei diritti che la legge gli garantisce.

a. Caratteristiche comuni a tutte le licenze Creative Commons[4]

Tutte le licenze redatte e proposte dal progetto Creative Commons denotano alcuni aspetti comuni che andremo ora a presentare.

Ogni licenza richiede che il licenziatario:

– ottenga il permesso del licenziante per fare una qualsiasi delle cose che lo stesso licenziante ha scelto di limitare (per esempio, usi commerciali, o creazione di un’opera derivata);

– mantenga l’indicazione di diritto d’autore intatta su tutte le copie del tuo lavoro, in modo tale che sia sempre chiaramente individuabile chi è il detentore dei diritti e qual è il tipo di licenza da lui scelto;

– faccia un link alla tua licenza dalle copie dell’opera, e nel caso di copie non digitali, indichi chiaramente come poter risalire al testo della licenza;

– non alteri i termini della licenza: infatti modificare i termini della licenza senza averne titolo comporta una violazione di copyright;

– non usi mezzi tecnologici per impedire ad altri licenziatari di esercitare uno qualsiasi degli usi consentiti dalla legge: le licenze CC infatti non consentono l’applicazione dei sistemi di digital rights management (DRM).

Ogni licenza permette che i licenziatari, a patto che rispettino le tue condizioni:

– facciano copie dell’opera con qualsiasi mezzo e su qualsiasi tipo di supporto;

– distribuiscano l’opera attraverso i più disparati circuiti, con l’esclusione in determinati casi dei circuiti prevalentemente commerciali (come avremo modo di precisare analizzando le clausole base delle licenze);

– comunichino al pubblico, rappresentino, eseguano, recitino o espongano l’opera in pubblico, ivi inclusa la trasmissione audio digitale dell’opera;

– cambino il formato dell’opera.

b. Struttura e clausole base delle licenze Creative Commons

Le licenze Creative Commons si strutturano idealmente in due parti: una prima parte in cui si indicano quali sono le libertà che il licenziante vuole concedere sulla sua opera; e una seconda parte che chiarisce a quali condizioni è possibile utilizzare l’opera.

Per quanto riguarda la prima parte, dedicata alle libertà che il licenziante vuole concedere ai licenziatari, possiamo dire che tutte le licenze consentono la copia e la distribuzione dell’opera, utilizzando

nel Commons Deed le seguenti parole e il seguente visual:

share«Tu sei libero di riprodurre, distribuire, comunicare al pubblico, esporre in pubblico, rappresentare, eseguire e recitare quest’opera.»

D’altro canto, solo alcune licenze (quindi non tutte) consentono anche la modifica dell’opera, precisandolo semplicemente con le seguenti parole e il seguente visual:

remix«Tu sei libero di modificare quest’opera.»

Per quanto riguarda invece la seconda parte, dedicata alle condizioni che il licenziante pone per l’utilizzo dell’opera, possiamo dire che le licenze Creative Commons si articolano in quattro clausole base, che il licenziante può scegliere e combinare a seconda delle sue esigenze.

by.largeAttribuzione (nella versione inglese, Attribution) – «Devi attribuire la paternità dell’opera nei modi indicati dall’autore o da chi ti ha dato l’opera in licenza e in modo tale da non suggerire che essi avallino te o il modo in cui tu usi l’opera.»

Questa clausola è presente di default in tutte le licenze. Essa indica che, ogni volta che utilizziamo l’opera, dobbiamo segnalare in modo chiaro chi è l’autore.

nc.largeNon commerciale (nella versione inglese, Non commercial) – «Non puoi utilizzare quest’opera per scopi commerciali.»

Significa che, se distribuiamo copie dell’opera, non possiamo farlo in una maniera tale che sia prevalentemente intesa o diretta al perseguimento di un vantaggio commerciale o di un compenso monetario privato. Per farne tali usi, è necessario chiedere uno specifico permesso all’autore.[5]

nd.largeNon opere derivate (nella versione inglese, No derivative works) – «Non puoi alterare, trasformare o sviluppare quest’opera.»

Quindi se vogliamo modificare, correggere, tradurre, remixare l’opera, dobbiamo chiedere uno specifico permesso all’autore originario.

saCondividi allo stesso modo (nella versione inglese, Share Alike) – «Se alteri, trasformi o sviluppi quest’opera, puoi distribuire l’opera risultante solo per mezzo di una licenza identica a questa.»

Questa clausola (un po’ come succede nell’ambito del software libero) garantisce che le libertà concesse dall’autore si mantengano anche su opere derivate da essa (e su quelle derivate dalle derivate, con un effetto a cascata quindi propagativo).

c. Il set di licenze

Dalla combinazione di queste quattro clausole base nascono le sei licenze Creative Commons vere e proprie, che vengono denominate attraverso il richiamo alle clausole stesse.

Esse sono (in un ordine dalla più permissiva alla più restrittiva):

tutto

 

Si noteranno due aspetti essenziali in questo elenco: la clausola “Attribuzione” è presente di default in tutte le licenze; e le clausole “Non opere derivate” e “Condividi allo stesso modo” sono fra di loro incompatibili per una ragione logica (infatti la prima nega a priori la possibilità di modifica, mentre la seconda implica necessariamente la possibilità di modifica).

d. Le versioni delle licenze

Come accade per gran parte degli enti che rilasciano licenze standardizzate (quindi anche in ambito informatico), i testi delle licenze sono sottoposti a saltuari aggiornamenti, dettati dalla eventuale necessità di correggere, precisare, completare o eliminare alcune clausole delle licenze. Ciò può dipendere da vari fattori, come ad esempio l’evoluzione del mercato e l’innovazione tecnologica, che pongono nuove tematiche che è opportuno prendere in considerazione

all’interno delle licenze.

Alla data di produzione di questo libro (settembre 2013), le licenze Creative Commons in versione international/unported sono giunte alla versione 4.0. Le traduzioni e le localizzazioni italiane delle licenze, richiedendo un certo lavoro di traduzione e discussione pubblica, sono sempre state rilasciate con un certo ritardo rispetto alle versioni originali in inglese.[6]

4. La localizzazione delle licenze effettuata fino alla versione 3

A titolo di importante premessa, bisogna sottolineare che quanto scritto in questo paragrafo è valido per le versioni 1, 2 e 3 delle licenze; ma non è più valido per la versione 4 (rilasciata ad agosto 2013). E’ comunque importante tenerne conto, dato che le versioni precedenti delle licenze sono sempre comunque utilizzabili, nonostante il loro utilizzo non sia espressamente incoraggiato da Creative Commons.

Il progetto Creative Commons – come abbiamo parzialmente anticipato – si articola in un ente associativo centrale, che è titolare dei diritti di marchio, del dominio Internet “www.creativecommons.org” e dei domini a esso collegati, nonché del copyright sul materiale ufficiale pubblicato; e in una rete di Affiliate Institutions che fungono da referenti per i vari progetti nazionali sparsi per il resto del mondo. Tale impostazione “gerarchica”, che agli occhi di qualcuno può apparire poco calzante con la natura spontanea/comunitaria della cultura opencontent, consente di verificare il corretto porting delle licenze e di realizzare iniziative d’informazione e sensibilizzazione in modo efficace e coordinato.

Tutti i progetti nazionali Creative Commons si articolano in due sezioni: una rivolta agli aspetti giuridici relativi alla traduzione, all’adattamento e alla esplicazione delle licenze; una rivolta agli aspetti tecnico-informatici relativi a implementare soluzioni tecnologiche che sfruttino le risorse rilasciate sotto licenze CC. Si può intravedere anche una sezione (trasversale alle altre due) mirata alla sensibilizzazione e alla promozione della filosofia di CC, che si preoccupa quindi di organizzare eventi, gestire liste di discussione e forum on line, realizzare materiale divulgativo.

Nel concetto di “porting delle licenze” si racchiude una traduzione delle licenze nelle varie lingue, ma anche un contestuale adattamento delle clausole ai diversi ordinamenti giuridici. Altre licenze di libera distribuzione, pur essendo diffuse anche in lingue diverse da quella originale, contengono una clausola grazie alla quale, nel caso di dubbi d’interpretazione sulla licenza, l’interprete chiamato in causa (giudice, avvocato…) deve rifarsi al testo in lingua originale, che rimane l’unico con carattere di ufficialità. Altre invece non si preoccupano tanto dell’aspetto dell’interpretazione quanto piuttosto dell’individuazione della legge applicabile, indicando espressamente che la licenza XY è disciplinata dalla legge del tale Stato.

Creative Commons ha pensato di ovviare a entrambi i problemi (interpretazione e legge applicabile) cercando appunto di effettuare una vera e propria opera di “localizzazione” delle licenze, delegata alle varie Affiliate Institutions e monitorata dall’ente centrale statunitense. In tal modo, le licenze CC francesi, italiane, giapponesi etc. non sono delle mere traduzioni delle licenze in lingua inglese, ma dei documenti sostanzialmente indipendenti, ispirati e adattati al diritto d’autore dei vari Stati.

In Italia tale compito è stato svolto da un gruppo di giuristi specializzati in diritto industriale e internazionale, capitanati dal prof. Marco Ricolfi. Come emerge dagli appunti di lavoro resi pubblici sul sito di Creative Commons Italia[7], i giuristi italiani hanno optato per un porting tendenzialmente poco invasivo: nel senso che si è cercato il più possibile di non stravolgere il testo delle licenze originali, compiendo interventi di adattamento solo ove fosse strettamente necessario per preservare il senso e gli effetti delle varie clausole.

Una nota importante. Nonostante la possibilità di utilizzare le licenze in versione localizzata, Creative Commons ha comunque sempre messo a disposizione una versione “unported” delle stesse, cioè una versione non localizzata e quindi neutra rispetto alla giurisdizione. Nelle linee guida ufficiali, questa versione era suggerita per tutti quei casi in cui fosse impossibile o anche molto difficile individuare una giurisdizione prevalente.

5. L’inversione di marcia della versione 4.0

Con l’annuncio della versione 4.0 delle licenze, avvenuto nell’agosto 2013[8] dopo un lungo lavoro di discussione pubblica sulle bozze provvisorie[9], Creative Commons ha fatto un passo indietro sul tema del porting delle licenze.

Come già molti osservatori avevano fatto notare, la scelta di localizzare le licenze andava in controtendenza rispetto all’esperienza delle licenze di software libero e open source, nella quale gli enti promotori dei vari progetti hanno sempre preferito al contrario rilasciare un’unica sola versione della loro licenza (tendenzialmente in inglese) indicandola come ufficiale, ed eventualmente diffondere traduzioni con un valore meramente informativo. In altre parole, il documento valido ai fini legali e su cui il giudice di una potenziale controversia deve giudicare resta sempre e comunque quello dell’unica versione ufficiale; le eventuali traduzioni hanno solo lo scopo di rendere più comprensibile agli utenti il senso delle varie clausole.

Proprio su questo aspetto i responsabili del dipartimento giuridico di Creative Commons hanno deciso di fare marcia indietro e ammettere che la prassi già sperimentata e testata nel mondo del software è quella più opportuna e consente di evitare problemi di interpretazione e inconvenienti di compatibilità tra licenze.

In fondo – come abbiamo già ampiamente spiegato – le licenze di diritto d’autore sono strumenti di natura negoziale e la loro interpretazione sottostà ai principi del diritto privato; quindi difficilmente una loro localizzazione potrà prevedere tutte le ipotesi possibili e fugare a priori qualsiasi inconveniente interpretativo. A questo punto, meglio lasciare all’interprete del caso concreto l’onere di ricostruire la volontà delle parti (licenziante e licenziatario) e la fattispecie concreta in cui è stata applicata la licenza. Ciò tra l’altro porta anche un consistente risparmio di energie e risorse da parte di Creative Commons, che potranno essere investite in altre attività di promozione e divulgazione.

Le novità presenti nella versione 4.0 ovviamente non sono limitate a questa scelta di approccio ma si estendono al testo e alla struttura delle licenze stesse. Ad esempio, la nuova versione si occupa in modo chiaro ed esplicito di licenziare il diritto sui generis (quello strano diritto che in Europa tutela le banche dati non creative e che non è presente nel sistema USA). Trattandosi di un set di licenze con una vocazione internazionale, ecco che tale aspetto (che risulta essere probabilmente il punto di maggior differenza tra il sistema statunitense e quello europeo) non poteva essere lasciato in secondo piano.

Che fine faranno allora le vecchie versioni delle licenze? Creative Commons si è impegnata a mantenerle disponibili e a lasciarle utilizzare a tutti coloro che invece preferiscano rimanere fedeli all’approccio precedente e non optare per una transizione alla nuova versione 4 (internazionale e unported).

6. Altri particolari strumenti Creative Commons

Alla fine del 2007 Creative Commons ha lanciato due nuovi interessanti progetti, che hanno l’obbiettivo di arricchire l’offerta di servizi al di là delle semplici licenze. Si tratta infatti di due strumenti che svolgono due funzioni ben distinte e con cui i licenziatari possono comunicare informazioni aggiuntive oltre a quelle già normalmente previste dal procedimento di applicazione delle licenze.

a. CC Plus

Come si legge sul sito di Creative Commons, CC Plus è «un protocollo che permette ad un licenziante, in maniera semplice e immediata, di indicare quali ulteriori permessi sono eventualmente associati ad un’opera licenziata sotto Creative Commons e in che modo usufruire di tali permessi.»[10] In sostanza, CC Plus è un sistema integrato di metadati che aggiunge ulteriori permessi rispetto a quelli già concessi dalla licenza, specificandone le condizioni.

Per capire meglio la dinamica, ragioniamo su uno dei casi più classici, cioè quello di un’etichetta di musica indipendente che pubblica attraverso il suo sito web brani musicali con una licenza “non commercial”: i brani così licenziati possono dunque essere tranquillamente scaricati e utilizzati a scopi non commerciali. Tuttavia per coloro che vogliono effettuare anche usi di tipo commerciale, l’etichetta decide di prevedere particolari condizioni (ad esempio il pagamento di una somma di denaro o l’applicazione di un messaggio pubblicitario); di conseguenza incarica il suo ufficio legale di redigere il testo di una licenza suppletiva con la quale vengono precisate le clausole a cui i licenziatari devono sottostare per poter fare usi commerciali dei brani. Il testo di questa licenza suppletiva può essere pubblicato in un’apposita pagina del sito dell’etichetta indipendente, ma affinché esso sia collegato (anche a livello di metadati) con il testo della licenza Creative Commons ecco che entra in gioco il meccanismo di CC Plus.

Quindi, sotto il classico disclaimer in cui si segnala l’applicazione della licenza Creative Commons (argomento di cui parleremo nel dettaglio più avanti) comparirà una frase di questo tipo: “permissions beyond the scope of this license may be available at” (cioè, “autorizzazioni ulteriori rispetto allo scopo di questa licenza sono disponibili all’indirizzo…”) e qui si aggiungerà l’indirizzo web della pagina in cui vi è il testo della licenza aggiuntiva.[11]

Lo stesso tipo di ragionamento vale per licenze che contengano la clausola “non opere derivate” e alle quali il licenziante voglia aggiungere alcuni condizioni particolari per consentire la modifica dell’opera.

Maggiori dettagli sul progetto (che in verità è ancora in una fase iniziale) sono disponibili alla pagina web http://wiki.creativecommons.org/CCPlus.

 cc-plus

b. Strumenti per il pubblico dominio: CC0 e il Public Domain Mark

CC0 (cioè Creative Commons Zero) è un altro affascinante progetto che alla data di uscita del presente libro viene annunciato come ancora in fase “beta” e quindi non definitiva. Esso si pone espressamente come un’evoluzione della preesistente Creative Commons Public Domain dedication[12] con la quale gli autori potevano volontariamente rilasciare un’opera in un regime di pubblico dominio (quindi di “nessun diritto riservato”), evitando di dover lasciar trascorrere i canonici 70 anni dalla morte dell’ultimo autore.

Si tratta in verità di una prassi abbastanza lontana dalla cultura giuridica dell’Europa continentale (cioè degli ordinamenti di diritto d’autore) e più vicina a quella degli ordinamenti anglo-americani di copyright, grazie alla quale – in sostanza – l’autore certifica pubblicamente di rinunciare totalmente ed irrevocabilmente ad esercitare i suoi diritti, in modo che l’opera diventi fin da subito patrimonio dell’umanità. Ciò può essere realizzato facendo in modo che l’autore “firmi” (anche virtualmente) questa dichiarazione d’intenti e che di essa rimanga pubblica prova.

Si noti che tecnicamente CC0 non è una licenza ma più che altro una liberatoria, un atto di rinuncia (waiver) e dunque non instaura un rapporto giuridico licenziante-licenziatario come quello che abbiamo descritto per le licenze.

Di seguito, riportiamo il bottone virtuale collegato a CC0.

 cc-zero

Altro strumento per il pubblico dominio offerto da Creative Commons è il Public Domain Mark, applicabile alle opere che sono effettivamente già cadute in pubblico dominio. Ingenuamente ci si potrebbe chiedere “che bisogno c’è di uno strumento del genere se un’opera è già di pubblico dominio?”. Il problema è che all’utente comune non è affatto facile comprendere se un’opera sia o meno effettivamente in pubblico dominio. Sono tanti gli aspetti da valutare: la legislazione di riferimento, la presenza di altri coautori morti meno di 70 anni fa, la presenza di altri diritti sull’opera diversi dai diritti d’autore in senso puro (diritti connessi, diritto sui generis), casi eccezionali di estensione del termine di durata… Ecco che la presenza di un “public domain mark” svolge una fondamentale funzione informativa per il pubblico degli utilizzatori.

 publicdomain

7. Strumenti ritirati e progetti abbandonati

Alcuni strumenti e alcune licenze sono stati ritirati perché utilizzati da un numero ridotto di utenti o perchè, con il loro uso, sono emerse alcune problematiche inizialmente non previste.

Si pensi ad esempio a tutte le licenze non fornite della clausola Attribuzione, proposte da Creative Commons agli albori del progetto e presto ritirate. Oppure ad altri strumenti particolari come la Developing Nations License (pensata per adattarsi meglio alle esigenze dei paesi in via di sviluppo) e le licenze Sampling (pensate per lo specifico ambito della musica campionata).

Ad ogni modo, Creative Commons mantiene attivi gli URL e intatti i testi di questi strumenti, così da garantire che il materiale già pubblicato in quel modo resti comunque ad essi collegato; nel frattempo (sebbene sia tecnicamente possibile usarli anche per pubblicare nuovo materiale) ne sconsiglia espressamente l’uso.


[1]Per mettere a fuoco meglio le problematiche relative all’acquisizione dei diritti d’autore e alla certificazione della paternità dell’opera, si consiglia la lettura del paragrafo “L’origine dei diritti” tratto dal libro Capire il copyright e riportato in appendice.

[2]Paragrafo parzialmente tratto dal libro Aliprandi, Teoria e pratica del copyleft (NDA Press, 2006), disponibile in versione digitale su http://www.copyleft-italia.it/libri/teoria-pratica-copyleft.

[3]Questo il testo della nota che compare in ogni Commons deed cliccando sul link (in basso a destra) “Limitazione di responsabilità”.

[4]Paragrafetto liberamente tratto dalla pagina web www.creativecommons.it/Licenze/Spiegazione.

[5]È questa la clausola che crea maggiori problemi di interpretazione, come si può riscontrare nei forum online dedicati all’argomento.

[6]Attualmente, tuttavia, con il passaggio alla versione 4.0 (che – come spiegato nel paragrafo successivo – prevede solo il rilascio di semplici traduzioni non localizzate e a mero scopo illustrativo) questo scarto di tempo dovrebbe ridursi.

[7]Si veda a tal proposito il materiale disponibile alla pagina web www.creativecommons.it/AspettiGiuridici, grazie al quale è possibile cogliere nei particolari lo spirito del porting effettuato da Creative Commons Italia.

[8]A Buenos Aires, in occasione del CC Global Summit 2013.

[9]L’annuncio ufficiale della transizione alla versione 4 delle licenze è avvenuto a settembre del 2011 e in quei quasi due anni sono state rilasciati tre draft su cui la community ha potuto esprimersi.

[10]Cfr. il comunicato pubblicato all’indirizzo www.creativecommons.it/node/608.

[11]In questa stessa direzione si muove il progetto “Autorizzazione diffusion” promosso da Free Hardware Foundation: maggiori dettagli sul sito http://fhf.it/progetti/autorizzazione-diffusion.

[12]A scopo informativo, si segnala che il testo della Public Domain Dedication è disponibile a questo indirizzo web: http://creativecommons.org/licenses/publicdomain/. Tale strumento risulta però ufficialmente ritirato e Creative Commons invita a non utilizzarlo.