1 Un’introduzione al mondo Creative Commons

Simone Aliprandi

1. Premesse

Alla fine degli anni Novanta il mondo della produzione artistico-culturale (sia essa editoriale, musicale, cinematografica, multimediale) si è trovato a dover fare i conti con il fenomeno socialmente ed economicamente più innovativo dai tempi della rivoluzione industriale: cioè l’avvento della tecnologia digitale di massa e dell’interconnessione telematica su scala globale.

Se fino a quel momento il modello di copyright, nato appunto in Inghilterra nel 1700, in seno alla rivoluzione industriale, e affermatosi nei due secoli successivi in gran parte dei paesi industrializzati, era passato indenne attraverso tutte le precedenti ondate di innovazione tecnologica, l’impatto di quest’ultimo fenomeno è stato più destabilizzante. Si iniziò infatti a non considerare più l’opera creativa (che poi è il vero oggetto della tutela del diritto d’autore) come un tutt’uno con il supporto fisico su cui essa viene resa fruibile. Un romanzo non doveva più necessariamente essere stampato sulle pagine di un libro per essere letto, poiché c’era la possibilità di veicolarlo in vari formati e attraverso vari canali grazie alle tecnologie digitali e telematiche; e parimenti un brano musicale non aveva più bisogno di essere inciso su vinile o su CD, né un film necessitava della relativa cassetta VHS o di un disco DVD.

Nello stesso periodo, parallelamente alla diffusione di massa delle tecnologie digitali e della comunicazione telematica, si è avuta l’affermazione di un altro fenomeno culturale e sociale fra i più interessanti degli ultimi decenni: cioè quello del software libero e opensource (anche individuato con l’acronimo FLOSS[1]) e quello strettamente connesso dell’avvento del modello copyleft. Fu proprio in ambito informatico, e in realtà già dalla metà degli anni Ottanta, che il modello di copyright tradizionale (basato sul concetto di “tutti i diritti riservati”) era stato effettivamente messo in discussione, fino ad arrivare a trovare un modello alternativo di gestione dei diritti d’autore, attuato attraverso l’applicazione di innovative licenze d’uso[2].

Tale nuovo modello era dunque già arrivato a un certo livello di maturità in ambito informatico e aveva già visto alcune interessanti sperimentazioni in altri ambiti della produzione creativa: infatti fra la fine degli anni novanta e l’inizio del nuovo millennio erano stati attivati alcuni progetti pilota che proponevano licenze appositamente pensate per le opere testuali, musicali e artistiche in generale[3].

È in questa nuova onda di sperimentazione che si innesta lo spunto del progetto Creative Commons, il quale si è fin da subito posto come qualcosa di più strutturato e più lungimirante rispetto ai progetti fino a quel momento comparsi.

2. Che cos’è Creative Commons

Quando diciamo genericamente “Creative Commons” ci riferiamo contemporaneamente ad un progetto di carattere divulgativo e all’ente non-profit che vi sta alle spalle.

a. Il progetto Creative Commons

Il progetto, nato dall’iniziativa di alcuni ricercatori (giuristi e informatici) di Cambridge,  Massachusett, è attualmente qualcosa di molto articolato, localizzato ormai in una settantina di Paesi del mondo e sostenuto da illustri intellettuali di varie provenienze. A esso inoltre fanno capo altri sotto-progetti tematici di straordinario valore e lungimiranza culturale.

Obbiettivo primario del progetto è dunque promuovere un dibattito a livello globale sui nuovi paradigmi di gestione del diritto d’autore e diffondere strumenti giuridici e tecnologici (come le licenze e tutti i servizi a esse connesse) che permettano l’affermazione di un modello “alcuni diritti riservati” nella distribuzione di prodotti culturali.

b. La Creative Commons Corporation

I promotori e sostenitori del progetto pensarono fin da subito di organizzarsi in ente non-profit a cui ricondurre le attività divulgative legate al progetto e così da poter raccogliere fondi a ciò destinati.

Dal punto di vista giuridico la Creative Commons Corporation è una 501(c)(3) tax-exempt charitable corporation, una particolare forma di associazione a carattere non lucrativo prevista dal diritto statunitense e assimilabile in linea di massima alla nostra ONLUS[4]. La corporation ha avuto il suo quartier generale nel centro di San Francisco fino al 2011, quando si è trasferita poco più a sud a Mountain View.

Al di là della Creative Commons Corporation statunitense non esistono attualmente altri enti associativi ad essa collegati. I progetti di localizzazione a livello internazionale delle licenze e degli altri strumenti rientranti nel progetto Creative Commons vengono monitorati solitamente da realtà informali denominate “gruppi di lavoro”; questi fanno capo direttamente ai coordinatori di Creative Commons Corporation e si appoggiano a entità preesistenti come istituti universitari e centri di ricerca che prendono la denominazione di Affiliate Insitutions.

c. Lo spirito del progetto

Alla pagina http://creativecommons.org/about/ si trova un breve testo di presentazione del progetto Creative Commons e dei suoi scopi, di cui si riporta una traduzione italiana.

«La missione di Creative Commons è sviluppare, supportare e mantenere un’infrastruttura giuridica e tecnica che massimizzi la creatività digitale, la condivisione e l’innovazione. Il nostro obbiettivo altro non è che realizzare il pieno potenziale di Internet – l’accesso universale alla ricerca e all’istruzione, la piena partecipazione alla cultura – per aprire la strada ad una nuova era di sviluppo, crescita e produttività.

Perché Creative Commons? L’idea di un accesso universale alla ricerca, all’istruzione e in generale alla cultura è reso possibile da Internet, ma i nostri sistemi giuridici e sociali non sempre permettono di realizzare quest’idea. Il copyright stato creato molto prima della nascita di Internet, e – così com’è – può rendere difficile svolgere legalmente le azioni che in rete diamo ormai per scontate: copiare, incollare, modificare un contenuto, e postarlo sul web. L’impostazione di default del diritto d’autore richiede che per fare tutte queste azioni si ottenga un permesso esplicito e concesso in anticipo, al di là che tu sia un artista, un insegnante, uno scienziato, un bibliotecario, un dirigente, o solo un semplice utente privato. Per realizzare la visione di un accesso universale, c’era bisogno che qualcuno fornisse una infrastruttura libera, pubblica, e standardizzata in grado di creare un equilibrio tra la realtà di Internet e la realtà delle leggi sul copyright. Quel qualcuno è Creative Commons.»

Possiamo quindi dire che l’idea di Creative Commons è quella di utilizzare il diritto d’autore esistente per liberare le opere creative e diffonderle in un regime “alcuni diritti riservati”, in risposta al classico “tutti i diritti riservati”; in altre parole, Creative Commons utilizza diritti privati per creare beni pubblici, “beni pubblici creativi” appunto.

Questa mission è ben rappresentata in un’immagine in cui Creative Commons sta simbolicamente ad indicare una graduale sfumatura intermedia fra il modello “tutti i diritti riservati” tipico del copyright tradizionale e il modello “nessun diritto riservato” tipico del pubblico dominio integrale o di una sorta di no-copyright.

schemone

d. Una curiosità: l’origine del nome “Creative Commons”

L’economista Garret Hardin nel 1968 pubblicò un interessante articolo intitolato “The tragedy of the commons” (cioè “La tragedia dei beni comuni”), nel quale esponeva la sua arguta interpretazione di quello che è uno dei dilemmi economici-sociali più dibattuti.

In estrema sintesi, secondo Hardin i beni comuni, cioè quelli che sono proprietà di nessuno, ma di cui tutti possono beneficiare, sono destinati sempre a un triste destino. Egli utilizza la metafora dei pastori che fanno pascolare il bestiame in un pascolo naturale: ogni allevatore è portato a far pascolare sempre più animali, così che ciascuno da un lato incrementa il suo giovamento e dall’altro contribuisce a consumare oltremodo le risorse disponibili; l’epilogo della tragedia è la distruzione del pascolo, che si ripercuote in un grave e irreparabile danno per tutti i pastori.

Così si esprime l’articolo nel fulcro della sua riflessione: «La rovina è la destinazione verso la quale tutti gli uomini si affrettano, ciascuno perseguendo il proprio massimo interesse in una società che crede nella libertà di accesso ai beni comuni. Questa libertà porta la rovina a tutti quanti.»[5]

I teorici di Creative Commons, e primo fra tutti Lawrence Lessig[6], sostengono invece che, nel caso di beni come i prodotti della creatività e dell’ingegno umano, questo problema non sussiste poiché ogni creazione aumenta il suo valore quante più sono le persone che ne possono beneficiare; e tra l’altro non sono soggette a deperimento e nemmeno a una naturale scarsità, poiché la creatività umana non ha limiti. Dunque si può legittimamente parlare di una “comedy of the commons”, dove però i beni comuni in questione sono beni comuni creativi, appunto dei “creative commons”.

e. Ad ogni cosa il suo nome corretto[7]

Negli articoli in cui si parla di Creative Commons che ormai popolano la rete e anche le testate cartacee, si fa spesso confusione e ci si riferisce al fenomeno “Creative Commons” in modo improprio.

Le dizioni possibili sono a mio avviso solo tre: “Creative Commons”, “le Creative Commons”, “i creative commons”.

Quando diciamo “Creative Commons” senza articolo e con le lettere maiuscole (o al massimo con l’articolo “la”) ci riferiamo alla corporation che ha sede in California. A volte, quando ci si limita al contesto italiano, ci si può riferire a “Creative Commons Italia”, tenendo però presente sempre che non esiste un ente chiamato “Creative Commons Italia”, ma solo un gruppo di lavoro di volontari che fa capo al Centro Nexa del Politecnico di Torino (secondo la terminologia ufficiale, il Centro Nexa è una “affiliate institution” di Creative Commons).

Quando invece parliamo de “le Creative Commons” (con l’articolo femminile plurale) stiamo parlando delle licenze promosse da questo ente. A mio avviso gran parte degli articoli dovrebbe usare questa forma perchè, salvo casi in cui ci si riferisca a qualche attività/iniziativa promossa dall’ente, sono le licenze le vere protagoniste del dibattito.

Quando infine diciamo “i creative commons” stiamo parlando genericamente di “beni comuni di tipo creativo” e in questo caso sarebbe più appropriato usare la iniziali minuscole (e non “i Creative Commons”). Questa forma è a mio avviso da usare solo in casi in cui ci si accinga a riflessioni teoriche sul concetto di “commons”.[8]

3. Che cosa non è Creative Commons

Sono molti gli equivoci che si sono creati sul ruolo e la qualificazione di Creative Commons. È dunque il caso di sfatare fin da subito i più diffusi e pericolosi.

a. Non è un ente pubblico con compiti istituzionali

Creative Commons Corporation, in quanto associazione di diritto privato, non ha alcun ruolo istituzionale in nessuno degli Stati in cui è attivo il relativo progetto. Ciò non toglie che alcuni esponenti della comunità di collaboratori (e in certi casi anche alcuni membri del board) abbiano avuto occasione di interfacciarsi con le istituzioni pubbliche di alcuni Stati allo scopo di svolgere opera di sensibilizzazione in materia di nuove problematiche per il diritto d’autore. Ma questo sempre e solo in un’ottica di dibattito culturale e scientifico e non con una connotazione di tipo politico.

b. Non è un ente di gestione di diritti d’autore alternativo alla SIAE

Uno degli equivoci più diffusi e anche più fuorvianti consiste nel confondere Creative Commons con una versione alternativa di ente di gestione dei diritti d’autore (le cosiddette collecting societies) presenti in ogni Stato e che hanno tutt’altra funzione.

In Italia, dove la SIAE gode di una situazione di fatto monopolistica, molti artisti, nel momento in cui si è iniziato a far conoscere il fenomeno Creative Commons, hanno pensato di essere di fronte finalmente a un altro ente di gestione (magari più equo e democratico, meno burocratizzato e standardizzato) a cui appoggiarsi. Niente di più falso. Enti come la SIAE e Creative Commons si muovono su due piani diversi; e tra l’altro, con l’attuale legislazione, in Italia non sarebbe nemmeno possibile la creazione di un altro ente che svolga le sue stesse funzioni (a causa della discussa esclusiva attribuita alla SIAE dall’art. 180 della Legge 633/41 sul diritto d’autore).

In più – è questo il punto più problematico – con l’attuale regolamento della SIAE in molti casi l’utilizzo di licenze di libera distribuzione risulta incompatibile con il mandato attribuito alla SIAE per la gestione dei diritti sulle proprie opere. Ciò non toglie che un giorno entrambi i modelli di gestione possano convivere senza particolari problemi; ma questo richiederà un’opera di rivisitazione dei meccanismi di base della SIAE e in generale delle altre collecting societies.[9]

c. Non è un servizio di consulenza legale

Né Creative Commons in quanto ente, né le community a esso connesse sono (e nemmeno potrebbero essere) un servizio di consulenza e assistenza legale. D’altro canto Creative Commons non ha alcun ruolo di intermediazione e, di conseguenza, non può nemmeno avere alcuna responsabilità sugli effetti derivanti dall’utilizzo della licenza. A scanso di equivoci, ciò è precisato in un chiaro preambolo, posto all’inizio di ogni licenza[10] e il cui testo è il seguente:

«Creative Commons non è uno studio legale e non fornisce servizi di consulenza legale. La distribuzione di questo modello di contratto di licenza non instaura un rapporto avvocato-cliente. Creative Commons fornisce informazioni da considerarsi “così come sono”. Creative Commons non presta alcuna garanzia per le informazioni fornite e si esime da ogni responsabilità per i danni derivanti dall’uso delle stesse.»

4. Creative Commons Italia[11]

Nella primavera del 2003, in seguito al crescente interesse per le licenze Creative Commons, l’Istituto di Elettronica e di Ingegneria dell’Informazione e delle Telecomunicazioni (IEIIT organo del CNR – Consiglio Nazionale delle Ricerche) contatta Creative Commons per offrirsi di trattare in modo più ampio e dettagliato il tema delle licenze CC in Italia. Scopo del progetto era quello di tradurre e adattare al modello legislativo italiano le licenze CC create in un sistema giuridico differente, quello americano, soggetto alla Common Law. Come punto di partenza di questo progetto, l’avvocato milanese Antonio Amelia ha proposto le prime traduzioni delle licenze contestualizzandole alle leggi italiane.

Il 18 novembre 2003 il fondatore di Creative Commons Lawrence Lessig, già professore alla Stanford University ed uno dei massimi esperti mondiali in materia di diritto d’autore, annuncia ufficialmente l’inizio del lavoro di traduzione e adattamento delle licenze CC da parte del team italiano. Viene nominato a capo del progetto il professore Marco Ricolfi, docente presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche (DSG) dell’Università degli Studi di Torino. Al gruppo di lavoro giuridico,si affianca l’attività di Juan Carlos De Martin dell’IEIIT-CNR, che fornisce consulenza e sviluppo in merito agli aspetti tecnologici, oltre che a quelli di traduzione. Inizia inoltre ad avviarsi un’interazione con la comunità, prevalentemente tramite la mailing list e un wiki.

Nel 2004 vengono pubblicate le prime versioni delle licenze Creative Commons tradotte dapprima nella versione 1.0 e in seguito nella versione 2.0, entrambe disponibili su un wiki per poter essere discusse pubblicamente dalla comunità. Il 16 dicembre 2004 a Torino vengono presentate le Licenze Creative Commons italiane in occasione di un convegno che vede ospite d’onore Lawrence Lessig; in tale occasione sono stati anche resi pubblici quattro documenti riguardanti alcuni dei temi approfonditi nel corso dell’attività.

A questo punto, l’attività di Creative Commons Italia è totalmente avviata, e nel 2005 inizia una nuova fase del progetto: il prof. Marco Ricolfi viene sostituito alla guida di Creative Commons Italia da Juan Carlos De Martin e passa al ruolo di coordinatore scientifico del gruppo giuridico. Sempre a Torino, nel novembre 2005, si è tenuto CCIT2005, il primo incontro nazionale di CC Italia, su temi riguardanti il multimedia, l’editoria e la musica. E da quel momento in poi, ogni anno è stato organizzato un evento celebrativo e divulgativo di risonanza nazionale; in occasione dei vari appuntamenti sono state presentate le evoluzioni legate al contesto italiano e ovviamente le varie versioni delle licenze.

La versione 3.0 delle licenze italiane viene presentata al pubblico nel giugno del 2011 e, nel corso dello stesso anno in occasione di CCIT2011, i giuristi del gruppo italiano hanno descritto i futuri sviluppi e i primi passi compiuti verso l’elaborazione della versione 4.0 delle licenze Creative Commons.

Nel dicembre 2012 De Martin passa il testimone a Federico Morando, anch’egli ricercatore presso il Centro Nexa su Internet e società del Politecnico di Torino.


[1]Acronimo ormai abbastanza diffuso che sta per Free Libre and Open Source Software.

[2]Per una più approfondita ricostruzione storica dell’affermazione del modello copyleft si legga Aliprandi, Copyleft & opencontent. L’altra faccia del copyright, PrimaOra, 2005, disponibile al sito http://www.copyleft-italia.it/libri/copyleft-opencontent.

[3]Ci si riferisce a licenze come la Open publication license (diffusa nel 1998 ad opere dell’Open Content Project), la Free documentation license (diffusa nel 2000 ad opera del progetto GNU), le licenze per opere musicali Free music public license (rilasciata solo in una versione provvisoria) e Open music license (nelle tre versioni Green, Yellow, Red).

[4]Maggiori informazioni alla pagine web http://creativecommons.org/about/.

[5]Breve estratto della versione italiana disponibile alla pagina web www.oilcrash.com/italia/tragedy.htm.

[6]Fra le sue opere (tutte interessanti e pertinenti) si legga principalmente Lessig, Cultura libera. Un equilibrio fra anarchia e controllo, contro l’estremismo della proprietà intellettuale, disponibile online alla pagina www.copyleft-italia.it/pubblicazioni.

[7]Questo paragrafo riprende il blogpost “Nota pedante per chi scrive sul tema Creative Commons” pubblicato il 18 marzo 2011: http://aliprandi.blogspot.it/2011/03/nota-pedante-per-chi-scrive-sul-tema.html.

[8]A tal proposito si legga http://en.wikipedia.org/wiki/Commons.

[9]Si veda a tal proposito l’esempio delle collecting societies olandesi che nel 2007 hanno avviato un interessante progetto pilota in questa direzione. Maggiori dettagli sull’articolo “Il progetto pilota di Buma/Stemra e Creative Commons Olanda” a firma di Lorenzo De Tomasi e disponibile alla pagina web http://isotype.org/activities/liberius/bumastemra_creativecommons_nl_pilot/.

[10]Ci si riferisce al “Legal code” delle licenze 3.0 in versione italiana.