II.

Anche Annesa era diventata più triste e taciturna del solito.
Dopo cena Gantine invitò l’ospite povero ad uscire con lui.
«Ora condurremo il cavallo da ziu Castigu, dopo faremo un giro per il paese. Lascia il portone socchiuso», disse ad Annesa.
«No, davvero!», ella rispose vivacemente. «Forse tu starai fuori tutta la notte. Io chiuderò il portone, e tu puoi prenderti benissimo la chiave.»
«Va bene, addio», disse Gantine, cingendole la vita con un braccio. «Tornerò presto, non dubitare.»
«Fa quello che credi», ella rispose, respingendolo sgarbatamente.
Oltre il cavallo di Paulu i due giovani portarono via anche la giumenta del venditore di briglie, perché sotto la tettoia non c’era posto che per un cavallo. E condussero le due bestie nella stalla di un pastore che era stato per molti anni servi dei Decherchi: poi andarono in una bettola e finirono di ubriacarsi.
Anche Paulu uscì col suo amico; donna Rachele e la bimba andarono a letto, i due nonni chiacchierarono un altro po’, Annesa finì di rimettere in ordine la stanza e la cucina, e preparò il suo lettuccio.
Ella dormiva sul canapè, nella stanza da pranzo, per esser pronta alle chiamate del vecchio asmatico; quando Gantine era in paese, donna Rachele, per evitare ai due fidanzati l’occasione d’un pericoloso colloquio notturno pregava Paulu o ziu Cosimu di sostituire Annesa, e questa dormiva in una delle camere interne; ma quella notte l’ospite povero doveva dormire in cucina assieme con Gantine, e il pericolo era evitato.
La donna preparò le due stuoje per il servo e l’ospite, chiuse il portone, chiuse la porticina che dava sull’orto, e portò via la chiave; in ultimo chiuse col catenaccio l’uscio della camera. Se Gantine tornava non poteva penetrare nella casa di là del cortile e della cucina.
I due nonni si ritirarono, ziu Zua si assopì. Allora Annesa spense il lume, accese la lampadina da notte, ma non si coricò. Non aveva sonno, anzi pareva insolitamente eccitata, e i suoi occhi, ora che nessuno la osservava, brillavano d’una cupa fiamma, avidi e cerchiati.
Uscì nell’andito, spalancò la porta che dava sull’orto e sedette sullo scalino di pietra.
La notte era calda e tranquilla, rischiarata appena dal velo biancastro della via lattea e dalle stelle vivissime. Davanti ad Annesa l’orto, nero e tacito, odorava di pomidoro e di erbe aromatiche: e il profumo del rosmarino e della ruta ricordava la montagna, le distese selvagge, le valli primordiali, coperte di macchie e di arbusti, che circondavano il paese. In fondo all’orto cominciava il bosco, dal quale emergeva la montagna, col suo profilo enorme di dorso umano disteso sull’orizzonte stellato: i grandi alberi neri erano così immobili e gravi che parevano rocce.
Ma la pace, il silenzio, l’oscurità della notte, l’immobilità delle cose, pesavano come un mistero sul cuore di Annesa. Ecco, a momenti le pareva di soffocare, di respirare penosamente come il vecchio asmatico.
Anche lei aveva capito: Paulu tornava da Nuoro senza i denari che da tre mesi cercava disperatamente per tutti i paesi del circondario. La rovina era imminente.
«La casa e l’orto, la tanca, il cavallo, i mobili, tutto sarà messo all’asta…», gemeva fra sé la donna, col busto piegato fin quasi sulle ginocchia. «Ci cacceranno via come cani affamati, e la famiglia Decherchi diventerà la più misera del paese. Bisognerà andarsene via… come i mendicanti che vanno di paese in paese… di festa in festa… Ah!»
Sospirò profondamente: ricordava la sua origine.
«Era meglio che mi avessero lasciato proseguire la mia via… Ah, non avrei sofferto così, non avrei veduto quello che ho veduto, quello che vedrò. Che cosa avverrà? Che accadrà di noi? Donna Rachele ne morrà di dolore. E lui… lui… la sua fine… egli lo ha già detto, la sua fine… No, no: meglio…»
Si sollevò, rabbrividì.
Paulu aveva minacciato di suicidarsi, e questo pensiero, questa ossessione, e l’idea che il vecchio asmatico teneva sotto il cuscino , un fascio di cartelle di rendita e, per avarizia, per rancore contro il giovane vedovo, si ostinava a non sborsare un soldo per salvare la famiglia dalla completa rovina, davano ad Annesa una febbre d’angoscia e di odio.
«Vecchio scorpione», riprese, minacciando tra sé il vecchio asmatico, «io ti farò morire di rabbia; ti farò morire di fame e di sete. Guai a te se ciò che prevedo s’avvera… guai… guai! Tu ci lasci agonizzare, ma io…»
Non finì di formulare il suo pensiero: qualcuno apriva la porta di strada.
Ella balzò in piedi, si volse, attese ansiosa. Paulu entrò, la vide, chiuse la porta, poi s’avanzò in punta di piedi e guardò dall’uscio nella camera appena illuminata dalla lampadina notturna. Il vecchio, sempre sollevato e appoggiato ai cuscini, teneva gli occhi chiusi, il viso reclinato, e anche nel sonno respirava affannosamente.
Sicuro che ziu Zua dormiva, Paulu s’avvicinò ad Annesa e con un braccio le cinse le spalle, con un impeto di desiderio. Ella tremò tutta: con le mani abbandonate lungo i fianchi, gli occhi chiusi, come svenuta, si lasciò trascinare in fondo all’orto, verso il bosco.
Ma quando furono laggiù, sotto l’albero nero ed immobile la cui ombra conosceva il loro amore, ella si scosse, sollevò le braccia e si attaccò all’uomo con una stretta nervosa.
«Credevo che non tornassi», gli mormorò sul viso, «ti ho veduto così cupo, così triste… Invece sei venuto… Sei venuto… Sei qui! Mi pare di sognare. Dimmi.»
«Mi son liberato dell’ospite: l’ho lasciato in casa di prete Virdis, dove andrò a riprenderlo. Gantine ha la chiave?»
«Sì; ho chiuso tutto», disse Annesa, con voce velata. «Dimmi, dimmi.»
«Niente ancora! Ma non pensiamo a questo.»
E la baciò. Le sue labbra scottavano, ma c’era nel suo bacio un ardore amaro, la disperazione dell’uomo che cerca sulle labbra della donna l’oblio delle sue cure e delle sue tristezze. Annesa era intelligente e capiva i sentimenti di Paulu: si lasciò baciare, senza insistere nelle sue domande, ma cominciò a piangere.
Un profumo come di pere mature si fondeva con l’odore umido dell’orto: in lontananza, nella profondità nera del bosco, una fiammella rossa brillava ogni tanto e pareva un occhio che si aprisse per spiare gli amanti. E una voce lontana, giovanile e sonora ma alquanto avvinazzata, forse la voce di Gantine, cantava una battorina[1] amorosa:

Buona notte, donosa,
Comente ti la passas, riccu mare?…[2]

Ma Annesa non sentiva, non vedeva nulla: era con Paulu e piangeva d’angoscia e di piacere.
«Annesa», egli disse quasi indispettito, «finiscila. Lo sai che non mi piace veder la gente triste.»
«E tu sei forse allegro, tu?»
«Non sono allegro, può darsi, ma non sono disperato. Dopo tutto, se i nostri beni saranno venduti come i beni d’un impiccato, la vergogna sarà più sua che nostra. Tutti sanno che egli potrebbe salvarci. Vecchio scorpione, maledetto avaro! Quando lo vedo sento il sangue montarmi alla testa. Se fossi un altro uomo lo strangolerei.»
S’animò, s’agitò, strinse le mani, come per soffocare qualcuno. Annesa trasalì, s’asciugò le lagrime e disse con voce lamentosa:
«Morisse una buona volta, almeno! Ma non muore, non muore. Ha sette anime come i gatti».
«Sono stato a Nuoro», raccontò poi il giovane. «Ho cercato denaro in ogni buco. Mi avevano indicato uno strozzino, un vecchione nero e gonfio come un otre. Mi sono umiliato, ho pregato, mi sono avvilito, io, sì, mi sono avvilito sino a pregare come un santo questo vecchio immondo, questo usuraio turpe. Niente, egli mi ha chiesto la firma di Zua Decherchi. Poi andai da un proprietario nuorese, che mi guardò sorridendo e mi disse: “ricordo quando tu eri nel seminario di Nuoro: eri un ragazzo che prometteva molto”. E mi mandò via senza i denari! Poi… Ma perché ricordare queste cose? Ho subìto tutte le umiliazioni, inutilmente; io, io, Paulu Decherchi, io… E, ho dovuto chinare il capo come un mendicante.»
Annesa chinò il capo, anche lei umiliata e avvilita.
«Non hanno più fiducia in te», disse timidamente. «Ziu Zua ti ha anche screditato, spargendo la voce che tu sei stato la causa della rovina della tua famiglia. Ma se andasse don Simone… forse… troverebbe i denari…»
Paulu non la lasciò proseguire. Le strinse la mano con violenza e disse a voce alta:
«Anna, ti perdono perché non sai quello che dici! Finché vivrò io, nessun altro della mia famiglia dovrà abbassarsi…».
Ella tacque ancora; cercò l’altra mano di Paulu, se la portò al viso, la baciò.
«Perché», mormorò, quasi parlando a quella mano ora inerte e fredda, «perché non cerchi ancora una volta di convincere ziu Zua?»
«È inutile», egli riprese con voce accorata. «Egli non farebbe che insultarmi ancora. Lo sai bene ciò che egli dice continuamente. Lo sai bene, Annesa. Egli dice, che vogliamo rovinarlo, che vogliamo assassinarlo.»
«Ah», ella sospirò, «tante volte ho avuto la tentazione di strappargli le cartelle di sotto al cuscino. Bisognerà fare così.»
«Egli è capace di farci arrestare tutti, Anna! Eppoi io non sono un ladro. Piuttosto mi uccido!»
Ella si appoggiò nuovamente a lui spaventata e dolente.
«Ecco che torni a parlare così! Paulu, Paulu, non vedi come mi fai paura? Non dire così, non parlare come parlano i pazzi. Ecco come sei, tu. Lasciami parlare, ho diritto anch’io, Paulu, ricordati: tu hai dato tanti dispiaceri ai tuoi nonni ed alla tua santa madre, ed ora vuoi farli morire di vergogna e di spasimo. Non dirla più, sai, quella cosa terribile; non parlarne più.»
«Ebbene, taci. Non parliamone più.»
«Ascoltami bene», ella proseguì, sempre più agitata. «Devo dirti una cosa. Ricordati, Paulu; ricordati quando i tuoi parenti volevano farti sposare Caderina Majule. Era ricca, era di buona famiglia: e tu non l’hai voluta perché non era bella e più vecchia di te. Ora son passati molti anni; tu non sei più un ragazzo capriccioso. E Caderina Majule non ha preso marito e ti vuole ancora. Sposala, Paulu: tutto si accomoderà. Sposala, Paulu, sposala. Se io fossi in te la sposerei.»
Ella parlava come in delirio, soffiandogli sul viso il suo alito ansante: ed egli, a sua volta, teneva le mani abbandonate sui fianchi, il capo chino, gli occhi bassi. Gli pareva di venir meno, di soffocare, di non dover mai più uscire dall’ombra nera e pesante che lo circondava.
«Rispondi», ella proseguì, scuotendolo colle sue piccole braccia che parevano d’acciaio, «Dimmi di sì. Ci hai pensato, vero? Non aver paura di me, Paulu. Anch’io sposerò Gantine, se tu vorrai; e ce ne andremo lontani, io e lui, e con te non ci vedremo mai più. Tanto, vedi, lo so; io sono nata per seguire una via di sventura. La sorte mi odia, e mi ha gettata nel mondo per ischerno, come una maschera ubriaca getta uno straccio nella via. Chi sono io? Uno straccio, una cosa che non serve a nulla. Non prenderti pensiero di me, Paulu.»
Paulu l’ascoltava e taceva. Ella gli destava compassione e dispetto. E d’un tratto la respinse e mormorò parole crudeli.
«Non ho mai creduto che io fossi da vendere, Annesa! Ma forse è tempo di pensarci, adesso; poiché non c’è altro rimedio. Chi sa? può darsi che segua il tuo consiglio.»
Annesa tacque, spaventata. Sebbene Paulu la respingesse, si teneva aggrappata a lui, e solo quando egli ebbe pronunziate le ultime parole, aprì le braccia, e cadde a terra come una pianta rampicante priva di sostegno.
Egli la credette svenuta e si chinò su lei.
«Che fai, Anna?»
Ella gemette.
«Lo vedi?», egli disse, con rimprovero e sarcasmo, sollevandola e accarezzandola in viso come una bambina. «Tu stessa lo vedi, come sei sciocca a dirmi certe cose. Tu mi umilii sempre, e se non fossi tu, a parlarmi così, non so cosa farei.»
«Taci, taci», ella riprese singhiozzando, «io lo faccio per il tuo bene. Io sono la tua serva, non dovrei far altro che tacere e ascoltarti in ginocchio. Tu hai ragione, Paulu: sono sciocca, sono sciocca… sono pazza. Certe volte ho idee strane, come quando si ha la febbre: vorrei andare per il mondo, scalza, mendicante, in cerca di fortuna per te… per voi… Non sgridarmi, Paulu mio, cuore mio caro, non sgridarmi; tu l’hai già detto una volta, che io sono come l’edera; come l’edera che si attacca al muro e non se ne distacca più, finché non si secca.»
«O finché il muro non cade», mormorò l’uomo, col suo accento doloroso e beffardo. «Basta, non parliamone più. Caderina Majule si sposi qualche vecchio mercante di porci, se non ha potuto trovar altri. Io mi tengo la mia piccola Anna e basta. E Ora vado a cercare Ballore Spanu. È ricco, lo sai: forse mi presterà lui i denari per impedire l’asta dei nostri beni. Voglio tentare. Dammi un altro bacio e sta allegra.»
Ella gli porse le labbra tremanti, bagnate di lacrime, e ancora per un attimo entrambi dimenticarono tutti gli affanni, le miserie, gli errori che li separavano.
Poi egli uscì di nuovo; e di nuovo ella sedette sul limitare della porta.
Non aveva sonno, e l’idea di doversi chiudere nella camera dove ogni tanto si sentiva il gemito del vecchio asmatico, le dava quasi un senso di terrore. Ma alla sua inquietudine, al suo affanno, si mescolava adesso una vaga ebbrezza: ella sentiva ancòra il sapore delle labbra di Paulu, e davanti a sé non vedeva che la figura di lui, triste, beffarda e voluttuosa. Questa figura, d’altronde, le stava sempre davanti, la precedeva in tutti i suoi passi come la sua ombra.
Da anni ed anni ella viveva in compagnia di questo fantasma che solo la presenza reale di Paulu faceva dileguare. Ella non era una donna ignorante e incosciente: aveva studiato fino alla quarta elementare, e dopo aveva letto molti libri; tutti i libri che Paulu possedeva. Ed egli era stato il suo migliore e più suggestivo maestro. Le aveva insegnato tutto ciò che egli sapeva o credeva di sapere. Le aveva additato le costellazioni, e spiegato l’origine dell’uomo, e il mistero del tuono e del fulmine; l’aveva eccitata col farle conoscere romanzi d’amore, e infine l’aveva convinta che Dio non esiste.
Ella conservava due o tre romanzi letti nella sua prima gioventù: li teneva fra le sue cose più care, giallognoli e scuciti come libri sacri letti e riletti da molte generazioni. E sapeva quasi a memoria quelle storie d’amore e d’angoscia, come leggende familiari.
Allora, nei tempi lontani della sua adolescenza, la famiglia era ricca e potente. Servi e serve, mendicanti, bambini poveri, donnicciuole, ospiti dei paesi vicini, cavalli, cani, cinghialetti e mufloni addomesticati animavano la casa. Un pescatore di trote veniva tutti i giorni a portare la sua pesca.
Regali andavano, regali venivano: qualche ospite s’indugiava in casa Decherchi quattro o cinque giorni, e la tavola era sempre imbandita. E mentre il cortile era sempre pieno di mendicanti, in cucina si nascondeva qualche povero vergognoso che mendicava in segreto, e al quale donna Rachele era lieta di fare la carità.
Annesa, allora, era servita e riverita dalle persone di servizio come una signorina: più che figlia d’anima era considerata come figlia vera di donna Rachele, ed ella teneva le chiavi e apriva anche il cassetto ove don Simone riponeva i denari, allora abbondanti.
E quante volte, dopo, si era pentita di non aver messo da parte qualche somma, con la quale aiutare adesso i suoi benefattori caduti in miseria.
Ella aveva partecipato a tutte le vicende della famiglia, in quella casa dove il destino l’aveva gettata come il vento di marzo getta il seme sulla roccia accanto all’albero cadente. Ed era cresciuta così, come l’edera, allacciandosi al vecchio tronco, lasciandosi travolgere dalla rovina che lo schiantava.

Seduta sul limitare della porta, ombra nell’ombra, ella si abbandonava ai ricordi: ricordi vaghi e tristi, con uno sfondo incerto e melanconico come quel cielo notturno che finiva davanti a lei sopra la montagna addormentata: ma alcuni di essi brillavano e vibravano su questo sfondo, simili alle stelle filanti che di tanto in tanto pareva si staccassero dal cielo, stanche di tanta altezza serena, per scendere sulla terra ove si ama e si muore.
Sì, una volta Paulu ritornava da Nuoro e Anna non lo riconobbe, tanto egli s’era fatto alto e bello. Durante quelle vacanze, un giorno, mentre infuriava un temporale, egli le spiegò, meglio che non l’avesse fatto la maestra di terza elementare, perché l’aria rimbomba dopo che il fulmine l’ha attraversata.
«Io credevo che il tuono fosse la voce di Dio», ella disse, un po’ scherzando, un po’ seria.
«Stupida, Dio non esiste!», egli disse, guardandosi attorno, pauroso d’essere sentito dai suoi nonni.
«Paulu, che dici?», ella mormorò con terrore. «Se ti sente don Simone! Se ti sente prete Virdis!»
«Prete Virdis è un chiacchierone, un peccatore come tutti gli altri uomini. Dio non esiste, no, Annesa. Se Dio esistesse» egli riprese «non permetterebbe che nel mondo accadessero certe cose. A parte la solita storia dei ricchi e dei poveri che nascono tali senza averne merito o colpa, ci sono tante altre ingiustizie nel mondo! Tu, per esempio… perché sei senza padre e senza madre, perché non sai neppure chi sei? Vedi? se io volessi sposarti non potrei…»
Annesa impallidì, sebbene non avesse mai pensato, neppure in sogno, di sposare il figlio dei suoi benefattori.
Poi gli anni passarono. Un giorno in casa Decherchi accadde una cosa spaventosa. Il padre di Paulu cadde nel cortile, come se avesse inciampato, e non si sollevò più. Le sue ultime parole furono rivolte alla moglie:
«Rachele, ti raccomando quel fanciullo».
E Gantine, il ragazzetto che la voce pubblica diceva figlio del morto, fu preso in casa come servetto. Gli altri servi, poiché Gantine era quasi ancora un bambino, neppure buono a scorticare un agnello, lo maltrattavano e lo deridevano; egli si lagnava con donna Rachele.
«Figliolino di Dio», gli diceva la santa vedova, «abbi pazienza. Di’ loro che crescerai e diventerai più abile di loro.»
E ziu Cosimu Damianu, il padre di donna Rachele, aggiungeva:

«Figlio di Sant’Antonio, di’ loro così:
Frati vanno e frati vengono
e il convento fermo resta;
voi siete frati randagi, andrete, verrete, ed io resterò sempre nel convento».

Donna Rachele sgridava il padre perché «figlio di Sant’Antonio» vuol dire bastardo, e perché non voleva che i servi avessero a mormorare per la risposta significativa, consigliata a Gantine.
Ma don Simone interveniva, sorridente e sereno come sempre:
«Lascia passare trenta giorni per un mese, lascia che dicano quel che vogliono, tanto il prossimo non è mai contento».
E la pace regnava nella famiglia.
Ma in quel tempo appunto cominciò l’esodo dei servi; prima uno, poi un altro, poi tutti. Rimasero soltanto Gantine e un servo pastore, chiamato ziu Castigu perché era un po’ scemo. Poi anche questo fu licenziato. La famiglia cadeva in rovina, precipitava sempre più giù, più giù, in un vuoto pauroso.
I debiti di tre generazioni, i trecento scudi che don Simone aveva preso dalla Banca Agricola, le cambiali in bianco di don Pilimu, gli interessi del duecento per cento dei debiti di Paulu, divorarono in pochi anni le tancas, le vigne, le greggie e i cavalli dell’intera famiglia. Donna Rachele piangeva e diceva:
«Vedete, è stato come il fico d’India: da una foglia ne son nate mille».
Sulle prime anche Don Simone e ziu Cosimu Damianu piangevano e si bisticciavano; ma col tempo si abituarono alla povertà e don Simone ritornò sereno e sorridente e ripeté il suo filosofico ritornello: «lascia passare trenta giorni per un mese».
Paulu, dopo essere stato cacciato via dal seminario di Nuoro, non aveva voluto proseguire gli studi; si divertiva come si divertono molti piccoli proprietari sardi, correndo di villaggio in villaggio per le feste campestri. Tutti i mendicanti della Sardegna, che vanno appunto di festa in festa, lo conoscevano. Anche i ciechi dicevano: «è quel cavaliere di Barunèi, don Paulu Decherchi, un ricco Ispassiosu[3]».
Nei villaggi egli prendeva denaro dagli usurai, nelle feste lo sprecava.
Pareva pazzamente innamorato della vita. A giorni era buono e allegro, a giorni cattivo e violento.
Annesa ricordava. Ora Paulu era diventato docile e mansueto; gli anni e le sventure lo avevano domato come un puledro; ma allora! Quante volte l’aveva bastonata perché ella faceva l’amore con Gantine!
«Vergognati, sfacciata; egli è un servo; è un bastardo.»
«Ed io non sono una serva?», ella rispondeva piangendo. «Non sono anch’io figlia di nessuno?»
«Egli ha dieci anni meno di te.»
«Gli anni non contano; l’albero giovane intreccia i suoi rami con quelli dell’albero vecchio…»
Gli occhi di Paulu splendevano come gli occhi di un gatto selvatico.
«Ingrata, sfacciata, mantenuta per l’anima[4]».
Ella, che amava Gantine perché rassomigliava a Paulu, così come si ama il fuoco perché ricorda il sole, piangeva, taceva e lavorava. Era diventata davvero la serva di casa; ma anche donna Rachele lavorava, pregava e taceva.
In quel tempo Paulu si ammogliò. La sposa era una fanciulla nobile, bella, ma povera e malaticcia. Per un anno i due sposi vissero felici; donna Kallina era buona e rendeva buoni tutti quelli che l’avvicinavano. Il marito parve diventare un altro; ma dopo la nascita di una bambina dalla testa enorme, la giovine sposa ammalò gravemente.
Don Paulu la condusse a Cagliari, a Sassari, nel continente; ma donna Kallina morì e un’altra tanca fu venduta.
La casa divenne triste, solitaria; i mendicanti non insistevano più, come prima, per ottenere l’elemosina; gli ospiti si fecero rari.
Don Simone sorrideva sempre, ma con tristezza; e ripeteva che bisognava rassegnarsi a lasciar passare trenta giorni per un mese, ma borbottava perché la gente non crede più in Dio e quindi commette il male.
Ziu Cosimu Damianu, con la piccola Rosa fra le braccia, conveniva che il timor di Dio è un freno contro il male, ma difendeva gli errori e le debolezze umane: gli uomini sono nati per il peccato. E la bimba, vivente risultato di molte debolezze e di molti errori umani, piegava l’enorme testa sull’omero del vecchio e non protestava.
Intanto Annesa s’era fidanzata con Gantine, dopo aver chiesto il consentimento dei suoi benefattori. Ella aveva passato i trent’anni; che aspettava? Gantine era povero ma buon lavoratore. Si sarebbero sposati appena i Decherchi avessero dato al giovine un po’ del denaro che gli dovevano: ma il tempo passava, e il denaro non si vedeva.
Il giovane fidanzato era allegro, buono e sereno come don Simone. Chiamava Annesa con due nomignoli: Pili brunda[5] quando ella si mostrava tenera e allegra, cosa molto rara, e mudòre[6] quando ella taceva, triste e cupa, per intere giornate.
«Figlio di Sant’Antonio», diceva ziu Cosimu Damianu, «tu sai il proverbio sardo: ribu mudu tiradore[7]».
In quel tempo Annesa cominciò a non credere più in Dio perché la famiglia dei suoi benefattori cadeva sempre più in rovina. Era mai possibile l’esistenza di un Dio così cattivo? I Decherchi non avevano fatto altro in vita loro che temerlo, adorarlo e seguirne i precetti, ed Egli li ricompensava mandando loro ogni peggiore sventura.
Ma d’un tratto il Signore parve muoversi a pietà della famiglia così a lungo e duramente provata. Ziu Zua, un vecchio parente avaro, che era stato alla guerra di Crimea, dove aveva perduto una gamba, propose ai Decherchi di prenderlo in casa. Avrebbe dato un tanto al mese, e poi fatto testamento in favore di Rosa. Era vecchio, soffriva d’asma, aveva paura di venir derubato. Paulu non amava questo vecchio asmatico, al quale era spesso ricorso invano per farsi prestare denari; ma non si oppose a che egli venisse in casa. E ziu Zua venne e prese posto accanto ai due nonni, che usavano star seduti fuori della porta di strada simili a due vecchi leoni vigilanti l’ingresso d’un palazzo incantato in rovina. La gente passava, ascoltava le discussioni e le chiacchiere dei tre vecchi e li chiamava «I tre re magi con cinque gambe».
Ziu Zua ansava e parlava male dei «giovani d’oggi» alludendo a Paulu; don Simone ammetteva che il nipote s’era rovinato perché non aveva mai avuto timor di Dio, ma ziu Cosimu Damianu, con Rosa sulle ginocchia, stringeva le labbra e difendeva i «giovani d’oggi».
«Tutti siamo stati giovani ed abbiamo commesso i nostri errori. Il Signore disse: chi è senza peccato scagli la prima pietra…»
«Per chi vuoi dire?», gridava il vecchio asmatico, tirando fuori dal petto velloso la medaglia al valor militare. «Guarda qui: la vedi o non la vedi questa medaglia? Guardati in essa come in uno specchio.»
Don Simone fingeva di specchiarsi, si accomodava la berretta, poi diceva:
«Veramente non è molto pulito quello specchio».
E ziu Cosimu Damianu esclamava:
«Ma, figlio di Sant’Antonio, chi accenna a te, Zua Deché? Però, vedi, è appunto chi è senza peccato che scaglia la prima pietra contro il peccatore. Chi è senza peccato non compatisce, non compatisce…».
Poi ziu Zua raccontava i suoi ricordi di guerra. La sua voce dispettosa si raddolciva, e spesso egli piangeva, ricordando che La Marmora gli aveva stretto la mano. Ma i suoi ricordi erano molto confusi: fra le altre cose egli si ostinava a dire che i Sardi avevano preso parte alla battaglia di Balaclava, e invano don Simone ripeteva:
«No, è stato alla battaglia di Cernaia».
«No, no, è stato a Bellaclava. Mi ricordo; era d’estate, d’agosto, ma c’era una nebbia che pareva d’inverno. Fin dalla notte noi eravamo sul colle, al comando di quel diavolo di maggiore Corpograndi.[8] Imparatelo questo nome: Cor-po-grandi. Non bisogna sbagliare una sillaba perché sarebbe una bestemmia, come sbagliare il nome di Dio.»
Un giorno ziu Zua cadde per terra come era caduto don Pilimu. Non morì, ma quando lo sollevarono, la sua gamba destra era rigida e morta peggio del bastone ferrato che sostituiva l’altra gamba. Lo misero a letto e non si alzò più. Egli diventò insoffribile: nascose sotto il guanciale le sue cartelle di rendita e non le affidò ai parenti neppure per riscuoterne gli interessi, di notte si svegliava gridando che volevano derubarlo, e pretendeva che Annesa dormisse nella camera ove dormiva lui. Paulu cominciò a odiarlo: e Annesa lo odiava perché lo odiava Paulu. E Gantine lo odiava perché lo odiavano loro.
Fra le persone rimaste fedeli e affezionate alla disgraziata famiglia c’era ziu Castigu, il vecchio servo diventato pastore a solus, vale a dire che aveva acquistato un certo numero di pecore e le pascolava per conto proprio.
«Girate tutto il mondo», diceva con ammirazione, parlando della famiglia presso la quale aveva servito per quarant’anni, «provate pure a girarlo, se volete: non troverete una famiglia più nobile e più buona, Don Simone? Ma se Dio morisse, gli angeli del cielo eleggerebbero don Simone a signore loro e nostro! Bisogna rispettare persino le scarpe di don Simone!»
In paese lo deridevano per questo suo feticismo: il messo ogni volta che lo vedeva gli domandava:
«Ebbè, è morto il Signore?».
Anche prete Virdis, il rettore, quando ziu Castigu andò a confessarsi, lo trattò malamente,
«Anghelos santos![9] (prete Virdis usava quest’intercalare anche coi suoi penitenti). Non dire più queste cose, fratello mio. Il Signore è uno solo e non morrà mai, neppur dopo che avrà fatto morire tutti noi».
Ma ziu Castigu non smetteva di lodare la famiglia «più nobile del mondo». Anche Annesa godeva tutta l’ammirazione e la confidenza di ziu Castigu. Una volta egli le confidò di essere innamorato di una bella e ricca fanciulla del paese, e la pregò di un favore:
«Voglio mandarle una lettera: scrivila tu, pili brunda: perché ridi?».
«Perché io non so scrivere lettere!»
«Non importa: non sei un avvocato, tu. Basta che tu scriva così: “Maria Pasquala, anima mia, ti amo e se tu mi vuoi ti metterò entro una nicchia”. Va, Annesa, fammi questo piacere; per scrivere la lettera ti porterò un foglio di carta di amore che potrebbe essere mandato anche alla Corte reale.»
Annesa promise di scrivere la lettera, e ziu Castigu portò la famosa carta di amore ch’era poi uno di quei foglietti traforati e adorni di un cuore ferito, usati dagli studentelli per le loro prime dichiarazioni amorose.
Ma la dichiarazione non ebbe l’esito desiderato: anzi un fratello di Maria Pasquala, un giorno, nel vedere ziu Castigu passare davanti a casa sua, lo rincorse col pungolo; e il pastore fuggì «come un cane a cui si è messo il fuoco sul muso».
Un giorno ziu Castigu invitò al suo ovile i suoi amici e i suoi ex padroni. Ziu Cosimu Damianu, Paulu e Annesa accettarono l’invito. L’ovile era quasi in cima al monte di Santu Juanne, una specie di prealpe di là della quale il Gennargentu chiude l’orizzonte con le sue cime e i suoi profili argentei.
Enormi roccie di granito, sulle quali il musco disegnava un bizzarro musaico nero e verde, si accavallavano stranamente le une sulle altre, formando piramidi, guglie, edifizi ciclopici e misteriosi. Pareva che in un tempo remoto, nel tempo del caos, una lotta fosse avvenuta fra queste roccie, e le une fossero riuscite a sopraffare le altre, ed ora le schiacciassero e si ergessero vittoriose sullo sfondo azzurro del cielo. E le macchie e le quercie, a loro volta, cessata la lotta delle pietre, avevano silenziosamente invaso i precipizi, s’erano arrampicate sulle roccie, avevano anch’esse cercato di salire le une più su delle altre. Tutte le cose in quel luogo di grandezza e di mistero assumevano parvenze strane, e gli uomini solitari che dovevano vivere a contatto con le roccie alcune delle quali avevano forme di mostri, di pesci giganteschi, d’animali antidiluviani e comunicavano con l’anima della montagna sussurrante nei boschi, e intendevano ciò che diceva il rombo del vento e il fruscìo delle foglie cadute, questi uomini avevano naturalmente creato mille leggende e le avevano collocate nei punti più orridi e più poetici del luogo.
Vicino all’ovile di ziu Castigu, per esempio, poco lontano da una chiesetta medioevale, si scorgeva su una cima una lunga roccia in forma di bara, posata obliquamente su un enorme masso quadrato. Ebbene, là dentro, in quella tomba alta e solenne che un imperatore poeta non avrebbe sdegnato, la fantasia popolare rinchiudeva un gigante, ucciso a tradimento dai nani astuti che un tempo popolavano la montagna.
Durante la colazione, gl’invitati di ziu Castigu, seduti all’ombra di alberi millenari che coi loro lunghi ciuffi di liane grigiastre parevano vecchi barbuti, non parlarono di altro che di queste leggende.
Due vecchi sposi, che dopo il giorno delle loro nozze, avevano sempre mangiato nello stesso piatto, ricordarono il viaggio di nozze di un avo di Paulu.
«Egli sposò una dama di Aritzu. Da Aritzu a Barunèi gli sposi furono accompagnati da ventisette parenti che montavano magnifici cavalli bai; solo gli sposi cavalcavano su una giumenta bianca. Attraversarono una montagna, e giunti qui, salirono sulla tomba del gigante, dalla quale si scorge il paese, e tutti spararono in alto i loro fucili… Sembrava una battaglia…»
«Voglio salire lassù: chi viene?», domandò Paulu che aveva bevuto abbastanza e sembrava allegro e ringiovanito.
Ma gli altri erano quasi tutti vecchi o stanchi e preferirono sdraiarsi all’ombra degli alberi. Solo Annesa seguì il giovine vedovo, e nessuno mormorò: tutti erano abituati a considerare Paulu e Annesa come fratello e sorella.
Essi andarono; era di maggio, il sole del meriggio batteva sulle roccie intorno alle quali fiorivano le rose di macchia; le foglie degli alberi scintillavano.
Poi il bosco s’aprì, e fra due quercie dalle chiome riunite apparve, come nello sfondo di un arco grandioso, la piramide lontana di monte Gonare, azzurra sul cielo luminoso.
A destra del bosco sorgeva la cima rocciosa sulla quale nella sua tomba di pietra che il musco copriva d’un drappo di velluto verde, riposava il gigante. La salita era difficile: bisognava saltare di roccia in roccia.
Paulu precedeva, Annesa seguiva; più che altro ella desiderava vedere in lontananza il villaggio. D’un tratto si trovò su alcune pietre che oscillavano; le parve di perdere l’equilibrio e diede un grido. Paulu si volse, tornò indietro, la guardò e le porse la mano.
Salirono più su, sedettero sulla sporgenza del masso, sotto la roccia del gigante: ai loro piedi il bosco precipitava come una grandiosa cascata verde, giù, giù, fino alla costa sul cui giallore le case del villaggio apparivano grigie e nerastre simili ad un mucchio di brage spente. Valli e montagne, valli e montagne si seguivano fino all’orizzonte: tutto era verde, giallo e celeste.
Gli avvoltoi in amore stridevano e s’inseguivano, tra il sole ed il vento, nell’aria serena.
Annesa e Paulu non scambiarono una parola; egli era ridiventato triste, ma i suoi occhi ardenti, più che guardare il panorama, fissavano gli avoltoi in amore. Improvvisamente si alzò e Annesa lo seguì. Nel punto ove le pietre si muovevano egli si fermò, le porse ancora la mano e la guardò.
Annesa sentì quello sguardo insolito investirla come una vampa: e le parve di cadere e che tutte le roccie precipitassero sotto di lei. Ma Paulu la teneva sospesa nel cerchio delle sue braccia, e aveva unite le sue alle labbra di lei, in modo che pareva non dovessero staccarsi mai più.


  1. Quartina.
  2. Buona notte, donosa (ricca di doti naturali)/ Come te la passi, ricco mare?
  3. Che ama i divertimenti.
  4. Allevata per carità.
  5. Capelli biondi.
  6. Silenziosa.
  7. Il fiume silenzioso [è] travolgente.
  8. Corporandi.
  9. Angeli santi.