IV.

Paulu era partito la mattina all’alba. Da molti anni egli non faceva altro che viaggiare così, in cerca di denari, come il cavaliere antico in cerca di tesori. Un po’ di sangue di cavaliere spagnuolo scorreva certo nelle sue vene di nobile spiantato. I tempi sono mutati, però; non si trovano più tesori fra le roccie, né gente pronta ad aprire la borsa. Tuttavia don Paulu Decherchi camminava, e sperava di arrivare finalmente in un luogo abitato da persone meno sordide e avare degli strozzini coi quali aveva avuto sempre a che fare.
Sperava; e quasi era certo di trovar finalmente un po’ di fortuna,
«La sorella del parroco è una donna di coscienza», pensava. «Mi darà i soldi e pretenderà un interesse modesto. Così potremo saldare il debito verso la Banca, e poi, col tempo, ziu Zua morrà e aggiusteremo per benino i nostri affari.»
E va e va. D’un tratto il suo piccolo cavallo bajo, alla cui sella stava legata la bisaccia a fiori bianchi e rossi che pareva ritagliata da un vecchio arazzo, si fermò e sollevò la testa fine e nervosa.
Un sentiero s’apriva, di là di un muricciuolo a secco, a destra dello stradale polveroso e mal tenuto; ma due macchie di rovi rosseggianti di more acerbe ne chiudevano quasi completamente il varco.
«Tu hai ragione», disse a voce alta Paulu, accarezzando la testa dell’intelligente bestia. «È meglio passare di qui. Il sentiero è brutto, ma c’è meno polvere e più ombra.»
E lasciò andare il cavallo che passò cautamente fra le due macchie.
Il sentiero, mal tracciato, serpeggiava lungo i fianchi della grande vallata. La luce roseo-aranciata dell’aurora illuminava dolcemente il paesaggio; un paesaggio primordiale quasi ancora vergine di orme umane. La valle era tutta scavata nel granito; muraglie di roccie, edifizi strani, colonne naturali, cumuli di pietre che sembravano monumenti preistorici, sorgevano qua e là, resi più pittoreschi dal verde delle macchie dalle quali erano circondati e inghirlandati. Il letto di un torrente, tutto di granito, d’un grigio chiarissimo, solcava la profondità verdognola della valle, e gli oleandri fioriti che crescevano lungo la riva, fra le roccie levigate, parevano piantati entro ciclopici vasi di pietra. L’alloro dalle foglie lucide, il corbezzolo, il mirto dal frutto nero, il ginepro fragrante, le macchie ancora fresche della rosa peonia, tutte le piante più rare della flora sarda, rivestivano la valle, circondavano le rocce, si arrampicavano fin sulle cime più alte. Montagne bianche e azzurre, alcune ancora velate da vapori fluttuanti che il riflesso dell’aurora tingeva d’un rosa dorato, chiudevano l’orizzonte. In lontananza, ai piedi della montagna boscosa dalla quale scendeva direttamente la valle si vedeva il villaggio, bianco e nero tra il verde delle macchie: e più in qua, in una conca grigiastra, si distinguevano le rovine d’un altro paesetto, i cui abitanti – diceva la leggenda popolare – erano tutti morti durante una pestilenza misteriosa, o erano stati sterminati in una notte sola dagli abitanti del villaggio vicino che volevano allargare il loro territorio.
Paulu sentiva la poesia del mattino e la bellezza del luogo. Da molto tempo non era stato così allegro e felice: gli pareva d’esser tornato adolescente, quando partiva di casa allegro e spensierato come un uccello, e correva in cerca di piacere, ignaro dell’avvenire. A momenti si metteva a cantare:

Sas aes chi olades in s’aèra
Mi azes ajucher un’imbasciada...[1]

E la sua voce fresca e sottile come quella di una donna risonava nel silenzio del sentiero, e il cavallo scuoteva un’orecchia quasi l’infastidisse l’insolita gaiezza del padrone. Ma Paulu lo spronava e continuava a canticchiare. Sì, era allegro: il ricordo di Annesa, la speranza di trovare il denaro, la bellezza del mattino, lo eccitavano piacevolmente. Al diavolo i tristi ricordi e le tristi figure, e specialmente quella di ziu Zua, e quella del messo con le sue cartacce.
E va e va. Scese e risalì tutta la valle, attraverso un piccolo altipiano, arrivò in un villaggio, si fermò in una locanda per dar da mangiare al cavallo. Era sua intenzione di ripartire subito; ma una donna lo riconobbe e corse da Pietro Corbu, un ricco proprietario del luogo, per avvertirlo che don Paulu Decherchi era sceso nell’osteria di Zana, la vedova del brigadiere. Don Peu Corbu corse allora dalla vedova Zana, e appena vide Paulu lo caricò d’improperi perché gli aveva fatto il torto di non recarsi subito a casa sua.
«E che, c’è la peste a casa mia? Da quando in qua Paulu Decherchi va all’osteria, invece d’andare in casa d’amici?»
Paulu aveva già domandato denari in prestito a don Peu, che naturalmente glieli aveva negati. Egli domandava denari a tutti i suoi conoscenti, ma non ripeteva la domanda dopo un rifiuto, e serbava rancore quando non li otteneva. Tuttavia finse di veder don Peu con piacere, gli fece mille complimenti, ma non volle seguirlo.
«Ho fretta», disse. «Mi fermo solo un momento. Vado alla festa di Sant’Isidoro.»
«La festa è posdomani. Tu resterai qui tutta la giornata di oggi, parola di Peu Corbu.»
«Non giurare. Non resto», replicò Paulu. Invece rimase. Don Peu era uno di quei nobili sardi che, se occorre, non sdegnano di lavorare la terra, ma che per lo più vivono oziosi, in attesa di un amico o di un ospite col quale bere e chiacchierare lungamente.
Afferrò Paulu come una preda, lo portò in giro per il paese, d’osteria in osteria. Bevettero molto entrambi, e Paulu continuò a mostrarsi allegro, e cominciò a raccontare molte fandonie: disse che i suoi affari andavano benissimo e che il vecchio asmatico gli aveva consegnato le sue cartelle perché se ne servisse a suo piacere.
«Vedi», disse, guardandosi il vestito di stoffa inglese finissima, ma goffamente tagliato, «questo vestito me lo ha regalato lui, ziu Zua: cioè mi ha regalato trecento lire dicendomi di comprarmi un vestito.»
«Avete fatto molto bene a prendervi quell’uomo in casa», disse don Peu, palpando la stoffa della giacca. «Dopo tutto, però, anche voi gli volete bene: se capitava in altra famiglia lo ammazzavano. Zana, ocri madura,[2] porta un’altra bottiglia di quel diavoletto di moscato.»
Zana, una bella vedova dai grandi occhi nerissimi, lasciò il banco della sua botteguccia, nella quale s’ammucchiavano i generi più disparati, ed entrò nella piccola retrobottega dove s’erano rifugiati i due nobili amici. Questa retrobottega, che riceveva luce da un finestrino praticato sul tetto di canne, serviva anche da sala da pranzo: c’era una tavola apparecchiata, con un canestro ricolmo di quel caratteristico pane sardo detto carta di musica e un intero formaggio marcio, da un buco del quale scappavano saltellando piccoli vermi bianchi che sembravano molto allegri e birichini. Sulle pareti tinte di rosso non mancavano calendari e immagini sacre. Una fotografia ingrandita riproduceva, esagerandola, la figura di un carabiniere grasso e pacifico, che sembrava un prete travestito da brigadiere.
«Zana, occhi di stella», disse don Peu, mentre la vedova, seria e compassata, versava da bere, «questo nobile qui, vedi, questo cavaliere è vedovo e cerca conforto. Anche tu, mi dissero, cerchi conforto. Non potreste confortarvi a vicenda?»
«Don Peu matto», rispose la vedova con sussiego, «se non fosse per rispetto all’ospite le risponderei male.»
«Lascialo dire, vedovella», pregò Paulu.
La vedova, tuttavia, guardò il vedovo: egli la guardava già. Entrambi avevano bellissimi occhi, e gli occhi belli son fatti per guardarsi anche se hanno già versate molte lagrime sulla tomba di persone care.
Zana si trattenne ancora un po’ coi suoi avventori, poi tornò nella botteguccia, dove un bambino domandava un soldo di lucignoli.
Paulu, non sapeva perché, era diventato triste. Fino a quel momento s’era come suggestionato con le sue vanterie, e gli era parso che realmente i suoi affari andassero bene, e che le cento lire che aveva in tasca non gliele avesse prestate quel goffo e semplice santo uomo di prete Virdis. Ma nell’ombra che si addensava nella piccola retrobottega rossa, egli rivedeva come in sogno certe figure lugubri; il viso del messo, nero e selvaggio, balzava dietro la figura cadaverica del vecchio asmatico.
«È ancora una bella donnetta», disse don Peu, accennando alla vedova, «ed ha anche dei soldi, dicono. E dicono, io non affermo nulla… parola di don Peu, non so nulla, ma dicono… Bevi dunque, Paulu Decherchi. A che pensi?»
«Non bevo più. Che dicono, dunque?»
«Tu devi bere, parola di don Peu! Ah, ti preme sapere cosa dicono? Non si può dire qui: c’è il brigadiere che ci ascolta, ah! ah! Addio!»
Don Peu fece un cenno di addio alla fotografia e Paulu bevette. Il moscato della vedova del brigadiere fece ancora sparire la figura dell’usciere.
«Cosa dicono? Cosa dicono, Peu?»
Don Peu abbassò la voce e raccontò salaci storielle sul conto di Zana; ogni tanto sollevava gli occhi maliziosi e guardava il viso bonario del brigadiere morto che, nella penombra, pareva affacciarsi da un mondo lontano per ascoltare con indulgenza le avventure della sua vedova. Ed anche Paulu lo guardava e rideva, dimenticandosi che fra otto giorni la Banca Agricola avrebbe inesorabilmente messo all’asta la vecchia casa e l’ultima tanca della famiglia Decherchi.

L’indomani all’alba ripartì per il paese di Ballore. Il tempo s’era improvvisamente rinfrescato: sembrava di autunno. Egli non si sentiva più allegro come il giorno prima; la sbornia gli aveva lasciato la bocca acre e la gola arida. Ricordava le due ore passate nel retrobottega della vedova come un sogno eccitante: il vino, le storielle dell’amico, Zana che ogni tanto entrava e con qualche scusa si tratteneva presso la tavola, lo avevano reso folle e incosciente come nei beati tempi della sua prima giovinezza. Nonostante le proteste di don Peu egli aveva voluto pagare una bottiglia, tirando fuori un marengo, e poiché la vedova non aveva abbastanza spiccioli per il resto, egli aveva detto:
«Bene, mi darai il resto quando ripasserò, fra tre giorni».
Zana voleva fargli credito, don Peu voleva prestargli gli spiccioli: egli finse di stizzirsi. L’amico credette che egli facesse lo splendido per cattivarsi l’animo di Zana, e guardò ridendo la fotografia.
In viaggio Paulu ricordava la figura alta e bella della vedova, il suo viso roseo, le labbra voluttuose; ma pensava anche alla piccola Annesa, all’edera tenace e soffocante della quale egli solo conosceva gli abbracci e dalla quale sentiva di non potersi liberare mai più.
«Zana è bella, ma fosse anche una donna onesta, non si potrebbe amare a lungo», pensava. «Annesa è un tesoro nascosto, inesauribile: ogni suo bacio mi sembra il primo.»
Egli non diceva a se stesso che il segreto amoroso di Annesa stava tutto nella passione tragica che egli le inspirava; non lo diceva, ma lo sentiva, e si lasciava prendere e avvolgere tutto da questa passione come il ramo dell’edera. Più che amare si lasciava amare, e senza essere deliberatamente infedele, guardava e desiderava le altre donne e si lasciava prendere da loro con piacere.
Così, senza dimenticare Annesa, ma pensando alla bella vedova, arrivò al villaggio. Grandi nuvole rosee coprivano il sole, una mite luminosità dorava le colline coperte di stoppie, di là delle quali sorgeva un monte calcareo che pareva di marmo rosa: piccole vacche nere s’abbeveravano all’esile ruscello, e le figure dei pastori, vestiti di rosso e di nero, si disegnavano vivamente sul giallo della collina. Ma all’avvicinarsi del paesetto, tutto diventava triste; la strada polverosa, l’aria irrespirabile per l’odore delle immondezze. La chiesetta precedeva di un centinaio di metri il paese, e sorgeva in mezzo ad un campo arido, sparso di cumuli di pietre, di roccie sovrapposte, di massi che formavano circoli, coni, piramidi. Pareva che un popolo primitivo fosse passato in quel campo, tentando costruzioni che aveva poi abbandonato incomplete: tutto era silenzio e desolazione.
Le zampe del cavallo affondavano nella polvere e nelle immondezze. Casupole di pietra, fabbricate sulla roccia, si accumulavano intorno a qualche costruzione nuova; donne scalze e in cuffia, bambini laceri, ragazzetti seminudi, tutto un popolo che pareva sbucato da un sottosuolo lurido e buio, animava la strada polverosa: tutti sussurravano nel vedere don Paulu Decherchi che distribuiva saluti dall’alto del suo cavallo.
Nel passare davanti ad una casa antica, meno povera delle altre, egli si irrigidì, fece caracollare il cavallo, e guardò le finestruole munite d’inferriata. In quella casetta abitava la sorella del Rettore, una vecchia molto ricca, la quale appunto doveva prestare i denari al cavaliere spiantato. Ma nessuno apparve alla finestra ed egli passò oltre; il suo amico abitava in fondo alla straducola, in una casetta costruita sopra la roccia, in fondo ad un cortile aperto.
Ballore Spanu era assente, ma la sua famiglia, composta della madre e di sette sorelle nubili, la più giovane delle quali aveva passato la trentina, accolse l’ospite con vive manifestazioni di simpatia.
«Ballore è in campagna», disse la madre, una vecchia piccola e grossa, col viso giallognolo quasi completamente nascosto da una benda nera. «C’è un incendio, in un bosco vicino alle nostre tanche, e Ballore mio è andato per aiutare a smorzarlo. Ma tornerà verso sera. E i suoi parenti come stanno, don Paulu? E donna Rachele? Ah, ricordo ancora quando ella venne alla nostra festa: era sposa; sembrava un garofano, tanto era bella.»
Le sette bajanas[3] s’affollavano intorno a Paulu, e chi gli serviva il caffè, chi gli porgeva il catino per lavarsi. Si rassomigliavano tutte in modo sorprendente; piccole, grosse, col viso grande, giallognolo, e folte sopracciglia nere riunite sopra il naso aquilino.
Grandi casse nere e rossicce, scolpite con arte primitiva, un letto a baldacchino e una vecchia panca nera, arredavano la camera che riceveva luce dalla porta: alcune galline entravano ed uscivano liberamente.
Paulu bevette il caffè, si lavò, ascoltò le chiacchiere della vecchia, la quale gli rac-contò che litigava da sette anni con un vicino, per un diritto di passaggio in una tanca.
«Sette anni, figlio mio. Solo gli avvocati m’hanno già succhiato più di duemilatrecento scudi. Ma è per il puntiglio, capirà: pur di vincer la lite, andrei a chieder l’elemosina.»
Verso sera egli uscì. Ma le chiacchiere della vecchia, l’assenza dell’amico, gli sguardi delle sette vecchie zitelle dalle sopracciglia selvagge, lo avevano mortalmente rattristato. Vagò per il paese, domandandosi se doveva far visita al Rettore, che non conosceva ancora. Il cielo si copriva di nuvole, il paesetto, al confronto del quale Barunèi pareva a Paulu una cittadina graziosa, dava l’idea di un covo di mendicanti, cupo sotto il cielo cupo.
Gli uomini tornavano dai campi e dai pascoli, alcuni a piedi, altri su piccoli cavalli bianchi o neri: e parevano venir di lontano, silenziosi e stanchi come cavalieri erranti.
D’un tratto la disperazione avvolse col suo velo gelido il cuore di Paulu.
«Dove son venuto a cercar fortuna! In un immondezzaio», pensò, dirigendosi verso la chiesetta fra le rocce. «È mai possibile che trovi denari qui, proprio qui?»
Molta gente s’avviava alla chiesa, dove il Rettore cantava i vespri. Paulu si fermò a guardare le donne, alcune delle quali bellissime nonostante il costume rozzo e barocco, poi entrò in chiesa e si mise vicino a uno strano simulacro che rappresentava la Vergine assisa sulle nuvole. Le nuvole erano di legno nero, rotonde come palle: la Vergine, in cuffia ed in grembiale, pareva un idolo preistorico, mostruoso ed informe. Paulu ricordò i quadretti sacri della retrobottega di Zana, e un’idea gli balenò in mente. Ma subito la respinse con ribrezzo. No, egli poteva abbassarsi a tutto, poteva umiliarsi ai più ignobili usurai, poteva anche lasciar mettere all’asta la casa e vedere il vecchio nonno e la povera donna Rachele e l’infelice Rosa cacciati dal nido antico come bestie dal covo, ma abbassarsi a chiedere denari ad una donna equivoca mai, mai.
«Meglio morire», pensò, piegando la testa. L’idea del suicidio non lo spaventava. «Se io mi uccido, ziu Zua salverà la mia famiglia. Egli mi odia, ed è per far dispetto a me che non vuole aiutarci, ma se io muoio…»
La figurina di Annesa gli apparve nella penombra della chiesetta; e più che al dolore dei suoi nonni ed all’angoscia della madre, pensò alla disperazione di lei, e decise di avvertirla del suo funesto proposito.
«Così si preparerà, e dopo non si tradirà, non farà capire che eravamo amanti, e potrà egualmente sposare Gantine. No, non voglio rovinarla, povera Annesa, anima mia cara.»
Lagrime sincere gli corsero lungo le guance; per nascondere il suo dolore s’inginocchiò, depose il cappello per terra, appoggiò un gomito ad una mano e con l’altra si strinse le tempie.
Un coro d’una tristezza selvaggia indescrivibile risonava nella chiesetta: pareva un rombo lontano di tuono, attraversato da melanconici squilli di campane, da lamenti e singhiozzi infantili, gli uomini, inginocchiati presso l’altare, intonavano una cantilena lamentosa e nostalgica, con voci basse, eguali, supplichevoli, mentre le donne, sedute per terra in fondo alla chiesa, rispondevano con voce cupa e squillante, sopratutto la voce di una che pareva la direttrice del coro risonava alta e metallica, come il rintocco d’una campana.
L’ombra s’addensava: i pochi ceri dell’altare illuminavano appena il gruppo degli uomini, che appariva nero e bianco in un chiaroscuro lugubre. Paulu non dimenticò mai quell’ora tragica della sua vita. Quel canto selvaggio e triste gli ricordava tutta la sua fanciullezza triste e selvaggia. Figure dimenticate balzavano come dalla penombra della chiesetta e lo assalivano, lo stringevano, gli gridavano strane cose. Rivedeva certi profili di servi che erano stati lunghi anni in casa sua: sentiva la sua balia, che pettinava la piccola Annesa e cantava una filastrocca:

Isperta, isperta, pilu,
pilu brundu che seda.[4]

Poi la voce taceva, la balia spariva: al suo posto sedeva il grosso prete Virdis, col fazzoletto in mano, e Rosa passava lentamente in fondo al cortile. Donna Kallina, la povera morta, cerea e trasparente come un fantasma, sedeva al sole, cercando invano di scaldarsi.
E i devoti, nella chiesetta sempre più melanconica, proseguivano il loro coro desolato: pareva che un popolo nomade passasse nel campo roccioso, intonando un canto nostalgico, un addio alla patria perduta.
Paulu sentiva quest’arcana nostalgia che è nel carattere del popolo sardo. La sete del piacere, del godimento, delle avventure, lo aveva sin da fanciullo spinto in una via che non era la sua: anche lui aveva continuamente sognato una patria lontana, un luogo di gioia dove ora sentiva che non sarebbe arrivato mai più.

Le sette sorelle di Ballore rimasero edificate per il contegno che egli tenne durante la novena. Ma Ballore, ch’era tornato dalla tanca con le mani scottate, stanco e di cattivo umore, s’accorse del profondo abbattimento di lui.
«Deve essere in terribili condizioni: egli che non crede in Dio ha finto di pregare per intenerire la sorella del Rettore», pensò.
E si domandò se non aveva fatto male ad invitarlo.
«Come restituirà i denari? Egli non possiede più nulla. Bella figura farò io col Rettore e con sua sorella!»
Rimasti soli, nella camera dal letto a baldacchino, dove era stata preparata anche la tavola per l’ospite, i due amici si guardarono in viso.
«Vuoi che usciamo?», domandò Ballore. Ma Paulu lo vedeva stanco e di cattivo umore e disse:
«Dove vuoi andare? Dalla persona alla quale hai promesso di presentarmi? È forse troppo tardi. Non si domandano prestiti, a quest’ora!».
«Se occorre, perché no?», disse Ballore: poi sospirò. «Ah, come sono stanco! Per poco il fuoco non mi avvolgeva e mi abbrustoliva come una fava. Ma l’abbiamo domato: fuggiva come un diavolo, e noi dietro, con fronde e bastoni, lo inseguivamo e lo battevamo e lo schiacciavamo come una bestia. Meno male, non è arrivato al bosco, ma ti dico io, ci ha ben morsicato: guarda.»
Fece vedere le braccia rosse, le mani infiammate: anche la barba e le sopracciglia folte e congiunte erano bruciacchiate. Egli sentiva tutta la distanza che passava fra lui, rozzo e forte lavoratore, energico e avaro, pronto a tutto, anche a combattere col fuoco, e Paulu dal viso fine e pallido, dagli occhi melanconici di donna, ancora cerchiati di angoscia. E guardava il suo ospite, e ne sentiva pietà; ma che poteva farci? No, non poteva aiutarlo: egli aveva tanti nemici, tante liti, e doveva pagare gli avvocati: agli amici bastava prodigare buone parole. Buone parole sì, quante Paulu ne volle: tanto che egli s’intenerì e si mostrò con Ballore umile e sfiduciato quanto con don Peu s’era mostrato borioso.
«Te l’ho già detto, Ballò. Io sono rovinato. Se tu non m’aiuti io non so che avverrà di me. E meglio finirla: se io muoio forse le sorti della mia famiglia muteranno: vedi, sono io il cattivo genio della mia casa: dopo la mia nascita è cominciata la decadenza. Sono andato di male in peggio, di male in peggio…»
«Ah, non parlare così», disse Ballore. «Sei giovane, sei sano. Puoi fare, se non altro, un buon matrimonio. Mi meraviglio, anzi, che tu non ci pensi. Donna Kallina, beata, era una santa, ma credo che la sua anima buona gioirebbe se…»
«Taci», supplicò Paulu. «Che essa non ti senta. Io non riprenderò mai moglie.»
«Eppure è forse l’unico mezzo.»
Paulu credette che Ballore insistesse forse per proporgli una delle sue sorelle, e provò un senso di freddo. Le donne gli piacevano, anche se brutte, purché graziose, ma quelle sette vecchie vergini dalle sopracciglia minacciose gli davano l’idea di esseri ibridi, metà donne e metà uccelli, e gli destavano un invincibile disgusto.
«Ballore», disse, pensando ad Annesa, «siamo uomini entrambi e tu mi compatirai. Devo dirti una cosa. Io ho una relazione segreta con una donna. Non sono un miserabile; sono disgraziato; ma non disonesto. Forse non sposerò mai questa donna, ma non l’abbandonerò mai.»
«Perché non puoi sposarla? È povera?»
«È maritata», disse Paulu, per non far sospettare di Annesa. «Io le ho voluto sempre bene, fin da bambino, ma la fatalità ci ha separato. Io presi moglie, poi quando rimasi vedovo rividi la donna. In quel tempo, per il mio lutto, ero costretto ad una vita triste, casta. Non potevo divertirmi, non avvicinavo donne. Un giorno mi trovai solo con la mia amica, in campagna. Io l’avevo sempre rispettata, e speravo di non lasciarmi vincere mai dalla passione. Ma il desiderio fu più forte di me, mi vinse, mi accecò. E il peggio fu che la donna non aspettava che un cenno per darsi interamente a me. Anche lei mi aveva sempre amato: mi si avvinghiò, si strinse a me come l’edera alla pianta. Io non la posso lasciare.»
«Ah, Paulu, Paulu!», disse Ballore sospirando. «Ecco il tuo guaio: sei stato sempre un debole.»
«E tu credi che io non lo sappia? Lo so, purtroppo», continuò Paulu, eccitato, ricordando le lagrime infantili versate in chiesa; «io sono un bambino, e capisco che la mia debolezza e la mia impotenza furono causa dei nostri guai: e più che questi guai mi accora appunto il vedermi così, sempre debole, sempre fanciullo. Io ho sbagliato strada, Ballore, e nessuno più potrebbe additarmi la mia via. Se avessi continuato a studiare sarei diventato qualche cosa, ma già mio padre, mia madre, i miei nonni, tutti, tutti hanno commesso un grave errore cacciandomi in seminario. Non ero uccello di gabbia, io! Chiusero la porta ed io tentai di scappare per la finestra. Allora mi mandarono via, e fu da quel giorno che smarrii la strada. Nessuno mi disse che dovevo lavorare, ed io me ne andai per il mondo, e fui come quei mendicanti che vanno di festa in festa. Anche io nelle feste cercavo qualche cosa che non trovavo mai. Non sono cattivo, però, vedi: non ho mai fatto del bene, ma neppure del male. Tante volte anzi, ho desiderato di poter fare almeno il male, come sanno farlo molti, con forza e con astuzia. Niente: neppure questo so fare. Ti ripeto, sono rimasto un bambino: la mia intelligenza e la mia istruzione, e tutto insomma; tutto in me si è fermato nel me-glio del suo sviluppo: sono come quei frutti che si seccano prima di maturare…»
L’altro ascoltava, e non riusciva a capire tutta la finezza e la desolazione del discorso di Paulu; capiva una cosa sola: che l’amico nobile non si sarebbe mai più sollevato dalla sua rovina morale e materiale, e si pentiva d’averlo invitato.
Chiacchierarono ancora, poi andarono a letto.
All’alba Paulu si svegliò e si accorse che Ballore usciva, ma quando egli si alzò, l’amico era già rientrato e beveva un bicchierino d’acquavite.
«Che dormire ho fatto!», disse Ballore. «Mi sveglio appena adesso, Bevi.»
Uscirono, andarono in chiesa. La festa era molto misera. I paesani, quasi tutti contadini che festeggiavano Sant’Isidoro agricoltore, avevano fatto una scarsa raccolta. Ballore, anzi, cominciò a lamentarsi:
«Quest’inverno qualcuno morrà di fame; la miseria è profonda. Mussiù Giuanne[5] farà festa. Ah, i tempi sono cambiati, Paulu mio! Ora tutti, chi più chi meno, stentiamo a vivere, mentre quando io ero fanciullo, ricordo, tutti vivevano agiatamente. Che gente ricca esisteva allora! Vedi, il Rettore e la sorella, avevano i denari a sacchi, proprio a sacchi».
«Perciò», ricordò Paulu, «furono derubati.»
«Fu una famosa grassazione: quaranta individui armati e mascherati… e si dice che ve ne fossero parecchi del tuo paese, eh, Paulé, non offenderti! Assalirono la casa del Rettore, denudarono il povero prete e la sorella, li legarono assieme, li gettarono sopra un letto, fecero man bassa di tutto… Si dice portassero via più di diecimila scudi.»

Quando Paulu e l’ospite andarono dal Rettore, la sorella, una piccola vecchia con la cuffia di broccato, cominciò appunto a ricordare la storia della grassazione: da quaranta anni a questa parte ella non faceva altro che raccontare quella storia. La sua bocca spalancata, gli occhietti neri fissi e vitrei parevano ancor pieni del terrore di quell’ora mostruosa.
«Ce n’era uno, di quei demoni, alto e nero, con una sopravveste di pelle, lunga quasi fino alle caviglie: pareva un enorme montone rizzato sulle zampe posteriori. Figli miei, io lo sogno tutte le notti, sempre con terrore, quel demonio nero peloso… Ah, ci hanno rovinato: non ci lasciarono neppure cenere nel focolare.»
Basta, la conclusione fu che né il Rettore né la vecchia avevano denari disponibili. Paulu uscì da quella casa con la disperazione nell’anima.
«Ballore questa mattina deve aver consigliato la vecchia a negarmi il prestito», pensò.
Il dolore e l’umiliazione risvegliarono il suo orgoglio, e come con don Peu, finse con Ballore una spensieratezza e un’allegria esagerate. Rimase tutto il giorno nel villaggio, spese il resto delle cento lire in doni per le sue ospiti, bevette e rise.
Ripartì il giorno dopo, all’alba: non sapeva dove dirigersi, ma non voleva assolutamente tornare in paese senza i denari.
«Piuttosto mi sdraio sotto un albero e mi lascio morir di fame.»
Cammina, cammina. Il cielo era triste, annuvolato; e la terra assetata, gli alberi polverosi, le roccie aride, aspettavano in silenzio, pazientemente, la pioggia promessa. Non si muoveva una foglia; non s’udiva, nel paesaggio livido e giallo, una voce umana, un grido di viventi. Dove andare, se tutto il mondo era per Paulu simile a quel luogo deserto? Era finita: finita davvero.
Cammina, cammina; il cavallo docile e pensieroso trottava, e quando vedeva qualche varco nei muriccioli delle tancas non esitava ad oltrepassarlo, in cerca d’una scorciatoia. D’un tratto, mentre appunto attraversava una scorciatoia, nelle vicinanze del paesetto di don Peu, Paulu si sentì chiamare da una voce che gli parve di riconoscere. Il cavallo si fermò. Un uomo alto e grosso, con una lunga barba rossastra, e un ragazzetto lacero e selvaggio che pareva uno zingaro, s’avanzavano rapidamente.
«Don Paulu, don Paulu?», gridava l’uomo ansante e stanco.
Paulu riconobbe Santus, il pastore che la voce pubblica accusava di parricidio: il ragazzetto era il figlio.
«Come, l’avete ritrovata finalmente questa buona lana?»
Santus prese il ragazzo per le spalle e lo scosse ruvidamente.
«Ho fatto due volte il giro della Sardegna a piedi, ma spero di morire non disonorato. Eccolo qui l’uccello del diavolo: ora lo conduco dal brigadiere e dico a tutti: vedete se un padre può ammazzare il figlio, che vi ammazzino senza che ve ne possiate accorgere! Ed ora me ne lavo le mani, don Paulu.»
L’uomo imprecava, ma nonostante la stanchezza, l’ansia, i patimenti che gli si leggevano in viso, dimostrava una gioia selvaggia; il ragazzo invece era cupo e guardava lontano, e i suoi grandi occhi azzurri parevano gli occhi d’un prigioniero, sognanti la fuga.
«Tornate difilato in paese?», domandò Paulu, senza interessarsi molto ai casi di Santus e del ragazzo.
«Subito; le occorre qualche cosa?»
«Allora», egli disse lentamente, meditando le parole prima di pronunziarle, «vi darò un bigliettino che consegnerete ad Annesa: ma a lei solamente, avete capito? Inoltre le direte a voce che per stasera non mi aspettino.»
«Va bene, don Paulu.»
Allora Paulu trasse il suo taccuino e scrisse poche parole col lapis.
«Ritorno da O*** , pernotterò qui, in casa di don Peu Corbu. Viaggio inutile. Nessuna fortuna: nessuna speranza. Non so quando ritornerò. Ricordati ciò che ti dissi prima di partire. Non spaventarti.»
Santus non sapeva leggere, Paulu gli consegnò il biglietto appena piegato: l’altro lo prese, lo mise nella borsetta della cintura e promise di consegnarlo solo ad Annesa: e proseguì il viaggio, spingendosi avanti il fanciullo taciturno, e fermandosi con tutti i viandanti che incontrava per raccontar loro la sua storia. E non pensava che dentro la borsetta della sua cintura portava il seme d’un dramma ben più terribile del suo.
Paulu, nonostante le rimostranze già fatte da don Peu, smontò ancora dalla vedova del brigadiere. Nessun progetto lo guidava, ma dopo aver scritto e consegnato il biglietto per Annesa s’era sentito ancora più triste, più inquieto: il proposito di non ritornare senza i denari gli dava una specie di ossessione.
«Ho ancora cinque giorni di tempo», pensava. «Dovessi girare come quel disgraziato Santus, ma non tornerò a casa a mani vuote. Oramai è per me una questione d’onore.»
Dove andare, però? Ricordò gli usurai di Nuoro, e fra altri una donna che anni prima gli aveva prestato mille lire al trecento per cento.
«Che differenza esiste fra un’usuraia simile e una vedova che non gode ottima fa-ma?», si domandò.
Ma quando scese davanti alla botteguccia di Zana e vide la donna correre alla porta e sorridergli con famigliarità, come se l’avesse atteso certa del suo ritorno, provò un impeto di disgusto. No, no, egli non le avrebbe domandato mai i denari.
«Ah», disse Zana, prendendo per la briglia il cavallo di Paulu, «lei non ha dimenticato il resto, a quanto vedo.»
Spinse il portoncino attiguo alla porta e introdusse il cavallo nel cortiletto: Paulu la lasciò fare; la seguì, si levò lo sprone, ma non pareva disposto a scherzare.
Zana invece sembrava allegra; non era più la vedova compassata e seria che vendeva i lucignoli nella botteguccia o serviva decorosamente gli avventori nella retrobottega; era una donna bella e giovane, che da tre giorni pensava agli occhi dolci e allo sguardo languido del nobile amico di don Peu.
«Sono sola in casa», disse, dopo aver legato il cavallo. «La serva è andata a lavare. Non ho potuto preparare niente: bisogna quindi che lei abbia pazienza.»
Era quasi mezzogiorno: il silenzio tragico dei giorni annuvolati regnava sul paesetto, sul cortile, sulla casa della vedova.
Paulu entrò e sedette davanti alla tavola apparecchiata sulla quale stava ancora la carta di musica: dalla parete color sangue coagulato il brigadiere guardava, ancor più pacifico del solito, nella penombra silenziosa di quel giorno velato e caldo.
Paulu mangiò poco e bevette molto: e più beveva più gli pareva che la sua mente, annuvolata come il cielo, si schiarisse, e che molti problemi si risolvessero.
«Che differenza c’è fra un’usuraia e una vedova come Zana? Nessuna. Ciò che vale l’una vale l’altra.»
Zana entrava ed usciva. gli servì una scatola di sardine, poi due uova, poi un piatto di fritto.
«Come, e tu dicevi che non avevi niente? Purché dopo non mi porti un conto troppo lungo.»
Zana lo guardava sorridendo.
«Era il mio modesto desinare, don Paulu. Non si burli di me.»
«Come!», egli disse, alzandosi. «Il tuo desinare? E tu, allora? Come farai?»
«Non pensi a me, don Paulu.»
Ma egli era già mezzo brillo, e stette un momento in piedi, comicamente mortificato per aver mangiato il pranzo di Zana. Poi rise e disse:
«Pensare che oggi a casa mia si dà un pranzo a sei poveri, e mia madre in persona deve servirli; sulla tavola stanno le nostre più belle stoviglie e le posate d’argento. Ed io sto qui a mangiare il pranzo della vedova».
«Sua madre deve servirli? È un voto?»
«No, è un lascito, o meglio un canone che grava su una nostra tanca
Subito pensò che forse quel pranzo di poveri era l’ultimo che la sua santa madre serviva, e si fece cupo, quasi livido; e l’idea di farsi prestare i soldi dalla vedova tornò a insistergli nel pensiero.


  1. O uccelli, che volate per l'aria/Mi porterete un'ambasciata...
  2. Dagli occhi grandi.
  3. Zitelle.
  4. Pettina, pettina, capello/capello biondo come seta...
  5. La fame.