IX.

Cadeva la sera del terzo giorno dopo lo scarceramento della famiglia Decherchi. Nel villaggio oramai non si parlava più dell’avvenimento se non per commentare la scomparsa di Annesa. Ella non era più tornata in paese.
Dove sarà andata? Molti dicono che sta nascosta nell’ovile di zio Castigu. Per lo spavento è caduta malata; ha la febbre e non può muoversi. Altri assicurano di averla veduta in paese, in casa di prete Virdis: è sempre stata là: altri dicono che il vetturale, quello della corriera postale, ha portato da Nuoro una lettera di Annesa indirizzata a donna Rachele. Perché ella non torna? Perché ha paura di essere arrestata. Voci vaghe e strane circolano ancora sul suo conto, fra le persone meglio informate. La perizia medica ha concluso che il vecchio è morto di morte naturale, in seguito ad un accesso di asma, ma l’accesso, aggiungono le persone bene informate, è stato provocato dai mali trattamenti di Annesa, la quale, inoltre, non ha fatto i suffumigi e non ha somministrato all’infermo i calmanti prescritti dal medico. La colpa non è grave, ma le colpe, anche le più piccole, devono scontarsi con un castigo. Annesa ha paura e non torna: vedrete che tarderà a ritornare, a ricomparire. I Decherchi affermano che non sanno nulla di lei: i due nonni, che nonostante il male che ha loro causato, vogliono portare il lutto per Zua Decherchi, non escono di casa e ricevono poca gente. Anche donna Rachele non si lascia vedere; Paulu è intrattabile, ed a chi gli domanda notizie di Annesa risponde:
«Ficcatevi nei fatti vostri. Ella è dove le pare e piace».
Chi chiacchiera volentieri è Gantine: quando ha saputo il fatto è ritornato in paese; Paulu, appena uscito dal carcere, gli ha domandato:
«Perché sei venuto? Riprendi subito il tuo bagaglio e ritorna nella foresta».
«Come, perché son venuto? E Annesa? Non devo pensare a lei?»
«Annesa s’aggiusterà, anche senza il tuo aiuto. Vattene.»
Ma Gantine s’è ribellato. Egli gira per il paese, chiacchiera, domanda e dà notizie. È corso nell’ovile di zio Castigu, ha bussato alla porta di prete Virdis. Annesa non c’è. La gente comincia a prenderlo in giro; molti gli dicono:
«Ma se Annesa è venuta da te, nella foresta! Forse avete fatto diverse strade».
Allora Gantine, che in fondo soffre ma non vuole dimostrarlo, fa credere di sapere dove Annesa si nasconde.
«È andata a Nuoro. È partita con la corriera, il giorno dopo l’arresto dei miei padroni. Sta in casa di una nipote di prete Virdis, che è maritata con un negoziante nuorese.»
«Ma perché non torna?»
«Perché ha paura delle vostre maldicenze, gente stupida e cattiva!»
E il povero Gantine va, va, di casa in casa, ascoltando le chiacchiere, e poi corre da donna Rachele, e le domanda consiglio, e davanti a lei, che ha il viso magro e pallido ma alquanto beato di una martire (sia fatta la volontà di Dio!), piange di rabbia e di inquietudine come un bambino malato.

Prete Virdis, in corpetto, pantaloni e scarpine, senza parrucca, senza fazzoletto in mano, stava seduto sul balcone di legno della sua casetta e finiva di leggere il breviario. Pareva un altro: dava l’idea di un uccello al quale fossero state strappate le migliori piume.
Il piazzale, un triangolo di terreno roccioso davanti alla casetta, era deserto come un lembo di montagna: in fondo si delineava un profilo di paesaggio lontano, una cima violacea sull’orizzonte roseo del crepuscolo. Il cielo, sopra il piazzale e le casette cineree e silenziose, si scoloriva come un velluto azzurrognolo vecchio e sciupato: un alito fresco, odoroso di basilico, veniva dal fondo della strada; tuttavia prete Virdis smaniava, come oppresso dal caldo, e in mancanza del fazzoletto agitava la mano, scacciando un nugolo di mosche immaginarie.
Che fare? Che fare? Da due giorni Annesa era nascosta in casa sua. Due sere prima, mentre egli ritornava da casa Decherchi, ella, che lo aveva aspettato nascosta dietro un muricciuolo del piazzale, gli era comparsa davanti all’improvviso.
«Prete Virdis…»
«Anghelos santos! Sei tu? Sei tu?»
«Sono io. Eccomi. Ho bisogno di parlarle.»
«Vieni.»
La casetta era silenziosa. Paula Virdis, la sorella del prete, dormiva, a quell’ora, in una stanza terrena attigua alla cucina. Al buio, tastoni, Annesa seguì il vecchio, del quale sentiva il respiro un po’ affannoso: attraversarono un andito, salirono su per una scaletta ripida, entrarono nella stanza dal balcone di legno: la finestra era aperta; fino alla camera giungeva il canto di un grillo, un odor di basilico, lo splendore lontano d’una stella.
Prete Virdis accese il lume. Annesa conosceva già quella stanzetta povera, arredata come la camera d’un contadino. Stanca, sfinita, ma con gli occhi illuminati da una fiamma interna, ella cadde a sedere pesantemente sulla vecchia cassapanca che pareva rosicchiata dai topi. E chinò la testa, quasi vinta dalla stanchezza e dal sonno. Prete Virdis chiuse le imposte: si volse, pareva adirato.
«Dunque?»
«Sono qui», ella disse, scuotendosi. «Sono passata , ho ascoltato alla finestra.»
«Dove, là?»
«», ella indicò con un gesto vibrato, come per significare che non poteva esserci altro , altro posto davanti al quale ella potesse fermarsi. «Dov’era lei, poco fa! Allora…: sono venuta qui, l’ho preceduta, l’ho aspettata. Ha veduto?»
«Va bene. Va bene. Ho veduto.»
Egli si mise a passeggiare attraverso la camera. Che fare? Che voleva da lui quella donna? Voleva aiuto; voleva essere salvata da lui. Come salvarla? Non bastavano le buone intenzioni, le buone parole. Occorreva l’azione. Che fare?
«Da due giorni penso a te», egli disse, senza guardarla. «E penso che l’aria di questo paese non è più buona per te.»
«Sì, voglio andarmene.»
«Dove, però, dove?»
«Ci pensi lei!»
«Io?», egli disse, puntandosi un dito sul petto. «Giusto io? Ah, sì, sì: voi combinate le magagne; dopo devo pensarci io.»
«Lei è il pastore», mormorò Annesa. «No, non si arrabbi, prete Virdis, non mi abbandoni. Lei pensa a tutti, e deve pensare anche a me.»
«È tardi, è tardi», egli osservò con voce triste; ma ella finse di non sentirlo e proseguì:
«Sua sorella Paula un giorno si lamentava con me: diceva: mio fratello non pensa mai a lui; perciò la nostra casa sembra una tana, e la gente lo calunnia e dice che egli è avaro e che nasconde i suoi denari. Invece egli pensa sempre agli altri: è il padre dei malfattori, dei cattivi figliuoli, degli sventati, dei disperati…».
Prete Virdis andava su e giù, sbuffava, agitava il fazzoletto.
«Paula è una pettegola: ecco che cosa è; una chiacchierona.»
«Io voglio andar via, prete Virdis: non voglio più tornare in quella casa. Ah, mi aiuti lei! Stasera ho avuto il coraggio di non entrare , benché la tentazione mi spingesse. Ma domani, prete Virdis, domani? Che accadrà di me, domani? Io voglio andarmene. Andrò a Nuoro. Mi raccomandi a sua nipote: andrò serva, lavorerò, vivrò onestamente.»
«Paulu verrà a cercarti: tu ricadrai egualmente.»
«No, no», esclamò Annesa, intrecciando le mani e scuotendole con gesto supplichevole. «Non lo dica neppure! Lei, prete Virdis, lei parlerà con Paulu: gli dirà tutto, se occorre.»
«Io? Le mie labbra si disseccheranno prima di rivelare il tuo segreto. Spetta a te.»
«Io?», disse a sua volta Annesa. «Io…»
Picchiarono al portone. Ella s’interruppe e spalancò gli occhi: nonostante ciò che era accaduto, ella aveva paura; le sembrava impossibile che il suo delitto dovesse restare segreto e impunito. Poi una speranza triste e ardente le tremò in cuore.
«Se fosse Paulu!», disse sottovoce.
«Tu vorresti, magari! Sta zitta.»
Ella abbassò gli occhi, pensò a quello che avrebbe fatto se Paulu le fosse ricomparso davanti all’improvviso: si sarebbe gettata per terra, con gli occhi chiusi, le mani sulle orecchie, la bocca sulla polvere, per non vederlo, non ascoltarlo, non rivolgergli la parola.
Eppure, quando prete Virdis aprì il balcone e una voce di fanciullo, quasi piangente, supplicò: «Prete Virdis, mio padre sta male e vuole confessarsi», ella sospirò disillusa.
«Si è aggravato?», domandò il prete.
«Molto: pare un cadavere. Dalla bocca gli è venuto fuori tanto sangue, tanto san-gue…»
La voce del ragazzetto tremava: ad Annesa parve di vedere l’uomo che vomitava sangue, e ricordò il suo voto:
«Voglio assistere gli ammalati: chiuderò gli occhi ai moribondi».
Si alzò, vide che prete Virdis si metteva il cappello e si dirigeva verso l’uscio dimenticandosi di chiudere il balcone, e senza badare più a lei.
«Prete Virdis, posso assistere quel malato.»
«Anghelos santos! Non muoverti, tu: sta lì. Quel malato non ha bisogno di te. Tornerò presto.»
«Se zia Paula mi trova qui?»
L’altro aveva fretta; non le rispose, ma prese il lume, uscì e chiuse l’uscio a chiave. Ella ricadde seduta sulla cassapanca e non si mosse più: l’odore del basilico, il canto del grillo, lo scintillìo della stella penetravano per il balcone aperto, e dopo un momento ella ebbe l’impressione di trovarsi ancora seduta sullo scalino della porta che dava sull’orto di don Simone. E la dolcezza, la tristezza, il desiderio di tutte le cose perdute la riassalirono.
«Chi mi impedisce di tornare ? Se fossi entrata! Perché, perché non devo tornare? Chi me lo proibisce? Prete Virdis che mi ha chiuso a chiave? Perché non devo tornare?»
Il desiderio s’acuiva: ella era stanca, aveva sonno, aveva la febbre. Era tempo di ritornare a casa, di ricoricarsi sul suo lettuccio. Aveva camminato tanto, nell’ombra, fra le pietre, fra le spine: era tempo di riposarsi. Ecco, ella chiude gli occhi, si assopisce. Una figura balza subito davanti a lei: è zia Paula, la sorella borbottona di prete Virdis.
«Chi sei? Che fai qui? Una donna qui? Ah, quel Micheli sta diventando matto davvero: matto del tutto, perché un poco lo è sempre stato. Vattene.»
«Sono Annesa, zia Paula mia.»
«Che zia Paula o non zia Paula! Vattene; sono stufa dei malanni degli altri! Ne ho abbastanza dei miei.»
Annesa si alza, se ne va. Cammina, cammina, per le straducole scure, arriva , davanti alla casa di don Simone. La porta è chiusa: ella spinge il portone, e il portone si apre. Si vede che Gantine è uscito di nascosto dei suoi padroni, ed ha lasciato il portone aperto. Ella entra nel cortile, entra nella cucina, entra nella camera: dietro l’uscio arde il lumino da notte; zio Zua sta seduto sul lettuccio e respira affannosamente. Ella si butta sul canapè e sta per addormentarsi. Ma d’un tratto si solleva e guarda spaventata il vecchio. Come, non era morto? Non lo aveva ucciso lei? Che fa adesso il vecchio? Perché lo hanno rimesso lì? È vivo? È risorto? Parlerà? L’accuserà? Bisogna fuggire: bisogna camminare ancora; andarsene lontano.
Si svegliò tremando: pensò subito:
«Bisogna camminare, camminare ancora».

Poco dopo sentì prete Virdis rientrare: lo aspettò, ma egli tardò alquanto a salire.
«Deve essere entrato da zia Paula, per avvertirla che sono qui. Quanto borbotterà, quella donna.»
Zia Paula, invece, non borbottò. Ella dormiva in una cameretta terrena, poveramente arredata come la camera del balcone: quando prete Virdis entrò, e la svegliò dicendo che bisognava tener nascosta Annesa almeno per qualche giorno, zia Paula si contentò di rispondere:
«Adesso ti prende la mania di nasconder la gente, poiché non puoi nasconder tesori. Falla venir qui quella donna».
Prete Virdis condusse Annesa nella cameretta terrena e lasciò sole le due donne. Zia Paula rassomigliava molto al vecchio prete, col quale erano vissuti sempre assieme.
«Spogliati e vieni a letto con me: se non vuoi coricarti a fianco mio, còricati a piè del letto», disse semplicemente.
Annesa obbedì: il letto era abbastanza largo, e, sebbene non molto morbido, le parve un letto di piume.
«Da tante notti dormivo per terra», disse. «Ah, mi pare di essere entro una barca, e di andare lontano, lontano…»
«Dov’eri, Annesa, si può sapere?»
«Se sapeste! Ero nascosta nella sagrestia della chiesa di San Basilio.»
«San Basilio mio!», esclamò l’altra facendosi il segno della croce. «Sarà mai vero? Ed ora, perché non sei ritornata a casa tua?»
«Io non ho casa, zia Paula. Non sono tornata perché la gente dice…»
«È vero, è vero. La gente dice che tu hai fatto morire Zua Decherchi: lo hai fatto arrabbiare e non gli hai dato il calmante. È vero?»
Annesa non rispose.
«Dove andrai, Annesa? Non tornerai più dai tuoi padroni?»
«Chi sa? Ora ho sonno: lasciatemi dormire.»
«E Gantine? non l’hai riveduto? Egli gira per il paese, cercandoti; sembra un pazzo.»
«Povero Gantine. È tanto giovane!»
La vecchia insisté, ma Annesa chiuse gli occhi e ricadde nei suoi sogni tristi. E rimase altri tre giorni nascosta in quella cameretta melanconica, che riceveva luce da un finestrino praticato sul tetto. Di là sentiva la voce di Gantine che domandava notizie di lei.
«Figlio mio», diceva zia Paula, «Annesa deve essere scappata lontano, molto lontano. Ed ha fatto bene. Io me ne sarei andata in capo al mondo: sarei scappata come un gatto che ha toccato il fuoco.»
«Ma perché? ma perché?», domandava Gantine con voce lamentosa.
«Perché? Perché così! Va’, mettiti il cuore in pace, Annesa forse non tornerà mai più in questo paese.»
«Ah, quel vecchio! Se fosse ancora vivo lo ammazzerei io. Anche dopo morto ci tormenta.»
«È vero, è vero!», singhiozzò Annesa, nella penombra della triste cameretta.
«Ella non mi vuol bene», riprese Gantine. «Da molto tempo non mi vuol più bene. Me ne sono accorto io, sì. Altrimenti non avrebbe fatto così, zia Paula, non avrebbe fatto così. Capisco che ella serbi rancore contro i nostri padroni e non voglia più ritornare in una casa dove ha tanto sofferto. Perché è per causa loro.»
«Là, là, taci, linguacciuto», impose Zia Paula. «Che causa loro! Sono loro, invece, che dovrebbero dire…»
«Che cosa dovrebbero dire?»
«Insomma, se Annesa avesse dato il calmante al malato, egli non sarebbe morto.»
«Il calmante? Doveva strangolarlo, invece, doveva.»
«Là, là, linguacciuto, taci!»
Annesa si domandava:
«Se Gantine sapesse, mi scuserebbe? Forse sì. Anche lui lo odiava. Ma egli non saprà mai. No, no, no; vattene, Gantine, vattene. Io non voglio più ingannarti, non voglio più ingannare nessuno».
Finito di leggere il suo breviario, prete Virdis s’alzò, si affacciò al balcone. Il cielo s’era fatto cinereo; la stella che mandava il suo scintillìo verdognolo fin dentro la cameretta, era apparsa sopra la montagna lontana: il grillo cantava. Prete Virdis aspettava Paulu, e il vetturale zio Sogos, che doveva portargli una lettera da Nuoro. Ma entrambi tardavano: eppure la corriera doveva essere arrivata da oltre un’ora. Finalmente un vecchio, miseramente vestito, attraversò il piazzale e batté al portoncino sotto il balcone.
«Venite su. Era tempo», disse prete Virdis, ritirandosi.
Accese il lume, cercò la parrucca che stava ad asciugare sopra una sedia, e se la rimise ancora umida di sudore; poi chiuse il balcone e aprì l’uscio. Zio Sogos saliva la scaletta e sospirava.
«Siamo vecchi, prete Virdis, siamo vecchi: si cammina piano, adesso.»
Entrò. Alto, curvo, col viso rugoso e ispido di peli grigi, il vetturale sembrava un mendicante.
«Ebbene, avete veduto mia nipote?»
«L’ho veduta, le ho portato la lettera. Ecco qui la risposta.»
«Sedetevi lì un momento. Aspettate», disse prete Virdis, mentre apriva la lettera, senza accorgersi che la busta era stata già aperta.
«Va bene, va bene», disse poi, ripiegando il foglietto e lasciando la busta sulla tavola. «E adesso sentite, voi dovete farmi un favore.»
Il vecchio, seduto sulla cassapanca davanti alla tavola, fissava i piccoli occhi umidi e tristi sulla busta e allungava lentamente la mano.
«Comandi, prete Virdis. Lei mi ha tante volte aiutato. Sempre le ho detto: prete Virdis mi comandi; sono il suo servitore.»
«Bisogna che domani, no, posdomani, voi conduciate a Nuoro, nella vostra carrozza, una persona che non vuol esser veduta partire da Barunèi.»
«Va bene; ho capito», rispose prontamente il vecchio. «Basta che questa persona vada a piedi fino al ponte, posdomani mattina, presto, e mi aspetti là.»
«E se c’è qualcuno che vuol partire?»
«Si saprà domani sera: verrò ad avvertirla, se mai.»
«Va bene, E… silenzio, non è vero? Voi mi capite, non è vero?»
«Va bene: non dubiti.»
Il vecchio si alzò e mise la mano sopra la busta.
«Paula, porta da bere», gridò prete Virdis, affacciandosi all’uscio. Ma poiché nessuno rispondeva scosse la testa e disse: «Andiamo giù: vi farò dare un bicchiere di vino. O volete acquavite?».
«Vino, vino», rispose zio Sogos, stringendo la busta dentro il pugno. «L’acquavite non è mia amica.»
Dal suo cantuccio Annesa sentì la voce del vecchio carrozziere e sospirò. Finalmente! Doveva esser giunta la risposta da Nuoro. Ah, partire, partire! Arrivare in un luogo ignoto, fra gente nuova: cominciare una nuova vita, lavorare, soffrire, dimenticare, ella non pensava ad altro.
Appena uscito zio Sogos, prete Virdis entrò da lei e disse:
«Come, al buio? Ah, che fa quella donna benedetta, che ti lascia al buio? E che quest’anno non si trovano olive? Non si trova olio?».
«Per quello che ho da fare!», mormorò Annesa. «Eppoi il lume è qui.»
Si alzò e cercò i fiammiferi.
«Ecco qui la risposta di Maria Antonia mia nipote. Dice che ha trovato un posto per te, presso una famiglia nuorese.»
Nel sentire la buona notizia, ella provò quasi un impeto di gioia, ma d’improvviso tremò spaventata, e lasciò cadere il fiammifero acceso. La piccola fiamma violacea brillò e si spense: prete Virdis tacque; e nel silenzio, nelle tenebre, Annesa dimenticò ogni cosa passata, ogni cosa presente, per ascoltare la voce di Paulu Decherchi.
«Che fate, zia Paula? Dov’è prete Virdis?»
La sua voce era seria, quasi dispettosa. «Ah, ah, è lei, don Paulu? Micheli verrà adesso. Venga su, in camera.»
«Dov’è? dov’è?»
«Venga, venga su.»
Zia Paula lo precedette col lume: egli la seguì.
«Che vuole?», domandò Annesa, piano, e prete Virdis rispose sottovoce:
«Non so. Credo che egli dubiti, come lo dubitano tutti, che tu sii qui. Ecco ti lascio qui la lettera, leggila. Vado. Coraggio!».
Ella accese un altro fiammifero e lesse le poche righe scritte malamente.

Caro zio,
Mi sono subito occupata della vostra commissione. Ci sarebbe un posto buono per la donna che mi raccomandate. Il padrone sarebbe un proprietario benestante di Nuoro, che ha la moglie vecchia e non ha figli. C’è però da lavorare: fare molto pane d’orzo per servi, e lavorare anche in campagna. Però questi padroni sono persone caritatevoli, e tratterebbero molto bene la serva da voi raccomandata. Se questa vuole può venire anche da domani. Noi siamo sani, ecc. Vostra nipote
Maria Antonia

Annesa lesse e rilesse, ma il suo pensiero era là, nella cameretta dove prete Virdis e Paulu parlavano certo di lei. Che cosa dicevano? Che voleva Paulu? Ella avrebbe dato dieci anni del resto della sua miserabile vita per poter ascoltare il colloquio fra i due uomini. E ripeteva a se stessa l’ultima parola di prete Virdis: coraggio! Sì, coraggio, Annesa, coraggio, coraggio. Coraggio, per lottare, per vincere, per non ricadere nell’abisso molle e tenebroso del peccato.
In cucina non si sentiva più alcun rumore: senza dubbio zia Paula, curiosa, stava ad origliare su, all’uscio della cameretta del balcone. Purché i due uomini non accennassero all’orribile segreto. No, non era possibile: Paulu non sapeva, non dubitava, non poteva credere. E prete Virdis aveva detto: «Prima ch’io parli di ciò le mie labbra si disseccheranno».
No, essi discutevano forse sulla scomparsa di lei: Paulu forse diceva:
«So che ella è qui: voglio rivederla, voglio costringerla a tornare a casa».
E prete Virdis sbuffava e rispondeva:
«Anghelos santos, quanto sei cocciuto, figlio caro. Non hai capito che Annesa è andata via lontano, e che le conviene di non ritornare più in casa tua?».
Un passo in cucina: poi di nuovo silenzio. Ah, sì senza dubbio, zia Paula era salita su, fino all’uscio della cameretta, e stava ad origliare; Annesa ne provava dispetto ed invidia: anche lei avrebbe desiderato salire la scaletta, mettersi ad ascoltare. Quasi vinta dalla tentazione, ripiegò il foglietto, s’avvicinò all’uscio e cominciò ad aprirlo, senza far rumore.
E subito vide Gantine, seduto immobile sulla panca in fondo alla cucina. Egli fissava gli occhi sulla porta d’ingresso, ma dovette accorgersi di qualche cosa perché subito si alzò e si guardò attorno. Non vide nulla. Annesa s’era ritirata rapidamente e aveva chiuso l’uscio, appoggiandovisi tutta, quasi per impedire al giovine di penetrare nella cameretta. Passarono alcuni momenti: la voce di zia Paula la richiamò dal suo stupore e dal suo turbamento.
«Gantine, che fai qui?», domandava inquieta la vecchia.
«Vi aspettavo. Adesso però stavo pensando di portar via la pentola che bolle sul vostro focolare», rispose il giovine, sforzandosi a mostrarsi disinvolto. «Avresti fatto un magro affare! Credi che contenga fave con lardo, la mia pentola? No, guarda: contiene patate. Siediti, Gantine. Come, non sei ripartito per la foresta?»
«Dal momento che son qui non posso essere ripartito», egli disse, acremente.
E di nuovo, per qualche momento il silenzio regnò nella cucina: Annesa ascoltava, palpitando; aveva paura che Paulu, andandosene, entrasse e nel vedere Gantine provocasse una scena.
«Sì», disse il servo, dopo un momento, «don Paulu voleva che io partissi: ma io m’infischio di lui. Egli è arrabbiato, questi giorni; sembra il diavolo in persona: ma sono arrabbiato anch’io. Sono arrabbiato con tutti: e con voi, anche, soprattutto con voi.»
«Maria Santissima!», esclamò la vecchia, non senza ironia. «E perché sei così arrabbiato, Gantine?»
«Lo sapete il perché, zia Paula. Annesa è qui: è nascosta qui, forse è là, dietro quella porta. Ebbene, che ella mi senta, se è lì; bisogna che io parli.»
«Parla piano», supplicò la vecchia. «Parla pure, ma non alzare la voce. Annesa non può sentirti. Così sia lontano da noi il diavolo, come ella è lontana di qui.»
«Ella è qui, è qui, in questa casa», ripeté Gantine, con voce triste, ma ferma. «Non mentite, non bestemmiate, zia Paula! Abbastanza sono oggetto di riso e di compassione. Ma che io taccia, che io non parli, ah, no, perdio. Troppo a lungo ho fatto lo stupido. Ora ho capito tutto, tutto ho compreso, zia Paula, e voglio farlo sapere a chi tocca.»
«A me? Tocca a me?»
«Anche a voi, sì: e diteglielo, a quella donna, ditele che ho capito tutta la commedia. Non farò scandali, ripeto: non son cattivo, io. Altri, altri son più cattivi di me.»
Egli quasi piangeva. Per un momento Annesa, vinta da quel sentimento di tenerezza quasi materna che la giovinezza e la bontà d’animo di Gantine le avevano sempre destato, ebbe l’idea di aprire l’uscio, e dire al giovine qualche parola di conforto: ma l’altro poteva sorprenderli e lei, lei non voleva più rivederlo, l’altro.
«Stasera», proseguì Gantine, «ho veduto Paulu confabulare con zio Sogos; leggevano una lettera; dovevano senza dubbio combinare la partenza di Annesa: già tutti questi giorni essi stanno sempre assieme. E lui, Paulu, il mio padrone, lui crede che io non sappia nulla, mentre so tutto. Ho le orecchie per sentire, gli occhi per vedere.»
«E io non so niente, figlio del cuor mio; io non so proprio niente.»
«Allora ve lo dirò io, quello che succede. Paulu vuole sposare Annesa, ed Annesa forse non è contraria a questo progetto. Da lungo tempo non è più l’Annesa di una volta: non mi ama più, non pensa più a me. Quando partii per la foresta non mi volle neppure baciare. Io partii con un brutto presentimento in cuore. E dopo è accaduto quello che doveva accadere. Adesso Paulu vuole sposarla, perché dice che ella è perseguitata e calunniata per colpa della famiglia Decherchi.»
«Come sai queste cose, Gantine? La fantasia ti trascina», disse la vecchia curiosa e turbata. «Non t’inganni? Non t’inganni?»
«Non m’inganno, non m’inganno, zia Paula. Il fatto è così. Perché Annesa non torna a casa? Perché Paulu non vuole. Perché egli ha avuto ed ha continuamente lunghe e acerbe discussioni coi suoi nonni e con sua madre? Essi credono Annesa colpevole, ed anche Paulu lo crede. Egli dice che vuol sposare Annesa per dovere; essi lo chiamano pazzo. Egli dice che vuol andarsene via, lontano, nelle miniere, e condurre Annesa con sé: donna Rachele piange sempre, don Simone pare moribondo, moribondo per la rabbia e il dolore. Le cose stanno così, zia Paula, stanno così, purtroppo.»
«Ma Annesa forse non ne sa niente.»
«No, no! No, no! Essa è d’intesa con Paulu. Altrimenti sarebbe tornata a casa. Essa non torna perché è quello che è. La donna degli inganni e delle perfidie, il gatto selvatico traditore. Io oramai l’odio, io non la sposerei più, neanche se avesse due tancas, da mille scudi l’una.»
«Ma allora perché la cerchi? Che t’importa più di lei? Lasciala tranquilla.»
«Io l’odio», ripeté Gantine, ma con voce monotona e triste.
Dietro l’uscio Annesa mormorava fra sé:
«Meglio. Meglio. Meglio così!».
«Io la cerco?», riprese Gantine. «Non è vero; non m’importa più nulla di lei; solo, vorrei vederla per dirle che non sono uno stupido, per dirle che io non voglio essere un uomo ridicolo, per dirle che ho pietà di lei. Povera disgraziata! Ella non ha mai veduto il chiodo che le forava gli occhi; la stupida è sempre stata lei, non io. Io sono un uomo: soffro e soffrirò, ma forse vincerò la prova, e mi dimenticherò di lei, e troverò un’altra donna che mi vorrà bene. Ma lei, lei che farà? Anche se sposa il padrone, che farà? Sarà sempre la serva: Paulu la bastonerà fin dal primo giorno della loro unione; farà ricadere sopra di lei tutti i guai che l’hanno perseguitato. Annesa è stata sempre tormentata e sfruttata da loro, e continuerà ad essere il loro zimbello, la loro vittima. E io riderò: vedrete che riderò, zia Paula.»
Intanto però, non rideva: la sua voce lamentosa e dispettosa pareva la voce d’un bimbo pronto a piangere.
Zia Paula non sapeva che dirgli, e andava e veniva per la cucina, preparando la tavola per la cena; e cominciava ad inquietarsi anche lei al pensiero che Paulu potesse da un momento all’altro scendere e sentire le cattive parole del servo.
«Del resto», egli proseguì, «vi assicuro che non m’importa proprio niente. Ne trovo io delle donne! E più belle, più oneste, più giovani di lei. Ella ha quasi quarant’anni, io non ne ho neppure ventisette: vada al diavolo. Quando lei sarà vecchia io sarò ancora giovane.»
«Ma giusto: è quello che dico io. Perché ti inquieti tanto, dunque? Guardati un’altra donna; non perder tempo, giglio mio, Ci sarebbe Ballora, la nipote di Anna Decherchi, che ti converrebbe: ha qualche cosetta, anche.»
Ma Gantine batté le mani, e disse con un grido di rabbia:
«State zitta! Perché mi parlate di queste cose? Io non penso a questo, adesso».
«Non gridare; senti. Mi pare che scendano.»
«Chi?»
«Micheli e don Paulu.»
«Don Paulu è qui!», egli disse, abbassando la voce. «Bisogna allora che me ne vada.»
Si alzò, stette in ascolto. Dietro l’uscio Annesa cercava invano di reprimere la sua ansia.
«Io vado», disse Gantine, dopo un momento, con la voce mutata. «Zia Paula, buona notte. Non so se domani potrò ritornare. Se vedete Annesa, come certamente la vedrete, ditele così da parte mia: “Annesa, fai male a trattarmi così: fai male, perché se c’è una persona che ti vuole veramente bene sono io. Annesa, mandami a dire qualche cosa: farò quello che tu vorrai”. Poi le direte così: “Anche se è vero quello che la gente dice che tu hai fatto morire il vecchio a me non importa. Io l’avrei fatto morire un anno prima d’oggi: l’avrei strangolato, l’avrei buttato sul fuoco”.»
«Bei sentimenti, hai, giglio d’oro», esclamò zia Paula. «Andrai all’inferno vivo e sano.»
«L’inferno è qui, in questo mondo, zia Paula.»
Quando fu per uscire aggiunse:
«Le direte poi così: “Annesa, non fidarti di Paulu: egli è una vipera, null’altro. Egli non ti vuol bene: se ti vuole sposare è perché crede che tu abbi ammazzato il vecchio per lui, e non vuole avere rimorsi”. Eh, è uomo di coscienza, don Paulu! Oh, un’altra cosa, che ho saputo stamattina», concluse, ritornando indietro di qualche passo. «Le direte così, poi: “Annesa, c’è una donnaccia di Magudas, una vedova facile e denarosa, la quale l’altro giorno s’è vantata che Paulu Decherchi è innamorato pazzo di lei, e che lei gli ha prestato molti denari, il giorno prima che zio Zua morisse; e che glieli ha prestati perché egli ha promesso di sposarla”. Buona notte, zia Paula».
«Aspetta, aspetta», implorò la vecchia, curiosa, correndogli appresso: ma egli andò via, promettendo di ritornare.
Annesa, appoggiata all’uscio, con le braccia tremanti abbandonate lungo i fianchi, si sentiva soffocare, come quando, nella notte del delitto, aveva saputo che Paulu era passato nella via senza avvertirla: e si sforzava a non credere alle parole di Gantine, ma in fondo al cuore sentiva ch’egli non aveva mentito. Ubriaca di dolore ripeteva a se stessa:
«Meglio, meglio. Meglio così!».