VI.

Ella uscì nell’andito, ma non aprì subito.
«Annesa, apri, sono io», disse Paulu, battendo di nuovo alla porta.
Ella chiuse l’uscio, ma poi per timore che Paulu volesse attraversare la camera per andare in cucina, rientrò, s’avvicinò al letto, sollevò la coperta.
Il vecchio con la testa abbandonata sui cuscini, stringeva i pugni, e teneva gli occhi aperti, la bocca spalancata: il suo viso era rosso, d’un rossore lividognolo, e pareva ridesse sguaiatamente. Ella non dimenticò mai quel viso colorito, quella bocca aperta che lasciava scorgere quattro denti corrosi, quegli occhi che riflettevano la fiammella del lume che ella teneva in mano, e parevano vivi, beffardi, ridenti.
Paulu picchiò ancora.
Ella distese la coperta sul letto, coprì il vecchio fino al collo, poi uscì e dopo aver deposto il lume sulla scala aprì.
«Annesa, che fai?», domandò Paulu.
«Mi vestivo. Come, sei tu, Paulu? E il cavallo?»
Egli entrò, avvolto nel lungo cappotto bagnato, con una piccola bisaccia in mano: era pallido, ma sorrideva, e i suoi occhi scintillavano. E Annesa, dopo averlo sognato agonizzante, sentì un’angoscia mortale nel vederlo così insolitamente sereno.
Egli disse scherzando:
«Il cavallo l’ho venduto». Poi aggiunse, serio: «Non mi hai sentito passare, poco fa? Ho pensato che il temporale avesse inondato la tettoia: ho lasciato il cavallo da zio Castigu, perché domani lo conduca al pascolo».
Non era la prima volta che questo avveniva, ma ella se ne meravigliò come d’un fatto straordinario. Paulu si tolse il cappotto: ella si affrettò a levarglielo di mano e ricordò la sua preoccupazione durante il temporale.
«Il cuore mi diceva che eri in viaggio», disse sottovoce, poiché le sembrava che il vecchio sentisse ancora. «Ma non ti aspettavamo. Ho ricevuto il biglietto. Che spavento! Ho avuto la febbre.»
«Lo vedo che tremi», mormorò Paulu. «Sai, invece ho trovato i denari. Aspettami un momento. Vado su e scendo subito.»
Ella fece un rapido movimento verso di lui, lo guardò con gli occhi spalancati: egli l’abbracciò, la strinse a sé, la baciò sulle labbra.
«Sì, ho trovato; ho trovato. Aspettami.»
La lasciò, prese il lume e salì alle stanze superiori. Ella non sentì la stretta, non sentì il bacio, non capì che due sole cose, orribili, orribili. Egli aveva trovato i denari, egli era passato prima che ella commettesse il delitto e non aveva picchiato alla porta. Sedette sul gradino della scala al buio, col cappotto grave e umido sulle ginocchia, e le parve che un peso enorme la schiacciasse. Egli era passato e non l’aveva avvertita: egli era salvo ed ella era perduta.
Ma la stessa disperazione le diede un impeto di forza: si ribellò al dolore, al rimorso, alla paura, a tutte le cose terribili che l’avvolgevano e la soffocavano come la coperta aveva soffocato il vecchio. S’alzò, lasciò cadere il cappotto, attraversò l’andito e aprì la porta che dava sull’orto. Vide lo sfondo lunare del cielo argenteo sopra il bosco nero, e respirò.
«Ho fatto tutto per lui», pensò, intrecciando con moto convulso le mani. «Ero cieca, non vedevo, non sentivo. Ed egli è passato e non mi ha avvertito! Egli mi ha scritto che voleva morire e invece sperava ancora. Mi ha ingannato… mi ha ingannato…»
Paulu la sorprese sul limitare della porta spalancata. e pensò che ella avesse aperto per uscire con lui nell’orto, come di solito facevano. La prese quindi per la vita e la trascinò con sé. Il terreno era umido, la notte fresca: l’acqua del fossatello in fondo all’orto, ingrossata dall’acquazzone, brillava alla luna; dal bosco veniva un odore di erba e di terra bagnata: Annesa non si accorgeva di nulla, ma Paulu, nonostante la stanchezza del viaggio, provava una eccitazione febbrile, sentiva la dolcezza della notte, voleva partecipare la sua gioia all’amante. Gli pareva giusto, dovendo farsi perdonare da lei qualche torto. Non s’avanzarono fino al bosco troppo umido, quella notte: rasentarono la casa, e si fermarono vicino alla porticina del cortile.
«Ti sarai spaventata», egli disse, tenendola sempre stretta a sé. «Mi sono tanto pentito di quel biglietto: ero disperato. Ti racconterò tutto, adesso: ti sei spaventata, vero?»
Annesa non rispose: pareva indispettita.
«Ebbene, perdonami. Sta allegra; senti che cosa mi è capitato.»
«Sarà meglio che chiuda la porta di casa e faccia il giro per aprire qui: staremo meglio nel cortile. È tardi, è tanto tardi», ella mormorò cercando di liberarsi dalla stretta di lui.
«Aspetta un po’, Annesa. Non mi hai dato ancora un bacio.»
Egli la baciò con più ardore del solito: pareva che avesse corso qualche pericolo, che avesse temuto di non rivederla più, e rivedendola sentisse di amarla più di quanto credeva.
Ella scottava, tremava, ma non per i baci di lui: vedeva sempre davanti a sé il viso colorito e il sorriso macabro del vecchio, e temeva e sperava ch’egli potesse tornare in vita.
«Chiamando il medico, forse…», pensava.
«Annesa, che hai? La febbre?», prosegui Paulu. «Adesso andrai a letto, aspetta; solo volevo dirti che cosa mi è capitato, dopo che ho scritto il biglietto. Son ritornato nel paese di don Peu; egli mi aveva fatto conoscere la vedova di un brigadiere, una certa Zana che presta danari a interesse. La prima volta ella mi aveva detto di no: spinto dalla disperazione torno da questa vedova, e le dico…»
Egli mentiva e sentiva di mentire male, ma Annesa non se ne accorgeva. La storia da lui raccontata la interessava fino ad un certo punto: oramai ben altre cose le passavano per la mente. Eppure provava un certo dispetto contro la vedova che, al dire di Paulu, s’era lasciata commuovere e gli aveva prestato lì per lì seicento scudi all’interesse del dieci per cento.
«È giovane, o vecchia?», domandò.
«Chi lo sa? Sembra giovane, ma a guardarla bene… Infine», si corresse subito Paulu, «questo non importa, ciò che importa è che ha dato i denari.»
«Lasciami: vado e chiudo», supplicò Annesa, spaventata. «Mi è parso di sentire un rumore. Donna Rachele può essersi svegliata. Hai fatto tanto chiasso.»
«Dormivano tutti, sta tranquilla.»
«Lasciami andare, Paulu. Ho paura. Se ci trovano nel cortile poco male: fingiamo di prendere legna per accendere il fuoco e asciugare il tuo cappotto. Ma qui… è tardi.»
Egli la lasciò: ella corse, leggera e silenziosa, rientrò, chiuse. Paulu aveva lasciato il lume nell’andito: ella lo prese, entrò nella camera, in punta di piedi, e s’avvicinò al lettuccio, attratta da una misteriosa suggestione.
Il vecchio era sempre là, immobile e livido sotto la coperta. E rideva ancora, col suo riso spaventoso, con la testa abbandonata sul cuscino, e i quattro denti neri nel lividore della bocca aperta. Ella lo guardava e non le pareva possibile che egli fosse morto: e avrebbe voluto scuoterlo, chiamarlo, ma aveva paura. Sempre in punta di piedi tornò in cucina, riaprì le porte, si ritrovò con Paulu, che le domandò sottovoce:
«Non s’è svegliato?».
«No, no», ella rispose, «dorme: non s’è neppure svegliato quando hai suonato. Ha avuto un accesso d’asma, poi s’è addormentato; pare morto. Ho paura.»
«Lo fosse almeno!», egli disse con indifferenza. «Del resto non abbiamo più bisogno di lui. Cioè, se morisse mi farebbe piacere, così non starei in debito verso una donna come la vedova del brigadiere.»
Ella avrebbe voluto insistere, pregarlo di andare in cerca del medico; ma aveva paura si scoprisse la terribile verità: anche Paulu cambiò subito discorso; entrambi avevano qualche cosa da nascondersi, e preoccupati di questo non si accorgevano della menzogna reciproca. Ella però capiva che doveva mostrarsi più allegra, e finger meglio.
«Sono contenta che tu abbia trovato», disse con voce tremante. «Adesso non ripartirai presto, spero. Il tuo biglietto mi ha tanto spaventato, sai: credevo che tu volessi morire.»
«Non parliamone più. Sono qui, e spero infatti di non ripartire presto. Ho pensato sempre a te, Annesa. Ho pensato: ora potremo respirare alquanto; io potrò lavorare, potrò… Sì, voglio fare qualche cosa: è tempo di pensare ai casi miei. Don Peu mi ha proposto un affare: egli possiede una miniera, sui monti di Lula, e vuole esplorarla: gli ho chiesto, scherzando, se voleva prendermi con sé, come sorvegliante e cantiniere dei lavoratori, gli dissi che desideravo allontanarmi per un po’ di tempo da questo paese, dove tutto mi riesce odioso. Egli accettò.»
«Tu, cantiniere, tu?», disse Annesa con dolore.
«Io, sì; che male c’è? Non è vergogna lavorare, Annesa. E poi, non sarebbe neppure lavoro, il mio. Con mille lire metterei su la cantina, cioè una specie di trattoria dove i minatori si provvedono del pranzo e di quanto loro occorre. Guadagnerei il mille per cento. Sì, sì, è conveniente, ci ho pensato bene. Sono contento più per questo che per aver trovato i denari. Chi sa, Annesa, forse la sorte si è stancata di perseguitarci. Non dir nulla, però, neppure alla mamma. Prima ho bisogno di aggiustare i nostri affari. Ah, son davvero contento», ripeté esaltandosi, «son contento anche per quel diavolo maledetto di vecchio. Gli farò vedere che non abbiamo bisogno di lui: e se continua a tormentarci lo farò cacciar via di casa. No, non abbiamo più bisogno di lui. Ma tu tremi, Anna, perché non prendi qualche cosa? Hai provato a bere un po’ di caffè? Senti, anch’io voglio qualche cosa; sento un po’ di freddo.»
«Vuoi mangiare? C’è qualche cosa: oggi avevamo il pranzo dei poveri.»
«Mangiare, no: bere. Vado in cantina, poi torno. Vorrei parlare anche con mia madre, per dirle che ho trovato i denari. Ma aspetterò a domani.»
«Tu vuoi passare nella camera?», ella chiese, spaventata.
«Ebbene, se si sveglia che c’importa? Non posso fare quel che voglio, in casa mia? Non ho più paura di lui.»
«No, aspetta, ti porterò da bere qui: non passare, non svegliare donna Rachele: è tanto stanca, ha tanto lavorato.»
E poiché ella voleva di nuovo allontanarsi, Paulu la trattenne.
«Aspetta un momento. Avevo da dirti una cosa; ora non ricordo più. Lascia stare: non voglio bere. Non voglio bere più, sai: anche ieri sera ho bevuto, anche oggi… un pochino.»
«E anche domani», mormorò Annesa, che sapeva quanto valevano le promesse di Paulu, non esclusa quella di cercarsi un impiego e di mettersi a lavorare.
«Ah, tu non credi!», egli protestò, «ma vedrai, vedrai: da domani io voglio essere un altro.»
«Domani», ella pensò, «che accadrà domani?»
Paulu la sentì rabbrividire e la pregò di andarsene a letto: ma ella insisteva.
«Ti porto da bere: vado e torno. Aspetta, anch’io devo dirti una cosa.»
«Dimmela. Ti ripeto che non voglio più bere! Ah, tu non credi che io non possa tenere una promessa? Non sono più un fanciullo: in questi ultimi giorni ho pensato ai casi miei, e ho deciso di finirla con tutte le sciocchezze.»
«Anche con me!»
«Sì, anche con te», egli disse con voce grave. «Senti, Annesa, desideravo parlar prima con mia madre, per domandarle consiglio, ma poiché sento che ella non potrà che consigliarmi di fare il mio dovere… ti dirò… Ebbene, sì, tu devi averlo capito.»
«Io non capisco», ella mormorò, sollevando gli occhi che aveva tenuto sempre chini quasi il sonno la vincesse.
«Tu non capisci? Io voglio sposarti, Annesa. Ti porterò via con me, andremo nelle miniere: nessuno si metterà più fra noi.»
Egli non disse, forse perché non lo confessava neppure a se stesso, che un po’ di calcolo entrava in questa sua decisione. Aveva bisogno di compagnia, per resistere alla solitudine e alla desolazione del soggiorno su le aride montagne di Lula, e aveva bisogno d’una donna per aiutarlo nella meschina bisogna di cantiniere. Del resto, per dire il vero, l’idea di sposare o semplicemente condurre con sé Annesa lo incoraggiava nel proposito di recarsi nelle miniere.
Ad ogni modo egli si aspettava, per parte di lei, una viva manifestazione di gioia; ella invece pareva non capire, o piuttosto non credere alle parole di lui; e per la seconda volta provò una impressione strana, di soffocamento, di vertigine; le sembrò di sentire in lontananza una risata misteriosa, triste e beffarda.
«Perché ridi?», domandò Paulu, sorpreso. «Che c’è da ridere? Tu non credi più a quello che ti dico: non parlo più, dunque, ma ti ripeto, vedrai se son bugiardo o no. Parleremo meglio domani: ora vado anch’io a letto; sono stanco e qui fa freddo, e tu hai la febbre. Parleremo domani.»
Fece un passo, poi si fermò ancora e disse, con un po’ d’ironia:
«O non ti piacerebbe venire con me, nella miniera?».
Ella non rispose, ma gli si avvinghiò al collo e scoppiò a piangere: e tutto quanto v’è di più amaro nel pianto umano, la disperazione, il rimorso, l’odio contro il destino che si diverte mostruosamente a tormentarci, vibrò nel pianto di lei.
Paulu era abituato a veder piangere la sua poco allegra amica: qualche volta si commoveva anche lui, qualche volta s’irritava: ora non potendo spiegarsi in altro modo l’eccitazione di lei, l’attribuì alla gioia, alla speranza, alla passione che ella doveva provare in quel momento. Ma quando era allegro, egli amava la gente allegra.
«Annesa», disse, «finiscila: lo sai, non mi piace vederti piangere. Abbiamo pianto abbastanza; è tempo di finirla. Su, dimmi qualche cosa, prima di lasciarci, poiché veramente non hai aperto bocca che per pronunziare cattive parole. Quando vuoi, però, sai parlare bene: dimmi una buona parola, e poi andiamocene a dormire. Oggi è stata una giornata ben lunga e faticosa; adesso tutto è finito, però. Perché continui, ragazza? Credi pure, oramai tutto è finito; arriva un momento di riposo per tutti.»
Ella piangeva col viso nascosto sul petto di lui. Avrebbe voluto morire così, sciogliersi in lagrime, addormentarsi per sempre. Una stanchezza mortale le pesava sulle spalle, le piegava la testa: ogni parola di Paulu la colpiva, le riusciva dolce e tormentosa nello stesso tempo.
Egli cercò di staccarsi da lei, ma non gli riuscì: ella aveva una terribile paura che egli, passando per la camera, si accorgesse del delitto: e temeva anche di star sola, sebbene il sonno la vincesse. Come i febbricitanti, e le persone circondate di gravi pericoli, non voleva addormentarsi: già mille fantasmi le apparivano in lontananza; tutto diventava sempre più torbido e pauroso intorno a lei.
Paulu, che era stanco e voleva ritirarsi, la trascinò con sé fino alla porta di cucina; ma quando vide la candela, posata per terra vicino al focolare, ella ricominciò a tremare, a battere i denti, e si strinse maggiormente a lui.
«Non soffocarmi», egli le disse all’orecchio, scherzando.
Ella lo lasciò subito e s’irrigidì, ma perché egli non se ne andasse, cominciò a parlare; pareva vaneggiasse.
«Aspetta: ho da dirti una cosa. Non occorre aspettare a domani per parlare. Verrò nella miniera. Sicuro, se vuoi posso venire da domani, da stanotte. Verrò. Come puoi aver pensato il contrario? Vuol dire che non mi conosci; se no sapresti che con te io verrei nell’esilio, lontano, in altre terre, nelle altre parti del mondo. Se tu commettessi un delitto, verrei con te nell’ergastolo, porterei le catene, non ti lascerei mai, metterei la mia mano fra la tua carne e le catene.»
«Speriamo non occorra», egli osservò, poco turbato.
«Senti, Paulu. Dovevo dirti una cosa, aspetta…», ella proseguì, passandosi una mano sul viso. «Ah, ecco, non voglio che tu parli con tua madre, riguardo al nostro matrimonio: non parlarne con nessuno.»
«Hai paura di Gantine?»
Ella non ci pensava neppure, e accennò semplicemente di no.
«Le dirai soltanto che vuoi andare nelle miniere, che mi porterai con te come serva, perché solo non potresti vivere, lassù. Mi lasceranno venire, sì: dopo, se occorrerà, ci sposeremo. Io non lo pretendo, lo sai, basta che tu non mi abbandoni! Se Dio esiste, ci perdonerà: i preti assolvono tutto, non è vero? Che ne dici? Prete Virdis mi assolverà, lo so, mi assolverà.»
«Mia madre acconsentirà meglio a lasciarci sposare, che a partire assieme, soli, per un luogo lontano.»
«Mi dispiace, ma io verrò egualmente, anche se lei non vorrà: io bacio le mani dei miei benefattori, ma vengo con te, Paulu. Fuggirò, se tu vai via», ella continuò, prendendogli un braccio e stringendolo forte. «Tu non mi lascerai qui, vero? Bada che ora hai promesso! Non voglio che tu mi sposi, ma voglio che mi porti via con te. Hai promesso, sai, Paulu, hai promesso. Ah, ah… Paulu…»
«Annesa, che hai?», egli disse, inquieto. «Ho promesso e manterrò. Va a letto. Prenditi qualche cosa, non vedi che hai la febbre? Vai. Se sapevo, non ti dicevo niente, stasera.»
Ma ella non badava alle parole di lui: il suo pensiero vagava lontano.
«È lontana, la miniera?»
«No: bisogna passare per Nuoro, poi si arriva lassù dopo cinque o sei ore di viaggio a cavallo. Ma va a dormire, cristiana; parleremo di questo domani. Passerò in punta di piedi nella camera: l’istrice non si sveglierà. Tu chiudi e va subito a letto: su, Annesa, non farmi adirare.»
La baciò ancora, ma sulle labbra di lei non sentì che il sapore salato delle lagrime: poi attraversò la cucina senza far rumore, ed ella provò quasi un impeto di gioia nell’accorgersi che egli non prendeva il lume.
Con gli occhi spalancati, il respiro sospeso, ella ascoltò; e quando i passi furtivi di lui cessarono, le parve di essere sola nel mondo, abbandonata da tutti, sul limitare di una porta che s’apriva su un luogo di terrore e di morte.
Dopo un momento di esitazione entrò e chiuse. Ma non ebbe più il coraggio di entrare nella camera, per quanto una suggestione malefica l’attirasse là dentro. Sedette accanto al focolare, al posto dove s’era indugiata qualche ora prima, e frugò la cenere con un fuscello. Il fuoco s’era spento completamente. Ella sentiva freddo, ma non osò o non ebbe più la forza di muoversi.
Rimise i gomiti sulle ginocchia, il viso fra le mani, e le parve che la testa le girasse vertiginosamente intorno al collo: e quest’impressione le riusciva quasi piacevole. Le pareva di non essersi mossa da quel posto in tutta la notte: tutto era stato un sogno, orribile da prima, triste e dolce poi. Il vecchio dormiva ancora, Paulu viaggiava, avvolto nel suo cappotto bagnato.
Le visioni della febbre tornavano a circondarla; fantasmi apparivano e sparivano fra la nebbia; a momenti ella li riconosceva: zio Castigu, prete Virdis, Rosa, Gantine: ma poi, nel mistero della nebbia, avvenivano strane metamorfosi, zio Castigu le sorrideva con la bocca infantile del suo giovane fidanzato; sulla sottana di prete Virdis si disegnava il viso triste di Rosa; e la figura incappucciata, che viaggiava su un cavallo fantastico, in lontananza, nera sullo sfondo della notte vaporosa, non era Paulu, no, era un essere misterioso, un vecchio mendicante che andava verso le miniere di Lula, in cerca di una bambina smarrita. Annesa smaniava e gemeva: nel sonno sentiva i suoi gemiti e sapeva di sognare, ma per quanti sforzi facesse non riusciva a svegliarsi; così dormì qualche ora tormentata da sogni febbrili.
Quando si svegliò, intirizzita, ricordò ogni cosa, e con improvvisa lucidità di mente pensò a quanto le restava da fare. La febbre era cessata ed ella non sentiva più né terrore, né paura, né indecisione. Ritornava ad essere una creatura di finzione e di silenzio, in lotta con la sorte maligna. Perché tremare, perché smarrirsi? Ella non aveva nulla da perdere, purché non accadesse male ai suoi benefattori. Non sperava nulla per sé, in questo mondo: non credeva nell’altro.
Si alzò, sbadigliò, rabbrividì di freddo. La notte era alta ancora, ma si udivano i galli cantare, e qualche roteare di carro risonava in lontananza, nel silenzio delle straducole umide, illuminate dalla luna. Il lume ad olio ardeva ancora, ma il lucignolo aveva formato una specie di funghetto di fuoco che mandava un fumo nero ed acre.
Come un vecchio delinquente ella cominciò a preparare ogni cosa prima di chiamare i suoi benefattori; prese il lume, lo riempì a metà d’olio, tagliò con le forbici il lucignolo arso; entrò nella camera, cautamente; e prima di tutto guardò se il canapè era abbastanza in disordine, poi tolse la coperta dal viso della vittima e stette lungamente a guardarla. Il vecchio continuava a sorridere, col suo orribile sogghigno; ma il volto s’era fatto grigio, gli occhi si erano un po’ socchiusi e appannati. Ella avrebbe voluto scuotere il cadavere, fargli prendere un’altra posizione, ma non osò: le destava un raccapriccio invincibile, le pareva che, toccandolo, le sue dita sarebbero rimaste attaccate a quelle carni morte.
Poi si levò il corsetto, il grembiale, li depose sulla sedia: si scompigliò i capelli, si passò le mani sul viso, sugli occhi, quasi per comporsi una maschera d’indifferenza; poi salì al primo piano, e batté all’uscio della camera di donna Rachele. Gli uomini dormivano all’ultimo piano: zio Cosimu anzi s’era fatto un lettuccio su in soffitta, fra i mucchi di frumento e di legumi.
Donna Rachele si chiudeva a chiave: ella dormiva poche ore della notte, ma aveva il sonno pesante, e Annesa dovette picchiare tre volte per svegliarla.
«Donna Rachele, apra; zio Zua sta male, sta per morire.»
«Gesù Maria, va e chiama subito prete Virdis. Va e chiama mio padre», gridò la vedova, correndo ad aprire.
Rosa, che dormiva con la nonna, si svegliò e si mise a piangere: Annesa entrò nella camera, col lume in mano, e mentre donna Rachele si allacciava tremando la sottana, disse tranquillamente:
«Non si spaventi. Credo che zio Zua sia morto»,
«Come lo dici!», gridò la vedova, correndo scalza verso l’uscio. «Morto così, senza sacramenti, senza niente! Che dirà la gente, Signore mio Dio. Che lo abbiamo lasciato morire così! Ma perché non chiamavi?»
«Non mi sono accorta di nulla. Ora, pochi minuti fa, mi sono svegliata, e non…»
Donna Rachele non l’ascoltava più. Scalza, in sottanino, s’era precipitata giù per le scale, al buio, gemendo e gridando:
«Senza sacramenti! Dio, Signore mio, senza sacramenti!».
Rosa piangeva sempre. Don Simone batté il bastone sul pavimento della sua camera, Paulu aprì il suo uscio e domandò:
«Cosa c’è, Annesa? Mamma?».
Annesa ricominciava ad aver paura, ma oramai aveva piena coscienza di ciò che aveva fatto, di ciò che poteva accadere, e si dominava energicamente. Cercò di far tacere Rosa, rispose a Paulu:
«Scenda subito; chiami i nonni. Zio Zua è morto».
Subito Paulu si vestì e corse da don Simone che picchiava sempre forti colpi sui pavimento per far tacere la bambina.
«Sta zitta; vado giù e torno subito, Zio Zua sta male, ha mal di pancia: vado a dargli la medicina. Non muoverti», disse Annesa; ma Rosa aveva sentito le parole della nonna, e ripeteva singhiozzando:
«È morto senza sacramenti. È morto: che dirà la gente? Tu non hai chiamato».
«Ma sta zitta!», gridò Annesa, irritandosi. «Se ti muovi guai a te.»
E corse fuori, giù per le scale, sempre più turbata, ma sempre più decisa a non tradirsi. Dall’uscio vide donna Rachele china sulla vittima della quale aveva sollevato il capo e scuoteva le braccia.
«Nulla. nulla! È morto davvero. Ma come è stato, Annesa? Dio, Signore mio. che dirà la gente?»
Ella si avvicinò, e provò un senso di sollievo; il morto aveva cambiato fisionomia, non sogghignava più.
«Prenderà un malanno a star così scalza», disse a donna Rachele, respingendola. «È morto, non vede? È già freddo. Stanotte ha avuto un altro accesso d’asma, come quello d’ieri notte: anzi ha gridato tanto. Credevo l’avessero sentito. Poi si è calmato, si è addormentato: anche io ero stanca, mi sono addormentata profondamente. Poco fa mi sveglio, ascolto, non sento nulla. Sto per riaddormentarmi; ma poi ho una specie di presentimento: accendo il lume, guardo…»
«Dio, Dio, perché non hai chiamato, stanotte? Bisogna tacere, adesso; non bisogna dire che è morto così, senza che noi ce ne accorgessimo.»
«Sì, sì! Diremo che c’eravamo tutti», disse Annesa vivacemente. «Ah, ecco don Paulu.»
Nel sentire i passi di lui impallidì, e fu riassalita da un tremito nervoso che la costrinse a battere i denti, a morsicarsi la lingua e le labbra. Ma Paulu non badò a lei. Anche lui aveva la candela in mano e corse a guardare il morto; si chinò, lo fissò, lo toccò. Il suo viso assonnato non esprimeva né dolore, né gioia.
«È andato! È freddo stecchito. Come è stato, Annesa?», domandò poi, deponendo il lume sulla tavola.
«Stanotte ha avuto un nuovo accesso d’asma, come quello di ieri notte», ella ricominciò; e ripeté quello che aveva detto a donna Rachele, mentre questa andava qua e là per la camera, cercando qualche cosa che non trovava.
«Mamma, vada a mettersi le scarpe. Che cerca? C’è bisogno di disperarsi così? È morto: che dobbiamo farci», disse Paulu, al quale era balenato in mente il dubbio che il vecchio fosse morto durante il convegno suo con Annesa.
Donna Rachele non sentiva nulla, presa dal rimorso d’aver lasciato morire il vecchio senza sacramenti. Le pareva di vederlo, tra le fiamme del purgatorio, con le braccia sollevate e la bocca aperta, avido di luce e di pace. Dopo aver frugato qua e là, finalmente trovò quello che cercava: un piccolo crocifisso nero, che mise sul petto del morto.
«Bisogna lavarlo e cambiarlo», disse, calmandosi. «Annesa, va e accendi il fuoco e metti un po’ d’acqua a scaldare. Che fai lì, istupidita? Annesa, Annesa, che hai fatto!»
Questo rimprovero, sebbene dolce, colpì Annesa: oramai ogni parola aveva per lei un doppio significato: ma mentre accendeva il fuoco, per scaldar l’acqua da lavare il cadavere, ripeté a se stessa che bisognava esser forte, pronta a tutte le sorprese.
Dopo un momento s’udì la voce di don Simone:
«Ma che è stato? È morto forse? Cosa dice Annesa? Perché non ha chiamato?».
«Che colpa ha quella lì? Lasciatela tranquilla», disse Paulu, irritandosi perché donna Rachele ricominciava a lamentarsi. «È morto e sia pace all’anima sua.»
«Ma è questo, Paulu…», riprese la vedova.
«Ma lasci andare, mamma! Crede lei che se egli si fosse confessato sarebbe andato in paradiso?»
«Paulu!», disse il nonno con voce grave e triste. «Rispetta almeno i morti.»
Paulu non replicò. Nel silenzio improvviso si sentì il pianto di Rosa, e subito zio Cosimu Damianu, avanzandosi con la bimba fra le braccia, domandò:
«E Annesa? Ditele che dia attenzione a Rosa. Ma che è avvenuto? E Annesa che ha fatto?».
Annesa e Annesa. Tutti se la prendevano con lei, ma ella era decisa a lottare contro tutti.

Uscì nel cortile e attinse l’acqua: il cielo non ancora bianco, ma già pallido di un vago chiarore, annunziava l’alba; la luna, grande e triste, calava dietro il muro del cortile, le stelle tremolavano, velandosi, quasi impazienti di andarsene. Annesa avrebbe voluto che la notte non finisse ancora; aveva paura della luce, della gente che si sveglia e pensa ai casi altrui con malignità. La gente? Ella odiava la gente, questa vipera crudele alla quale bisogna dar da succhiare il proprio sangue. Per la gente ella aveva rinunziato al sogno di tutte le donne oneste: al sogno di sposare l’uomo che amava: per la gente, per le sue mormorazioni, per il martirio che avrebbe fatto subire a Paulu se egli lasciava scacciare i nonni e la madre dalla casa degli avi, ella aveva commesso un delitto. Ed ecco che fra poco la gente si sarebbe svegliata, e avrebbe invaso la camera ove giaceva il morto, e lo avrebbe scoperto, denudato, esaminato, forse avrebbe indovinato la terribile verità.

Più tardi, mentre ella e donna Rachele lavavano il cadavere, don Simone, Zio Cosimu e Paulu, seduti attorno al fuoco, presero appunto a parlare delle seccature che il prossimo infligge in certe occasioni. Zio Cosimu piangeva, cercando di nascondere il viso dietro la testona di Rosa. La bimba gli si era addormentata sulle ginocchia, ma ogni tanto aveva un fremito, e con la mano calda gli stringeva forte un dito.

«Sì», diceva don Simone, «ora verranno a seccarci. In queste occasioni, quando maggiormente si ha bisogno di tranquillità, la gente viene a immischiarsi nei fatti nostri. Gli antichi seppellivano in casa i loro morti, senza bisogno di star lì a fare i funerali. Così almeno raccontano: nei nuraghes, che servivano di abitazioni, si trovano le ossa dei morti.»
«No, per esempio», esclamò Paulu, «zio Zua io non lo vorrei seppellito in casa. Sia pace all’anima sua, ma ci ha troppo tormentato.»
«Lasciamo correre trenta giorni per un mese», disse don Simone. «Misura le tue parole, Paulu. Non parlare così davanti alla gente, che appunto in queste occasioni osserva tutto.»
«Io sono sincero! Babbo Decherchi, vi assicuro che mi dispiace la morte del vecchio, ma non posso piangere.»
«Perché tu sei troppo attaccato alla vita, figlio mio», disse allora zio Cosimu. «Neppure lo spettacolo della morte ti impone rispetto.»
Era forse la prima volta che zio Cosimu gli parlava così aspro; Paulu si turbò più per queste brevi parole del nonno materno, che per i continui rimproveri di don Simone.
«Attaccato alla vita!», disse amaramente, come fra sé, ricordando che il giorno prima aveva pensato di uccidersi. «Se fossi stato così, come voi dite, avrei… basta, non è ora di parlare di queste cose.»
«E allora taci! Un morto è là; pensa piuttosto che tutti dobbiamo morire. Zua Decherchi non era un vile, che si possa chiacchierare e scherzare davanti al suo cadavere. Era un uomo valoroso, e sopratutto un uomo onesto, lavoratore e giusto. I mali fisici lo avevano reso aspro, ora, ma spesso è nell’amarezza che si dicono le verità. E la verità è quella che dispiace.»
Paulu non rispose subito. Dopo tutto egli era un figlio e un nipote rispettoso e non aveva mai questionato coi suoi maggiori, anche perché lo giudicava inutile. Non aveva mai questionato, ma sempre fatto il comodo suo; anche perché credeva di essere infinitamente superiore, per intelligenza e volontà, ai suoi nonni ignoranti e semplici. Le parole insolite di zio Cosimu, in quell’ora funebre, lo colpirono vivamente, anzi gli dispiacquero. Ma poi pensò che forse il nonno aveva ragione, e forse per questo volle, dopo un momento, replicare.
«Un giusto!», mormorò. «La morte del giusto, però, non l’ha fatta.»
«Taci, taci dunque», disse allora don Simone, che s’era messo a pregare quasi a voce alta. «Tu non sai quello che dici. Perché non ha fatto la morte del giusto? Non è morto nel suo letto, di morte naturale? Perché non si è confessato? Ma il Signore è misericordioso, e la sua bilancia pesa le buone e le male azioni meglio del come possiamo pesarle noi.»
Annesa entrava ed usciva, e sentì le parole del vecchio. Se avesse potuto sorridere, ella che non credeva in Dio e in una giustizia sovrumana, avrebbe sorriso: ma pensava ad altro.
«Avete finito?», domandò zio Cosimu, mentre ella versava fuor della porta l’acqua con cui donna Rachele aveva lavato il cadavere.
Ella s’avvicinò al focolare e fece cenno di no. Non parlava più: le sue labbra sembravano sigillate. Paulu riprese:
«Non pesino le mie parole sul morto, ma credo che la bilancia eterna abbia bisogno di tutta la misericordia del Signore per…».
«Figlio di Sant’Antonio», proruppe di nuovo zio Cosimu, «non hai capito che non ti conviene di parlare così? Sta attento.»
«Ma, infine, che ho da temere?», esclamò Paulu. «Spero che non diranno che l’ho fatto morire io.»
«Eh, possono dirlo, invece», rispose il vecchio, abbassando la voce. «Eppoi non si tratta di questo, ora. Si tratta di pregare o di star zitti».
«Eppoi! Eppoi!…», disse don Simone, agitando una mano in aria. E dopo un momento di silenzio aggiunse: «Egli non era poi così cattivo, no. Egli voleva farci del bene. Forse noi non abbiamo saputo trattarlo né conoscerlo. Lo abbandonavamo ogni giorno di più, lo lasciavamo solo, ci ricordavamo di lui quando ne avevamo bisogno. Sì», proseguì a bassa voce, «non lo amavamo come forse meritava. E lui, ora posso dirlo, lui voleva farci del bene. Aveva incaricato prete Virdis di acquistare la casa e la tanca».
Paulu sollevò vivacemente il capo: e vide che Annesa in fondo alla cucina, guardava fisso don Simone. Pareva spaventata.
«Basta, preghiamo», concluse il vecchio nobile, «e non giudichiamo mai il nostro prossimo, prima d’averlo conosciuto.»
Ma Paulu odiava zio Zua anche morto; e giudicò opportuno far sapere ai suoi nonni che non avrebbe avuto bisogno dell’aiuto del vecchio avaro.

«Lasciamolo in pace», disse, «ma se egli veramente voleva farci del bene poteva risparmiarci tanti dispiaceri; poteva risparmiarmi di correre tutto il circondario, sotto il sole e sotto la pioggia, e di umiliarmi a tutti gli strozzini, a tutte le donnicciuole, a tutti i villani che incontravo. Voi volete che non parli; ma io non posso tacere. Ancora poche parole. Ieri notte ho fatto tardi, non ho voluto svegliarvi. Ho trovato i denari, ma con quale umiliazione! Da una vedova di fama equivoca ho dovuto prenderli, e li ho presi: che dovevo fare?», aggiunse, difendendosi da rimproveri che i vecchi non pensavano di rivolgergli. «Avevo l’acqua alla gola. Ancora un po’ e mi sembrava di dover affogare.»
«Chi dice nulla? Se tu restituirai quei denari, che t’importa della fama della vedova?»
«Li restituirò, certo! E non crediate che li restituirò con l’eredità del morto. No; voglio dirvi anche questo. Ho trovato un impiego. Lavorerò: andrò nelle miniere.»
I due nonni lo guardavano e don Simone scosse la testa: ed anche zio Cosimu, nonostante tutta la sua bontà solita, il suo compatimento, la sua tenerezza, strinse le labbra e fece cenno di no. No, no; egli non credeva alle parole del nipote.
Ma Paulu non replicò oltre: aveva detto tutto quello che gli premeva di far sapere ai nonni. Il resto lo avrebbe detto a sua madre, più tardi; adesso non ci pensava neppure.
I vecchi ricominciarono a pregare, ed egli chinò la testa sulla mano e s’immerse nei propri pensieri: dopo tutto, lo spettacolo della morte, benché non gli riuscisse nuovo, lo rattristava, e gli faceva ritornare alla mente mille quesiti vecchi come il mondo e sempre nuovi e sempre difficili a risolversi. Finisce tutto con la morte? Abbiamo davvero un’anima immortale? E dove va, quest’anima, dopo la nostra morte? Dov’è l’anima del vecchio asmatico? Esiste davvero il Signore, il Dio dei nostri padri, seduto sulle nuvole, il vecchio Dio giusto e terribile, il Dio con la bilancia, tanto amato e riverito dai vecchi nonni?
Paulu non sapeva: ricordava la morte del padre, la morte della moglie, ma ricordava che allora la disperazione e il dolore non gli avevano permesso di rispondere ai terribili quesiti che adesso gli ritornavano al pensiero. Si trovava in ben diverse disposizioni d’animo, adesso; era quasi felice, si sentiva giovane, forte, pieno di buona volontà; l’avvenire gli appariva quasi roseo. Era quindi propenso a credere all’esistenza di Dio e della sua bilancia e, in conseguenza, della sua giustizia.
Annesa, invece, appresa la notizia che il morto voleva «far del bene alla famiglia», era diventata ancor più cupa e silenziosa. Donna Rachele, intanto, compiva i riti funebri con una specie d’esaltazione religiosa; pregava e sospirava e ogni tanto mormorava:
«Morto così! Annesa, morto così!».
Annesa taceva, e quando il cadavere fu rivestito e ricoperto con un drappo di damasco giallognolo, e la luce glauca dell’alba, penetrando dalla finestra sull’orto, si fuse col chiarore rossastro dei ceri che ardevano sui vecchi candelabri dorati, il viso di lei, immobile nel cerchio del fazzoletto nero, apparve come una maschera di cera.
Appena fu giorno ella andò a chiamare prete Virdis.
Egli sospese di dire la prima messa per correre nella casa visitata dalla morte; entrato nella camera dove zio Cosimu vigilava il cadavere, s’inginocchiò e pregò; poi uscì in cucina, sedette vicino alla tavola, e per qualche minuto stette silenzioso, rosso e gonfio più del solito; ma d’un tratto si sbatté il fazzoletto turchino sulle ginocchia, abbassò e sollevò il capo, sbuffò.
«Annesa mi ha raccontato che eravate tutti presenti quando Zua è morto. Ah, perché non mi avete chiamato, anghelos santos? Che male avete fatto!»
Donna Rachele mise sulla tavola un involto, e sospirò. E sebbene con ripugnanza, sostenne la menzogna di Annesa.
«Egli aveva di questi accessi quasi tutte le sere. Il medico aveva ordinato un calmante che riusciva sempre efficace. Stanotte però il male è stato così forte ed improvviso che Annesa non ha fatto in tempo a versare il calmante nel bicchiere. Abbiamo trovato quest’involto tra i materassi, e non l’abbiamo aperto aspettando che lei venisse.»
«Apritelo pure», disse prete Virdis. «L’altro giorno egli mi aveva consegnato le sue cartelle e il suo testamento.»
«Tutto è in buone mani», mormorò donna Rachele, svolgendo il pacco trovato fra i materassi.
Ma Paulu, che s’era avvicinato per guardare, emise una esclamazione di rabbia, si strinse la testa fra le mani e cominciò ad agitarsi.
«Egli aveva mandato via di casa il testamento? Mi credeva dunque capace di falsificarlo. Sono dunque giudicato così vile? E anche lei, prete Virdis, anche lei mi ha giudicato così vile?»
«Pensiamo ad altro!», rispose il prete, agitando il fazzoletto. «Io ho compiuto la sua volontà, e null’altro. Ora pensiamo a seppellirlo, poi parleremo del resto. Tu, Paulu, andrai a dare l’avviso al sindaco; io penserò ai funerali.»
«Io?», gridò Paulu, battendosi le mani sul petto. «Io me ne vado subito in campagna. Nessuno, mi ha veduto tornare ieri sera: il mio cavallo forse è ancora da ziu Castigu. No» aggiunse «non posso restar qui, oggi. Sono troppo irritato, prete Virdis! Egli mi offende anche dopo morto. Vado via: potrei parlar male, e ogni mia parola sarebbe pesata. Dammi la bisaccia, Annesa, mettici dentro un pezzo di pane.»
«Paulu, abbiamo da pensare ad altro», disse donna Rachele, e Annesa non si mosse.
Ma egli, offeso per l’affare delle cartelle e del testamento era deciso ad andarsene; l’idea di dover restare tutto il giorno a casa e mentire, davanti agli estranei, un dolore che non sentiva, aumentava la sua agitazione. Disse:
«Me ne andrò nell’ovile di ziu Castigu».
«Va pure, cattivo cristiano, va! La volpe cambia il pelo, ma non il cuore. Va, va», disse il prete, agitando sempre il suo fazzoletto, come per scacciare le mosche.
E Paulu si mosse per uscire. Donna Rachele e don Simone, che in fondo giustificavano la sua collera, non lo trattennero: solo Annesa gli corse dietro, e gli disse, supplichevole:
«Tu non farai questo. Tu non andrai, Paulu! Che dirà la gente?».
«Se qualcuno mi vedrà tornerò indietro», egli promise. «Lasciami andare. È ancora presto: nessuno mi vedrà.»
Uscì e non tornò. Donna Rachele, prete Virdis e don Simone confabularono a lungo; poi il sacerdote se ne andò, promettendo di provvedere a tutto per i funerali.
Più tardi la casa si riempì di gente: vicini, parenti, amici. Vennero anche i due vecchi fratelli che il giorno prima avevano preso parte al pranzo dei poveri; e l’amico del defunto diceva:
«Come si muore presto! Ieri ancora Zua era pieno di vita».
«Sì, egli correva e saltava come una lepre che presente la pioggia!», osservò ironicamente l’altro fratello.
Poi venne il falegname con la cassa, e il morto fu messo dentro, con le sue medaglie e il crocifisso nero. Qualche vecchia parente propose di cantare una nenia funebre in onore del morto, ma don Simone si oppose: egli era un uomo all’antica, sta bene, e approvava anche gli antichi usi, ma capiva che certe barbare cerimonie hanno fatto il loro tempo: quindi ordinò ad Annesa di preparare il pranzo, mentre di solito non si accende il fuoco nelle case ove c’è un morto; ed ella si ritirò nel suo angolo, sotto la tettoia, contenta di sfuggire all’attenzione delle persone curiose che andavano e venivano con la scusa di far le condoglianze a donna Rachele ed ai vecchi nonni.
Il cortile era deserto. La piccola Rosa era stata mandata in casa della zia Anna e non doveva ritornare che a sera inoltrata.
L’ora passava; Annesa si sentiva sempre più tranquilla: ancora un po’ e la terra muta si sarebbe aperta per inghiottire il terribile segreto. Ma mentre attraversava la cucina per cercare qualche cosa nell’armadio, sentì un profondo sospiro; si volse, inquieta, e nell’angolo dietro la porta vide Niculinu il cieco: immobile, rigido, egli fissava nel vuoto i suoi occhi biancastri dalle palpebre pesanti, e pareva deciso a non muoversi presto.
«Che fai lì?», ella domandò, inquieta. «La gente è di là, nelle stanze di sopra. Va di là.»
«E tu che fai?».
«Preparo la colazione», ella rispose, prendendo un piatto dall’armadio.
«Ah, i morti non mangiano più, ma i vivi mangiano ancora.»
«Sicuro, dal momento che essi hanno ancora la bocca! Che t’importa?», ella disse, seccata. «E tu, ieri, non hai mangiato qui? E tuo padre non è morto?»
«Sì, ho mangiato e bevuto», riprese l’altro, con la sua voce fiacca e dolce. «Perciò… Basta; dov’è Gantine? Non tornerà oggi?»
«Né oggi né domani. È lontano: nella lavorazione del salto di San Matteo.»
«E don Paulu, dov’è?»
«Ma che t’importa?», ripeté Annesa. «Non ho voglia di chiacchierare con te, Niculinu. Fammi il piacere, vattene.»
«Annesa», egli ripeté, senza badare alle aspre parole di lei, «dov’è don Paulu? Se ritorna digli che non tutti ieri hanno creduto, come ho creduto io, di far la Comunione in questa casa. C’è della gente maligna, nel mondo. Molta gente maligna.»
«E lascia che ci sia! Lo so, i fratelli Pira hanno sparlato di noi, dopo aver mangiato e bevuto qui. Ma non abbiamo tempo per pensare a queste cose, oggi…»
«Bisognerebbe avvertire don Paulu», ripeté l’altro con insistenza.
«Egli non ha bisogno di avvertenze; lasciami in pace, Niculinu.»
Ella ritornò nel cortile, ma si sentì di nuovo inquieta. Avvertire Paulu? Di che? Delle maldicenze dei vecchi sfaccendati? Paulu avrebbe riso: egli non amava i pettegolezzi. Dopo un momento ella rientrò nella cucina per domandare al cieco che cosa i fratelli Pira avevano detto: Niculinu non c’era più. Nella camera s’udiva il falegname inchiodare i galloni d’argento sul drappo nero della cassa; e quel suono lugubre di martello riuscì quasi piacevole all’orecchio di Annesa; oramai nessuno più vedeva il morto; ella solo lo vedeva ancora, livido e macabro, con la bocca aperta e gli occhi di vetro. Ma oramai la cassa nera, coi suoi galloni e i suoi chiodi, custodiva il segreto, come lo custodiva lei.
Poi il martello tacque: una voce disse, dietro l’uscio:
«Ecco fatto: andiamo a mangiare».
E a poco a poco la gente se ne andò; e i vecchi nonni e donna Rachele mangiarono poco sì, ma tranquillamente, come persone che hanno la coscienza quieta e la certezza d’aver compiuto il proprio dovere.