I.

Era stato un sogno penoso, un incubo durato lunghi giorni, in mezzo al lusso equivoco degli alberghi, alle visioni di gente sconosciuta, di nuovi orizzonti. Ella ne usciva con la mente stordita e il corpo addolorato, chiedendosi ancora: «È questo?» indietreggiando ancora per istinto ogni volta che suo marito l’accarezzava, col ricordo dell’altr’uomo mutamente violento che s’era rivelato in lui ad un tratto.
Napoli, Roma, Firenze… ella non sapeva bene dove si trovasse, cominciava appena a guardarsi intorno, a respirare più sicura. L’incubo si dissipava a poco per volta; Guglielmo aveva molte cure per lei, sembrava esserle grato, si studiava di contentarla in tutto. Ma l’aria d’intelligenza della gente, negli alberghi, la irritava; tutti mostravano di sapere che essi erano sposi novelli, a table d’hôte degli sguardi indiscreti si posavano su lei, e questo l’umiliava, le dava il desiderio di chiudersi in camera con suo marito, senza veder nessuno, sentendogli raccontare la sua vita di scapolo, avida di sapere le cose che gli uomini facevano, ansiosa di sentirsi ripetere che le voleva bene, che non pensava a nessuna; di ottenere, in una parola d’amore, il compenso di quel che gli aveva dato.
— Sai, ero gelosa… terribilmente!
— Di chi? — chiedeva egli, sorridendo.
— Di tutte, non sapevo! E dimmi…
Un po’ vano, egli non si faceva pregare per parlare di sè; però, a certe domande, rispondeva:
— Che cosa t’importa? Adesso sono tuo marito…
— E sarai sempre tutto mio? Mi vorrai sempre bene, più delle altre, più di tutte le altre insieme?
— Sì, sì…
Allora, gli buttava le braccia al collo, non aveva più paura di lui, rispondeva finalmente alle sue carezze nell’improvvisa rivelazione del mistero.
Erano a Firenze; ella pensava che la felicità presente fosse dovuta ad un buon influsso del suo passato di bambina. Appesa al braccio di Guglielmo, gli mostrava la casa dov’era nata, i luoghi dove s’era trastullata; gli narrava le sue prime impressioni, le sue monellerie: tutte quelle piccole cose non dovevano avere un gran valore per lui? Un’emozione indefinibile, tra dolce e malinconica, l’occupava nel ritrovarsi in quella città della quale aveva tanto sognato, nella quale le pareva d’incontrare le ombre care e benedette della mamma e della sorellina. Poi ripartirono, e le città succedevano alle città, gli orizzonti agli orizzonti: Bologna, Venezia dove c’era il babbo, Milano… certi giorni, svegliandosi, ella si chiedeva: «Adesso dove sono?» Aveva sete di veder tutto, di completare la sua coltura nelle visite ai musei, alle gallerie; voleva saturarsi di spettacoli artistici, imprimersi nella mente le scene che le si svolgevano dinanzi agli occhi: la Firenze antica della Signoria e del Bargello, le lagune verdastre, il Duomo milanese, grigio e roseo nel crepuscolo, come un acquerello. Quelle visioni sarebbero state più belle se suo marito, dinanzi ad esse, le avesse detto delle parole secrete, indimenticabili; se egli avesse preso le cose, quegl’altri cieli, a testimonii dell’amor suo. Egli però non aveva di queste espansioni; la conduceva dovunque, ma lasciando scorgere, tratto tratto, una certa stanchezza. Anch’ella, a lungo, si stancava: avrebbe voluto piuttosto conoscere l’alta società, stringere relazioni con le grandi dame, esser presentata da per tutto. A passeggio, a teatro, chiedeva continuamente a Guglielmo il nome delle signore che brillavano di più; egli rispondeva, alzando le spalle:
— Ma credi che io conosca tutta l’Italia? Poi, questa non è la stagione; molti sono ancora in villa….
A Firenze ella avrebbe voluto vedere la principessa Morsini, la Tatiroff, la marchesa Ballestrengo; a Bologna conoscere la Marion e la Petrarchi, a Milano la duchessa Nitti-Palmenghi, la contessa Frescobaldi, tutte le dame delle quali aveva letti i nomi nei resoconti dei balli e delle premières, nelle corrispondenze dalle stazioni balneari o dai paesi di montagna. Suo marito invece evitava gl’incontri; le aveva presentato a malincuore, non potendo farne a meno, degli amici, dei conoscenti; tipi di eleganti, di Crociati, da per tutto gli stessi; l’aveva presentata anche a qualche signora: la marchesa Celli, la contessa Parlabene, che viceversa era moglie d’un semplice capitano e portava quel titolo perchè la madre di lei era figlia d’un conte. La stupiva questa facilità con cui un titolo si estendeva a tutti i parenti di chi lo portava; allora, ella avrebbe potuto farsi chiamare principessa di Casàura? Guardava tutto, udiva tutto; si formava dei criterii sugli usi, sulle mode; avrebbe voluto comprare tutte le stoffe, tutti i gioielli, tutti i quadri che vedeva, ordinare l’addobbo di tutta una casa, la fornitura di un nuovo corredo. A Milano aveva avuta un’emozione: era andata a teatro in platea, giù nelle poltrone, fra gli uomini. Ella aveva trovata bellissima la piccola sala del Manzoni, e non voleva riconoscere che quella Forza del Destino udita al Dal Verme era molto inferiore alle altre eseguite a Palermo. Si studiava di trovare tutto più bello, più interessante; pensava con un senso di superiorità alla Sicilia remota, alla piccola provincia perduta oltre i monti e oltre i mari; commiserava le amiche rimaste laggiù in fondo. A Torino, per un Faust che si dava al Carignano, con cantanti di prim’ordine, stava preparando la toletta di gala, giacchè andavano in palchetto, quando suo marito esclamò:
— Ma qui si va in abito da passeggio e cappello! Si va in toletta al Regio, dopo Natale…
La lezione che le era parso di leggere in quelle parole la punse un poco; il rifiuto di Guglielmo di proseguire per Parigi, motivato dall’avanzarsi della stagione, finì per scontentarla di quel viaggio. Si annoiò a Genova, credette di morir d’oppressione a Pisa rammentandosi per la prima volta di Milazzo; finchè, ripassando per Firenze, tornarono a Roma. Vi capitarono negli ultimi giorni dI novembre, per l’apertura del Parlamento. Ella avrebbe voluto assistere alla seduta reale, Guglielmo diceva invece che era meglio veder l’arrivo delle rappresentanze a Montecitorio. Giusto, c’era all’albergo di Milano Enrichetta Geremia con suo marito. Duffredi la condusse da lei, e andò via dicendo che sarebbe tornato.
La piazza era già tenuta sgombra dalla truppa; dinanzi al portone, sotto il baldacchino rosso-cupo, si componevano e scomponevano continuamente dei gruppi di deputati, di giornalisti, di invitati, e le prime carrozze cominciavano ad arrivare.
— L’ambasciatore d’Inghilterra…. — indicava l’amica — la marchesa di Fanatica… i Giapponesi… quelli sono cronisti di giornali… Le due sorelle Donnino e Scalpetti…
Gli uscieri, data un’occhiata ai biglietti, mandavano la gente a destra e a sinistra, additando le porte d’ingresso, e un ufficiale tedesco restava fermo accanto a un pilastro, come una statua, riscuotendosi di tratto in tratto per salutare militarmente qualcuno.
Ella guardava, contrariata; avrebbe voluto arrivare anche lei in carrozza, senza rumore sulla sabbia sparsa lungo la via, attraversare la piccola folla che ingrossava dinanzi al portone, esser notata, prender parte allo spettacolo.
— Guarda, guarda: la Sermoroni…
— La dama della Principessa? Già tutta bianca!
— No; s’è incipriata.
E sentiva crescere la propria irritazione, con la coscienza d’una inferiorità, della figura umiliante che faceva per la sua ignoranza, della gran distanza che la separava da tutto quel mondo, col desiderio impotente di prendervi il posto di cui sentivasi degna. Le carrozze arrivavano e partivano, una dopo l’altra; delle sciabole d’ufficiali risuonavano, sbattendo; un giovanotto senza paltò sotto il freddo frizzante si metteva in evidenza, mostrava lo sparato della sua camicia, e un individuo con una gran zazzera sulla nuca, trascinandosi dietro una signora matura, passava da destra a sinistra e da sinistra a destra, come un cane in chiesa, non trovando la via della propria tribuna.
— Che bel mantello, Teresa, guarda! Lì, a destra… che bellezza!
— Chi è?
— Non so… mi pare la San Germano… se si voltasse…
Il cannone cominciò a tuonare, delle carrozze di gala arrivavano.
— Il re?
— No, il senato.
Balsamo, che stava dietro a loro, disse a sua moglie:
— Guarda Paolo Arconti.
Era un signore che passava in carrozza; vedendole le salutò profondamente.
— Chi è? — chiese ancora lei.
— Un deputato, uno dei più giovani, intelligentissimo…
In quel punto, la musica dei carabinieri intuonò la fanfara; il comando degli ufficiali si ripeteva di fila in fila: «Presentate le armi!» e i corazzieri spuntarono dall’angolo di piazza Colonna.
— Adesso ci siamo… tò, prendi l’occhialino… guarda i deputati che si avanzano… la principessa Margherita, la vedi? Saluta… le baciano la mano… Che bella toletta!
— Davvero!
Adesso ella cominciava a prendere interesse allo spettacolo, aspettava con impazienza l’arrivo del re, ammirava i corazzieri schierati sotto l’obelisco, sussultava al secondo all’armi e quando la nuova visione di uniformi, di pennacchi, di sciabole sguainate si fu dileguata, restava ancora, malgrado il freddo, a guardare.
— Vedi che è meglio qui? Dentro non si vede nulla; c’è troppa confusione…
Dopo un quarto d’ora, cominciò l’uscita, più disordinata, tra le grida degli strilloni che vendevano il discorso della Corona, l’incrociarsi dei comandi militari, il rotolare delle carrozze. Suo marito non veniva ancora; ella credeva di capire che l’amica avesse da fare; e vedendosi sola con quegli estranei, mentre la fiumana della folla rumoreggiava sordamente per le vie, il cuore le si strinse un poco. A un tratto fu picchiato all’uscio; Balsamo, andato ad aprire, esclamò:
— Oh, lei! Venga avanti! — Poi presentò: — L’onorevole Arconti, la signora Duffredi…
Il deputato aveva stretto la mano alla Balsamo e s’inchinava dinanzi a lei. Come gli chiedevano notizie della seduta, disse:
— Un discorso infelicissimo, una freddezza glaciale, qualche applauso soltanto al passaggio relativo a Roma, alla politica estera…
S’impegnò una discussione: Balsamo affermava che era ben fatto, poichè tutti si ostinavano a volere quel ministero di ciarlatani; ella disse:
— Io trovo però che non si dovrebbe esporre la persona del re.
— È verissimo… — affermò il deputato, inchinandosi un poco verso di lei.
Era un bruno dagli occhi azzurri, dalla fronte larga, dalla voce penetrante. La discussione si allargava; spronata dalla presenza del deputato, ella dimenticava la sua tristezza, parlava di politica, attaccando i provvedimenti eccezionali proposti contro la Sicilia. Arconti, che sedeva all’opposizione, le dava pienamente ragione. Il tempo passava, Guglielmo non veniva ancora. Enrichetta propose:
— Se vuoi tornare all’albergo… senza cerimonie, t’accompagnerò…
Allora Arconti s’alzò, congedandosi; ella gli diede a stringere la mano.
Andarono al Roma; Guglielmo non s’era visto. La Balsamo le offrì di fare un giro in carrozza; al ritorno, incontrarono Duffredi che veniva dal Milano.
— Dove siete state? V’ho cercate per terra e per mare!
— Ah, la colpa è nostra? — disse lei, con un riso un poco forzato.
Non pensò più a questo, nei giorni seguenti, stordita dal movimento della capitale, cominciando a conoscere gente per mezzo dell’amica, facendo qualche visita e trovando al suo ritorno le carte che gli uomini venivano a lasciarle, quella di Arconti fra gli altri. Di giorno, suo marito l’affidava spesso ad Enrichetta, ma la sera restava con lei, l’accompagnava in visita, la conduceva a teatro. Non era stata ancora al Valle: per la Visita di nozze Guglielmo prese un palco. Però, dopo tavola, mancando ancora un’ora allo spettacolo, disse:
— Ci sono dei Palermitani all’albergo di Spagna; il tempo di salutarli…
Ella restò nella sala di lettura. Sfogliò dei giornali, degli album; una ragazza era seduta al piano, un signore la guardava ostinatamente. Ella voleva aspettare lì il ritorno di suo marito; irritata da quegli sguardi indiscreti, salì in camera. Preparò le sue cose, infilò i guanti, poi si mise il cappello. Suonarono le otto e mezzo: l’ora dello spettacolo. Cominciò ad essere inquieta. Perchè tardava ancora? Quei Palermitani… se fossero stati un pretesto? No, non era possibile: guardava l’uscio, aspettando di vederlo apparire. Pure, il giorno della seduta reale, egli l’aveva piantata… si poteva trattare d’una coincidenza, d’un contrattempo, come ne sorgono ad ogni momento nelle grandi città. Suonarono le nove meno un quarto. Non avrebbe perduto poi molto; ma era noioso aspettare… sedette, girando uno sguardo per la camera, esaminandola a parte a parte, pensando a tutta la gente che era passata di lì, porgendo l’orecchio, scuotendosi a ogni squillo di campanello… le nove. Si alzò, di scatto. Egli era andato a trovare qualcuna, una donna: i Palermitani erano un’invenzione, impossibile più dubitarne! Ella si nascondeva il viso tra le mani, esclamava: «Ed è vero? Dopo due mesi di matrimonio? Dio mio! Dio mio!»
Avrebbe voluto andar fuori, cercarlo, non sapeva dove; sarebbe andata dai Balsamo, si sarebbe fatta aiutare da loro… no, a quell’ora essi non erano in casa… e a un tratto il sentimento angoscioso della solitudine, dell’isolamento, la riprese, in quella camera piena di silenzio, in quell’albergo popolato di stranieri, di gente enimmatica, di persone raccogliticcie che si disperdevano incessantemente; in quella gran città dove nessuno la conosceva, dove avrebbe potuto morire senza che nessuno si accorgesse di lei… adesso aveva paura, non levava gli occhi dall’uscio, con l’idea che qualcuno potesse entrare, a rubarla, a violentarla… sciocca, sciocca! Non veniva nessuno, non veniva neppur lui, la lasciava sola, così! A palpitare d’angoscia, di gelosia, a piangere di tristezza! Le nove e mezzo! Rabbiosamente, si tolse il cappello, buttandolo sul divano, si tolse i guanti facendone saltare i bottoni. A un tratto, l’uscio si schiuse.
— Mi son fatto aspettare… non sei pronta? Andiamo.
Ella disse, freddamente:
— Grazie, non vengo.
— Perchè? Sono le nove e un quarto… non sarà neppur finita la musica, ancora… m’hanno trattenuto, cosa vuoi, c’era Sampieri che non vedevo da anni… andiamo, via…
Con la tentazione di cedere, ma col bisogno di sostenersi, ella rispose:
— Grazie, ti lascio libero. Va’ con i tuoi amici…
Egli la guardò un poco. Aspettandosi un’altra esortazione, ella si preparava a piegarsi. L’altro invece disse, duramente:
— Cos’è, una scena?
Un impeto di ribellione fu per sollevarla, ma si frenò. Con una voce piena di lacrime, disse:
— Perchè una scena? Tu vuoi che venga a teatro; io ti ringrazio; è tardi, sono stanca… che c’è di male?
Egli non le chiese perdòno, ostentò da quella sera di non lasciarla un momento, come sacrificandosi, fin quando ella stessa non gli restituì la sua libertà, per non vedergli sempre quell’aria rannuvolata. Adesso, affittava spesso due cavalli e uno stage, e se ne andava guidando per la città e per la campagna. Qualche volta la prendeva con sè, ma ordinariamente la lasciava con la Balsamo. Certi giorni riceveva delle lettere col francobollo da cinque centesimi, delle lettere di città, che non lasciava sul tavolo come le altre — e tornava a piantarla! Adesso ella non poteva avere più dubbii. Abbandonata sopra una poltrona, fermando gli occhi sopra un punto di quel tappeto rosso e giallo il cui disegno si confondeva nell’intensità della fissazione, ella assisteva alla rovina delle sue speranze, delle sue lusinghe, col cuore stretto, vedendo buio dappertutto, nel presente, nell’avvenire.
Forse egli non la tradiva, sarebbe stata una mostruosità troppo grande; ma era quello il contegno d’un marito affettuoso, in piena luna di miele? Dopo tre mesi di matrimonio! Che cosa sarebbe dunque stato fra due anni? Quali torti aveva verso quell’uomo perchè egli la trattasse così? Il torto di avergli creduto? A volte, ripensando alla storia del suo fidanzamento, alle esitazioni, ai contrasti, si diceva: «La colpa è mia! Avrei dovuto comprendere che non mi amava, non avrei dovuto farmi abbagliare dall’invidia di cui ero oggetto!» Ma se egli l’aveva domandata? V’era forza che potesse costringere un uomo a chiedere la mano d’una ragazza, a sposarla? Perchè dunque l’aveva sposata? Perchè le aveva detto che le voleva bene? Egli non era stato leale — e la slealtà era l’insopportabile, per lei. Adesso, le cuoceva di tacere, di non chiedergli ciò che lo attirava altrove. Ella avrebbe voluto drizzarglisi innanzi e dirgli: «Tu hai un’amante! Tu mi trascuri per un’altra!» Avrebbe voluto gridargli, quand’egli mendicava dei pretesti: «Non mentire! Io so dove vai!» Però taceva, con la speranza d’ingannarsi, con la paura d’inasprirlo, sentendo la durezza del suo carattere dalla sua voce, dai suoi sguardi, dai suoi stessi silenzii…
Quella vita della capitale, che le era sembrata tanto attraente, finiva per tediarla: la gente che conosceva le pareva comune, volgare; ma forse non era tale l’altissima società, l’aristocrazia nera, l’entourage della Corte, la colonia straniera. Avrebbe voluto penetrare nel centro dell’élite, farne parte anch’ella: una figura secondaria non le conveniva. Suo marito era superbo, non voleva piegarsi a sollecitare delle presentazioni, dava un nome ingiurioso ai signori romani — forse perchè li invidiava… Il ballo della contessa Vannitelli, dove era stata invitata, dove era andata con un’ansia secreta, aspettandosi quasi di vedervi un altro mondo, e del quale i cronisti avevano fatto dei resoconti mirifici, le era parso una povera cosa; a Palermo c’era di meglio! Il Fanfulla aveva parlato di lei, sbagliando il colore del suo abito e chiamandola principessa di Casàura. Ella aveva protestato, sorridendo, con le sue conoscenze; in fondo, l’errore le faceva piacere.
Però la sua prima disposizione a trovare tutto più bello e più degno, era cangiata: la duchessa di Martorina le era parsa un facchino della Kalsa, con quel suo faccione lungo color mattone; la famosa Ernestina di Carpignano, che a detta dei giornali cantava così bene, un pavone crocidante; l’elegante marchese di San Fiorenzo una caricatura da Journal amusant: ed ella ne sentiva di belle, sul conto della cosidetta buona società. Nel pomeriggio, traversando il Corso in carrozza di rimessa con la Balsamo, l’amica le diceva gli scandali di cui questa o quella delle signore con cui s’incontravano era stata od era l’eroina, e la sua stupefazione non conosceva poi limiti quando l’altra le additava gli uomini per cui esse si perdevano: delle figure brutte o ridicole, certe barbe da caproni, delle esagerazioni di toletta, delle arie buffe da irresistibili…
Suo marito, adesso, la lasciava quasi ogni giorno per un’ora o due; la tristezza di lei cresceva, cresceva, come la tristezza del cielo invernale, gonfio di nubi sfilanti l’una sull’altra in processione. E come le nubi si vuotavano in pioggia lunga, interminabile, ella quasi piangeva, pensando alla sua casa lontana, al cielo ridente che aveva lasciato. Ma se non era sola, si faceva forza, ostentava una serenità che non aveva; e specialmente dinanzi ad Enrichetta si studiava di mostrarsi allegra e felice. Nella sua debolezza, l’orgoglio la sosteneva; non voleva che nessuno s’accorgesse del suo dolore, si ribellava all’idea di suscitare l’altrui compassione.
Però, malgrado quello studio, l’amica pareva accorgersi di qualche cosa, le leggeva in viso la sua tristezza. Un giorno che ella aveva gli occhi rossi di pianto contenuto, le chiese:
— Che cos’hai? Ti senti male?
— Sì, un poco… sono nervosa… questo tempo m’irrita.
L’altra scosse il capo.
— Tuo marito potrebbe lasciarti meno sola!
Tacquero entrambe. Ella aveva la tentazione di confidarsi a lei, di chiederle consigli, comprendendo che doveva sapere qualche cosa. Ma non si decideva, non voleva arrendersi.
— La colpa, scusami, — riprese la Balsamo — è anche un po’ tua. Perchè resti a Roma? Perchè non torni a Palermo?
— Si, hai ragione.
La sera, come Guglielmo le parlò d’una lettera d’affari che aveva ricevuta dal suo amministratore, ella disse:
— Tu vuoi restare ancora qui?
Egli fissò un poco lo sguardo, poi rispose:
— Io non voglio nulla… faccio quel che ti piace.
— Allora torniamo a casa?
— Torniamo a casa.
Ella lasciò con un senso di sollievo e quasi di liberazione quel mondo che da lontano le era parso così bello. Aveva fretta di assaporare le soddisfazioni che la sua posizione le avrebbe procurate in un ambiente propizio, in mezzo ad una società conosciuta.
A Palermo, per la sua parentela, per la sua posizione, ella troneggiava. Erano una stazione di carrozze signorili, il martedì, le vicinanze di casa Duffredi; era una successione di visite nel suo salotto giallo, dalle tre alle sei: ella si sentiva avvolta dagli sguardi di ammirazione degli uomini, dagli sguardi d’invidia delle donne, che avevano intanto sulle labbra le frasi melliflue dell’amicizia più affettuosa. «Come stai bene, cara! Sei un amorino, oggi! Già qualunque cosa tu metta, sei sempre un amore! Come sei felice di avere questa bella casa, dove tutti dipendono da un tuo cenno! Che cosa ti resta da invidiare?» Ne conveniva anch’ella, sorridendo di compiacenza, quando Stefana, richiamata da Milazzo, la vestiva da capo a piedi, esclamando, con le mani giunte: «Come sei bella! sembri una regina!» quando il cameriere in livrea nell’anticamera s’inchinava al suo passaggio e un altro domestico le reggeva la coda dell’abito per le scale, fino alla carrozza di cui il lacchè spalancava lo sportello, col cappello in mano e gli occhi a terra; quando nell’entrare in un salotto od al teatro, o nell’attraversare le strade destava una corrente di sguardi ammiratori, un mormorio di lodi; quando presiedeva le feste che facevano accorrere nei suoi saloni tutta la Palermo ricca, nobile ed elegante. Erano dei giorni sereni, felici, sempre eguali, con suo marito che tornava ad esser buono con lei, che non le faceva mancar nulla, che pareva non pensare se non a lei. Adesso, ella dettava legge, nel circolo delle sue conoscenze; ciò che ella portava veniva copiato, i suoi consigli erano sollecitati da tutte, il soggiorno di Roma le aveva costituita un’autorità e adesso la distanza abbelliva i ricordi del suo viaggio. Ella parlava con una specie di orgoglio di ciò che aveva visto, delle conoscenze che aveva fatte, sentendo che esse le conferivano importanza, non trovando più i difetti, le ridicolaggini che l’avevano colpita nella gente di cui ora parlava con interesse, trovandoli e mettendoli in evidenza, nell’intimità, con una schiettezza di buon umore a cui nessuno resisteva.
— Come sei allegra! Come sei spiritosa! La felicità ti si legge negli occhi! Tu l’hai meritata…
Quelle che un tempo avevano parlato contro di lei, la Carduri, Giovannina Leo maritata adesso con Platamone, Sara Màscali ora marchesa di Friddi, le facevano la corte, sollecitavano degli inviti: lei dimenticava il passato, le accoglieva come le buone amiche, come Bice Emanuele, come Anna Sortino, come Giulia; e un giorno rimase stordita, credendo d’aver udito male, quando, parlando appunto della Sortino, Giulia le disse:
— Sai, non c’è molto da fidarsene… non è tanto fedel quanto gagliarda… di te, per esempio, ha detto certe cose…
— Che cose?
— Quelle che dicono le altre, le cattive: che sei superba… che vuoi schiacciar tutte noi col tuo lusso… che a lungo andare rovinerai tuo marito…
— Lei?… Lei ha detto questo?
La sua mente si smarriva, dinanzi a quella rivelazione di una perfidia che niente giustificava. Comprendeva che le antiche nemiche parlassero ancora contro di lei, malgrado, anzi a ragione del suo perdòno; ma che cosa aveva fatto a colei, per esser giudicata così? Chi aveva detto a colei di rivolgerle tante lodi melate, tante proteste di amicizia? La sincerità era dunque una cosa molto difficile?… E nei disinganni che cominciavano, ella acquistava una maggior coscienza di sè, della dirittura del suo carattere, della superiorità del suo animo. Come potevano dire che ella rovinasse suo marito, quando era egli stesso che le aveva assegnata una specie di pensione, cinquecento lire il mese, con le quali ella doveva pensare a quanto le occorreva, dalle scarpe ai cappellini, dagli spilli alle gioie? Perchè non avevano, quelle altre, la stessa abilità di lei nello spendere, nel sapersi mettere, in modo da far figurare per dieci ciò che le costava cinque? Se Guglielmo stesso era il primo a volere che ella non si facesse eclissare da nessun’altra?
La vanità era una delle molle più forti del carattere di lui; ella adesso cominciava a giudicarlo. Profondeva regalmente il suo denaro, a cavalli, a pranzi, a ricevimenti, per fare la prima figura, non ammettendo di esser soverchiato da nessuno. Quando parlava della sua casa, della sua nobiltà, era inesauribile; sapeva a memoria tutto il capitolo del Teatro genealogico di Sicilia del Mugnos, dove si discorreva della sua famiglia, Duffredi o Duffrè era una corruzione di Umfredo; sotto gli Svevi i suoi discendenti erano stati perseguitati; ma un Guglielmo, schieratosi con Carlo d’Angiò e pugnando per lui a Benevento, aveva ottenuto feudi ed onori. Col Vespro, la fortuna della famiglia fu ancora travolta; ma Federico II d’Aragona la rialzò, creando un Roberto Duffredi barone di Marzallo; i titoli di principe di Casàura e di marchese di Lojacomo erano più recenti, datando da Filippo V. I nomi ricorrenti nell’albero genealogico erano quelli di Ruggero, di Tancredi, di Roberto, di Guglielmo; egli stesso, quand’era stato in Francia, aveva fatto stampare sulle sue carte da visita: Guillaume Duffré d’Hauteville e parlava adesso di rivendicare stabilmente e legalmente il d’Altavilla come secondo cognome.
Dal suo soggiorno di Russia, aveva portata un’ammirazione sconfinata per lo Czarevitch, che era il suo modello; il taglio delle sue livree era copiato su quelle dello Czarevitch, fumava i sigari che fumava lo Czarevitch, i suoi fucili e i suoi revolver uscivano dalla stessa fabbrica che forniva lo Czarevitch; tanto che pei suoi amici era diventato un continuo soggetto di scherzo.
— Queste scarpe sono come quelle dello czarevitch? Questi bottoni chi li porta, lo czarevitch?
Il vecchio marchese era con lei molto affezionato: le faceva sempre dei piccoli regali, la voleva spesso con sè nel quartiere che occupava al pian terreno, per evitare le scale. Che modi da gran signore egli aveva! Appena la vedeva entrare, s’alzava a dispetto della gotta, le baciava la mano, restava ostinatamente in piedi fin quando ella non era seduta, non rimetteva il suo berretto se non dopo lunghe insistenze.
— Ma si copra, zio! Prenderà un’infreddatura, altrimenti!
Il secreto di quella cavalleresca galanteria era perduto! Egli stesso criticava l’educazione moderna, cominciando da quella del nipote; e la sua conversazione era interessantissima, piena di ricordi del passato regime, di aneddoti intorno ai personaggi della Corte, alle rivoluzioni del 20 e del 48. In cuor suo, era rimasto fedele alla casa di Borbone; e questo dava origine a liti cortesi, perchè ella esaltava la virtù dei Savoia, l’eccellenza del governo costituzionale, la grandezza della nuova nazione.
— E la chiamate una nazione, nipote mia? Ma è il mantello d’Arlecchino! Com’è possibile cucire insieme il Piemonte e la Sicilia, Milano e Napoli, gente diversa, costumi opposti, tradizioni che si pigliano a pugni?
— Sarà l’azione del tempo! Contentiamoci per ora dell’unità politica, verrà poi quella reale.
Egli scuoteva il capo, rimpiangendo i tempi dell’autonomia siciliana, della monarchia nazionale.
— Non sapete dunque che siete una d’Altavilla? — aggiungeva, mezzo serio mezzo sorridente.
— Ma fummo usurpatori anche noi! — replicava ella, sullo stesso tono. — Venimmo di Normandia a conquistar l’isola!
Egli s’inchinava, come non potendo o non volendo opporre nulla a tale argomento. Del resto, quella era una mania di famiglia: Guglielmo non negava al re il diritto di conferire al figlio del principe Amedeo il titolo di Duca di Puglia, appartenendo esso alla loro casa? Ella sorrideva un poco di tutto questo; ma in fondo se ne compiaceva. Anche per ischerzo, chi avrebbe potuto dire altrettanto? E trovava che suo marito, oltre alla nobiltà regale, era d’una eleganza estrema. Ella conosceva tutti i giovani amici di lui, che erano anche fra i più lancés di Palermo; Alfredo Basile, così allegro e pieno di spirito; il conte di Caldarera, lo spadaccino famoso; il marchese Lauria, la cui fronte seria era velata di tristezza; altri ancora, in mezzo ai quali non trovava qualcuno che valesse molto più di Guglielmo.
Egli non voleva però che fosse troppo attorniata dai giovanotti, che ballasse troppo, che parlasse a lungo con una stessa persona. Era geloso? Dunque l’amava! Tutta lieta della sua scoperta, ella protestava amabilmente, cercava di fargli intendere ragione.
— Tu credi che io noti questa gente? Ma neppure per sogno! Tu vali più di tutti!
Ai balli, erano dei complimenti stupidi, sempre gli stessi: «Felice quella camelia! Vorrei essere al posto di quelle violette. I vostri occhi offuscano i brillanti!» Ella rideva di quelle galanterie, le metteva in canzonatura con le amiche; però le piacevano, le provocava: dietro a quegli omaggi stereotipati c’era il riconoscimento della sua bellezza, ed ella aveva bisogno delle lodi, delle adulazioni e del trionfo. Non distingueva nessuno in quella massa di giovanotti, di uomini maturi, di vecchi che si alternavano al suo fianco; però s’appoggiava con eguale abbandono al braccio di ognuno, piegava un poco il capo di fianco con egual grazia ad ascoltare ciò che tutti le dicevano, rivolgeva a tutti gli stessi sorrisi con uno stesso frequente palpitare di ciglia; e quando suo marito la rimproverava, portandole ad esempio le altre che tenevano la gente a distanza, ella rispondeva:
— Ma che posso farci, se sono fatta così?
Una quistione grossa, la sera delle tolette di gala, era quella della scollatura: egli la trovava sempre troppo bassa, esclamava che era un’indecenza, pretendeva che mostrasse appena la gola.
— Allora tanto vale andare montante! Si transige fin qui?
Alla luce delle candele che si struggevano con fiamme lunghe sulla toletta e sui bracciali del grande armadio a specchio, le rose della sua carnagione si animavano, il sangue giovane e sano si vedeva fluire attraverso quel marmo vivente, e il seno sbocciava, fiore carnale, dall’anfora serica del busto, e l’oro della chioma aveva fulgori matti, e da tutta la persona esalava, incenso sottilissimo, un profumo così inebbriante, che ella appressava la bocca all’alto del braccio, dove il guanto finiva, e quasi addentava la polpa morbida e soave. Con le piccole mani levate, dipanava poi lievemente i riccioli della fronte e della nuca, assestava tutta la massa sapientemente composta dei suoi capelli appoggiando le palme alle tempie, e si mordeva le labbra per farle venire più vive, intanto che si svolgeva ai suoi occhi abbacinati dalle fiamme la visione del mondo eletto e felice che l’aspettava coi suoi sorrisi, con le sue armonie, con le sue ebbrezze… a un tratto, le braccia le ricascavano pesantemente lungo i fianchi. Una domanda si presentava al suo spirito: perchè quella gioia? a che pro? E fin quando? La vanità di tutto le si rivelava; come al tempo della fanciullezza, pensava che le feste duravano poco: i suoni si sarebbero dispersi, le luci si sarebbero spente, un giorno la gioventù sarebbe anch’essa svanita e la bellezza distrutta… Irrigidita, stecchita dinanzi all’alto specchio che la rifletteva da capo a piedi, con le braccia pendenti come cose inerti e con gli occhi socchiusi, ella si vedeva morta, vestita di quello stesso abito bianco col quale avrebbe voluto esser composta nella bara, e un brivido le passava per tutto il corpo all’idea che i becchini, che le mani orribili dei becchini avrebbero toccato il suo corpo. La voce di Guglielmo la strappava alla lugubre idea; ella si avvolgeva nel mantello che Stefana reggeva pel bavero; e intanto che la carrozza correva rapidamente nella notte e che suo marito l’annebbiava col fumo della sigaretta, ella si portava una mano al seno abbassando nascostamente la ruche di cui il corpetto era orlato per accrescerne ancora un poco la scollatura.