I.

— Il nostro viaggio di nozze!
L’amato s’appendeva al braccio di lei, le carezzava lievemente una mano, e il treno filante con moto rapido e uguale metteva una cadenza nelle sue parole:
— L’avvenire è nostro per sempre! La vita incomincia per noi da questo giorno! Guarda: mi sembra che il treno non si lasci indietro dello spazio soltanto, ma il tempo con esso!
— Com’è ben detto! Sì, il tempo: tutto il mio passato…
— Che il passato si sprofondi in un abisso, che se ne disperda la stessa memoria!
Una dolcezza grave occupava l’anima di lei. Malgrado tutto e tutti, sfidando l’opposizione dei suoi parenti, non curando lo scandalo che sollevava, aveva rotto con quel passato; era partita col pretesto di andarsene da suo padre, aveva raggiunto l’amato, gli aveva detto, schiudendo le braccia: «Eccomi, prendimi, son tua!» Così doveva esser l’amore: che cosa avrebbe potuto resistergli? Però, tutte le ténere parole che Paolo diceva le scendevano come un balsamo all’anima, l’avvincevano a lui sempre più fitto, fugavano ogni più vago suo turbamento. Ed era l’incanto supremo dell’indipendenza; la sensazione intensa e profonda del rinascimento, la completa rivelazione della felicità durante quel viaggio che ella aveva voluto e che permetteva loro di isolarsi dal mondo mescolandosi ai suoi spettacoli…
Parigi, il teatro dei romanzi che erano stati il pascolo della sua imaginazione, la mostra di tutte le grandezze e di tutte le ricchezze; poi le tranquille cittadine della Fiandra e dell’Olanda, dai tetti acuminati, dalle cattedrali gotiche, dai tesori d’arte; poi ancora il tumulto vasto di Londra, la grandiosità sconfinata della metropoli unica. Ciascun angolo della terra aveva la sua particolare attrattiva, da per tutto essi vedevano rispecchiata la loro letizia. Ella s’appoggiava al suo braccio, languida ed amorosa, quasi per fargli sentire materialmente che egli era tutto il suo sostegno; però, talvolta, gli chiedeva:
— Ti peso?
Egli rispondeva:
— Vorrei portarti su queste braccia, sentirti avvinghiata al mio collo, essere schiacciato da te!
Dinanzi ad un quadro o ad una statua, nei corridoi silenziosi di un museo popolato di visitatori tossicchianti, era egli stesso che s’appoggiava al braccio di lei, che si stringeva a lei, ed un senso di fierezza la invadeva nel sorreggerlo a sua volta, nel dare agli sconosciuti lo spettacolo di quel legame che nulla avrebbe potuto rompere più.
E l’amato diceva:
— Se potessero sapere quanto siamo felici, morirebbero tutti d’invidia!
Lasciavano i loro nomi accoppiati sul registro d’una pinacoteca, sulla torre d’un campanile, sui libri d’una sala di lettura; e una sottile malinconia le velava lo sguardo nel punto di lasciare un luogo dove s’erano amati.
— Chi verrà ancora qui, le primavere future?
— Vi torneremo noi stessi; di persona o con lo spirito, che importa? Qualche cosa del nostro spirito non vi resta, non vi aleggerà sempre? Noi vi ritroveremo tutte le nostre carezze, tutti i nostri baci…
Ogni sua parola era una delicatezza, un conforto. Egli non parlava che per dirle delle cose care, non aveva volontà che non fosse quella di lei, non faceva nulla che non fosse una prova d’amore. Per cancellare del tutto il ricordo del suo passato, per dimostrare che v’era in lei come una donna nuova, unicamente nata per lui, le aveva dato un nuovo nome, un vezzeggiativo creato apposta: Rina, col quale la chiamava sempre; e trovava per le sue bellezze delle espressioni care e poetiche: la sua chioma era il «Mantello d’oro», un piccolo grain de beauté che aveva sull’omero sinistro il «Nido dei Baci.»
Ella si sentiva circondata da un affetto così vigile, da una devozione così previdente, da una cura così instancabile, che un sentimento d’orgoglio si mescolava alla sua gratitudine. Ella aveva degli atteggiamenti d’idolo, aspirava la lode come un incenso, non si stancava di ascoltarlo. Alcune sere, invece di andar fuori, a teatro, a passeggio, gli si metteva a fianco, gli diceva:
— Restiamo qui… sto bene accanto a te! — E appoggiando il capo sulla sua spalla, chiedeva: — Dimmi chi sono.
— L’amor mio grande, immenso, smisurato, pazzo, superbo!
Ella sorrideva di benigna indulgenza all’esagerazione delle sue parole.
— E m’amerai sempre?
— Eternissimamente!
— Ho bisogno di sentirlo ripetere… Quasi non credo a me stessa… Perdonami: non è sospetto verso di te, è meraviglia, è stordimento, perchè io disperavo di sentirmi dire mai questo.
Allora gli narrava la sua vita, i disinganni patiti, le amarezze di cui s’era abbeverata, il disastro di quel matrimonio sciagurato. Negava, con tutte le sue forze, d’aver mai amato suo marito; esagerava un poco i torti di lui, la virtù della propria resistenza, col bisogno di giustificarsi; quantunque nell’attitudine, nelle parole dell’amato non fosse che un grande compianto.
— Non parlare di questo — protestava egli — parlami del tempo in cui eri fanciulla.
Voleva saper tutto, le cose capitali e le più insignificanti, i suoi giuochi, le sue fantasie, quando aveva messa la prima veste lunga, che cosa aveva pensato dell’amore, se aveva amato.
— Sì, ma in un altro modo! Ascolta dunque: bisogna che tu sappia tutto di me…
E si rifaceva da bambina, dai ricordi di Firenze, dai dolori della sua povera mamma, dal turbamento istintivo e incosciente destatole dal conte Rossi; poi narrava l’amoretto con Niccolino Francia, enumerava le sue amicizie, insistendo su quella di Bianca Giuntini.
— Era più grande di me, più bella…
— Non è vero!
— O bella a un altro modo… Quando penso all’impressione che mi faceva nei primi tempi, trovo che fu simile a quella destata poi dagli uomini. Come sono, strana?
E veniva a Luigi Accardi, alle strette di mano, ai baci, alle ciocche di capelli, poi alla morte della sorellina, al soggiorno di Palermo, ad Enrico Sartana.
— Lo amai, sì: non ero più una bambina. Sognai di dividere la sua vita, fui sul punto di veder avverato il mio sogno. Se fossi stata sua moglie, non avrei tanto sofferto, chi sa…
Ma come il sospiro che le gonfiava il petto poteva sembrare un rimpianto, ella gli gettava le braccia al collo:
— Non pensare a questo, sai! Tutti questi non sono stati veri amori, ma simpatie fanciullesche, ingenue imaginazioni. La realtà ideale sei tu! Perchè non t’ho conosciuto prima? Come saremmo stati felici!
— Come ora!
— No, più di ora!
— Perchè non sei libera dinanzi al mondo…
Ella si stringeva a lui ancora di più, chiedeva a voce bassa, esitante:
— Tu… mi sposeresti?
Allora gli sguardi dell’amato lampeggiavano, una aura di beatitudine spirava da tutto il suo viso fatto più bello; allora egli le prendeva il capo fra le mani, le mormorava sulla bocca, soavemente, carezzosamente:
— Ah! Per tutta la vita con te, sempre con te, ad ogni ora, ad ogni istante; confonderci insieme, fare un essere solo, sempre sempre, fino alla morte…
Il sorriso beato di Paolo si comunicava a lei, quella visione l’estasiava — ma non era condannata a restare una visione? Se anche ella avesse potuto sciogliere legalmente il vincolo che aveva spezzato di fatto, il passato di lei avrebbe gettato su quella felicità un’ombra da cui l’amor libero era difeso.
— No, questo non è possibile… sarebbe pericoloso… ed inutile ancora! Perchè la realtà è più bella della visione! Perchè noi staremo sempre insieme egualmente!
Ed era lui, adesso, che ripeteva:
— Se ci fossimo conosciuti prima?
— Ah, sì! Tu sei pieno di generosità, ma sento che il mio passato non ti deve far piacere… che non te ne fece almeno un tempo… Non hai ragione, sai: non ho mai amato quell’uomo! tu sei il primo a rivelarmi la vita del cuore… Se sapessi, se sapessi…
E gli diceva la differenza fra quel viaggio e l’altro compiuto con suo marito, l’abbandono in cui l’aveva lasciata pochi giorni dopo il matrimonio, tutte le sofferenze che le avea procurate.
— Ero sciocca, nella mia gelosia? Ma ancora non sapevo, avevo delle fisime…
Poi ricostruivano la storia della loro passione, fin dai primi giorni che s’eran visti, fin dal primo incontro, a Roma, molti anni addietro.
— Ti ricordi? Fu all’albergo di Milano…
— Mi par di vederti: ti avevo scorta dalla piazza, mi sentii attratto verso di te da una forza magnetica.
— Anch’io ti notai subito, quando salutasti… era predestinato! Perchè non mi portasti subito via?
— Se avessi ascoltata la voce del cuore!
— Che impressione ti feci?
— Mi sembrasti un fulgore abbagliante; contro la luce i tuoi capelli splendevano. Da quel momento pensai sempre a te, come all’unica donna degna d’esser desiderata. Da quel tempo, nessun’altra donna mi ha occupato… E tu pensasti qualche volta a me?
— Ma sì, ma sì!
Allora egli voleva sapere tutto quello che le era avvenuto durante il matrimonio; ella parlava vagamente della simpatia ispiratale da Sampieri, da Aldobrandi, della corte discreta che le avevano fatto altri; ma tutte le volte che le loro confidenze prendevano quella piega, ella sentiva più acuto il rimorso del tradimento, più imperioso il dovere di confessarlo; però, non riusciva a parlare, non si sentiva la forza di affrontare lo sguardo di lui limpido e fermo; acquetava la propria coscienza con la risoluzione di dir tutto più tardi. Intanto, anch’ella voleva conoscere il suo passato, insistendo per sapere ogni cosa se egli rispondeva ambiguamente a qualche sua domanda.
— No — assicurava Paolo — neppure i miei furono amori, furono le prove per cui passano tutti, dei legami fugaci… però, una volta…
Allora esigeva che egli le raccontasse la storia del suo fidanzamento, una storia triste, che egli riferiva a bassa voce: l’agonia della povera creatura che si era afferrata a lui come alla vita, lo strazio di non poter nulla contro la fatalità del male, di sentirle dire: «Fra un mese, fra una settimana, io sarò morta… tu mi piangerai, non è vero?»
Piangeva ella stessa, nell’ascoltarlo; la voce dell’amato tremava un poco, ma i suoi occhi erano secchi.
— Neppur tu devi esser gelosa di quella povera morta…
— Ebbene: non sono gelosa. Tu mi conoscevi forse, allora?
— Non è vero?
— Sì, sì; sono ragionevole, vedi!
Però come il termine di quel viaggio si avvicinava, la sua malinconia cresceva. Forse era il pensiero che non avrebbero potuto più fare la stessa vita, che le convenienze sociali li avrebbero costretti a riguardi continui.
— Se tu vuoi — gli proponeva — andiamo a stabilirci in un angolo ignorato del mondo, in un paesuccio di campagna, dove nessuno ci conosca, dove saremo liberi di fare quel che ci piacerà…
— Sarebbe l’ideale ottenuto… ma io non ho il diritto di seppellirti viva…
— Oh, per me! È piuttosto che tu stesso hai dei doveri, il tuo avvenire da assicurarti… Tu sei fatto per salire ai primissimi posti, per conquistare il potere! Sarebbe il rimorso di tutta la mia vita, impedirti di proseguire in una via dove t’aspetta il trionfo…
Ciascuno riconosceva, per le ragioni dell’altro, l’impossibilità di conseguire quel sogno; riconoscevano ancora la necessità di vivere separati, ma disponevano anticipatamente la loro vita in modo che nessun giorno sarebbe passato senza vedersi da soli o dinanzi a quel mondo nel quale anch’ella contava di sostenere una parte.
Non era soltanto per lui che ella rinunziava a vivere insieme ignorati; era per tutelare l’amore: l’intimità di tutti i momenti avrebbe finito per intiepidirlo. Se ella voleva esser sempre desiderata, le bisognava spiegare tutte le sue attrattive, mostrarsi or da lontano or da vicino, brillare in società, perchè egli si potesse dire: «Questa donna che tutti desiderano è mia, unicamente!»
Assaporando la dolcezza d’un autunno mite e sereno, si attardavano intanto sulle rive del lago di Ginevra, peregrinando a Losanna, a Vevey, visitando il castello di Chillon, spingendosi fino a Yverdun e a Neuchâtel, fin quando il primo freddo fece prender loro a malincuore la via di Roma. Per prolungare ancora quell’incanto, andarono nei primi
giorni allo stesso albergo; Paolo aveva lasciata la sua casa ed ella doveva ancora trovare la propria. Come la città era ancora deserta del loro mondo, essi andavano spesso insieme, si davano dei convegni al passeggio, in un negozio; s’incontravano come per caso, ed era un fascino supremo mormorarsi delle parole d’amore tra i saluti reverenti delle persone che ancora non sospettavano nulla.
Ella trovò, al Maccao, un quartiere che si meritava il nome di Nido datogli da Paolo; piccolo, ma civettuolo, soleggiato, con del verde dinanzi. Le corse per provvedere al mobilio le prendevano adesso tutto il suo tempo; ella domandava dei consigli all’amato sopra ogni cosa, ma finiva per scegliere lei stessa, guidata dal proprio gusto che egli esaltava. Paolo le aveva mandato delle grandi ceramiche, dei piccoli quadri, degli oggetti d’arte, volendo che da per tutto i suoi occhi si posassero su qualche cosa che le parlasse di lui.
— Ma tu hai forse bisogno di essermi ricordato? Se sapessi come mi sei presente, sempre, a tutti gli istanti! Come non vedo che te, non penso che a te, non odo che la tua voce!
— Il tuo pensiero — diceva egli — è il sostrato, la trama sulla quale si ricama tutta la mia vita…
— Come parli bene!  Io sento quanto te; ma le espressioni mi mancano…
— Non basta il tuo sguardo?
Quando si compì l’arredamento del Nido, ella vi passò; fu un giorno di festa. Là si sarebbero sempre amati, là ella avrebbe assaporata la dolcezza di vivere! Ma tutti i giorni era festa: ricorreva quasi tutti i giorni una data luminosa nella storia del loro amore; egli ne aveva compilato il calendario, nel quale erano segnati il primo incontro, la confessione, la prima lettera, il primo bacio, il possesso, Castellammare, l’unione assoluta, cento altri piccoli avvenimenti che ella non aveva neppure notati. Che pensiero poetico era stato il suo! Che baci aveva ella posto su quel foglio, documento dell’adorazione ispiratagli! E nella ricorrenza di quelle feste, appena ella apriva gli occhi alla luce, Stefana le veniva dinanzi coi fiori che egli le mandava: l’omaggio più gradito, l’attenzione sempre sognata e mai ottenuta; ella li carezzava, ne aspirava il profumo, ne custodiva alcuni tra le pagine di un libro, in una lettera di lui. Che felicità!
Però, come adesso la gente cominciava a dimostrar di conoscere i loro rapporti, Paolo avrebbe voluto farsi vedere meno spesso con lei; ella insorgeva contro quell’idea dettata da uno scrupolo eccessivo:
— Non ci mancherebbe altro! Il mondo ci costa già abbastanza. E poi, che ci vedano insieme, dov’è il male? Suppongano quel che loro piace…
La vita che ella faceva non le impediva di esser trattata dalle persone con cui era stata prima in relazione; ma v’erano alcune che cominciavano a far le difficili, che le parlavano un po’ fra i denti quando la incontravano in visita, o che la salutavano appena. Ella si consolava pensando che le più pudibonde erano quelle che per proprio conto si permettevano le più ampie libertà, sotto l’egida dei gerenti responsabili; poi, era felice di soffrire quei piccoli dolori per amore di Paolo.
Era stato un dolore più grande la rottura coi suoi parenti. Dopo la sua risoluzione incrollabile di partire, il nonno e la zia le avevano scritto ancora, quantunque freddamente, per darle notizia dei suoi affari, dell’amministrazione della sua dote che Duffredi le aveva ceduta interamente; adesso non le rispondevano più. Ella pensava con uno scettico sorriso all’idolatria che il nonno aveva avuto per lei, e che cessava così, dall’oggi al domani, perchè ella s’era ribellata a un destino insoffribile, perchè non s’era fidata di rinunziare più oltre alla sua parte di gioia sulla terra. Poi si stringeva nelle spalle, s’avvinghiava al collo dell’amato; per lui tutto le era dolce, l’amor suo la compensava di tutto.
Egli era più difficile, soffriva al pensiero dell’ostilità a cui era esposta; presumeva che nessuno avesse a parlare di lei.
— Come è possibile, amore? Ormai, tutti sanno che siamo stati quattro mesi insieme!
— Non tutti… E poi, che importa? Purchè ora non trovino nulla…
— Ebbene, che cosa trovano? Ci vedono insieme, come ogni altra gente!
Per questo ella voleva che, nel suo giorno, egli venisse di tanto in tanto a trovarla, come per una visita, all’ora delle altre visite: vederlo a distanza, in presenza delle persone, pensando a quel che erano l’uno per l’altro, le procurava un’emozione sempre più forte; poi, era anche un mezzo per allontanare i sospetti.
Ella prendeva esempio dalle altre: la Giacomelli non si faceva sempre accompagnare da don Marcantonio Bragadino? Emma Triburzi non andava e veniva da Firenze con Giacomo Mastellani?
— Infine, dicano quel che vogliono: noi facciamo quel che ci piace; sarebbe stolto occuparsi di loro!
E la notte, all’uscir dal teatro, com’egli l’accompagnava, giravano lungamente in carrozza per le vie deserte, stretti l’uno all’altra, dicendosi piano il bene che si volevano, rinnovandosi i loro giuramenti dinanzi alle stelle.
— Se ci vedessero così? Ci vedano pure! Essi non sapranno mai il bene che ti voglio!
Facevano delle scappate anche di giorno, andavano spesso per la campagna romana, sulla via Appia, a Ponte Molle: dei squadroni di cavalleria facevano esercitazioni, gli ufficiali cercavano di guardare dentro alla carrozza; ella gli diceva:
— Parlami… ripetimi qui, dinanzi a questa natura, ciò che provi per me…
Un giorno nuvoloso, che minacciava pioggia, andarono a Villa Borghese: come i viali erano deserti, ella abbassò un vetro dello sportello. A un tratto, s’udì uno scalpitar di cavalli, un’altra carrozza s’incrociò con la loro: era il re, che si sporse un poco a guardare e, prima ancora che Paolo districasse il braccio passato dietro la vita di lei, si cavò il cappello, con un breve sorriso di compiacente intelligenza, quasi a dire: «I miei complimenti!»
Ella arrossì tutta, chiedendo:
— Ti ha riconosciuto?
— Hai visto bene…
Tutto questo non faceva all’amato il piacere che procurava a lei stessa; ma egli s’arrendeva sempre alle sue volontà.
Andavano insieme a Tivoli, a Frascati; ella realizzava ad una ad una le fantasie di cui si era nutrita; si diceva di tanto in tanto, stupita della rivoluzione operatasi nella sua vita: «Sono proprio io che fo questo?» La felicità di cui si sentiva piena faceva rifiorire la sua persona; ella non era mai stata così bella, si trovava un’aria più provocante, come tutti le affermavano. Ella sorrideva ai complimenti degli uomini, li riferiva a Paolo, gli diceva, buttandogli le braccia al collo:
— Tu non sei geloso? Se sapessi che effetto mi fanno! Tutti mi sembrano vuoti, stupidi, insignificanti, meschini, dinanzi a te!
Come i lavori parlamentari ricominciarono, ella lo costrinse a prendervi parte assiduamente; andava ella stessa alla Camera, voleva che egli parlasse per lei sola, ritagliava dai giornali i resoconti dei suoi discorsi. Per lei, egli era un po’ troppo liberale e democratico, accarezzava troppo l’ideale dell’eguaglianza umana che le pareva impossibile; e il suo secreto desiderio era di convertirlo, di ottenere quest’altra prova del proprio potere. Paolo non esaltava il suo ingegno? Non s’arrendeva spesso ai suoi giudizii? Non sollecitava i suoi consigli? Certe volte ella pensava di avere un salone politico, come ve n’erano a Parigi, per contribuire alla fortuna dell’amato; poi si diceva che questo conveniva alle donne sul tramonto, a quelle che perdevano o non avevano mai avute altre attrative: ella era giovane, piacente, capiva poco di politica. Quando chiedeva a Paolo di che cosa s’era occupato, quali affari studiava, cominciava ad ascoltarlo attentamente, approvando, chiedendo spiegazioni; alla lunga, finiva per batter le ciglia, per reprimere dei piccoli sbadigli; allora poggiava il capo sui ginocchi di lui, interrompendolo:
— Dimmi tante cose! Delle cose care, come tu solo sai dirne…
Egli le ripeteva che era l’amor suo grande, il suo orgoglio, il suo sorriso, la sua vita, che avrebbe voluto metterle ai piedi l’universo, immolarle l’umanità; che era un sacrilegio distogliere un’ora sola dall’amore, che voleva rinunziare a quella miserabile politica, vivere unicamente, interamente per lei. Ella, socchiudeva gli occhi ridenti, dilatava le narici, aspirando la lode, imbevendosene tutta; l’altro insisteva:
— Mi dimetterò, non m’occuperò più di nulla; se v’è qualcuno che crede al mio ingegno, al mio avvenire, voglio che dica: «È stato l’amore di lei che l’ha esaurito…»
— No! No! Tu non pensi a me, dunque? al dolore che mi daresti? No, non lo farai! Rina tua non vuole! Tu non sai che i tuoi trionfi sono i miei, che io fremo d’orgoglio quando la tua parola è soffocata da uno scoppio d’applausi?
Ella s’infervorava, quantunque egli non insistesse; si faceva promettere obbedienza, ma per compenso voleva che le scrivesse ogni giorno. Ella stessa gli rispondeva assiduamente, dicendogli: «Noi dobbiamo fare oramai una sola vita: io voglio dividere i tuoi lavori, i tuoi piaceri, i tuoi pensieri d’ogni momento. Se tu dovessi soffrire, io soffrirei per te, più di te!» Si faceva leggere le sue relazioni, voleva essere informata degli umori della Camera, delle probabilità di crise; gli diceva: «Che festa sarà per noi il giorno che salirai al potere!» Montecitorio non la divertiva molto; pure vi tornava più spesso, cercando l’emozione del mistero, del pericolo arditamente sfidato; sedotta all’idea del dominio esercitato su quell’uomo. Un giorno, vestita di nero, con una veletta spessa sul viso, andò all’ufficio di via della Missione, domandò dell’onorevole Arconti, scrivendo il suo nome sulla scheda presentatale da un usciere. V’erano dei contadini, dei provinciali, dei sollecitatori d’ogni genere, ai quali i deputati facevano rispondere che avevan da fare. Ella restava in piedi guardando intorno, temendo di toccare qualche cosa di poco pulito, quando Paolo comparve e le si accostò in un angolo.
— Tu qui! Che imprudenza!
— Mi rimproveri? Avevo bisogno di vederti, volevo dirti… — Come della gente poteva udire, ella s’interruppe per riprendere a voce più forte: — Una seduta interessante?
— Tutt’altro…
— Tu m’ami, non è vero? Dillo! ripetilo…