I.

— Il nonno! Il nonno!… Arriva!… È qui!
Lasciata a precipizio la finestra insieme con Lauretta, ella si mise a correre per le stanze, gridò dinanzi all’uscio della mamma: «È arrivato!… È qui!…» scappò a dare l’allarme alle persone di servizio, e tornò verso la sala, chiamando:
— Nonno!… Nonno!… Eccoci, nonno!
Il nonno, seguìto dal portiere e dal facchino con le valigie, era a mezza scala quando la vide scendergli incontro. Abbracciandola e baciandola sulle due guancie, esclamò:
— Teresa! Come stai? Come sta la mamma?
— Bene, nonno… tutti bene! Anche Lauretta…. Dov’è andata? To’: eccola lì!
E scoppiò a ridere perchè la sorellina, rimasta indietro, ansimante, cominciava appena allora a scendere i gradini, uno alla volta, strettamente afferrata alle bacchette della ringhiera. Allora risalì di corsa e traversò di nuovo la casa, gridando:
— Mamma! Ohè, mamma! È qui!
Come la mamma, un po’ pallida, usciva dalla sua camera mezzo buia, le si buttò addosso, con le braccia in aria:
— Vieni anche te! Fai presto! Eccolo, guarda!
E mentre il nonno, entrato, abbracciava la sua figliuola, lei gli girava intorno, saltellando, tirandolo per le falde dell’abito, rovesciando domande su domande:
— Ma quando sei partito? Quanti giorni sei stato per via? Hai avuto un bel viaggio? Cosa si dice in quel brutto Milazzo? Nonno, ohè nonno!
Tacque subito, quando lo udì chiedere, sottovoce:
— Dov’è tuo marito?
— È andato fuori….
Anche la mamma aveva risposto piano; tutti e due restarono un pezzo a parlare in disparte, poi il nonno se ne andò in camera sua a disfare le valigie, in mezzo a Lauretta che lo aiutava, seria e composta, ed a lei che gli metteva sossopra ogni cosa, ricominciando a interrogarlo:
— Nonno, da quanto tempo non venivi a Firenze? A questo Senato non ci vuoi proprio andare? Vai a Torino pel Senato? Ah, è bella Firenze! Io vo’ star sempre nella mia bella città! Senti una cosa, nonno: a Milazzo non ci ritorno, di sicuro!
— Se ci tornano babbo e mamma, — osservò Lauretta — ci tornerai anche te.
Il nonno smise di sistemare i suoi effetti per stampare dei baci sulle guancie magroline della bimba.
— Così parlano le ragazze a modo! Queste son le nipotine che fanno la gioia dei nonni!
Ella scosse il capo, si mise un dito sul mento e guardò il nonno di sottecchi.
— Bravo, ed io non conto, eh? E tu non vuoi sentirti chiamare”Bià”, come ti dicevo quand’ero piccina?
E il nonno si chinò ancora su di lei, la baciò in fronte, chiedendo con un sorriso:
— Adesso sei una donnina matura?
— Ho dieci anni!
— Vuol dire che è tempo di metter la testa a partito. Io so che ne hai fatte delle tue, che hai dati dei dispiaceri alla mamma!
— Chi te l’ha detto?
— Lo so… che t’importa? Non è vero, Matilde?
La mamma che entrava in quel momento, si strinse a fianco la bambina, mormorando:
— Sì, ma non ne darà più; l’ha promesso, l’ha giurato, questo amorino…
Entrò anche Miss, per riverire il barone, chinandosi tutta d’un pezzo, come se avesse inghiottito il manico della granata, e per avvertire poi alle piccine:
— Maintenant, mademoiselles, c’est l’heure de votre leçon.
Laura quasi stava per seguirla, quando lei saltò su:
— Ah, vous savez, Miss, aujourd’hui c’est fête… c’est l’arrivée de grand-papa; on ne travaille pas!
Si parlamentò un poco, fin quando, a maggior contento delle bambine, Miss se ne tornò indietro mogia mogia. Il nonno, scavando in fondo alle sue valigie, ne trasse due puppattole, grandi, vestite di tutto punto, alla cui vista Lauretta giunse le mani e lei ricominciò a saltare. Adesso, mentre con la sorella si rifugiava in un cantuccio a prender possesso dei regali, il nonno e la mamma parlavano un’altra volta fra loro. Tratto tratto, lei alzava il capo, guardando da quella parte; si udiva il nonno che borbottava: «Ci penserò io!… Avrà da fare con me!» e la mamma rispondeva: «No, no, per carità…» portando poi il suo fazzoletto agli occhi. Come il babbo rincasò, Stefana venne a prendere le bambine e le condusse via.
— Cos’ha il nonno col babbo, che non l’ha neppur salutato? — domandò lei alla cameriera.
— Nulla, che dovrebbe avere?
Però, a desinare il babbo non comparve, e la mamma, cogli occhi rossi, non toccò quasi niente. Solo il nonno parlava per tutti, narrava delle cose di Milazzo, diceva delle burlette guardando sua figlia, chiedeva conto a Miss dei progressi delle sue allieve. Miss prodigava elogi a Laura che otteneva sempre dieci punti nel dettato; ma per la sorella maggiore faceva delle riserve:
— Elle ne veut pas étudier, elle manque de suite. Et c’est bien dommage, car elle aurait du talent… Monsieur le baron devrait lui dire de songer un peu moins à sa toilette…
— Come se un bel giorno non t’apparirà il diavolo, a furia di guardar nello specchio!
— Già! — protestava lei, con un’aria d’incredulità non molto sicura.
— Davvero!
Ella buttò indietro, con una rapida scossa del capo, la massa dei suoi capelli d’oro, ripetendo:
— Già, a me non la date a intendere!
Ma alzatosi di tavola, il nonno andò a chiudersi in camera con la mamma, intanto che Stefana metteva a letto le bambine. Ella chiese ancora:
— Dov’è il babbo? Perchè non ha desinato in casa?
— Avea un invito…
— Proprio oggi che arrivava il nonno!
Ella scuoteva il capo, non bene persuasa; ma recitando le preghiere della sera, cacciandosi sotto le lenzuola, pensava ridendo alla festa che sarebbe cominciata con la presenza del nonno. Era molto tempo che se ne stava lontano, dall’ultima volta che avevano lasciato Milazzo; ma ella non rammentava bene questo. Le avrebbe fatte divertire, lui che giuocava con loro come un ragazzo, che le contentava in ogni cosa! La mamma era stata tanto di cattivo umore! e il babbo! Una volta, non sapeva dove, li aveva uditi che si bisticciavano; il babbo gridava, la mamma scoppiava in pianto: rammentava l’abbraccio fitto che le aveva dato, scorgendola. Ma anche il domani, e gli altri giorni che restava a casa, il babbo non parlava con nessuno, sgridava terribilmente le persone di servizio, non rispondeva nemmeno alle carezze delle figliuole. La mamma non volle andare a passeggio, la domenica; diceva di sentirsi poco bene, ma non si metteva a letto. Inutilmente, mentre la carrozza aspettava sotto il portone, lei insisteva:
— Mammina, vieni anche te! Non è giusto, sai, lasciar solo il tuo babbo adesso che è con noi! Guarda: tu metterai l’abito mauve, quello che ti sta tanto bene… Nonno, sapessi com’è bella la mamma con quella toletta! Vieni dunque, mammina!
La mamma invece la pregava di non insistere, e esse andarono sole col nonno. Andarono alle Cascine, dove c’erano tante belle carrozze, tanti signori a cavallo; e lei, composta come una damina, col piccolo busto eretto, gli sguardi brillanti dal piacere, spiegava tratto tratto:
— Guarda, nonno, quella lì è la Treggiani; la conosci? Quell’altre due sono le sorelle Lorenzetti: una è maritata col marchese Bicci e l’altra con Martinari… Tò, guarda il babbo!
Il babbo, a cavallo, stava fermo vicino a una victoria, a discorrere con una signora elegantissima, che aveva delle perle enormi alle orecchie e rideva mostrando i denti più bianchi delle perle. Il nonno si voltò bruscamente dall’altra parte, ella tacque un poco. Poi, come passavano altre carrozze, riprese:
— La principessa Roskoff… Non mi piace punto com’è vestita, oggi! Quella è la Giacomelli, sai, la signora che ha i più bei brillanti di Firenze… ma io non li ho visti… La mamma non vuole andar mai a teatro!… Nonno, tu ci condurrai? Di’ la verità: un passeggio come questo a Milazzo non lo sognano neppure!
Ma come la sorellina tossicchiava un poco, il nonno diè l’ordine di tornare a casa; e lì, intanto che la svestivano, lei enumerava un’altra volta, per la mamma, tutte le carrozze che aveva incontrate, descriveva le più belle tolette, criticava le brutte.
— Sai, c’era anche il babbo…
Però non aggiunse altro, vedendo che la mamma chinava gli occhi. E quando il babbo rientrò anche lui, s’udirono delle voci aspre, si vedeva il nonno passare da una stanza ad un’altra, su tutte le furie — e Stefana veniva ancora a portar vie le bambine.
— Sono in collera, il babbo e il nonno… — notava lei. — E anche la mamma… Non dice niente, ma le dànno dispiaceri… io me ne accorgo bene!
Certi altri giorni, invece, pareva che tutti avessero fatto pace: il desinare era animato, il babbo discorreva, la mamma sorrideva un poco, le diceva di mettersi al piano. Lei cominciava a suonare qualcuno dei pezzi meglio studiati; ma, giunta ai passaggi complicati, s’impuntava, sbuffava, si dimenava sulla seggiola; intanto che Miss, con la sua voce pacata che era un’altra disperazione, ammoniva:
— Faites attention, mademoiselle… recommencez, s’il vous plait.
Ella tornava da capo, ma ad un nuovo imbroglio si lasciava scivolare dallo sgabello, buttando indietro i suoi capelli.
— Assez, maintenant!
E cedeva il posto a Lauretta che eseguiva gli esercizii a puntino, senza sbagliare una nota, e si guadagnava tutti i baci e tutte le carezze.
— Questo si chiama studiare!… Perchè non studii anche te come tua sorella?
Ancora tutta fremente per l’irritazione che le difficoltà incontrate le avevano messa, dalla sua poltrona dove se ne stava sdraiata sbattendo le gambe, ella esclamava, sorridendo sul punto di piangere:
— Eh, studio anch’io… ma le dita non ci vanno! Cosa posso farci? Io vorrei saper suonare senza perder tanto tempo!
Alcune volte veniva il conte Rossi, il loro padron di casa, tanto amico del babbo: un bel giovane, il più bel giovane di tutta Firenze. Allora ella provava una grande soggezione; se egli la guardava, se la carezzava, si sentiva tutta rimescolare; e non voleva esser trattata come una bambina in sua presenza. Il babbo andava via col conte; ella gli chiedeva, piano:
— Dove vai, babbo, a teatro? Conduci anche noi!
— Un’altra sera…
E la mamma tornava ad avere l’umor nero, si chiudeva in camera, non voleva veder gente. Certi giorni, come venivano delle visite, il portiere aveva ordine di riferire che la signora non riceveva, e lei, dietro la finestra, guardava con rammarico le belle carrozze riluccicanti tornarsene indietro.
— La calèche della marchesa Castelli… la victoria della Santamarta…
Durante le lezioni, mentre Miss correggeva il dettato francese, o assegnava la traduzione inglese, o spiegava la geografia, se udivasi uno scalpitar di cavalli padronali, ella s’alzava, correva a vedere.
— Thérèse! — esclamava Miss.
— Me voici…
— Je voudrais savoir qui vous a appris ça? Vous n’aurez pas de dessert, ce soir…
Ella alzava le spalle, mormorando: «Je m’en moque!» E prima di desinare faceva tante moine al nonno, che il castigo finiva per esser condonato.
— Mi secca, sai, quella vecchia! Perchè lei è vecchia, crede che tutte debbano essere a un modo…
— Ma no, che non è vecchia.
— A quarant’anni suonati? Allora, cos’è, una ragazzina? E poi brutta, nonno! Io non le posso soffrire le persone brutte! Per mia fortuna, ho un babbo e una mamma che sono tanto belli! Sai, la mamma, quando passa per le vie, le persone si voltano a guardarla…. io me ne accorgo! E il babbo, quando monta a cavallo, com’è elegante! Non ti pare, nonno?
Il nonno evitava di rispondere. Ella riprendeva:
— Hai viste le signore che vanno a cavallo? A Milazzo non se ne incontra! Come stanno bene! Quando sarò grande, voglio andare a cavallo anch’io…
Allora il nonno cominciava un predicozzo: bisognava avere il capo ad altro, allo studio, alle cose serie, prendere esempio da Laura; ma sul più bello ella lo interrompeva:
— Va bene, va bene, nonno; hai ragione, studierò di più; ma Laura, vedi, è fatta a un altro modo, si secca ad andar fuori, a veder gente; tutt’al contrario di me… A me piace il passeggio, la società, il teatro… Nonno, non par vero: da tanto che siamo tornati a Firenze, non m’hanno condotta una sola volta a teatro!
E come finalmente il nonno, per farla contenta, le annunziò che aveva preso un palco al Niccolini, pel Crispino e la comare, ella si mise a ballare per le stanze, ridendo, battendo le mani:
— Lauretta, a teatro! Andremo a teatro! C’è il palco: fila seconda, numero nove… Gioia, verrai anche te!… vedrai che bellezza!
Si stringeva al petto la sorellina, le stampava dei baci fragorosi sulle guancie, ed esclamava, tutta sola, saltarellando:
— Fila seconda, numero nove!… Fila seconda, numero nove! — Poi correva dalla mamma, le chiedeva: — Quale veste metterò? La bianca o la celeste? La bianca è un po’ antica, ma non mi sta meglio? Eh, cosa ne dici? Proviamo?
Tutto il giorno, il pensiero di quello svago le impedì di far nulla, di star ferma due minuti di seguito; andata fuori con Miss, non aveva occhi che pei cartelloni annunzianti lo spettacolo; ma quando rincasarono e chiese alla mamma se aveva preparato il suo abito, il nonno, che era lì, rispose brusco, con una voce che non gli conosceva ancora:
— Andate via, non si va a nessun posto.
Ella lo guardò un poco, corrugando le sopracciglia, battendo un piede; e appena fuori di quella camera, si cavò il cappello, lo buttò per terra, si mise a strappare la veste, pallida e muta. Stefana, accorsa, tentava di calmarla; ella gridava, coi denti stretti, respingendola bruscamente:
— Va’ via, sai! Va’ via…
— Tua madre, Teresa! Non le dare un altro dispiacere…
— Esci, ti dico!
E andò a chiudersi nella sua cameretta. Stefana la seguiva, picchiava all’uscio, insistendo:
— Teresa! Teresina! Non esser cattiva! Apri! Ascolta, ho da dirti una cosa…
Ella non rispondeva. Poi s’udì un passo e la voce del nonno, terribile, che gridava:
— Apri!
E come ella non rispondeva ancora, un urto violento dischiuse l’uscio. Il nonno, rosso in viso, coi pugni stretti, le s’avanzò incontro, gridando:
— Anche tu?  Siete tutti di una razza?
Ella indietreggiò, dalla paura; ma ad un tratto la mamma entrò di corsa, se la prese in braccio, se la strinse al petto, furiosamente, mormorando con voce rotta:
— Teresa! Teresa! Figlia mia!
— Mamma!… Oh, mamma!
E il suo rancore finì in pianto disperato. I singhiozzi le scuotevano il petto, le squarciavano la gola, le torcevano le labbra, e grosse, cocenti, le lacrime solcavano le sue guancie infiammate.
— Figlia mia! Teresina mia! La tua mamma! Non piangere, no; mi fai male! Sii buona; basta, adesso!
Ella tentava di articolare una sillaba che si perdeva nel brivido sibilante dei singhiozzi; e scuoteva il capo, sconsolatamente, come per dire che tutto, che tutto era inutile. Ora la mamma, sedutasi, l’adagiava sulle sue ginocchia, la stringeva al seno, la cullava, mormorando parole di conforto, interrotte da carezze e da baci; e a poco a poco la tempesta si sedava, le lacrime cessavano di scorrere, i singhiozzi si facevano più rari, si mutavano in grossi sospiri.
— Non più, adesso. Figlia mia, figlia mia cara! Aspetta, asciùgati gli occhi…. bambina mia bizzosa! Tu non farai più questo, un’altra volta, non è vero? — ella, con un moto del capo, assentiva. — Vedi come indovino? Come conosco quel che hai nel tuo cuoricino? Adesso, dimmi che mi vuoi bene…
— Tanto, mamma!
— Quanto mi vuoi bene?
Ella cercava un poco; poi, alzati gli occhi:
— Quanto il cielo.
— Cara! Cara! Adesso andiamo dal nonno; vieni a domandargli perdono….
Ella doveva aver fatto molto dispiacere ai parenti, perchè, anche dopo la pace, la mamma continuava a piangere; e il nonno andava di su e di giù per la casa, borbottando cose che non si capivano, poi tornava a chiudersi in camera con sua figlia; e il babbo non si vedeva, nè quel giorno nè il domani.
— O il babbo dov’è?
Non le rispondevano; solo Stefana le disse, una sera:
— È partito… Aveva da fare, a Palermo….
E un bel giorno la casa fu messa sottosopra: armadii spalancati dai quali cavavano biancheria e vestiti; bauli, valigie e sacchi da notte che si andavano colmando di roba; mobili che i facchini venivano a caricarsi sulle spalle e portavano via.
— Che cosa fanno? — chiese a Stefana.
— Si parte anche noi, si torna a Milazzo.
Ella rimase, dallo stupore. E perchè a Milazzo? Cosa volevano farci? C’era già il babbo? Le domande le morivano sulle labbra, vedendo il viso patito della mamma, che non aveva animo di levarsi dalla poltrona, e la cera del nonno così minacciosa, come s’ei fosse sul punto di picchiare qualcuno. Ella guardava le finestre del conte Rossi, che erano dirimpetto alle loro, nella corte; e si sentiva stringere il cuore, pensando che non lo avrebbe più riveduto. Prima che partissero, egli venne a salutarli: era un pomeriggio scuro, il conte parlava piano col nonno; quando s’alzò, baciò la mano alla mamma. A lei, dette un bacio sulle guancie; ne restò come stordita.
La casa adesso era vuota: restavano i letti e le seggiole; e i bauli ingombravano la sala. Miss le conduceva fuori, e lei si guardava intorno, leggeva il nome delle vie, i cartelli delle botteghe, chiedendo:
— Est-ce que nous ne reviendrons plus à Florence?
— Je ne sais pas.
Il giorno della partenza, la sua povera mamma stava così male, che dovettero reggerla nel discendere le scale e nel salire in carrozza. Lei sporgeva il capo dallo sportello per vedere la sfilata delle case, delle vie, delle piazze, per salutare la sua bella città, col cuore stretto, con una gran voglia di piangere. E dal finestrino del treno che si metteva in movimento, stendeva un braccio, apriva e chiudeva la mano, esclamando:
— Addio, Firenze!… Arrivederci….