II.

Era tanto più piccolo e più brutto, Milazzo! Dal vapore, si scorgeva il mucchio delle case sotto il Castello, la passeggiata della Marina — una Marina per ridere, dopo quella di Napoli! — il porto senza bastimenti, le case basse e povere. Per le vie, niente folla, niente carrozze, niente negozii rilucenti: le piazze vuote, tranne la fontana del Carmine, colla statua di Mercurio che aveva una cintura di latta. San Giacomo faceva pietà, dopo Santa Maria del Fiore, e quando uno arrivava dai Mulini all’Ospedale, aveva bell’e traversato il paese da una parte all’altra.
Con la mamma quasi sempre a letto, col nonno che non pareva più quello di prima, ora bisognava vedersi sempre dinanzi il muso lungo di Miss, udire i suoi borbottii di eterna malcontenta. Il solo viso allegro era quello di Stefana, che le voleva bene come un’altra mamma. «Ti tenni in braccia io per la prima, quando venisti al mondo!» le diceva, mettendosela ancora a sedere sulle ginocchia, malgrado cominciasse a pesare. Ed era lei che osava tener testa a Miss se questa la sgridava, che dimostrava al barone il torto della governante o compensava di nascosto i castighi irrevocabili. Quando le toglievano il dessert, Stefana glie ne dava, senza farne accorgere nessuno, una porzione doppia di quella che le sarebbe toccata; quando la condannavano a desinar fuori di tavola, desinavano insieme, tutt’e due sole, con più gusto, con maggiore appetito; tanto che appena Miss infliggeva un castigo, lei le rispondeva, per farla arrabbiare, con un bell’inchino:
— Merci! Vous m’obligez, vraiment…
Nei primi tempi, ella chiedeva spesso a Stefana notizie del babbo; la donna rispondeva che era in viaggio, o che stava poco bene, o che aveva da fare; a poco a poco ella finiva per non notare la sua assenza, per dimenticare la sua figura. La mamma non ne parlava mai, non parlava quasi di niente; si metteva accanto le bambine, carezzando lungamente i loro capelli, ascoltando il loro chiacchierio, e certe volte, sull’imbrunire, quando non avevano ancora portato il lume, delle lacrime le luccicavano sulle guancie.
Se avessero potuto dormire nella sua stessa camera, come quand’erano più piccine! Lei aveva adesso una cameretta tutta per sè; e di giorno era una festa, chiudervisi dentro, disporre ogni cosa come le talentava: trascinare più qua il tavolino da studio, spingere più là una seggiola, rovistare nelle cassette del canterano, un mobiletto piccolino, bellino, che era il suo orgoglio. Ma quando calava la sera, e lei pensava alla notte che doveva passar lì dentro, sola, con un filo di luce del lampadino messo nel corridoio per illuminare anche la camera di Miss, aveva paura e dimenticava l’antipatia ispiratale dalla governante, invidiando Lauretta che le dormiva accosto. Era brutta la notte, il buio, il silenzio. Per questo, malgrado le fosse stato proibito dal nonno, Stefana veniva a tenerle compagnia nelle prime ore della sera, discorrendo di tante cose: com’era stato che il nonno l’aveva presa al suo servizio, quante volte aveva rifiutato di maritarsi per restar sempre in quella casa; oppure le narrava delle fiabe dove i figliuoli dei re morivano d’amore, lontani dalle Belle, e le cercavano girando il mondo, sfidando maghi, giganti, serpenti, leoni, la fame, la sete e le tempeste per liberarle, per distruggere i malefizii operati dalle streghe. Se le regine non accordavano in moglie ai principini le ragazze ch’essi volevano, i poveretti deperivano a vista d’occhio, non mangiavano più, si struggevano a lento fuoco, si riducevano in fin di vita: tutti i cortigiani piangevano, i popoli erano in lutto, i medici ammattivano, i maghi non sapevano che cosa escogitare; e a un tratto, appena le Belle si presentavano, essi guarivano come per miracolo.
Ella sbarrava gli occhi, immobile, incantata; e quando una fiaba finiva, ne domandava un’altra, e poi un’altra ancora, finchè il sonno non s’aggravava sulle sue ciglia. Quando la credeva addormentata, Stefana se ne andava in punta di piedi, come camminando sulle uova; ma tante volte lei era desta ancora, con tutte quelle avventure nel capo; e durante la notte, svegliandosi a un tratto, sussultava, spalancava gli occhi, impaurita dalle grandi ombre proiettate dal lampadino posto per terra, dalle brutte forme che prendevano le vesti floscie sulle seggiole. Allora le fiabe narrate a veglia, invece di distrarla, accrescevano il suo spavento: le Mamme Draghe, gli eremiti colle barbe bianche fino ai piedi, gli uomini selvaggi, le teste di Turchi che appariscono quando le ragazze vanno a cogliere ramolacci, il diavolo che chiamavano Cugino, parevano s’affacciassero dall’uscio, ed ella non ardiva voltarsi contro il muro, per vedere almeno quel che avveniva nella camera. Poi, dalla parte del muro, col letto che vi era addossato, non poteva sorger nessuno, e così ella aveva le spalle sicure — giacchè la sua gran paura era che entrassero delle persone a rubarla, a portarla via, imbavagliandola, legandole mani e piedi. Ella aveva nell’orecchio il ritornello d’una fiaba, la predizione insistente e minacciosa che diceva: «Viene la morte con l’anche storte…» e quest’idea di morire l’agghiacciava nel suo lettuccio, le serrava la gola, le faceva battere i denti. Col giorno, ombre e paure svanivano; e che gioia quando, appena aperti gli occhi, la luce penetrante tra le fessure delle imposte la colpiva! Ma che seccatura, anche, quand’era Miss che veniva a destarla, una, due, tre volte, finchè non le tirava giù le coperte! Aveva una sveglia nella testa, colei? Alle sette d’inverno, alle cinque d’estate, era sempre in piedi, come una sentinella! E non c’era caso che accordasse mai cinque minuti di dilazione! Ella se ne vendicava pigliandosela con l’Irlanda, il paese dove quella vecchia era nata, o cantarellando nel camerino di toletta, come i monelli delle vie, sull’aria la donna è mobile:
La vecchia insipida, il legno fradicio….
— Teresa! — ammoniva Stefana, che l’aiutava a vestirsi.
— Cosa vuoi te, adesso? Non posso neppur cantare?
— Le signorine non cantano di queste cose!
— O bella!… La vecchia insipida: che c’è di male?
Non la poteva soffrire, con le sue eterne ammonizioni, coi rimproveri continui perchè il quaderno del dettato non era pulito, perchè le divisioni erano sbagliate, perchè i nomi della storia sacra non le restavano in mente. Lei si seccava a studiare quelle cose: come volevano sentirlo? A cosa doveva servirle la divisione, quando sarebbe stata grande? I conti li avrebbe dati a fare ad un altro; non era ricca e nobile abbastanza? Suo padre era il conte Uzeda, suo nonno era il barone senatore Palmi! E Stefana le diceva bene che il nonno avrebbe date tutte le sue ricchezze a lei ed a Lauretta, perchè l’altra sua figlia, la zia di Palermo, non aveva figliuoli.
Era questa zia di Palermo, la zia Carlotta, che mandava gli abiti alle nipotine; e quando arrivavano le casse, lei non dava più retta a nessuno, provandosi e riprovandosi le vesticciole, i cappellini, le scarpette; guardandosi in tutti gli specchi, chiedendo il giudizio d’ogni persona, dalla mamma al portiere. Venivano anche gli abiti per la mamma, che neppur li guardava; peccato, dei begli abiti di velluto e di raso, pieni di trine, di nastri, di guarnizioni d’ogni specie; dei cappelli colle grandi piume attorcigliate, con dei mazzi di fiori che pareva si potessero spiccare! La mamma non usciva quasi mai di casa; e la domenica, per la messa, o quando doveva far qualche visita, o andare alla Badia, dalla zia Serafina, la monaca sorella del nonno, si metteva la prima veste che capitava e spesso lo scialle in capo.
Pensando a un tempo lontano, quando era proprio piccolina, e non sapeva nemmeno dove fosse, se a Firenze o a Palermo o chi sa dove, lei rammentava le lunghe tolette della mamma: la vedeva dinanzi allo specchio assestarsi la veste ai fianchi, metter le buccole sfolgoranti alle orecchie voltandosi di profilo, avvolgersi il capo in una gran fascia ricamata per andare al ballo o al teatro. E quando non c’era nessuno, lei stessa fermavasi dinanzi al grande specchio dell’armadio, e lì, con una tovaglia da faccia, cercava di avvolgersi il capo al modo della sua mamma; oppure si stringeva i gomiti contro i fianchi, salutando a destra e a sinistra, come rammentava di averla vista salutare, in carrozza.
— Thérèse, qu’est-ce que vous faites-là?
Ella sussultava alla voce fredda di Miss, e avvampava in viso.
— Je ne fais rien du tout! Vous le voyez bien, n’est-ce pas?
Era proprio una noia, doversela trovare sempre fra i piedi tutto il giorno, in casa e fuori! Ma a passeggio, almeno, unendosi con le amiche e gli amici, lasciandola indietro con le altre cameriere, si godeva d’una certa libertà. Erano a San Papino le passeggiate favorite, pei campi verdi seminati di margheritine, sulla spiaggia fatta di ciottoli che cominciavano grossi come il pugno, divenivano a poco a poco piccoli e candidi, o bizzarramente venati, come confetti, e finivano in sabbia minutissima, che il mare lambiva quetamente, o assaltava, certi giorni, mugghiando e spumeggiando. Non finiva mai, quella spiaggia, partendo dalla Tonnara e girando lontano lontano fino a Patti, alle montagne di Tindari e al Capo d’Orlando, con le isole di Lipari in faccia; il sole vi moriva, non vi si scorgeva anima vivente per ore ed ore, e la notte, dicevano, certuni avean visto vagolarvi delle fiammelle: le anime dei soldati morti nella battaglia del Sessanta e seppelliti lì, dentro grandi fosse, tutti insieme…. I ragazzi si sparpagliavano di qua e di là, intanto che le grandi sedevano per terra, in crocchio, sotto gli ombrellini o dietro una barca tirata a secco; e si rincorrevano, facevano raccolta di ciottolini, inseguivano le farfalle venute dai campi e smarrite in quel deserto. Niccolino Francia stava sempre vicino a lei, la guidava fino al velo d’acqua che s’avanzava o si ritraeva sulla sabbia fine; certe volte le faceva una gran paura, piantandola lì e fingendo di tornarsene di corsa dov’eran quegli altri, che non si scorgevano neppure.
— Sì, sì! — le urlava, vedendola affondare penosamente sulla sabbia.
— Raggiungimi, se puoi…
Come faceva quel diavolo a correre sui ciottoli? Lei si sentiva incatenata pei piedi, faceva degli sforzi enormi per cavarli da quell’ammasso di sassolini scricchiolanti, col vento del mare che le fischiava alle orecchie, con una paura terribile di restar perduta in quella spiaggia, ma senza chiamare aiuto, perchè le sarebbe parsa una viltà.
— Bravo! Bravissimo! Spiritoso! — diceva soltanto al compagno, ironicamente, com’egli tornava a raggiungerla. — Cosa credi, di farmi paura?
Ma, trafelata, col cuore che le batteva ancora forte, si lasciava cadere per terra, su quel letto nettissimo di ciottoli bianchi, buttandosi sulle spalle, con l’abituale gesto del capo, i capelli scomposti. Niccolino le si metteva accanto e allora parlavano di quel che avrebbero fatto, quando sarebbero stati grandi.
— Io andrò via da Milazzo… — diceva lei — Credi che voglia invecchiare qui dentro? Voglio andare a Firenze, dove son nata, o almeno almeno in una gran città, dove c’è tanta gente, di bei passeggi, tanti teatri… A teatro si va dopo il primo atto, per eleganza, lo sai?
Niccolino la prendeva per la vita, la stringeva, l’obbligava a stargli a braccio, come marito e moglie. Certe volte lei lasciava fare, certe altre gli si ribellava, cercava di svincolarsi, e allora lui, prepotente, cogli occhi rossi e i denti stretti, l’afferrava, le si buttava addosso; poi si rabboniva, diventava tutto carezze, fin quando una voce che per l’immensità della spiaggia parea lontanissima chiamava:
— Teresa!… Ragazzi!
Un’altra passeggiata, più bella ma più rara, si faceva su al Castello, col Maggiore, che era amico del nonno e conduceva anche i suoi figli. Si entrava dalla gran porta addossata a un torrione, e si traversavano degli archi, una galleria tutto buia dove la sciabola del Comandante sbatteva con fracasso, fino alla grande spianata erbosa dove sorgeva l’antica cattedrale: una gran chiesa con la cupola, ma abbandonata, cadente, una rovina. Non c’eran porte agli usci, nè vetri alle finestre, nè imagini agli altari: i muri sforacchiati dalle bombe, il pavimento sfossicato, le lastre delle sepolture rotte o strappate: nel Sessanta, i soldati se n’erano serviti come di tavole da pranzo! Dietro l’altar maggiore si vedeva una gran fossa ed una scala terrosa, da cui si andava in un sotterraneo: le lucertole vi stavano di casa. Uscendo dalla cattedrale, salivasi ancora, alla fortezza più vecchia, sulle cui mura altissime luccicavano le baionette delle sentinelle; ed ella era tutta fiera vedendo i soldati presentare le armi al Comandante che la teneva per mano. Egli le mostrava la Batteria tedesca, le polveriere, la buca da cui s’andava al passaggio secreto che metteva fuori del Castello, sotto terra; poi si traversavano altri archi con uno scudo di marmo in cima, fino alla torre del parafulmine, dove si perdeva quasi l’aria, tanto era alta. Alla discesa, i bambini scappavano innanzi di corsa, si disperdevano verso gli spalti di tramontana, i più belli: affacciandosi dalle feritoie slabbrate, si vedevano i muri precipitare a picco, sui campi verdeggianti, — e dei condannati chiusi nel bagno eran fuggiti una volta da quella parte, legando una corda fatta di lenzuola alle grate della finestra; ma come la corda non arrivava fino al suolo, s’eran buttati giù, spezzandosi le gambe, restando per terra fin quando i carcerieri li avevano ripresi. Sullo spigolo di una delle torri si vedeva un disegno curioso, che pareva una specie di grossa mosca; e il figlio del Comandante spiegava che era il segnale per riconoscere il punto più debole della fortezza. Doveva esser bella, quand’era piena di cannoni e di soldati! Adesso ce n’erano pochi, dei cannoni; l’erba cresceva tra le feritoie, accanto alle lapidi di marmo incastrate nei muri, e non s’udiva altro che la voce del vento sempre fischiante a quell’altezza. V’erano dei vecchi artiglieri, e dei soldati, per custodire i galeotti del bagno; e i bambini passavano di lì, prima d’uscire: una grata dinanzi a una porta grande, dietro alla quale si vedevano i condannati dalle faccie scialbe. Ella aveva paura, non li poteva guardare, si sentiva venir male, e Niccolino glie lo faceva apposta: cercava di trattenerla, additava i visi più tristi:
— Guarda quello lì, che spavento! Stanotte scappa, per venirti a rubare…
Si andava anche al Capo, in carrozza: una via che si svolgeva come un nastro fra le vigne e gli uliveti, col mare a destra e a sinistra, fino alla casa bianca della Lanterna, da cui si vedevano tutte le altre isole dell’arcipelago che da San Papino non si potevano scorgere — dei buchi scuri all’orizzonte — e le onde che mordevano le basi della roccia. Quella era una via che facevano spesso, in autunno e in primavera, perchè lì, al Capo, c’era la Rocca, una proprietà del nonno, con la casina di villeggiatura, dove il dottor Russo li mandava per la mamma e per Lauretta che aveva sempre qualche cosa: o la tosse, o le glandole gonfie, o degli sfoghi sulla pelle, tanto che bisognava sempre misurarle delle cucchiaiate di sciroppi, delle prese di ferro, dei mezzi bicchieri di misture. La piccina sopportava tutto in pace, senza lagnarsi, obbedendo in ogni cosa, non trascurando per questo le sue lezioni, levandosi sempre alla stessa ora, malgrado il permesso accordatole dal nonno di restare a letto un poco più a lungo.
— Vedi tua sorella? — dicevano a lei.
— La vedo, sì… ma che posso farci? Io sono a un’altra maniera!
Per questo non era gelosa degli elogi che tutti prodigavano a Laura, anzi riconosceva per la prima che li meritava. Però, talvolta, se la sorellina per eccesso di zelo faceva andare a monte un divertimento già stabilito; se, alla proposta di uno svago, rispondeva che per conto suo preferiva restare in casa, lei entrava in una sorda irritazione, e a voce bassa, concitata, la colmava per tutto un giorno di male parole:
— Sgobbona! Mummia! Ti dispiace veder divertirsi gli altri? Cosa vuoi diventare, una dottoressa? Bestia! sgobbona!
Addirittura malvagia, certe altre volte la canzonava per le sue infermità, chiedendole se le nocciole le erano rimaste in gola quando le vedeva il collo gonfio, o paragonandola ad un mantice se l’udiva tossire. La collera finiva in grandi scoppii di pianto; inginocchiata dinanzi alla sorella, le chiedeva un perdono che le era subito accordato, le prodigava tutte le sue carezze, voleva essere la sua infermiera, la sua protettrice — come le diceva la mamma.
Poi quei propositi svanivano, se si parlava d’una scampagnata, d’una gita in barca, d’un divertimento del quale la sorellina non poteva prender la sua parte. Il nonno le rimproverava il suo egoismo, non voleva lasciarla andar sola; allora la mamma intercedeva per lei; bastava che gli dicesse una sola parola per ottenerle tutto. Se anche gli avesse detto di buttarsi dal Castello, lui si sarebbe buttato. Era matto per quella figliuola; bisognava vederlo quando la sua malattia s’aggravava: tutto il giorno accanto a lei, a curarla, a cercare di svagarla, raccontando delle storie, leggendole dei libri, facendole vedere le figure dei vecchi giornali illustrati.
Dai discorsi che Stefana le teneva, tra una fiaba e l’altra, quando aspettava di vederla addormentata, lei aveva capito che quella malattia era una malattia prodotta dai dispiaceri: per questo credeva che fosse una cosa da nulla. Però la mamma era molto patita, mangiava pochissimo, non si fidava di far nulla, tante volte restava a letto intere giornate. Quando le due sorelline fecero la prima comunione, volle vestirle ella stessa, s’ostinò ad accompagnarle in chiesa; abbracciandole, dicendo loro: «Figlie mie sante!…», aveva gli occhi rossi, e tremava. Tornò a mettersi a letto, il dottore veniva adesso mattina e sera, e un giorno la zia Serafina lasciò il convento, col permesso della Madre Badessa, per aiutare il nonno che da solo non riusciva a dirigere la casa. Anche le lezioni di Miss furono sospese; ma senza saper bene perchè, lei non trovava nessun piacere in quella vacanza. Dopo un pezzo arrivò anche la zia Carlotta da Palermo, con suo marito; ma non fu neppur quella una festa; avevano tutti una cera così triste! Solo la mamma, dal fondo del suo letto, sorrideva al suo babbo ed alle sue figlie.
Un giorno, mentre facevano colazione, la zia Carlotta venne a dire a Miss di vestir le bambine.
— Perchè, zia? Dove si va?
La zia non rispose, ma il cocchiere aveva già attaccato: si andava al Capo. Veniva anche la mamma?
Prima d’andar via, le condussero nella camera dell’ammalata, che riposava, cogli occhi socchiusi; il nonno e la monaca stavano ai due lati del capezzale; la zia Carlotta teneva la fronte appoggiata alla spalliera del letto.
Ella sentì sollevarsi per le ascelle dallo zio, che disse:
— Bambina, bacia la mano a tua madre.
Baciò la mano bianca e fredda che usciva fuor del lenzuolo; ma il cuore le si chiudeva, perchè i baci alla sua mamma li aveva dati sempre in viso. Non parlava nessuno.
Quando furono in carrozza, con Miss e lo zio, ella chiese improvvisamente:
— Che cos’ha la mamma?
— Nulla, bambina… Sai bene, soffre un poco…
— Allora perchè la lasciamo?
— Andiamo innanzi; poi verranno gli altri.
Arrivati al Capo, tutta la gente di campagna circondò lo zio, e la moglie del fattore le condusse in casa. Era una giornata bella quanto mai, con un’aria così chiara che, dalla terrazza, Stromboli e Panaria quasi si toccavano con mano, ed anche il piccolo scoglio di Basiluzzo si scorgeva come un sassolino in mezzo al mare. Giù in giardino c’era un gran caldo e un gran silenzio; s’udiva il ronzare degli insetti che pareva il mormorio d’un discorso lontano. Sul tardi arrivò il portiere da Milazzo; appena lo vide apparire dietro il cancello, gli gridò:
— Vengono gli altri? Come sta la mamma?
Il portiere rispose soltanto, alzando un braccio, con una voce di spavento:
— Signorina… Signorina… — ed entrò correndo.
Allora lei comprese una cosa: che la sua mamma moriva. Non chiamò gente, non si mise nulla in capo: così com’era, uscì dal giardino per tornarsene in città. Avrebbe trovata la via, bastava andar sempre diritto, fino al Castello; di lì sarebbe scesa subito a casa.
La polvere che sollevavano le sue scarpe l’acciecava, due contadine che si tiravano dietro un asino carico di legna si fermarono a guardarla.
Ella affrettò il passo; ad un tratto si udì chiamare:
— Signorina, dove andate?
Era il fratello del fattore che saliva dalla Croce. Gli rispose:
— Passeggio un poco, fino alla chiesa.
— Tornate a casa, signorina! Venite con me!
Come quell’uomo la prese per mano, tentò svincolarsi; egli la sollevò fra le braccia. Allora, dibattendosi furiosamente, scoppiò in tal pianto che si sentì vuotare. Le parve che tutte le cose girassero, poi la prese un gran freddo e non vide più nulla.
Quando riaprì gli occhi, Stefana la teneva fra le braccia, piangendo; si udivano i singhiozzi convulsivi di Lauretta nelle braccia di Miss.
— La mamma! Voglio veder la mamma…
Fece ancora per fuggire; Stefana la strinse tutta al petto, mormorando:
— Figlia mia! Povera figlia! La mamma è con la Madonnina santa, lassù in paradiso!