III.

Una pace profonda, un silenzio solenne e misterioso, un trionfo di verde su cui l’autunno cominciava a gettare i primi toni di porpora e d’oro. Dinanzi alla villa, una lunga fila di platani altissimi dal fogliame diradato metteva come una cortina, come un merletto immenso, dietro al quale il cielo del tramonto aveva lucentezze di serica stoffa. Un portico i cui pilastri scomparivano negli abbracci dell’edera e dei convolvoli, correva in giro al pianterreno formando terrazza al piano superiore; e da ogni lato l’occhio riposava sopra folte distese di vegetazione, sopra freschi ammanti di erboso velluto.
Laggiù in fondo, sulla piccola collina, biancheggiava la chiesetta dedicata alla Vergine, si disegnava una piccola croce sul cielo terso; ed era una malinconia soave, un raccoglimento tenero che i rintocchi dell’ave, tremuli e lenti, facevano discendere in fondo al cuore; intanto che le prime stelle cominciavano a luccicare, incerte, come sguardi velati da un rapido batter di ciglia.
Era la tempesta dalla quale ella usciva? La calma sovrana della natura, la semplicità nuda dei campi, le conciliavano un benessere insperato. In quella malinconica ora del tramonto, quando gli occhi si volgevano al cielo e le labbra mormoravano l’antica preghiera, ella si diceva che malgrado le prove amare, era immune dal peccato; e delle lacrime le gonfiavano le palpebre a quest’idea, al pensiero della sua purezza, come quando, fanciulla, piangeva all’imagine del simbolico velo nuziale. Il giorno, ella se ne andava, sola, sotto l’ombrellino rosso, per la villa, nei posti più deserti, più brulli, scoprendo la poesia della campagna, dei fili d’erba, degli insetti ronzanti, piccoli miracoli della creazione; componendosi dei mazzi di fiori selvaggi che trovava più veri degli splendidi fiori di serra; ricordandosi delle sue passeggiate infantili di Milazzo, sedendo sopra un sasso, sopra un tronco d’albero, sopra un pilastro rovesciato, per pensare alle sue vicende, intanto che con la punta dell’ombrellino richiuso, descriveva dei semicerchi, dei zig-zag, dei segni capricciosi sulla terra. Allora delle tentazioni sorgevano, suo malgrado, dal profondo dell’essere suo. Per discacciarle, schiudeva un libro che aveva portato con sè, vi leggeva un poco, poi lo lasciava cadere. Avrebbe voluto avere qualcuno al fianco, scrivere le iniziali d’un nome con la punta dell’ombrello, intanto che un altro avrebbe fatto lo stesso con la punta d’un bastone; scolpire delle date sulle corteccie degli alberi, essere amata in cospetto del cielo, sentirsi chiamare: Diletta!… Dopo il libro, lasciava cadere anche i fiori: poichè li aveva colti ella stessa, non avevano nessun valore; una margheritina spiccata per lei da un amato, offertale in mezzo al sussurro delle carezzose parole, sarebbe stato un dono impagabile… Mai ella avrebbe provate queste tenerezze, le sublimi fanciullaggini della passione! Tratto tratto, delle oppressioni le facevano alzare il capo e increspar le narici, col desiderio rapido ma acutissimo di sentirsi stringere tutta, forte forte… Suo marito, malgrado avesse una camera per sè, era tornato buono con lei, ma qualche cosa s’era rotto fra loro; e poi, egli non comprendeva nulla, non aveva mai nulla compreso dei bisogni che la travagliavano.
Egli invitava gente a casa, per giuocare, per chiacchierare, per aver fatta la corte: venivano dei contadini agiati, dei notabili delle vicinanze, persone un po’ goffe o esageratamente cerimoniose; con certi visi barbuti da briganti, delle manacce grosse e villose che dovevano insudiciare il raso delle poltrone sul quale si posavano — e dei discorsi interminabili, sulle campagne, sulle culture, sulla caccia. Le donne di quella gente erano ancora più impossibili: infagottate in certi vestiti verde-pisello o color d’albicocco, cariche d’oro come altrettante statue di santi, incapaci di capire qualche cosa: se ella domandava loro che libri leggevano, si sentiva citare la storia di Santa Genoveffa! V’erano appena due o tre persone con cui dire qualche parola: Sampieri fra questi, un bel giovane, ma non giovanissimo, discretamente colto, spiritoso anche, d’uno spirito non troppo fine, però. Egli possedeva la collezione completa di tutte le opere teatrali del mondo: volumi eleganti, riccamente legati, con una custodia di carta bianca; libretti economici, ingialliti, con una incisione grossolana sulla copertina, fascicoletti di farse cuciti insieme: non gli mancava nulla. Aveva la passione del teatro, dicevano che recitasse con arte, e una sera Guglielmo, di buon umore per aver vinto continuamente, gli disse:
— Andiamo, declamaci qualche cosa!
— Cosa vuoi che declami?
— Quel che ti piace… Teresa non t’ha udito ancora.
Ella non aveva voluto guardarlo in viso, soffrendo per lui, indovinando che suo marito se ne prendeva beffe. Sampieri, intanto, seduto com’era, appoggiando un braccio al tavolo, senza gestire, aveva cominciato a recitare il canto di Francesca, e la sua voce aveva tali vibrazioni sonore, certe inflessioni così penetranti, una pastosità così ricca, che tutti, anche quei rozzi contadini, stavano a sentire, ammirati. Ella alzò gli occhi, e a un tratto vide che la guardava fissamente, comprese che quel canto era detto per lei.
— Benissimo! Bravo! Benissimo!
Aggiunti i suoi applausi a quelli degli altri, ella era rimasta un po’ turbata dagli sguardi di quell’uomo; poi aveva scrollate le spalle, trovandolo perfettamente innocuo. Ma, ad una per volta, scopriva in lui qualche altra qualità; una sera, sedutosi al piano, aveva eseguite da maestro le variazioni sulla Norma di Thalberg; un’altra volta era passato a cavallo, elegantemente piantato sopra uno svelto animale; e poi conosceva la società palermitana, era intimo di molti Crociati, le parlava delle sue amiche. Ella era tutta stupita di pensare a lui: non avrebbe potuto scegliere, a Palermo, fra tanti che valevano di più? Forse era la frequenza con cui lo vedeva: ordinariamente tutte le sere, qualche volta anche di giorno, la domenica a messa. Adesso studiavano dei pezzi a quattro mani; egli non le diceva nulla, ma tutti i suoi gesti, tutti i suoi sguardi esprimevano una devozione timida e ardente insieme. Una sera, intanto che Guglielmo giuocava a briscola, ella aveva esclamato, con un sospiro, guardando la finestra.
— Che bella luna!
Uno di quei contadini osservò:
— Due goccie d’acqua sarebbero però grazia di Dio!
— Sarà benissimo, ma queste sere sono un incanto.
— La quistione è…
— Volete dar retta a mia moglie? — interruppe Guglielmo. — Vi farà ammattire, con le sue romanticherie…
Ella s’alzò e andò sulla terrazza. Sampieri ve la seguì.
— Quella gente — le disse — non capisce nulla.
Guardò anche lui in giro per la campagna addormentata, alzò gli occhi alla luna e soggiunse:
— La poesia è la ragione della vita.
Ella chinò un poco il capo, vide che l’uomo divorava con lo sguardo la mano di lei. Sospirò ancora e colse da un gran vaso un ramoscello di cedronella. Ne aspirò il profumo, morsacchiò un poco le foglie; poi disse:
— Vi piace il profumo della cedronella?
— Tanto!
Gli dette un poco di quella che aveva colta. Vide che egli la portava alla bocca.
Ebbene, sì: lo aveva fatto apposta, per fare qualche cosa, per civetteria, per provare il proprio potere su quell’uomo, per assaporare la sodisfazione di ammaliarlo, persuasa alla commedia dell’amore da quella stagione dolcissima, dalla solitudine della campagna, dalla trascuranza del marito, dalla volgarità dell’ambiente. Ora le toccava restituire le visite ricevute: far toletta, uscire in calèche, per fermare dinanzi a delle case vecchie, dall’aspetto equivoco, le cui finestre si schiudevano al suo arrivo, lasciando passare delle teste curiose, come all’arrivo di un ciarlatano. E intanto che ella saliva su per le scale erte, sfossicate, alzando la veste, col pericolo di rompersi l’osso del collo, schifando di appoggiarsi alle maniglie di legno sudicio o di ferro arruginito, si udiva uno sbatter d’usci, un rispondersi di chiamate e dei guaìti di lattanti. Si presentavano le serve, esterrefatte, colle braccia nude, i capelli arruffati, le quali restavano a guardarla a bocca aperta quando ella chiedeva: «La signora riceve?» Finalmente entrava la padrona di casa, confusissima, esclamando: «Quanto onore! In casa nostra! S’accomodi!» e annodandosi poi il fazzoletto sotto il collo, una volta seduta, senza trovar più parola. Allora lei cercava di metter quella gente à son aise, parlando dei bambini, delle signorine, domandando di vederle; e a un tratto, se la madre si alzava per chiamarle, si udivano dei passi allontanarsi precipitosamente dietro l’uscio. In casa dei Cacciarame, una volta, nessuno era comparso, nè servi, nè padroni: l’uscio era aperto, ella aveva picchiato un bel pezzo, finalmente era entrata, dicendo; «È permesso? È permesso?» e arrivata sulla soglia d’un specie di stanza di ricevimento, aveva sorpreso un ragazzetto, coi calzoncini aperti, il busto rovesciato indietro, occupato a inaffiare il pavimento… E mentre ella ascoltava i discorsi di quelle contadine, che parlavano del bucato o della conserva di pomodoro, o dei danni che i topi facevano in cucina; intanto che girava uno sguardo per quelle stanze di ricevimento addobbate con un divano di legno risalente al principio del secolo, con due canterani su cui facevano bella mostra dodici chicchere di porcellana decorata, con delle seggiole in giro e delle stampe al muro, ella pensava alla vita dei castelli, alle villeggiature eleganti, sforzandosi di non ridere dinanzi al contrasto fra lo spettacolo reale e quello che la sua fantasia le suggeriva.
Il peggio fu quando dovette andare in casa dei Caruso, per il battesimo d’una bambina. Malgrado ella avesse messa una veste semplicissima, le buccole e i bracciali da passeggio, uomini e donne seduti in giro la divoravano cogli occhi quasi fosse una bestia rara. Non v’era spirito che bastasse a intavolare una conversazione, a darsi un contegno; nè buona volontà che potesse deciderla ad assaggiare certi dolci dipinti in verde, in rosso e in giallo, certi gelati d’un roseo chiaro come pezzi di lardo. Peggio ancora fu quando dovette andare a un festino in Badarò: l’orchestra era composta d’un flauto, d’un violino e d’un contrabasso, e gli uomini sfoggiavano delle cravatte variopinte che facevano male agli occhi. Suo marito l’aveva costretta a ballare, ed ella s’era rassegnata a farsi trascinare da quei cavalieri che evitavano di guardarla, quasi atterriti, e che pareva avessero la bocca cucita, ma che continuavano imperterriti, instancabili, quasi avessero scommesso di procurarle un capogiro. E come Sampieri le si presentò, ella prese il suo braccio, esclamando gaiamente:
— Salvatemi!
Egli rispose, subito:
— Volete fuggire con me?
— Ah! ah! ah!…
— Perchè ridete… Non sapete che siete il primo, l’unico dei miei pensieri?
Non potè aggiungere altro, nel rimescolio della folla che li separava; ma ella passò tutta una notte pensando a quella dichiarazione. Sì, le piaceva di averlo innamorato! Le piaceva che qualcuno pensasse a lei, che la desiderasse, che le dedicasse tutto sè stesso. Ora egli diventava il suo cavalier servente, dipendeva da un suo cenno, si precipitava a comunicare i suoi ordini, a prenderle qualche cosa di cui ella aveva bisogno; in chiesa, la domenica, custodiva le sue seggiole, nel posto da lei prescelto, le offriva l’acqua benedetta sulla punta delle dita… e, accanto alla pila, ella lo vedeva trasformarsi in Mefistofele, tutto rosso e nero, con delle ciglia a virgola. Ma correva ella pericolo? No, certamente; ne era più che sicura. Pure, certe notti, non prendeva sonno, pensando a lui, trovando un certo fascino nella sua fisonomia, raccogliendosi in tutta la persona con dei sorrisi muti… Spesso, tardava a riprender sonno, provava delle sensazioni indefinibili, uno strano malessere. Durante quelle ore di veglia, aveva udito, qualche volta, dei rumori soffocati, come di usci aperti con precauzione. Non ci aveva badato, quando una notte intese un passo allontanarsi dalla camera di suo marito. Un lampo le attraversò lo spirito: scese nuda dal letto, andò in punta di piedi fino alla camera di lui: la porta era dischiusa, il letto vuoto. Subitamente, si rammentò di certe occhiate che egli aveva rivolte alla sorella del fattore, di certe parole tra scherzose e serie che le aveva dette.
Adesso scendeva fin lì! Adesso le faceva l’affronto supremo di cercare un’altra donna sotto il suo stesso tetto! E quale donna? Il domani, ella guardò per la prima volta quella Carmela che vedeva da un mese: non aveva visto ancora che fosse tale da provocare un desiderio… Non provava nessuna gelosia, era semplicemente nauseata, offesa nel suo orgoglio di donna, vedendosi messa a paro con quella femmina. Una femmina! suo marito nelle braccia di colei! Non lo capiva, non poteva ammetterlo. Si sarebbe sentita avvampare dalla vergogna se avesse dovuto rimproverargli di preferirle colei. Bisognava fingere di non saper nulla, cogliere un pretesto per andar via, in modo che nessuno, neppur lui, sospettasse il vero motivo.
E Sampieri si faceva più insistente, le prendeva di nascosto una mano, vi stampava baci di fuoco. Una volta, andato a Palermo, le venne a dire qualche cosa che la colmò di stupore: Toscano era divenuto l’amante di Giulia Viscari.
— Taccia! — ingiunse ella. — Non permetto che si calunnii in mia presenza una amica!
— Ma se è la verità! Crede dunque che una donna come la sua amica possa contentarsi d’un marito come quello?
Ed egli perorava la sua propria causa, le si metteva arditamente vicino. Ella lo allontanava, si mostrava crucciata. La sua propria virtù era tanto più meritoria, in quanto se ella avesse dato un convegno a quell’uomo, avrebbe usato del suo diritto di rappresaglia! No, non era virtù; tornata a Palermo, paragonandolo mentalmente agli altri uomini che adesso aveva sotto gli occhi, ella formulava nettamente il proprio pensiero: sarebbe stato un peccato cadere per lui: ella valeva di più!
Inaspettatamente, la sua imaginazione si gettò sopra un’altra via; qualche cosa avveniva in lei che le dava una gioia superstiziosa; ella era madre! Era stata la sua creatura che l’aveva salvata! Adesso, non aveva pensiero che non fosse per la sua bambina — doveva essere una figliuoletta, già la scorgeva in sogno, tutta vestita di bianco! Delle notti, non chiudeva occhio, rappresentandosi la nuova vita che si sarebbe schiusa per lei, pensando al modo con cui suo marito avrebbe accolta quella notizia che non si risolveva a dargli come per castigarlo dei dolori che le aveva procurati.
Egli, quasi avesse compreso il motivo pel quale era tornata più presto in città, ricominciava a punzecchiarla, a metterla in caricatura per le sue pose, giacchè ella, sentendo adesso crescere quei sintomi, aveva dei momenti d’abbandono, delle smanie senza causa, o delle astrazioni profonde, durante le quali smarriva quasi il senso della realtà esteriore.
— Cosa fai? A che pensi? Non hai nulla da fare?
La voce di lui la scuoteva ad un tratto. Egli gironzava per la camera, ficcando il naso da per tutto, e se vedeva dei libri, esclamava:
— Ti rimpinzi il capo di sciocchezze, eh? Non ti bastano quelle che già vi hai! Cosa sono, romanzi? Lo dicevo io!
— Che faccio di male?
— Nulla! Nulla di male e nulla di bene! Sei un essere perfettamente inutile! Che tu esista, che tu non esista, è lo stesso. Senza infamia e senza lode!
E un giorno aveva ripresa l’antica lamentazione:
— Non sei neppur buona a far figliuoli! Neppure questo! Se avessi presa una donna qualunque, almeno m’avrebbe dato un erede…
Ella lo guardò, battendo un piede, indugiando a rivelargli la sua scoperta, cercando un’espressione adatta; ma egli riprendeva, gettando una rapida occhiata sulla persona di lei:
— Già, come potrebbe farlo? Dove lo metterebbe? Bella razza vorrebbe essere! E certo che i miei figli non sarebbero granatieri!
Ella si alzò, appoggiando le mani al suo tavolino da lavoro.
— Taci — ingiunse. — Io sono incinta.
Guglielmo si fermò, guardandola stupito.
— Tu? Non può essere!
Così accoglieva l’annunzio della paternità. Però, dopo esser rimasto un momento in silenzio, le chiese premurosamente:
— Ne sei proprio sicura?
Ella chinò il capo, lasciandosi ricadere sulla poltrona. E come l’altro, facendosele vicino cogli occhi ridenti, tentava di baciarla in fronte, ella disse:
— Scóstati!