III.

Aveva bisogno di quel grande conforto: le piccole angustie, le umiliazioni dolorose non le erano risparmiate. La Rinardi, che a Recoaro aveva fatto l’amica, a Roma l’accolse freddamente, non le restituì la visita. I Terraísi, venuti da Palermo a stabilirsi alla capitale, fingevano di non riconoscerla! Questi qui prendevano le parti di suo marito, negavano che egli l’avesse maltrattata, dicevano che ella aveva sempre avuto l’istinto della perdizione, che era fuggita di casa per darsi alla vita allegra… La menzogna e la calunnia la rivoltavano; l’ingratitudine non capiva nella sua mente. Delle persone che si erano sedute alla sua tavola, che le avevano protestato amicizia, adesso la trattavano così, senza una ragione! Che cosa aveva fatto loro? Di che cosa avevano a lagnarsi tutte quelle che se la prendevano con lei? Forse era l’invidia, il rancore di non poter fare apertamente altrettanto! Malgrado quella persuasione, malgrado la nessuna stima che aveva di quelle altre, la loro condotta l’addolorava, l’offendeva; ella diceva a Paolo:
— Bisogna, vedi, che tu mi ami molto, che tu compensi tutto quel che mi manca… Non ho che te al mondo: i miei zii, mio nonno non mi vogliono più vedere; mio figlio è bambino, quando sarà grande forse neppure mi riconoscerà. Tu sei tutto per me!
— E tu dunque?
— Sì; ma tu hai l’avvenire che ti sorride, uno scopo pratico che attira tutta la tua attività: fuor dell’amore, che cosa resta a una povera donna come me? Gli anni passano, sai…
Egli le turava la bocca, ella scuoteva un poco il capo. Aveva compiti i trent’anni senza molta tristezza; l’avvicinarsi del trentunesimo la colmava d’un’angoscia muta. Sentiva precipitare il corso del tempo; si vedeva già a quaranta, vecchia, inutile, impossibile. Restava lunghe ore allo specchio, guardandosi negli occhi, stirandosi le guancie, esaminandosi i denti. Certe notti d’incubo, sognava che qualcuno le cascasse a pezzi, infracidito; che gli altri intorno oscillassero nelle gengive, vicini a cadere anch’essi, ed era un orrore, un terrore pazzo che la svegliava, di scatto. Col giorno, l’incubo si dissipava, ella pensava che adesso era veramente donna, che aveva dinanzi i lunghi anni della maturità sana e forte; che gli uomini preferivano quelle dell’età sua. E quando Paolo le rinnovava i suoi giuramenti, con un trasporto veemente, scompigliandosi i capelli, stringendola fino a farle male, le sue paure finivano in sorrisi silenziosi, in una compiacenza estasiata dinanzi alla certezza che il proprio impero era ancora molto lontano dal tramonto, che ella sarebbe stata ancora amata. Certe volte, non era anzi lui che manifestava il timore di non esser più degno d’amore, di perdere quella poca attrattiva che aveva potuto esercitar su di lei, fin lì?
— Son’io che invecchio; guarda: ho delle rughe profonde, dei capelli bianchi…
— Non è vero!
— Sì, guarda bene: qui, attorno alle tempie… vedi? Avrò presto tutte le tempie bianche, sarò presto tutto bianco… Allora non dirò più nulla come uomo, potrò ispirare forse del rispetto, se non ti farò paura…
— Smetti… tu non sai quel che dici! Io ti vorrò sempre bene lo stesso… e tu me ne vorrai altrettanto… invecchieremo insieme, se mai, e ci vorremo bene in un altro modo; che importa? Ricorderemo i tempi passati, ci terremo sempre compagnia… tu mi porterai delle ricette contro i reumi, io ti darò a baciare la mano… che non sarà più come adesso, ma secca, ossuta, aggrinzita…
— Taci, grulla: è impossibile!
Ella tentennava un poco il capo, e le pareva d’avere degli occhiali sul naso, una cuffia di merletti sui capelli bianchi. Altre volte, era l’amato che evocava una diversa visione dell’avvenire:
— No, io finirò prima di te, tu cesserai d’amarmi, ti accorgerai che non sono degno dell’amor tuo…
— Cattivo, perchè dici questo?
— E mi lascerai, tornerai al tuo paese, non mi vedrai più… Allora, non riceverai più di quelle lettere nelle quali io mettevo qualche cosa dell’anima mia, non ti sentirai più mormorare le parole pazze che io ti dicevo un tempo…
— Taci! Mi fai male…
— Qualche volta, se aprirai un giornale, gli occhi ti andranno sul mio nome; allora, il ricordo di quel che fummo…
— Basta, per pietà…
Gli occhi le si velavano di lacrime, dei singhiozzi le sollevavano il seno; ed era tale l’intensità della tristezza prodotta da quella suggestione, che ella credeva di aver ricuperato l’amor suo, quando Paolo riabbracciava, chiedendole perdono.
— Che sciocchi! Che barbaro gusto, starci a torturare così, mentre tutto ci ride!
E trovavano un sapor nuovo alla loro felicità. Tutto era per loro soggetto di gioia, le cose più comuni, più insignificanti. Come a Palermo le pareva distinto il parlare toscano, adesso le piaceva mescolare nel suo discorso delle parole, delle frasi, dei proverbii siciliani; e li spiegava all’amato, che li trovava pieni d’efficacia, e la incitava a servirsi più spesso del suo dialetto. Ella gli faceva la cronaca della sua giornata, gli riferiva gl’incidenti più minuti, gli dava a leggere le lettere che riceveva, si mostrava a lui per il primo nelle sue nuove tolette. Egli le recava i giornali, la metteva al corrente di quel che avveniva. A furia di sentir parlare di partiti, di leggi, di idee di governo, ella incominciava a interessarsi alla cronaca parlamentare, alle quistioni generali di politica interna ed estera. Però sosteneva contro di lui il prestigio dell’autorità, la forza del potere; quando lo sentiva esprimere qualche teoria troppo liberale, gli dava, scherzosamente, del rivoluzionario; gli diceva:
— Ma come è possibile che tu, nella tua posizione sociale, con la tua educazione, col tuo ingegno superiore, ti possa credere l’eguale d’una persona volgare, gretta, ignorante? Come puoi credere che tutti gli uomini siano eguali, se degli abissi li separano?
— Sono appunto questi abissi che bisognerebbe colmare.
— Utopie! Tu non sarai mai l’eguale del tuo portiere!
— Il mio ideale sarebbe che il mio portiere fosse eguale a me!
— Allora, chi resterebbe nel bugigattolo?
Quelle dottrine, nel concetto di lei, gli facevano un po’ torto: ella avrebbe voluto vederlo più autoritario, entusiasta della monarchia, pronto a dar la vita pel suo re; invece, egli sorrideva un poco alle frasi ammirative che ella aveva pei Savoia.
— Che stirpe di prodi! Che gente leale e gagliarda! Spero bene che tu non sarai pei placidi tramonti!
— E se fossi?
Ella rispondeva ridendo, ma impetuosamente, a quel proposito detto ridendo:
— Non dovresti comparirmi più dinanzi! — Poi, dalla minaccia passando alla seduzione, riprendeva: — No, tu faresti invece ciò che vuole l’Amor tuo, non è vero? Tu non rinunzieresti alle tue idee, se io te ne pregassi?
Allora, egli scrollava un poco il capo:
— Dopo tutto, un’idea val quanto un’altra…
E le confessava che scrivendo o pronunziando un discorso in sostegno delle proprie teorie, le teorie contrarie gli si affollavano nella mente; che quando udiva un contraditore, diceva tra sè: «Infine, anche lui ha ragione… se è convinto! se non si dice anche lui che ho ragione io!…»
— Ma perchè sei così? — chiedeva ella, curiosa di comprendere quello spirito complicato, dinanzi al quale sentivasi un poco intimidita.
— Chi lo sa!…. Forse perchè ho pensato molto.
Delle intere serate passavano nel discutere di morale, di filosofia, di problemi altissimi; egli sfoggiava per lei tutta la sua eloquenza, ella restava ammirata, facendo tratto tratto qualche osservazione sottile, dettata del buon senso, che imbarazzava un poco il pensatore. Il problema metafisico la interessava più degli altri; ella era ansiosa di sapere se esisteva una giustizia superiore, riparatrice; il suo terrore della morte sarebbe stato attenuato dall’idea d’una seconda vita, qualunque essa fosse — e interrogava l’amato, pendendo dal suo labbro, come se egli ne sapesse più degli altri.
— Così, quando si muore?
— Ci s’addormenta per sempre, d’un sonno senza sogni.
— E più nulla? Più nulla! Non v’è dunque nulla lassù?
L’opinione d’un uomo come lui aveva un gran peso, la turbava nella sua fede religiosa; e ad un tratto, mettendosi una mano dinanzi, come ad allontanare qualcuno, esclamava:
— No, no; parliamo d’altro…
E tornavano a discutere di politica, di quel che egli avrebbe fatto se fosse salito al potere, delle quistioni del giorno. Ella se la prendeva con la repubblica francese, prevedeva la sua caduta; e fra i pretendenti Chambord aveva le sue simpatie, per la nobiltà del carattere, la saldezza della fede, la religione della bandiera. Paolo le aveva spiegato più volte la parentela cogli Orléans, perchè ella non la riteneva. Una sera, le disse:
— D’Aumale non ha possessioni in Sicilia?
— Sì, allo Zucco. E una villa a Palermo; non l’hai vista?
— Non rammento. È bella?
— La palazzina non molto, il giardino è un incanto.
Una vaga inquietudine sorse in lei. Avrebbe voluto sviare quel discorso; sentiva però che la colpa del silenzio sarebbe cresciuta. Se egli avesse parlato d’altro…
— Si può visitare sempre? — chiese egli ancora.
— Non so… credo sia necessario un permesso… quando v’andai io, c’era il visconte de Biennes, amico di mio marito…
— E il duca?
— Venne dopo. Un bel vecchio, una testa intelligente, un gran signore di razza…
— E questo visconte?
— Il suo attaché
— Giovane?
— Giovanissimo, l’età tua…
Dopo una pausa, egli chiese:
— Ti piaceva?
— Sì, molto; te lo confesso…
Gli sguardi di lui le pesavano. Egli continuava a chiedere, con un tono d’indifferenza:
— E tu gli piacesti? Te lo disse? Come ti disse?
— Quel che dicono tutti… non lo sai?
— Non me ne avevi parlato ancora… Quando fu?
Ella chiuse gli occhi.
— Quando?… Perchè non vuoi dirmelo?
— Quando tornai a Palermo, per la morte dello zio…
Dopo di me?
Ella non rispose. Sentì che le si faceva più vicino, che cercava la sua mano.
— Come ti disse? Dove ti vide… di’!
Allora, con moto lento, ella gli passò le braccia intorno al collo, gli nascose il viso contro la spalla. Mormorò:
— Non mi chieder nulla… sai bene com’è doloroso… parlami d’altro…
Egli la sollevò dolcemente, le carezzò con una mano la fronte, le strinse la destra con l’altra.
— Dimmi tutto… m’avevi giurato di dir tutto! Che importa se è doloroso! L’amore è fatto di spasimi e d’esultanze… Dimmi tutto…
— Abbassando la voce, aggiunse: — Perchè tremi? Dimmi la la verità: colui…
A un tratto ella si svincolò, si strinse le mani, girando il capo ansiosamente, con le narici dilatate, come se le mancasse il respiro.
— Ebbene… l’hai voluto! Soffocavo! Mille volte, mille volte la confessione m’era salita alle labbra! La paura, la vergogna… sì… un momento di pazzia… d’aberrazione! Non ero più io… te lo giuro! Non lo credevo io stessa… ne fui punita, sai! Il pentimento, il rimorso assiduo, cocente…
Un pallore si diffondeva in volto all’amato, le sue labbra si schiudevano un poco. Ella tentò di prendergli una mano; i capelli disciolti le caddero sul viso, con un gesto automatico li ricacciò indietro, continuando:
— Sono indegna di perdono… lo sento! Non te ne chiedo… ma tu eri lontano… mio marito mi colmava d’oltraggi! No, non mi giustifico… Paolo, ascoltami… dammi la tua mano… Che ho fatto, mio Dio!
Gli era caduta in ginocchio dinanzi, buttando indietro lo strascico della sua veste da camera, congiungendo le mani.
— Senti: tutta la verità… allora io non t’amavo… no, oh, no! Non t’amavo come ora… non sapevo quel che tu valessi, non credevo che tu avresti preso tanto posto nella mia vita… ero leggiera, sì, non sapevo… una parola m’ubbriacava… fu una ubbriacatura, ne ebbi la nausea…
Appoggiò le mani ai ginocchi di lui, vi nascose il viso.
— Mi faccio orrore!
Restò un pezzo così. Malgrado l’ambascia, il violento palpitare del cuore, la vampa salitale al viso, si sentiva come liberata da un incubo. Aveva confessato l’errore; la sua coscienza non le avrebbe più rimproverato il silenzio, la doppiezza, l’inganno. Aspettava che egli la sollevasse, che le dicesse qualche cosa. Egli non diceva nulla, non si scuoteva. Con un sospiro doloroso ella stessa rialzò il capo. Allora vide una cosa che non aveva vista ancora: il pianto d’un uomo. Delle lacrime grosse e lente solcavano il viso di lui, un tremito convulso gli agitava le labbra nelle quali infiggeva i denti, fino a sbiancarle. Un istante, ella rimase muta, impaurita, compresa per la prima volta dell’enormezza della propria colpa; poi alzò le braccia, disperatamente, e trascinandosi sulle ginocchia, si mise a supplicare:
— Paolo! Non piangere! Mi fai morire! Paolo! uccidimi!
Con un’amarezza sconfortata nel viso, egli scuoteva il capo, a riprese, bevendo le proprie lacrime, reprimendo i singhiozzi, e gli occhi di lei restavano secchi ed ardenti.
— Paolo, uccidimi… voglio morire! Voglio morire!
Impigliatasi nelle pieghe della veste, cadde, di fianco, col viso contro il braccio disteso, ansimante, sfinita. Allora soltanto egli si curvò su di lei, la sollevò, stringendola al proprio petto; e a un tratto anch’ella ruppe in pianto. Dolcemente e disperatamente, essi confondevano le loro lacrime, abbracciati, tenendosi per mano, guancia contro guancia, tempia contro tempia. Egli diceva: «Perchè… perchè?» e con voce soffocata ella ripeteva: «Non so… la pazzia!… non io!…» e come egli l’attirava sempre più al suo cuore, reggendole la testa con una mano, ella gli si voltò incontro, si afferrò alle sue spalle, e alzato il viso lacrimoso, supplicò:
— Disprezzami… oltraggiami! Fai di me quel che vuoi!… ma dimmi che non mi abbandonerai! Che avrai pietà di me, che mi lascerai vivere al tuo fianco… come una serva, come una schiava, come una cosa…
Egli le chiuse la bocca, dicendo, sottovoce:
— Taci… taci!
— Una parola… una sola! Dimmi che non mi lasci…
Le rispose un sordo ruggito, un grido rauco d’amor furibondo e di dolore esasperato.
— No! no! no!
E come il parossismo era finalmente superato, più calmo, più tranquillo, ma insistente, ostinato, egli le chiedeva di narrargli tutta l’avventura, gl’incidenti più piccoli, i particolari più intimi. Inutilmente ella lo pregava di desistere, gli rappresentava la tortura a cui la metteva e si metteva lui stesso: voleva saper tutto, le strappava la confessione di tutto. Un’ombra di tristezza gli velava la fronte; allora ella ammoniva:
— Hai visto? Perchè, mio Dio, perchè?
— Perchè così — esclamava lui, stringendo un pugno, con la smania di torturarsi. Poi, pentito, se le fece vicino, mormorando: — Adesso, basta… non ne parleremo più…
— Grazie! grazie! Come sei nobile, come sei generoso! Come mi sento indegna di te! Ma che bene, che bene ti voglio!
Egli parlò d’altro; ma di tanto in tanto era lei stessa che, temendo di leggere un pensiero molesto sulla sua fronte lievemente corrugata, gli chiedeva:
— Pensi ancora a questo? Ci pensi sempre?
— No, no…
— Giuralo!
— Te lo giuro…
— Tu m’illudi… non m’hai perdonata…
E si nascondeva il viso tra le mani, irrigidiva le braccia resistendo con tutta la sua forza all’uomo che voleva costringerla a mostrare il viso.
— No, lasciami; non voglio esser guardata…
Allora egli la carezzava, la blandiva, mormorando con voce supplichevole:
— Ma perchè non mi credi? Non penso più a questo, te lo giuro… o meglio penso che non fosti tu. Fra la donna che eri allora e quella che sei adesso, non c’è forse un abisso?
Allora ella schiuse le braccia:
— Immenso, senza fondo!
— Io so come siete fatte — continuava egli — come siete deboli quando una passione, un ideale, non vi sorregge…
— Sì… è così…
— Allora, tu non m’amavi. Era colpa tua se, dopo le amarezze per cui eri passata, non ti restava quel tanto di fede da credere all’amore?
— È vero! Come sai dirlo!
— Potrebbe forse succedere adesso, questo?
— Oh, oh! Oh! Ma vedi: tutti gli uomini che sono sulla terra, i più potenti, i più invidiati, potrebbero morirmi dinanzi, offrirmi il dominio del mondo… quand’anche tu mi battessi, m’insultassi, mi scacciassi… io li lascerei morire!
E rimasta sola, ma piena sempre di lui, corse allo scrittoio, restò fino a tarda notte scrivendogli: «Tu non sai, tu non potrai saper mai quanto sei generoso, quanto sei grande! Ciò che tu hai fatto, il tuo perdono, le parole che hai trovate per questa povera creatura traviata ma non malvagia, sono qualche cosa di così unicamente nobile, di così sovranamente buono, che tutta una vita spesa per te non basterà a sdebitarmi! Io ti dovevo tutto: l’oblìo delle passate amarezze, il riacquisto di una fede, la rivelazione d’una felicità inenarrabile; e tu aggiungi ancora a tutto questo ciò di cui nessun altro sarebbe capace! Io domando al Signore che cosa ho fatto per meritarti! Mi sento così meschina dinanzi a te, così miserabile, così indegna, che quasi non credo alla mia fortuna. Grazie, grazie, grazie. Amore mio grande; possa tutto il bene che tu mi hai fatto esserti restituito, come te lo restituirà sempre, eternamente, il mio cuore!…» Ed egli, che da qualche tempo non le scriveva più con l’assiduità di prima, riprendeva a mandarle una lettera ogni giorno; le diceva: «No, tu non mi devi nulla, povero Amore; tutto quello che io faccio e che io dico, lo devi a te stessa, alla nuova vita che hai saputo trasfondere nell’anima mia… Il nostro destino è di esser posti alla prova. Dalla prova per la quale noi siamo passati usciamo ritemprati, più forti. Veramente, noi non potevamo giurare sul nostro amore fin quando non era stato provato. Bella virtù quella che non conosce le tentazioni! Adesso, soltanto adesso possiamo misurare l’immensità del bene che ci vogliamo…»
Così, tornava la quiete antica, la serenità confidente d’un tempo. Soltanto, Paolo evitava nuovamente di seguirla dove ella andava, di mostrarsi in pubblico con lei. Ella gli dava dei convegni, a teatro, da un’amica, a passeggio; ma non lo vedeva venire, l’udiva ripetere delle scuse quando si ritrovavano insieme. Se questo contegno gli era suggerito dalla delicatezza, come una nuova prova di stima, ella ne soffriva egualmente. Alla lunga, non aveva l’aria d’un abbandono, non poteva essere appreso dalla gente in questo senso? Però, non osava rimproverarlo, temendo di non averne il diritto, di provocare i suoi stessi rimproveri. Insisteva soltanto, dolcemente, perchè, senza trascurare le sue occupazioni, facesse di tutto per non lasciarla sola.
In molte delle case che ella frequentava, Paolo non era conosciuto: ella lo pregava di farsi presentare; ma, dopo aver promesso, egli se ne dimenticava. Quando fu annunziato il concerto di Rubinstein alla sala Dante, le assicurò che non sarebbe mancato. Però, non venne. Ella non ascoltava la musica, impaziente, sempre più smaniosa a misura che il programma si esauriva senza che egli comparisse. Alla fine d’ogni pezzo, si volgeva a guardar per la sala, sperando che fosse sopraggiunto: non c’era. Dei giovanotti le si avvicinavano a salutarla, il principe di Lucrino fra gli altri, che pareva comprendere la sua inquietudine e vi alludeva con un sorriso discreto.
La sera, Paolo la pregò di scusarlo: gli erano capitati degli elettori fra capo e collo, aveva dovuto accompagnarli su e giù pei ministeri, mandandoli al diavolo in cuor suo.
— Avresti voluto esser vicino a me?
— Ma si capisce! Credi che mi divertissi con quella gente?
Ella aggiunse, piano:
— Mi pareva… che non volessi venire.
— Che idea! Io vorrei seguirti come la tua ombra… è vero però che preferisco vederti da solo a sola…
— Vedi? Io l’avevo capito…
— È naturale! Convieni che c’è un gusto mediocre a starsene a distanza, dandosi del lei, soffocando tutte le dolci cose che salgono alle labbra…
— Ah, non lo dire! È bello anche a quel modo… per me è forse più bello…
— È una commedia!
— Tutta la vita sociale è una commedia! Bisogna sapervi recitare la propria parte…
— Però, la gente…
— La gente non conta! Non deve saper nulla. Senti, è una cosa che mi fa soffrire!
— Non accadrà più… te lo prometto… oggi non è stata mia colpa…
— Oh, per una volta!… E poi, ascolta: — riprendeva, tutta felice nel vedersi esaudita — ascolta: la tua presenza è una garanzia per me, mi difende dagli attacchi di tanti noiosi… Se non ti vedessero più accanto a me, sospetterebbero una rottura…
— Tu dicevi poc’anzi che non debbono saper nulla!
— Andiamo, non fingere di non capirmi…
Egli disse, sorridendo, sfiorandole con le dita la fronte:
— La logica non è il forte di queste testoline… — Subito dopo, senza darle il tempo di replicare, chiese: — E questi noiosi, chi sono?
Ella rispose, vagamente, per dargli dei sospetti:
— Tanti!
A un tratto, un pensiero balenò nello sguardo di lui.
— Ascolta: se tu rivedessi il Francese?
Nascosto il viso tra le palme, ella esclamò:
— No, mio Dio! Sarebbe atroce…
— Ma se lo rivedessi? — insisteva egli, con un sorriso ambiguo, obbligandola a guardarlo.
— Non so… avrei paura… vergogna…
— E se egli ti rammentasse…
— Oh! Non lo farebbe!
— Tu credi?
— Non lo lascerei dire! Farei appello alla sua cavalleria…
Egli rise ironicamente.
— Non mi credi? Credi che io pensi ancora a lui? Ma te lo giuro: no! no! no! potessi morire, qui, sul momento!
— Zitta! Taci…
— E tu dunque, perchè? È una grazia di Dio, però, che egli sia lontano! Del resto…
— Che cosa?
— Se egli fosse stato qui, non ti avrei detto nulla…
— Perchè?
— Perchè avrei avuto paura… di te… della tua gelosia…
Malgrado questo, egli tornava spesso a parlarne, si divertiva a proporle dei casi imbarazzanti, chiedeva che cosa ella avrebbe fatto se fosse avvenuto questo o quest’altro. Ella gli strappava il giuramento che non l’avrebbe più torturata a quel modo; però, quel soggetto era sempre in fondo ai loro discorsi; dopo averlo evitato un pezzo, ci cascavano entrambi; ella stessa era curiosa di sapere ciò che egli provava.
— Se tu lo incontrassi, che impressione ti farebbe?
— Non so…
— Lo provocheresti?
— Non so.
— Mio Dio, fate che non sia mai!
Altre volte, egli aveva degli impeti selvaggi, l’afferrava pel collo, stringendo i denti, sgranando gli occhi.
— Vorrei strozzarti! Un giorno o l’altro ti strozzerò!
— Si, te l’ho detto… uccidimi!
Ma la sua mano si faceva blanda, prodigava carezze soavi, intanto che le labbra mormoravano:
— No… è impossibile! Tu puoi tutto su di me… tu mi faresti commettere delle viltà!
Allora, ella chiedeva:
— Senti…. se io fossi tua moglie, e ti avessi tradito…. mi riprenderesti?
Egli pensava un poco, poi rispondeva, molto piano:
— Sì…
— Questo è amore! Questo!