IV.

Per le vacanze di Pasqua, Paolo la lasciò. La sua presenza era necessaria in famiglia, degli affari lo chiamavano per qualche tempo nel suo collegio; però, era stata lei stessa a pregarlo di partire, a combattere la persuasione che gl’impediva di lasciarla, sia pure per poco. Non le dispiaceva di restar libera qualche tempo; era curiosa di vedere che cosa avrebbe provato.
Da principio, andò attorno più spesso del solito; presto si stancò. I giorni crescevano, i pomeriggi erano lunghi, caldi, fastidiosi. Se egli fosse rimasto a Roma, non lo avrebbe visto egualmente in quelle ore; però la sua assenza metteva un vuoto in tutta la vita di lei. La prima sera passata sola in casa, a leggere, a passeggiare di su e di giù per le stanze, le era parsa interminabile; per far qualcosa, si mise a scrivergli. Il domani, si rivolse ai suoi vicini del primo piano. I Watson erano andati via; adesso l’occupavano dei Piemontesi, i Marcale; una famiglia curiosa, dove si buttavano i quattrini in capricci, mentre mancavano, per esempio, le seggiole. La mamma e le figliuole sfoggiavano in carrozza tolette elegantissime, con le quali andavano poi in cucina a preparare il desinare. Il marito non stava mai in casa; ci veniva invece, a tutti i momenti, un certo signor Giacomotti, presentato come suo socio. A lei usavano ogni sorta di amabilità; però, avendo compreso una sera di esser di troppo fra la signora e il socio, ella diradò le sue visite.
La solitudine le pesava sempre più, e nelle lunghe fantasticaggini alle quali ella s’abbandonava, un pensiero triste, che ella non voleva formulare, tornava assiduamente ad occuparla: che cosa sarebbe stato di lei, se quell’isolamento avesse dovuto prolungarsi? Paolo l’amava sempre, le sue lettere affettuose le erano di un immenso conforto; però… ed ella chiudeva gli occhi, si portava le mani alle orecchie, quasi a privarsi d’ogni senso per non assistere ad uno spettacolo angoscioso: il raffreddamento di quella passione, la morte dell’amore…
Perchè sorgevano in lei quelle tristi visioni, quando nulla poteva farla dubitare dell’avvenire? Forse era la primavera, l’intimo senso di tristezza che la rifioritura del creato le procurava, adesso che si moltiplicavano in lei, a poco a poco, i sintomi del decadimento, le piccole rughe della coda dell’occhio, la cascaggine delle guancie, il pallore della carnagione. Poi, il caldo crescente, il cielo luminoso sul quale il nuovo verde metteva i suoi delicati ricami, le ricordava la Sicilia, la riportava ai tempi di Milazzo e di Palermo; vecchie impressioni, sensazioni cancellate da anni risorgevano in lei, senza perchè: ella risentiva l’arsura della spiaggia di San Papino, il fastidio di certi pomeriggi al Capo; qualche mattina, tra veglia e sonno, pensava, con l’antica angustia, di dover mettere in pulito i componimenti, di dover subire la revisione meticolosa di Miss… Che ne era di lei? Avrebbe dato qualche cosa per rivederla.
E le notizie della gente che aveva conosciuta le facevano battere il cuore: Enrico Sartana, dopo pochi anni di matrimonio, s’era diviso dalla moglie, era tornato a Palermo: neppur lui aveva dunque incontrata la felicità! Si sarebbero rivisti mai?
La musica sacra dei concerti la manteneva in una mestizia dolce, piena di fantasie, di rimpianti. La domenica delle Palme, vedendo passare dei bambini coi mistici rami, un’improvvisa tenerezza la fece quasi piangere. Stefana andava a confessarsi; tornando dalla comunione, col libriccino delle preghiere, la coroncina del rosario attorcigliata a un polso, venne a prenderle una mano, a baciargliela. Allora ella si ricordò della sua mamma, della sorellina, di suo figlio, dei giorni lontani della sua innocenza, quando ella andava in chiesa, vestita di bianco, con un velo sulla fronte, tra una fila di fanciulle candide come lei; quando la sua mamma le diceva: «Figlia mia santa!» quando non sapeva ancora che cosa fosse il mondo, quale avvenire l’aspettasse; e uno stupor muto la teneva, pensando che ella era in peccato mortale, e una nostalgia accorata, e un pio desiderio di genuflessione, di preghiera, di penitenza…
Non poteva commettere un sacrilegio; però il Giovedì Santo, vestita a nero, fece il giro dei Sepolcri. Uno scalpiccio lento di passi nelle chiese affollate, avvolte in una penombra, nella quale i ceri splendenti mettevano larghi cerchi d’oro; un sottile aroma diffuso per l’aria, un mormorio di preci. Ella cadde in ginocchio in un angolo buio; e curva sopra una seggiola, le mani congiunte, si umiliava dinanzi a Dio, riconosceva l’errore, addebitandolo all’avversità del destino. Anche lei era stata pura e casta, anche lei aveva potuto ricevere l’Ostia! In fondo all’anima, ella si sentiva buona, tenera, pietosa, sensibile a tutte le delicatezze. Perchè non le era stato possibile dimostrare queste sue qualità? Il mondo la giudicava trista, le faceva sentire il peso della sua condanna; ma Dio le leggeva nell’anima, l’udiva, la perdonava… Riuscì all’aperto col cuore oppresso, gli occhi arrossati, e come incontrò delle amiche, fu costretta a parlar di mode, di teatri, di svaghi!
Le cerimonie sacre di quei giorni di lutto la riportavano incessantemente col pensiero ai tempi della sua infanzia: ella si
rivedeva al suo balcone di Milazzo, ascoltando il suono delle tabelle che i monelli scuotevano per le vie, guardando i bastimenti ancorati nella rada con le bandiere a mezz’asta. Poi, nella mattina luminosa dei Sabato, riprovava l’ansietà dell’attesa, sussultando ad ogni rumore, ad ogni zufolio che le intronava le orecchie, fin quando, a un primo squillo di campana, cento, mille si univano, gravi, argentini, da lontano, da presso, in un tripudio sonoro che la faceva nuovamente cadere in ginocchio e rompere in singhiozzi. Qualcuno si curvava su di lei, le prendeva una mano tentando di baciarla; allora ella si stringeva al petto la vecchia serva, la baciava sulle guancie scarne e rugose. Lo scampanio si diffondeva pel cielo; nella via, dei vecchi, dei fanciulli, inginocchiati, a capo nudo, pregavano; si udivano esclamazioni di esultanza, e la commozione di lei si faceva insoffribile. L’anno innanzi, in quell’ora, Paolo le aveva mandato un canestro di rose, e quei fiori le erano riusciti più accetti di una collana di perle orientali; adesso egli era lontano, solo col pensiero poteva unirsi a lei! A un tratto Stefana le tornò dinanzi con un gran mazzo di rose bianche e rosse, e, dallo stupore, ella esclamò:
— Come? Chi le manda? Lui?
— L’ha lasciato detto…
Ella affondò il viso nel folto dei petali olezzanti, e pazza di gioia, corse a scrivergli, a confidargli tutto il bene che le faceva. Aspettava che anch’egli le scrivesse, poichè erano dei giorni che non riceveva sue lettere; però, come ne passarono ancora degli altri senza che arrivasse nulla, la dolce emozione cedeva all’inquietudine, ai dubbii. Perchè la trascurava? Era la lontananza che produceva, come sempre, il suo effetto? Un’altra sua lettera, premurosa, appassionata, restò senza risposta. Allora, ella cadde in una sfiducia disperata: egli non l’amava più come prima, la confessione fattagli aveva intiepidito il suo affetto… Ed era vero? Quell’uomo a cui ella aveva sacrificato tutto, pel quale aveva rinunziato alla sua posizione, al rispetto del mondo, la trascurava, non trovava il tempo di mandarle un rigo? Inaspettatamente, egli tornò, se la strinse al cuore, divorandola a baci.
— Perchè non hai scritto?
— Non mi vedi in viso? Sono stato ammalato…
Era vero: aveva le occhiaie un poco infossate, un pallore diffuso sulle guancie appena dimagrite. Le apprensioni di lei svanirono nel ritorno della dolce intimità; però, come egli si rimetteva con ardore rinnovato al lavoro, ella lo ammoniva, lo pregava di aversi riguardo, tanto più che le sue occupazioni e il malessere di cui soffriva ancora lo tenevano troppo lontano da lei.
— Hai ragione — rispondeva — ma il lavoro è un bisogno per me; del resto, esso non c’impedisce di amarci…
— Ci vediamo però molto poco…
— Tutti i giorni!
— Sai bene che qui non mi basta…
Per risvegliare la sua gelosia, ella gli riferiva i proprii successi mondani, i corteggiamenti di cui era l’oggetto, esagerandoli un poco, concludendo col dirgli:
— Vedi, quando non mi stai vicino?
— Che importa! Io ho fede in te.
— Ma la fede, a lungo, può scuotersi! Io non sono, purtroppo, al riparo dalla calunnia; e a furia di sentir parlare male di una persona…
— Nessuno mi parla di te, nè in bene nè in male… e quando pure parlassero, bisognerebbe poi che io dessi loro ascolto…
— Eh, sai!
Egli riprendeva a seguirla, ad accompagnarla, ma di malavoglia, come una corvée.
— Ti secchi? — chiedeva ella.
— No… ma lo spettacolo di quegl’imbecilli che ti stanno attorno m’irrita…
— Dovrebbe irritarti di più quando sei lontano da me…
— Quando sono lontano non li vedo… penso ad altro…
Quelle parole le dettero una rapida trafittura.
— A che cosa pensi dunque?… Non sono io il tuo pensiero costante?
— Ma sì, ma sì… Ho detto che non penso ad essi…
Egli pensava alla politica; in quei giorni la solidità del Gabinetto era scossa, si parlava d’un rimpasto ministeriale che avrebbe evitata una crisi. Per dimostrare l’interesse che prendeva al suo avvenire, ella gli parlava di queste cose, consigliandogli di avvicinarsi al governo senza rinunziare ai suoi principii. Invece egli si schierò fra gli oppositori più vivaci: durante la discussione dei bilanci pronunziò una dozzina di discorsi uno più acre dell’altro.
— Non vuoi ascoltarmi, ma batti una strada falsa! — diceva ella. — Per ora, quest’atteggiamento troppo deciso non ti conviene; sei troppo giovane…
— Mi consigli di andare a scuola?
O non la comprendeva, o era troppo sicuro di sè. Nelle parole di lui, di tanto in tanto, ella credeva di leggere una specie di condiscendenza forzata, di fastidio nascosto. Non glie ne diceva nulla, non ne voleva convenire neppure con sè stessa, arrestata da un sentimento di vago timore. Però, come gli anniversarii del loro amore tornavano, ella non poteva frenarsi dal notare la differenza che v’era tra il passato ed il presente.
— Allora, tu non potevi fare a meno di cercarmi, di seguirmi…
— Ma allora io non avevo altro mezzo di vederti. Tu non eri ancora mia!
Con un sorriso un po’ scettico, ella soggiungeva:
— Ora che lo scopo è raggiunto…
— Ma non è questo! Tu vorresti dunque paragonare le incertezze, le ansie, i tormenti di quei tempi, alla festa continua che è ora la vita per noi? Ma vi è qualche cosa di più divino di questa sicurezza che oggi siamo felici quanto ieri, che domani saremo felici come oggi?
— Tu dici davvero… tu pensi quello che dici?
— Ne dubiti dunque?
Malgrado tutto, ella pensava che il passato, con le sue ansie, con le sue torture, era stato più bello, aveva procurato emozioni più raffinate, più intense.
— Se tu vuoi che io preferisca il presente, perchè non ti dedichi tutto a me, come prima?
— Tu però dicevi di temere che la troppa assiduità avrebbe generata la stanchezza… La logica, la logica!
Delle risposte dure le salivano alle labbra. Avrebbe voluto dirgli che quando si ama veramente, non si vedono i difetti della persona amata, o per lo meno non gli si rimproverano. Non le diceva illogica quando era dietro a sedurla! Ed era lei illogica, o lui egoista? Non gli diceva nulla, non lo rimproverava, per timore di peggio; ma questo timore medesimo, a lungo andare, accresceva la sua sfiducia. Ella era dunque a questo: da ammettere che un mutamento poteva operarsi in lui, forse già si operava? E che cosa avveniva in lei? anche lei non vedeva i suoi difetti, non si sentiva allontanar da quell’uomo? E come erano arrivati a questo? Che cosa era accaduto fra loro? In qual giorno, in qual punto, la prima ombra era calata? Non lo poteva dire. Ma ciò che la stupiva, era la rapidità con cui il dubbio era sorto, con cui la fede si era scossa. In un tempo così breve! Mai più lo avrebbe creduto! Non lo poteva credere; si diceva che era in inganno, che la sua imaginazione ingigantiva oltre misura dei sintomi insignificanti; aveva bisogno di fugare quelle tristi visioni.
— Dimmi che mi ami sempre, come prima…
— Ma più di prima!
— Oh, se fosse…
— È, è! Non lo vedi? Non lo leggi nei miei sguardi, nelle mie parole? Non senti che fai parte della mia vita, che sono legato a te, materialmente, che mi aggiro intorno a te come intorno a un sole raggiante e benefico?
Voleva credergli, non attribuire alla sua facondia, alla sua abilità oratoria le frasi che le veniva ripetendo. Come se avesse compreso di poter ritentare la prova con maggior probabilità di riuscita, il principe di Lucrino era adesso più assiduo presso di lei, veniva a trovarla più spesso, non mancava mai, a teatro, di salire nel suo palco; qualche volta, quando ella usciva a piedi, lo incontrava: egli le chiedeva il permesso di accompagnarla, si faceva più insistente, più ardito. Riferendo a Paolo l’impiego delle proprie giornate, ella gli diceva, con una indifferenza studiata:
— Ho visto gente… Lucrino fra gli altri…
— Che cosa ti ha detto?
— Le solite storie… A te non importa più nulla…
Egli taceva; delle volte quel silenzio si prolungava fino a divenire imbarazzante.
— A che pensi? — chiedeva ella.
— A nulla… alla relazione che debbo presentare domani…
Ella incrociava le braccia, battendo lentamente un piede. Voleva far la sostenuta, costringerlo a cedere per il primo. Come egli continuava ad accarezzarsi i baffi, ella finiva per gettargli le braccia al collo.
— Ma parla! scuotiti! dici che hai! Sei geloso? Di Lucrino? Ah! ah! Che grullo, che grullo! Ma non vedi che non so come fare per attirarti a me? che io morirei piuttosto che tradirti?
— Quell’altra volta, però, tu non sei morta…
— Ah!…
Ella si morse le labbra, gettando un poco indietro il corpo, come repentinamente ferita. Poi, dischiuse le braccia e piegato il capo, mormorò:
— E giusto!… Poichè t’ho ingannato una volta, tu devi credermi capace di ingannarti ancora… di passare di capriccio in capriccio… di fingere e di mentirti…
— Io non ho detto…
— Ma è peggio che se lo avessi detto!
E appoggiato il capo ad una mano, scrollandolo a riprese, ella riconosceva adesso il motivo della freddezza di lui. La confessione leale che si era creduta in dovere di fargli l’aveva menomata nella sua stima. Sciocca lealtà! fisima stolta! Se ella avesse taciuto, come avrebbero fatto tutte le altre, a quest’ora non si sarebbe sentita accusare! Ella pagava la dirittura dell’animo suo! Perchè non era dunque come quelle che passano da un uomo ad un altro, non obbedendo se non alla propria fantasia e facendosi obbedire da tutti? Ora, anch’ella restava a lungo silenziosa; a un tratto egli le prese una mano, dicendo:
— Non capisci che soffro… che soffro perchè ti amo?
— Ma dici, buon Dio, quel che debbo fare! Quante volte non t’ho proposto di andar via, di vivere unicamente l’uno per l’altro! Tu non hai voluto!
— E tu neppure.
— Sì, ma per te! unicamente per te! Ma se dobbiamo restar qui, a fare quel che abbiamo fatto, perchè mi trascuri? Perchè non mi segui dovunque? È naturale che la gente, vedendomi sola, creda di poter sperare! È naturale che tu, non sapendo mai quel che faccio, non seguendo a passo a passo tutta la mia vita, ti trovi disarmato contro i sospetti… Quante volte te l’ho detto? Se tu mi sei vicino, se mi ascolti, se mi leggi negli sguardi, ti accorgi che io non mentisco… Quando sei lontano, quando pensi alla gente che mi attornia, i cattivi pensieri ti assalgono, tuo malgrado non puoi liberartene…
— È vero…
— Ah, se è vero! Credi a me, che delle cose del cuore m’intendo…. Voialtri uomini siete più intelligenti, siete capaci di concezioni grandiose, avrete una logica più severa; ma nelle cose del sentimento non vedete così a fondo come noi… Voi vivete con la testa, noi col cuore! Questa passione che a te non impedisce di occuparti d’altro — non te ne faccio una colpa, voglio che sia così! — è tutta la mia vita… lasciati guidare da me, promettimi che farai quel che voglio! Sii buono, non dirmi di no…
La sua voce si faceva supplichevole, carezzevole; le sue mani tremanti cercavano quelle di lui; egli si lasciava vincere dall’accento tenero, appassionato, dall’espressione intensa degli sguardi coi quali ella lo fissava; ad un tratto, mormorava:
— Quest’altro, non…?
— Chi, Lucrino? Mio Dio, no, no! Te lo giuro! Non mi credi? Come fartelo credere? Perchè ti confessai quella colpa? È stata essa che m’ha perduta! Mi credi capace di tutto… ah!
L’amara contrazione del suo viso finì in singulti. Allora egli si piegò su di lei, le prese il capo fra le mani, la baciò in fronte, esclamando:
— Sì, sì… ti credo! Ma è che t’adoro… che non reggo al pensiero… ora basta… se ti dico che ti credo!
— Non lo dici col cuore…
— Ma sì, sì, sì… guardami: ho l’aria di fingere? Si finge così? Basta, il pianto ti logora il viso…
— Oh,  è già logoro troppo!
— Sciocca! Non sai quel che dici! Così, ridi, sorridi! Voglio vederti sorridere sempre… tu non sai quanto t’amo!
Cullata da quelle parole, come liberata da una gravezza, come tornando alla vita, ella chiudeva gli occhi, poggiava il capo sul petto di lui, sussurrando:
— Adesso, senti: non dire più nulla, non voglio più parlare: sono troppo felice…
Dissipate le ultime traccie dell’uragano, seguivano lunghi giorni di calma, nei quali non era più quistione di sospetti e di accuse. Come veniva l’estate, ella gli dava a scegliere le stoffe delle sue tolette, gli mostrava i figurini dei giornali di mode, gli descriveva le confezioni viste nelle sartorie, gli enumerava le commissioni date dalle sue conoscenze. Egli la metteva a corrente del dietroscena parlamentare, discuteva la situazione ministeriale, commentava le notizie del giorno, discuteva le teorie di governo; ma era per lei un soggetto di stupore continuo il sentirgli sostenere la sua tesi sulla relatività di tutto, sul gabbamento universale, e il vederlo poi incaponito nel suo concetto democratico.
— Non ti contraddici, così?
— Io soltanto? Ma se tutto è contraddizione!
Ella si rifiutava di accogliere la persuasione molesta che quella sua fermezza in un ideale politico dipendesse da un calcolo, dall’assegnamento sulla riuscita del suo partito… Dopo le vacanze di carnevale, scoppiò finalmente la crise che si prevedeva da tanto tempo. Di giorno, egli non si fece più vedere; le scriveva però dalla Camera lunghe lettere, spiegandole la conversione a sinistra che s’imponeva al capo del futuro Gabinetto, annunziandole l’offerta d’un segretariato generale che gli avevano fatta, sebbene indirettamente.
— Tu m’hai portato fortuna! — le diceva, la sera, quand’erano insieme.
— Quel giorno che m’auguravi forse è vicino… Io ne sono contento per te; se varrò qualche cosa, mi sentirò meno indegno dell’amor tuo…
Ella gli turava la bocca, protestando che l’indegnità era la sua propria; ma tutto questo non le procurava la compiacenza che ella aveva sognata; suo malgrado, scorgeva dietro le parole dell’amante, sotto quella esagerata modestia, la sodisfazione d’un orgoglio che non le pareva troppo giustificato…
La crise si risolse senza che l’offerta fosse confermata. Egli stesso disse che non l’avrebbe più accettata, visto il programma del nuovo ministero. Per lei, aveva torto; ricominciavano delle discussioni, ciascuno si accalorava nel sostenere la propria tesi; poi seguivano dei brevi silenzii durante i quali ella reprimeva degli sbadigli.
Avvicinandosi la chiusura della Camera, egli le chiese se permetteva che andasse a casa; non si oppose. Pensava che la lontananza avrebbe fatto bene ad entrambi, avrebbe fatto apprezzar loro ciò che la sazietà poteva sciupare.
Restò ancora un poco sola a Roma; come il caldo la cacciò via, riprese la vita errante degli alberghi, delle stazioni di bagni. Intorno a lei, gli uomini facevano la ruota, si studiavano di interessarla. Alcuni, più arditi, le parlavano liberamente, le dicevano delle cose che ella fingeva di non capire, o che ascoltava abbassando gli occhi, o che provocavano le sue risposte taglienti. In cuor suo, non era molto sdegnata: le piaceva di essere fra le più _entourées_; il movimento, le conversazioni, la musica, la danza finivano di stordirla. In ogni parola che gli uomini le rivolgevano, ella trovava la misura del proprio fascino, la conferma che mai il suo impero di donna era stato più saldo. Paolo riprendeva a scriverle assiduamente, rimpiangendo i giorni felici, ricordandole di pensar sempre a lui; ma ora ella comprendeva che questa sua nuova assiduità non era disinteressata, che poteva invece esser dettata dalla paura di perderla. Con la coscienza del proprio valore, ella imparava a giudicare più esattamente l’uomo al quale si era accordata. L’orgoglio era il sentimento che più lo dominava. La confessione del tradimento lo aveva ferito, più che nell’amore, nell’amor proprio. Aveva imaginato di essere stato il solo a conquistarla, il solo a vincere, con la potenza della propria seduzione, la virtù di lei; la scoperta che un altro aveva ottenuto, dopo di lui, ma più facilmente di lui, ciò di cui solo si credeva degno, gli aveva tolta una persuasione cara al suo orgoglio. Adesso, l’idea che un altro potesse portargli via il vanto della propria conquista, lo faceva nuovamente appassionato ed eloquente. Ma la sua
eloquenza non era fatta di rettorica? Ella rammentava le sue scettiche opinioni sui sentimenti, sull’ideale, sull’inganno universale. In fondo al suo disprezzo di tutto e di tutti, c’era però l’esaltata opinione di sè stesso… Adesso, ella vedeva più distintamente i suoi difetti… Che importava! V’era qualcuno che non ne avesse? Dicevano che l’amore acceca: una frase fatta! O vedeva i suoi difetti perchè l’amore s’intiepidiva? No! no! Ella lo amava sempre; l’idea di tradirlo non le passava neppure pel cervello.
Però, nessuno sapeva come ella era fatta. Degli sconosciuti le scrivevano lettere anonime, ora piene di dichiarazioni poetiche, ora di incitamenti sensuali; tutti le davano degli appuntamenti, le chiedevano di mettere dei segnali nel caso che ella acconsentisse… Ella stracciava quelle lettere, dapprima sdegnata, poi ridendo della stoltezza di quella gente; e in fondo sentiva crescere la stima di sè stessa, apprezzava di più la propria superiorità. Paolo l’aveva trattata male, le aveva dato motivi di lagnanze: eppure, era stata lei a pregarlo, a trattenerlo. Quante donne avrebbero fatto altrimenti, si sarebbero ribellate! Ella ne conosceva ogni giorno, di quelle che non avevano altro amore al mondo fuorchè sè stesse, che si lasciavano amare senza scomodarsi, incapaci di fare il più piccolo, il più futile sacrifizio! Ne conosceva di quelle che dichiaravano la passione una cosa sciocca, balorda, nociva alla salute; che si mettevano a ridere quando ella affermava che senz’amore non v’era legame possibile. E queste erano le più fortunate; gli uomini le seguivano come la loro ombra, subivano pazienti i loro capricci, perdonavano i loro tradimenti, strisciavano ai loro piedi. Ella che si era vista trascurata dall’uomo al quale aveva immolata tutta sè stessa, invidiava la loro fortuna, ma aveva troppo cuore, sentiva troppo per imitarle. Una di quelle, la Merio, la più fredda, la più insensibile, le pareva un mostro. Teneva gli uomini a bada, li obbligava a fare dei viaggi, delle pazzie, ad aspettarla di notte, all’acqua e al vento, per concedere poi loro una stretta di mano, per degnarsi di ricevere una lettera. Quando qualcuno la seccava troppo, faceva intendere a un altro di levarglielo di torno. Dei duelli erano avvenuti per lei, un giovanotto si era ucciso. Il giorno che lo avevano portato a seppellire, ella era andata a passeggio, in carrozza scoperta, inaugurando una nuova toletta. La sua carrozza s’era incontrata col carro funebre; ella aveva continuato a guardarsi intorno, dietro l’occhialino dal manico d’oro!