IV.

A Milazzo era arrivato il figliuolo del barone Accardi. Usciva da un collegio di Napoli, e non si ripetevano che lodi per la sua intelligenza e per la sua sveltezza. Poteva avere diciotto anni, ma era lungo quanto un uomo, e delicato, magro, simpaticissimo.
Come aveva portato una macchina fotografica, non gli lasciavano un giorno di riposo: parenti, amici, conoscenti, persone di servizio, ciascuno voleva il ritratto. Una volta si fece un gruppo di venti ragazzi; col capo nascosto sotto il manto nero, egli ammattiva, gridando:
— Fermi quelli lì! Voialtri a sedere per terra… Più alta la testa, quella signorina a sinistra! No, di qui, alla mia sinistra… Niccolino, vieni più innanzi… Fermi un momento! Quella signorina non si muova, quella lì, dico…
Lei che studiava la sua posa, voltandosi da tutti i lati, alzando ed abbassando il capo, squassando i capelli, si confuse un poco; poi disse, impettita:
— Va bene così?
— Va bene… ma fermi tutti gli altri! Non ne facciamo niente!
Venne fuori, sudato, sbuffando, e cominciò a metter lui a posto la gente. Giunto vicino a lei, le prese il capo fra le mani, fermandolo nella posizione giusta: ella si fece rossa. Adesso, nascosto di nuovo sotto il manto, gridava: «Fermi tutti!…» e cavava il tappo della lente; per non venire troppo di sbieco, lei si voltò impercettibilmente.
Quando la fotografia fu incollata sul cartone e ciascuno potè vederla, scoppiarono le lagnanze; ma Luigi Accardi protestava:
— Se non volevano sentire! Chi è stato fermo è venuto bene! La piccola Uzeda guardate! Invece, la grande…
— Brrr!…
Ella scoppiò a ridere, vedendosi con tre teste annebbiate.
— Se non stava ferma un momento! — protestò lui, arrossendo.
Però volle fargliene un altro apposta, da sola. Riuscì una bellezza. Dopo averne mandato una copia alla zia Carlotta e un’altra al babbo, lei ne volle una per sè. L’aveva serbata dentro il cassetto del comodino, e ogni mattina, ancora a letto, o appena levata, lo cavava fuori, restando un pezzo a guardarsi; c’era la firma di Luigi, fatta con l’inchiostro rosso, in un angolo. Un giorno che era alla finestra, sussultò, vedendolo passare e levar gli occhi. Da quella volta egli si mise a seguirla da per tutto; e quando lo scorgeva, il cuore le batteva forte forte. Pensava ancora a Niccolino Francia, ma Luigi era più grande, più nobile, e le pareva più bello.
In inverno, i ragazzi si riunirono di nuovo, per recitare la commedia in casa di lui. C’era un bel salone mutato in teatro; egli stesso aveva dipinte le scene — sapeva far tante cose! — e intanto le mamme preparavano i costumi. A Lauretta era toccata una particina, e tutti se la mangiavano a baci, tanto faceva bene. Lei rifiutò due parti: la prima perchè troppo lunga, la seconda troppo breve. Luigi, che s’infastidiva facilmente, aveva con lei una gran pazienza, la contentava in tutto, tanto che Maria Ferla un giorno le disse:
— Lo sappiamo, lo sappiamo che spasseggia sotto le tue finestre!
Lei si fece di bragia. Adesso lo guardava di nascosto, e abbassava gli occhi quando si vedeva guardata da lui. Un giorno, visitando tutta la casa del barone, insieme col nonno e tanti altri, entrarono nella sua camera.
C’era una scansia piena di libri; un cannocchiale da teatro tutto di madreperla sul tavolo e delle spade appese in croce al muro. Luigi le porse quel cannocchiale per vedere un vapore che veniva dal Capo e se ne andava verso Messina, con una striscia di fumo in mezzo al mare. Così la seconda volta che Maria fece sentire un piccolo colpo di tosse d’intelligenza intanto che si parlava di lui, ella la prese in disparte e le disse, freddamente:
— Sai, questi scherzi sono stupidi; adesso non siamo più delle bambine!
Ora aveva compiti tredici anni e voleva stare fra le signorine. Per questo finì col rinunziare alla sua parte nella commedia, prendendosi invece l’incarico di aiutare le altre nella toletta.
La rappresentazione fu un trionfo per Laura; gli spettatori avevano le mani rosse, dal tanto applaudire, e due giorni dopo, aprendo la Gazzetta di Messina, lei vi lesse il resoconto dello spettacolo. «La piccola Laura Uzeda destò il generale entusiasmo. Con la sua figura espressiva, con una vis comica degna di un’attrice consumata, fu l’enfant gatée dello scelto uditorio…»
— Laura! Laura! — si mise a urlare. — Sei nella gazzetta! Guarda, leggi! Nonno! Dov’è il nonno? È nella gazzetta! è
nella gazzetta!
Sui giornali ci sarebbe stata anche lei, più tardi. Non stampavano, quando si davano delle feste dal Prefetto, o alla Borsa, o in case private, i nomi delle signore più belle? «La marchesa Grifeo, sempre elegante; la signora Tucker, uno splendore di bruna, la Marignoli che sembra la sorella della sua avvenentissima figlia…» Lei conosceva così di nome tutta la società messinese, ne parlava con quanti venivano dalla città e li lasciava tutti a bocca aperta.
Ah! se il nonno l’avesse contentata! Adesso che le vigne al Gelso erano tutte piantate e che il Senato era a Firenze, egli vi andava spesso; ma non le conduceva neppure fino a Messina, un po’ col pretesto della strada lunga, dicendo di voler aspettar la ferrovia che non costruivano mai, un po’ sostenendo che era il tempo dello studio fecondo, dell’applicazione seria, e non degli svaghi. Come se, a non voler studiare, fossero indispensabili le distrazioni!
Al contrario, se l’avessero condotta a Messina, lei avrebbe giurato di risolvere cinquanta problemi in una volta e di tradurre tutte le avventure di Telemaco! Voleva andare a Messina, era necessario che v’andasse, per non restare come una grulla quando Luigi parlava del teatro Vittorio Emanuele e del Duomo, della Villa e del Faro. E, con lunghi sospiri, guardava il mare, la rada azzurra chiusa dai monti lontani.
D’inverno, quando spuntavano le brutte giornate, essa appariva tutta piena di bastimenti: flotte di trenta, di cinquanta legni obbligati a rifugiarsi in quel gran bacino, con le vele ammainate, e sballottati nondimeno dalle onde in convulsione che si rovesciavano sul passeggio della marina, arrivavano fin sotto le case e lasciavano, ritirandosi, un letto d’alighe secche, di sugheri, d’ogni sorta di detriti. In quei giorni, la spopolata città era più deserta del solito; di sera non usciva nessuno, la fila dei lampioni si rifletteva sul suolo bagnato e l’oscurità pareva più fitta. Poi, una bella mattina, col sole, col cielo azzurro, col mare tranquillo, non si vedeva più un bastimento nella rada: erano tutti spariti, partiti, chi da levante, chi da ponente, per Messina, per Palermo, per Napoli, per tutti i paesi più grandi, più ricchi e più belli.
A una ricaduta di Laura, il nonno decise finalmente di condurre le nipotine a Messina, per consultare un dottore, per far divagare la malatuccia. Ricominciò la festa di Palermo: passeggiate, visite, teatri, inviti: tutto il giorno in moto, lo studio messo da parte, i libri lasciati a casa, Miss sola imbronciata. Com’era più bello il teatro Vittorio Emanuele del Bellini di Palermo: grande, sfolgorante, pieno di signore elegantissime, con una compagnia di prim’ordine che rappresentava il Roberto Devereux e faceva accorrere gente dal fondo della provincia. In platea c’erano tanti giovanotti eleganti e un ufficiale biondo, con un’ombra di baffettini, che guardava sempre dietro il cannocchiale. Lo volgeva anche verso di lei? Ogni sera si sentiva guardata; i suoi sguardi correvano, suo malgrado, laggiù, e una fiamma le bruciava il viso.
Se ne ricordava ancora a casa, di quell’ufficiale, malgrado rivedesse Luigi Accardi; e così pensava a tutti e due, e a Niccolino Francia, anche. Come Lauretta s’era divertita molto anche lei, il nonno consentì di condurle altre volte a Messina; quando tornava dal Senato, esse gli andavano incontro fino alla città; e a furia di fare la via, la sapevano adesso a memoria: gli Archi, Spadafora, Baùso e Divieto vicini l’uno all’altro, e poi la salita di Gesso — Ibbisu — il paesetto arrampicato sulla montagna, e poi il tratto finale, più erto, con la nebbia che avvolgeva spesso ogni cosa, coi cavalli che ansavano e procedevano al passo, faticosamente; e poi il colpo di frusta della discesa allegra, rapida, con la città e lo stretto spiegati come una carta geografica, in fondo! Ella viveva dell’attesa e del ricordo di quelle scorse; calcolava, volta per volta, quanti giorni mancavano alla partenza, e numerava altrettanti ciottolini, raccogliendoli sulla spiaggia di San Papino. Ogni giorno che passava, ne buttava uno dalla finestra e faceva il conto dei rimanenti.
Quanti spartiti sapeva, adesso! A Milazzo, per sopportare più pazientemente la noia di quel soggiorno, li suonava a pianoforte, tutti, dalla prima all’ultima nota, imparando con la musica le parole. Intanto che restava ferma e composta dinanzi allo strumento vibrante, nella sua testa sfilavano tutte le eroine di quelle storie d’amore: Gemma di Vergy, Maria di Rohan, la Favorita, la Traviata, che, vestite di abiti sontuosi, tempestati di gioie, passavan superbe e maestose tra gli omaggi dei cavalieri e gl’inchini delle dame, o pazze d’amore, coi capelli disciolti sulle spalle, pallide e smarrite, in bianche vesti, piangevano e vaneggiavano. Gli uomini spasimavano per esse, e com’era bello quando sguainavano le spade lampeggianti, sfidandosi a morte!
Ella si alzava, fremente d’emozione, e se n’andava alla finestra, guardando il mare e le montagne di Gesso, violacee nella lontananza. Certi giorni si metteva a cantare i motivi principali di quelle opere, intanto che lavorava o passeggiava sulla terrazza, e una volta cominciato, non smetteva più: le romanze succedevano alle romanze, i duetti ai duetti, i cori ai cori; e poi, da capo, ripeteva senza fine i pezzi più belli, intonava a voce più forte i finali maestosi, intercalava alla musica seria le canzonette napoletane, i motivi che fischiettavano i monelli, la Giulia gentil, l’Una volta un capitano, instancabile, con la gola sempre fresca, come un merlo sulla rama, finchè Miss, o il nonno, o la sorella non gridavano:
— Assez! Basta, Teresa! Per carità!
Smetteva un poco, poi ricominciava, sottovoce. Voleva esser trattata come una signorina, ma era ancora una monella. La bambola aveva sempre tutte le sue cure. E la sera, con la paura antica, voleva che Stefana, accanto al capezzale, le raccontasse le fiabe.
Il repertorio ne era esaurito, talchè la donna ripeteva sempre le stesse: La sorella del Conte, Rossa come fuoco, Il Re Cavallo-morto, I sette ladri, L’infante Margherita, Dammi il velo, La Mamma Draga, La Bella dei sette cedri, La Reginetta schifiltosa. Adesso le sapeva a memoria anche lei e le comprendeva meglio. Le fanciulle leggiadre, fossero nate sul trono o nelle capanne, facevano degli uomini quel che volevano; e invano essi cercavano sottrarsi al loro potere. L’indovino, in cambio d’uno scialletto che Povera Bella gli dava, le prediceva che sarebbe stata moglie del figliuolo del re; e il figliuolo del re, udito quel discorso dal balcone, si metteva a beffeggiarla:
— Lo scialletto lo perdesti! Ma il figlio del re non l’avesti!
Povera Bella  rispondeva:
— Che m’importa?
Quello di suso e quello di giuso,
Il figlio del re ha da esser mio sposo.
Spero in Dio,
Il figlio del re ha da esser mio.
Spero in Dio e in tutti i Santi
Il figlio del re m’ha da essere accanto.
Il Reuzzo rideva, ma nel cuore gli restava una piccola piaga; e tutto quello che egli faceva era inutile: Povera Bella restava per sempre a suo canto!
Rosina, nel Vaso di basilico, era una povera ragazza senza mamma, che se n’andava tutti i giorni a scuola; il figliuolo del re, dalla terrazza del palazzo reale, cominciava a canzonarla, a giuocarle dei tiri. Lei, che non si faceva mettere in mezzo da nessuno, glie ne ordiva di più birboni; ma il giorno ch’ei non potè più vederla, fu per morire e non guarì se non quando l’ottenne in moglie. Rosina, accorta, fece impastare una bambola di zucchero e miele che era tutta il suo ritratto, e la sera degli sponsali, mandato via nell’altra camera il Reuzzo col pretesto che aveva vergogna di spogliarsi dinanzi a lui, mise la bambola nel letto nuziale, nascondendosi poi lì sotto. Il Reuzzo, tornato, cominciò a rinfacciare alla bambola tutti i torti che Rosina gli aveva fatti, e chiedeva, con la sciabola in mano: «Ti penti di questo? Ti penti di quest’altro?…» E la bambola a far segno di no col capo, che Rosina tirava per mezzo di una funicella. Allora, giù un terribile fendente. Ma, pentito, il Reuzzo si portava la lama alle labbra, ed esclamava, con accento di dolore disperato; «Ah, com’era dolce il sangue di mia moglie!…» Rosina usciva a un tratto dai suo nascondiglio, e così restavano felici e contenti!
Però, alcune di quelle fiabe Stefana non voleva più narrarle; ella se le faceva ripetere dalla moglie del fattore del Capo: quella del marito geloso che, partendo dal suo paese, murava la moglie in casa, e del Cavaliere che si faceva pappagallo per ottenerla; quella della Sorella del Conte che, chiusa dal fratello per gelosia, si metteva a forare il muro della prigione ed entrava così nella camera del Reuzzo, dove ardeva una lampada preziosa.
— Lampada d’oro, lampada d’argento,
Che fa il tuo Reuzzo, dorme o veglia?
La lampada rispondeva:
— Entrate, signora, entrate sicura:
Il Reuzzo dorme — non abbiate paura.
La contessinella entrava e andava a coricarsi a fianco del Reuzzo. Egli si svegliava, l’abbracciava, la baciava, e le diceva:
— Signora, donde siete? dove state?
Di quale Stato siete?
— Reuzzo, cosa dite? che chiedete?
Tacetevi e godete…
Ma non erano soltanto gli uomini che impazzivano per le fanciulle; le stesse Belle quanto penavano pei loro amanti! Nel Re d’Amore, nel Sorcetto con la coda puzzolente, le ragazze andavano in cerca degli innamorati; e quante fatiche aveva sopportate Marvizia per trovare l’uccello verde, che era un principe reale! Vi erano delle reginette così piene di coraggio nello sfidare le Mamme Draghe, nel correre sperdute per il mondo, e così accorte nel cavarsi d’impiccio, così ardite e così buone, che ella restava sbalordita d’ammirazione.
E belle, «quanto il sole, la luna e le stelle», o «tanto che non si può dire», o «che facevano scordare tutte le altre!» Ora più di prima, ella restava lungamente allo specchio, guardandosi. I suoi capelli erano come d’oro, le scendevano fin sulla vita; il viso pareva quello della prigioniera della Mamma Draga: bianco come neve, rosso come fuoco. Ma ella era disperata, perchè fra i denti bianchissimi ne aveva uno storto ed annerito. Era inutile pulirlo, strofinarlo con le polveri: non sbiancava; e la lingua le correva sempre lì. Certe volte, dopo essere rimasta un pezzo con la bocca aperta, a guardarlo, si diceva: «Infine, non è poi tanto scuro: non si vede, quasi.» Ma la notte sognava d’averlo nero come un pezzo di carbone, sentiva che glie lo tiravano, forte forte, senza riuscire a strapparlo; e, dall’angoscia, si destava.
Un’altra angustia era per la statura. Piccina, tutti si meravigliavano del suo sviluppo straordinario; invece, da dieci a quattordici anni, era quasi restata la stessa. Aveva ancor tempo di crescere! — le diceva Stefana. — Ma se fosse rimasta nana?… Ella non pensava che al tempo in cui sarebbe stata una signorina per davvero; spingeva indietro i giorni e i mesi col pensiero, quasi avrebbe voluto ancora numerare dei ciottolini e buttarli via periodicamente, ad uno ad uno, per vedere diminuire il tempo che le restava dinanzi fino ai diciassette anni, fino ai sedici — bastavano! — delle ragazze del popolo non s’erano maritate anche a quindici?
— Ma bisogna esser donne… — le disse Maria Ferla una volta, misteriosamente, senza volersi spiegare.
Però, ella era cominciata a star male: dei capogiri, un’emicrania fitta che non la lasciava; e una mattina, svegliandosi, vide tutti intorno al suo letto: il nonno, Laura, Miss, Stefana, il medico; e delle bottiglie, dei vasetti sul comodino, con un odore di spirito e d’aceto diffuso per la camera.
— Cos’è? Cos’è stato?
— Nulla! Non è nulla…
Aveva avuto delle convulsioni terribili — le raccontò poi Stefana — s’era contorta, afferrata alle barre del letto, e due uomini non avevano potuto strapparla di lì.
Il male la riprendeva ancora a intervalli, e come i sintomi si aggravavano ella cominciava ad aver paura.
— Non è nulla, sciocca… Siamo tutte così!
L’ammalata era sempre Lauretta, impressionabile ad ogni soffio d’aria, sempre fra letto e lettuccio. Per causa sua, ella doveva spesso sacrificare qualche svago, rinunziare a incontrar Luigi Accardi; e com’era impaziente che passassero le feste alle quali non poteva prender parte! Certe volte; quando il suo proprio malessere cresceva, si sentiva vincere da una grande insofferenza, in quella casa così piena di noia. Piangeva, dicendosi che era orfana, costretta a vivere in quel paese, a subire le astiosità di Miss. Perchè non aveva più la sua mamma?
Rammentandosi le parole del nonno: «Povere piccine, esse non sanno quel che hanno perduto», riconosceva adesso che egli aveva avuto ragione: ora soltanto cominciava a comprendere che cosa fosse non trovarsela accanto! E restava lunghe ore in contemplazione dinanzi al suo ritratto, fatto da un gran pittore, a Firenze. Com’era bella! Quegli occhi, come parlavano, come dicevano la dolcezza del cuore! Ella la chiamava: «Mamma, oh mamma mia!…» e al ricordo confuso del bene che le aveva voluto, di certi abbracci fitti, furiosi, che le aveva dati, di certe parole che le aveva dette all’orecchio, scoppiava in pianto, sentiva che niente poteva più consolarla. Ma pensando che senza i dolori che le avevano procurati, la poveretta non sarebbe morta così presto, così giovane, nel fiore degli anni, le sue lacrime cessavano di scorrere, un rancore le invadeva l’anima contro quelli che l’avevano fatta soffrire. La sera, quando Stefana sedeva al suo capezzale, ella le chiedeva di narrarle quella storia, di dirle perchè il babbo se n’era andato di casa, perchè s’era presa un’altra moglie. Stefana non voleva rispondere, o diceva: «E stata colpa di quella femminaccia», però, a proposito di altre cose, ella le strappava qualche notizia. Il nonno aveva cinquant’anni, aveva preso moglie giovanissimo; ed anche la povera mamma era stata maritata da lui a sedici appena, senza che ella neppur conoscesse il suo promesso; le prime liti anzi erano scoppiate fra lui e il nonno per quistioni d’interesse. La colpa era anche del barone, che voleva sempre far troppo di suo capo. Poi un altro sbaglio era stato quello di andarsene via da Milazzo, di girare pel mondo. La mamma, poveretta, aveva creduto di far meglio, a contentar suo marito; ma quanto se n’era pentita! Bastava dire che dai dispiaceri avuti durante la gravidanza di Laura, la piccolina era nata così malaticcia. Poi il babbo l’aveva lasciata, s’era presa un’altra moglie mentre lei era ancor viva! Adesso ella comprendeva perchè il nonno l’avesse con lui! e adesso si spiegava le scene di Firenze, le continue liti, l’arrivo del nonno; adesso capiva che quel giorno in cui ella aveva fatto la cattiva perchè non s’andava a teatro, era accaduta la quistione più grossa dopo la quale il babbo era andato via.
Povera mamma! Ella si struggeva al pensiero delle lacrime che avea versate; ma, compiangendola, non riusciva a capire perchè poi s’era presa tanta pena per uno che l’aveva così maltrattata! Senza saper bene che cosa avrebbe fatto lei stessa, si diceva: «Se fossi stata io!…» Poi, paragonando alla mamma quell’altra donna vista a Palermo, non capiva neppure come il babbo l’avesse preferita: era più vecchia, più brutta! Che cosa aveva ordito colei, per stregarlo così? E allora si rammentava delle opere dove c’erano delle passioni strane e fatali, delle fiabe dove si narrava la potenza di certi incantesimi.
Per lei, che cosa avrebbe fatto Luigi Accardi? Lo vedeva passare sempre sotto le sue finestre; la domenica, a messa, si sentiva guardata continuamente; e quello sguardo l’attirava, la turbava. Era un turbamento come quello che aveva provato pel conte Rossi, per Bianca Giuntini; ma più profondo, più intenso. Niccolino le correva appresso anche lui; ma ora non le piaceva più. Quando qualche ragazza andava a marito e Stefana, nel commentar la notizia, diceva: «Per voialtre ci pensa vostro nonno», ella sorrideva tra sè: l’imagine di Luigi si faceva più viva, più presente; ella gli parlava: «Non dubitare, avranno da fare i conti con me!» Quando non poteva vederlo, quando non la lasciavano andar fuori perchè non si distraesse dallo studio, ella si sentiva sacrificata, gli chiedeva perdono in cuor suo, e pensava: «Se ci lasciassero sempre insieme, come contenterei il nonno e Miss! come studierei di più, da mattina a sera!» S’irritava, a sentirsi trattata come una bambina, a vedersi attraversata nei suoi giusti desiderii, quello dell’abito lungo, per esempio; e adesso le sue impazienze erano più acri, i suoi rancori più ostinati. Certi giorni aveva delle voglie di piangere, di gridare, di picchiare, anche d’esser picchiata; non potendo far altro, aveva preso l’abitudine di scalfirsi con l’unghia del pollice i polpastrelli delle altre dita; grattava fin quando la pelle si staccava e il sangue trapelava: malgrado il bruciore, non smetteva. Spesso se la pigliava con Laura, per una cosa da nulla, per qualche parola od anche senza ragione; una volta che la sorella aveva buttato inavvertitamente il calamaio sopra un suo ricamo, le si scagliò contro, gridandole: «Assassina!» e tempestandola di pugni, con la gola stretta, una fiamma dinanzi agli occhi… Il furore del nonno! E il pianto della pace! Come i singhiozzi le strozzavano le parole con le quali ella voleva dire alla sorellina il bene che le voleva!
— Quanto! Quanto!
Allora si rammentava quel che le aveva detto la mamma: «Vorrai sempre bene alla tua sorellina? Sarai sempre la sua protettrice?» e col cuore traboccante di tenerezza, la prendeva in disparte, l’abbracciava, le diceva i suoi progetti per l’avvenire: che sarebbero state sempre insieme, si sarebbero maritate lo stesso giorno, e avrebbero avuta una stessa casa, cioè due quartieri sopra uno stesso piano, cogli usci dirimpetto; e la stessa sarta, la stessa pettinatrice, un palco insieme a teatro.
— Vedrai come ci divertiremo! Come guarirai di tutte le malattie!
Intanto era Laura che proteggeva lei, che le otteneva dal nonno ciò che non le riusciva di strappargli lei stessa: la prima veste lunga, una veste di stoffa azzurra, con un cappellino di velluto: una bellezza! Però, bisognava metterla soltanto nei giorni di festa, nelle grandi occasioni; e questo la seccava. Così, quando doveva andare in un posto dove era sicura d’incontrare Luigi, prima che Miss le dicesse qual veste dovesse mettere, ella correva all’armadio, ne toglieva quella di stoffa, se la passava in un lampo, e disarmava poi il nonno a furia di baci, di salti, di paroline all’orecchio e di battute di mano.
Spesso usciva sola, perchè la sorellina stava poco bene, aveva lo sviluppo difficile. Una volta che le glandole del collo le gonfiarono, il dottore ordinò l’applicazione delle sanguisughe. Che orrore! Che orrore! Ella avrebbe preferito morire piuttosto che lasciarsi attaccare al collo quelle bestiacce viscide e nere. Che orrore! E che pena le faceva la poveretta! Quando il barbiere s’avvicinò al letto con la sua bottigliaccia, ella scappò nell’altra camera, si mise a pregare, promettendo alla Madonna di vestir l’abito del voto se le guariva la sorellina. E volle che glie lo facessero, l’abito di lana marrone, con un laccio bianco attorno alla cintura e pendente sul fianco. Ma dopo averlo portato qualche volta, visti i sorrisi di Maria Ferla e delle altre lo smise.
— Così mantieni quello che hai promesso? — osservava Stefana.
— Non debbo smetterlo più? Adesso l’ho portato abbastanza! E poi, cosa importa l’abito alla Madonna? La Madonna mi legge nel cuore!
Non voleva sentirsi criticata dalle amiche, aveva vergogna di mostrarsi in qualunque cosa inferiore ad esse. Da Firenze, dov’era stata in collegio, era venuta la figlia del marchese D’Arrico; non poteva soffrire di sentirla parlare della città in cui lei stessa era nata ma di cui si rammentava tanto poco. Certe volte pensava se non era meglio stare in collegio e in una grande città, piuttosto che in quel paesuccio. Però il collegio non era molto allegro neanch’esso! Almeno qui, se tutti i giorni era una noia, veniva pure la festa della domenica, quando ella, appena sveglia, pensava per prima cosa: «Oggi non si studia! Sono libera! Mi vestirò di gala, andrò a passeggio, vedrò Luigi!» Ma come passava presto, quel giorno! E la sera come si sentiva opprimere, pensando che la festa era finita, trovando che non ne aveva goduto abbastanza! Non sapeva ella stessa che cosa avrebbe voluto fare, era scontenta di tutto, lo studio l’opprimeva mortalmente. Del resto, Miss non aveva più nulla da apprendere.
Il nonno annunziò un giorno che aveva preso un professore. Ella lavorava ancora ad imaginare come potesse esser fatto, quando capitò un prete, grasso, intabaccato fin sul petto, con le unghie poco pulite. Dava lezioni di lettere e di storia — per le lingue restava Miss. Le faceva mandare a memoria l’Invito a Lesbia Cidonia del Mascheroni:
«Perchè con voce di soavi carmi
Ti chiama all’alta Roma inclito cigno…»
Una seccatura che a cercarla col lanternino non si sarebbe trovata l’eguale in tutto il mondo. Già, quando lei sarebbe andata in società, quando sarebbe stata in visita, a teatro, ai balli, avrebbe dovuto dire per l’appunto: «Non sapete nulla? Perchè con voce di soavi carmi!»
Meno male il Tasso. Dapprincipio la seccava anche lui; però a poco a poco cominciò a gustarlo, vedeva i combattimenti dei Crociati coi Turchi, i duelli di Tancredi ed Argante; ed Armida, quantunque fosse una vecchia fattucchiera, le ispirava una grande pietà.
Doveva mandarne a memoria dei canti interi; però quando furono arrivati al decimosesto, intanto che lei leggeva, il professore ingiunse:
— Salti le due ottave seguenti.
— Perchè?
— Le dico di saltarle.
Le saltò, pel momento; ma, appena egli fu andato via, corse a leggerle:
«Ella dinanzi al petto ha il vel diviso,
E il crin sparge incomposto al vento estivo;
Langue per vezzo, e il suo infiammato viso
Fan biancheggiando i bei sudor più vivo.
Qual raggio in onda, le scintilla un riso
Negli umidi occhi tremulo e lascivo.
Sovra lui pende: ed ei nel grembo molle
Le posa il capo, e il volto al volto attolle;
E i famelici sguardi avidamente
In lei pascendo, si consuma e strugge.
S’inchina, e i dolci baci ella sovente
Liba or dagli occhi, e dalle labbra or sugge:
Ed in quel punto ei sospirar si sente
Profondo sì, che pensi: or l’alma fugge,
E in lei trapassa peregrina. Ascosi
Mirano i duo guerrier gli atti amorosi».
Era tutto questo? Chi sa cosa si sarebbe aspettato! Che c’era dunque di male? Ma già, non bisognava parlare d’amore, bisognava fingere di non comprendere certi discorsi, evitare di guardar gli uomini, e poi se ne sentivano di belle: la moglie del barone Lipari che aveva cacciata a pedate la cameriera, perchè suo marito, quel vecchiaccio, l’andava a trovare nel letto!