IX.

La benda le cadde dagli occhi quando quell’uomo partì. Fra loro due, nulla v’era più di comune, ciascuno avrebbe proseguito per la propria via; egli contava soltanto una pagina di più nel suo album. Ella non aveva sospettata l’umiliazione che trovava adesso in quest’idea. Apprezzava troppo tardi l’abbassamento che v’era nei legami di quel genere, sciolti appena stretti. L’amore riscattava le colpe, ma bisognava credere in esso, nella sua forza, nella sua eternità. Avrebbe voluto riprendersi, negare contro ogni testimonianza quel che era avvenuto. Sola, fuor della vista di tutti, si nascondeva il viso tra le palme, scuoteva il capo come in cerca d’aria, mormorava: «Che ho fatto! Che ho fatto!» E come arrivavano delle lettere di Paolo, ella si gettava su di esse.
L’assente scriveva: «In nome di Dio, per l’amore che ti porto, per la felicità che m’hai data, scrivimi, rispondimi, dimmi che hai. Se non vuoi che io faccia una pazzia, se hai cara la vita d’un uomo, mandami un rigo, una parola, fammi scrivere da qualcuno se non puoi tu stessa, spiegami questo eterno silenzio, toglimi a una disperazione mortale. Guarda, la mia mano trema, l’occhio mi si appanna, ogni forza mi abbandona. Per pietà, rispondimi, per pietà…» Il foglio le cascava dalle mani, le braccia le pendevano, inerti, intanto che con lo sguardo inchiodato a terra, si ripeteva: «Che ho fatto, mio Dio! Che ho fatto!» La nuova colpa era senza scusa, la macchia incancellabile! Mentre quell’uomo che l’amava giurava su di lei, mentre le teneva tutti i giorni il linguaggio d’una passione sempre più divampante, ella lo aveva tradito! E adesso bisognava mentirgli!
Quando si mise al tavolo, non sapeva che cosa gli avrebbe detto. Scritta la prima parola, la lettera fu compita d’un sol tratto.
«Perdonami! Sono stata male, molto male, ho creduto di morire! Anche ora che ti scrivo, non sono sicura di me stessa, delle mie idee, dei miei ricordi: ho un gran vuoto nero nel cervello. Comprendo nettamente una sola cosa: che fui sul punto di perderti, di lasciarti! Sai tu che cosa vuol dir questo? O Paolo, io misuro adesso tutta la forza dell’amore che nutro per te; di questo grande, unico amore che è la forza della mia vita. Io ritorno ad esser tua, solamente e per sempre tua! Io ringrazio il Signore che mi ha ridonata a te…»
Delle lacrime le rigavano le guancie, intanto che scriveva quelle cose. Le pareva di non aver mentito del tutto, di avere in certo modo confessato l’errore. Egli rispondeva benedicendo un male al quale doveva quella confessione: «Tu non mi hai scritto mai nulla di così innamorato! Io non ho mai letto così a fondo nel tuo cuore! Che importa il male e la morte! Se tu fossi morta, sarei morto anch’io! Ma vedi bene che tu non puoi morire: mi ami troppo! Qui, sul mio petto: ch’io ti difenda col mio corpo, ch’io ti sorregga con le mie braccia, e sfideremo gli uomini e il tempo ed il mondo!»
«Sì, sì…» rispondeva ella, col cuore traboccante di tenerezza e di gratitudine per quel culto di cui era l’oggetto non più degno; «sì, con te, al tuo fianco, lontano da questo mondo tristo, per vivere finalmente come l’anima anela…» Mano mano che scriveva, la sua esaltazione cresceva, ella s’ubbriacava delle sue stesse parole. Sentiva di non aver mai amato come adesso quell’uomo, neppure quando gli si era data; per riabilitarsi ai proprii occhi, per non credersi accessibile ai capricci fugaci ed indegni, si attaccava a quell’amore, lo ingigantiva, ne faceva la ragione della sua vita, lo esprimeva con parole infuocate che facevano scrivere a Paolo: «Che lettere! Che lettere! Quand’io le divoro, il cuore mi batte così forte come se stesse per schiantarsi… Corro alla Posta un’ora prima che aprano, mi torco le mani per resistere alla tentazione di avventarmi contro le grate, di scuoterle, di abbatterle, di ghermire il mio bene e di fuggire come un malfattore e come un pazzo. Tutti mi leggono in volto il mio delirio; gli occhi mi si gonfiano, le labbra mi tremano, vorrei piangere, vorrei cantare…»
Che cosa sarebbe stata la vita con lui? I miraggi della fantasia acquistavano nuova seduzione, dinanzi alla tristezza della realtà. Il dissesto finanziario di suo marito, del quale ella aveva avuto appena un sospetto, era in brevissimo tempo talmente cresciuto, che tutti adesso lo sapevano. Arrivavano dei protesti, delle citazioni; Guglielmo aveva delle lunghe conferenze col notaio e cogli avvocati, ed a lei non diceva mai nulla.
— Non mi seccare anche te! — rispondeva quando ella gli parlava di affari. — Ti manca nulla? Hai le tue vesti, il tuo servizio? Non t’occupare d’altro…
E sempre quel disprezzo, sempre quel lusso buttatole in faccia come un’elemosina, per toglierle il diritto di occuparsi del resto!
— Ma se non possiamo più spendere come prima, dillo! Rinunzierò al superfluo! Credi ch’io sia una bambina? So farmi una ragione anch’io!
— Per vederti atteggiare a vittima, eh? Per sentirti dire che ti sei sacrificata?
Invece, era lui che non voleva fare nessun sacrifizio, che continuava a prodigar pazzamente il denaro. Ella sentiva crescere il proprio rancore, i motivi di diffidenza e di malcontento. La sua dote, che egli le aveva rinfacciata come una miseria, adesso gli faceva molto comodo; le persone che s’interessavano a lei l’avvertivano di stare in guardia, potendo anch’essa venir travolta nello sfacelo. Fra tanti contrattempi sopravvenne l’estate; il ritorno a Roma, in quella stagione, era impossibile. Ella che aveva promesso a Paolo di raggiungerlo prima del caldo, doveva venir meno alla parola datagli! E adesso lasciava libero corso all’acrimonia di cui era piena, teneva fronte a suo marito. Una voce sorda le diceva che ella aveva vendicati ad usura i torti ricevuti; ma non voleva convenirne con sè stessa: la coscienza del torto la faceva insistere di più nella legittimazione, le sue ragioni le parevano più forti ed ella parlava più alto.
— Vattene! — diceva suo marito, freddamente. — Se non ti piace, vattene; nessuno ti trattiene.
Ma il solo fatto che era lui a consigliarlo, le faceva rifiutare quel partito. Tutto ciò che egli diceva le riusciva insoffribile, tutto ciò che faceva le ritornava di danno. Egli si decideva a tornare nel continente in ottobre, giusto nel momento in cui Paolo partiva per la Sicilia, con la commissione d’inchiesta!
Questa volta, col bisogno di trovarsi accanto una persona di cui potersi fidare, ella insistette per condurre seco Stefana. A Castellammare, dove Guglielmo volle fermarsi, ricevette le prime lettere di Paolo che salutavano la sua isola: «Questo è il cielo che tu hai rimirato, l’aria che hai bevuta, il mare che t’ha cullata. Qualche cosa di te fluttua tutt’intorno, mi sembra di vederti apparire a tutti gl’istanti, vorrei fermare i passanti e dir loro: La conoscete?» A Palermo, egli aveva quasi potuto vivere della sua vita: «Ho parlato di te, ho stretta la mano alle persone che tu conosci, ho visto la tua casa, vi sono passato di sera, a notte tarda. Non posso dirti quel che ho pensato, la voluttà amara di cui mi sono imbevuto…» Ma, come egli arrivò a Milazzo, la sua tenerezza divenne uno struggimento. «Qui tu sei vissuta fanciulla! Qui tu sei entrata nella vita! Tu non sai che dolcezza v’è in questo pensiero, che tentazione di pianto soave è la vista di tutte le cose a cui tu fosti associata nei tuoi giovani anni! Ho visto tuo nonno, ho parlato con lui, di te; sono entrato in casa tua. Mi sono fermato sulla soglia della tua cameretta; avrei voluto piegare i ginocchi, tenderti le braccia, chiamarti. Qui tu sognasti i tuoi sogni di vergine! La stessa Purezza abitò fra queste mura! Nessun pensiero triste si associa a questa evocazione; è tutto un sorriso, un incanto. Mi sono fermato alla finestra: l’occhio si perde nell’immensità del mare, i monti del Faro sono d’ametista nella lontananza. Ho scoperto perchè i tuoi occhi hanno una trasparenza così cristallina: il mare li colorò dei suoi riflessi… Tuo nonno ci ha invitati a pranzo: sono vissuto un giorno con te, in mezzo alle cose tue: ho preso posto alla tua tavola, mi sono seduto dove tu sedevi. Che letizia, che incanto! Non ho staccato gli occhi da quel buon vecchio: pensavo come tu lo guardavi, volevo essere te. Il tuo spirito era sempre presente; come ho fatto a parlare, a rispondere? avevo gli occhi rossi di pianto… Conosco la tua casa come la mia propria, sono salito sulla terrazza, ho visitato il giardino, ho tracciata l’iniziale del tuo nome sul sedile di marmo che è dirimpetto alla vasca… A San Francesco di Paola ho visto le sepolture dei tuoi cari; mi son rammentato delle preghiere che m’apprendeva mia madre…»
Allora, un velo di lacrime le impedì di leggere oltre. Dei singhiozzi brevi come sospiri le sollevavano il seno, un tremito nervoso le faceva mordere un poco le labbra. Tutto il suo passato risorgeva dalle profondità della memoria, ella rivedeva i luoghi dove era trascorsa la sua fanciullezza, le cose e le persone, sè stessa; e tutto quello che aveva provato, i dolori piccoli e grandi, le aspirazioni, le irrequietezze, i disinganni, le rifluivano al cuore, lentamente e incessantemente. Ella non aveva più pensato ai suoi morti, a quella sorellina che aveva giurato di tener sempre nel pensiero! Quanto tempo trascorso! Come la figura della scomparsa si perdeva, si cancellava! E non aveva creduto possibile resistere allo schianto di quella dipartita! Così era la vita! Le sue lacrime finivano in uno stupore immenso, dinanzi alla trasformazione operatasi in lei, di cui aveva per la prima volta l’improvvisa coscienza. Era ella veramente la fanciulla vivace e gioconda d’un tempo, la compagna della piccola Laura? Come la vita s’era svolta suo malgrado! Quanti propositi svaniti! Quanti uomini aveva creduto d’amare! Ella li rivedeva tutti, i fanciulli ed i giovani, i noti e gli ignoti: il conte Rossi, Niccolino, Enrico Sartana, l’ufficiale di marina. Quante vane promesse! Quante aspettazioni deluse! Ed ella aveva conosciuta la colpa! era caduta, più volte! Come avrebbe ella potuto prevedere quell’avvenire ora fatalmente compiuto, l’ostilità degli eventi, l’inganno, l’errore? Se avesse saputo! Se avesse potuto tornare indietro! Perchè non aveva conosciuto più presto l’uomo dal quale le veniva ora l’unica dolcezza, che la comprendeva, che era fatto per lei? E lo aveva ingannato! aveva avvelenato anche quell’ultima sorgente di gioia! Una grande passione era stata l’aspirazione della sua vita; e, conseguitala, l’aveva disconosciuta! Perchè non aveva ceduto in tempo a quell’uomo, perchè la fede nell’amore non era riuscita a salvarla? Apprezzava in tutto questo l’effetto della trista esperienza, degli esempii funesti; ma gli eventi ora compiutisi erano arrivati imprevisti — e che cosa le serbava dunque l’avvenire?
La scossa prodotta nel suo spirito da quella paurosa contemplazione si propagava nella persona, le metteva un moto febbrile nel sangue. La tristezza dell’autunno, il primo freddo che correva per l’aria accrebbero il suo malessere; per molti giorni fu costretta a restare a letto, sofferente e dolente. Quando, superata la crisi, ella si guardò allo specchio, un nuovo turbamento la vinse. Attorno ai suoi occhi si disegnava un cerchio bistro; le sue guancie avevano perduta la floridezza della salute; un principio d’avvizzimento guadagnava la pelle; il colore delle labbra cominciava a passare. Lentamente, come per discacciare un fastidio, ella si stirava la fronte con una mano, gettava indietro i suoi capelli. Adesso era un’altra visione che cancellava quella del passato: il tramonto, il disfacimento della sua bellezza, la vecchiezza inutile e triste. Pochi giorni di malattia erano bastati perchè quei segni funesti si rivelassero. Ella si avvicinava a rapidi passi ai temuti trent’anni, la gioventù fuggiva… Così presto! così presto! Non avrebbe creduto! Il tempo aveva l’ali! Ricordava di aver pensato spesso, fanciulla: «Che cosa mi accadrà intorno ai venticinque anni, quando sarò nel pieno possesso del mio regno di donna?» E i venticinque anni erano tramontati da un pezzo, e che cosa aveva ella avuto?
Uscì a poco a poco da quella depressione angosciosa. Tornarono i bei giorni; il golfo era tutto un sorriso, le lettere di Paolo tutte un sospiro d’amore. La sua vita dipendeva oramai da quell’uomo; ella concentrava in lui ogni speranza. Suo marito faceva di tutto per buttarla nelle sue braccia, se non fosse bastato il bene che gli voleva: corteggiava una signorina inglese emancipata, si faceva veder solo in compagnia di colei, permetteva col suo contegno le ardite galanterie che gli uomini rivolgevano a lei stessa. La notte, ella lo udiva andar via dalla camera, attigua alla sua propria, che egli occupava; non rientrava che all’alba. Allora, voleva anch’ella sfidarlo, scriveva a Paolo di venire a Castellammare, nello stesso albergo, accanto a lei. La sua tristezza si dissipava nel proposito di procurare all’uomo amato la felicità a cui aveva diritto. La sua salute rifioriva, ella era ancora giovane e bella: le restava ancora tanto tempo da rifar la sua vita!
Nell’attesa della gioia, le ultime traccie del male si dissiparono; il giorno dell’arrivo di Paolo ella era sfolgorante; gli uomini glie lo dicevano; egli stesso glie lo ripetè, piano, guardandola cogli occhi innamorati, alla terrazza dell’albergo, dinanzi al mare.
— Sei tu! Sei tu! Mi par di sognare! Più bella, più gentile, più seduttrice… Credevo di non rivederti più! Dopo tanto tempo, tanto! Quasi un anno!
— Otto mesi… — corresse ella, sorridendo.
— Otto secoli! Otto eternità!
Egli le mostrò dei fiori colti nel suo giardino, laggiù; tentò di prenderle una mano; ma, temendo che qualcuno li vedesse o li udisse, ella scongiurava, sommessamente:
— Non ora, non ora! — Poi, a voce alta, chiedeva: — Mi dica quel che ha sentito…
Egli le ripeteva le frasi delle sue lettere, diceva di non potere esprimere ciò che provava, insistendo per condurla via.
— Ascolta… verrò stanotte io stessa… m’aspetterai, verso l’una…
E nel silenzio dell’albergo addormentato, in punta di piedi sulle grosse stuoie del corridoio, con un zufolio alle orecchie, il cuore in tempesta, ella andò nella sua camera, cadde nelle sue braccia. Erano delle strette mute, convulse, disperate, con le quali si sostenevano a vicenda, sul punto di cadere riversi. Come Paolo tentava di parlare, ella gli metteva una mano sulla bocca, mormorando: «Taci! Taci!» e tratto tratto uno dei due si svincolava, porgendo l’orecchio, ascoltando paurosamente.
— A che rischio ti espongo! Se tuo marito…
— Per te! Sfido il mondo per te! Non m’importa la morte!
Poi, intrecciandogli le mani dietro il collo, posandogli il capo sul petto, chiudendo gli occhi, mormorava:
— Portami via! Andiamo via, per sempre…
— Sì, ora, sull’istante…
Delle ore che volavano come in sogno, un delirio d’amore rotto da fremiti d’ambascia senza nome, la visione della morte in mezzo all’irrompere della passione. Se suo marito fosse sopravvenuto! Se l’avesse scorta intanto che riguadagnava la sua camera! Però ricominciava, impavida, sorridendo all’idea di morire con Paolo:
— Morire insieme, nello stesso punto, stretti così!
E vederlo il giorno, dinanzi alle persone; sentirsi trattata come un’amica, con un rispetto devoto, mentre gli leggeva negli occhi le parole secrete: un altro raffinamento di gioia, un’altra specie di voluttà. Suo marito non vedeva nulla o non si curava di nulla; allora l’ardimento di lei cresceva: una notte aspettò Paolo nella propria camera, accanto a quella che Guglielmo lasciava deserta. Tragica, muta, gli si abbandonava sul petto, s’avvinghiava a lui, con tutte le fibre corse da un brivido, coi capelli drizzati in capo come da un soffio. Egli veniva senz’armi, suo marito avrebbe potuto ammazzarlo… Ah, se avesse fatto questo, se avesse fatto questo! Ella avrebbe negato dinanzi ai giudici, avrebbe negato anche fra gli spasimi della tortura, perchè l’assassino non andasse impunito! Nella tensione dolorosa del suo spirito, ella era continuamente in attesa d’una catastrofe, ne imaginava lo scoppio, si chiedeva: «Sarà per oggi?» Ogni occupazione le era insoffribile, nessuna distrazione aveva presa su di lei, non si fidava di leggere una pagina, nessuna finzione le pareva eguagliare la realtà dalla quale era stretta. Un succedersi di emozioni formidabili, che la maturavano, che le rivelavano la vita come per la prima volta, durante le quali ella sentiva che il suo destino si veniva compiendo…
Nelle ore di solitudine, ella esauriva la sua imaginazione cercando di intravederlo. Sarebbe fuggita di casa, con lui, alla luce del giorno?
Suo marito, piuttosto, avrebbe finito per lasciarla; allora ella sarebbe stata libera senza suscitare uno scandalo! Altre volte pensava che i due uomini potevan divenire intimi, che Paolo poteva restarle sempre accanto con la tacita connivenza di suo marito. Ma qualcosa si ribellava in lei a questa ipotesi: ella non si sarebbe mai adattata all’ipocrisia di una tale situazione. Sentiva il bisogno di qualche cosa di nobile e di meritorio nella stessa colpa; voleva sfidar dei pericoli, compiere dei sacrifizii. E la romantica idea della fuga tornava ad occuparla; ella si vedeva già partita, arrivata in una terra lontana, non sapeva quale, ma dove la sua vita sarebbe trascorsa come ella sognava.
La sua fantasia si mise a lavorare ancora più intensamente il giorno che Paolo, cedendo a malincuore ai suoi prudenti consigli, si decise a precederla di poco alla capitale. Vedendosi sola, condannata nuovamente all’esistenza monotona d’un tempo, con la mente esaltata dai recenti ricordi, ella si diceva che oramai quell’amore era tutto il suo bene al mondo. La sommessione devota di Paolo, il suo dolore nel lasciarla, la fede cieca che aveva posto in lei, acuivano i suoi rimorsi; allora, riconosceva la necessità di dare a quell’uomo una prova della sua passione. Quando la comitiva raccolta nell’albergo faceva delle escursioni, delle divertite, ella rifiutava di prendervi parte, si chiudeva in camera, scriveva a Paolo delle lettere di due fogli per dirgli tutta l’impazienza che aveva di raggiungerlo. Un giorno, improvvisamente dopo colezione, suo marito annunziò che bisognava tornare a Palermo.
Ella non disse nulla, non chiese il motivo di quella decisione, non cercò di combatterla. Andò a guardare il suo orologio: erano le due. Aveva il tempo di prendere il diretto. Cavò dalla cassa un abito da viaggio, dalla scatola un cappello, e mise tutto sul letto. Fu sul punto di chiamare Stefana; poi pensò che era meglio aspettare d’esser vestita. Come cercò di slacciare la sua veste da camera, un tremore la invase. Si fermò un poco, ma fu costretta a sedersi. Allora si disse, piano ma sdegnosamente: «Vigliacca! Vigliacca!»
Tutte le difficoltà materiali di quel passo le sorgevano improvvisamente dinanzi; provava la vertigine dell’ignoto e dell’imprevisto, udiva il clamore dello scandalo. Vedeva la stazione popolata di gente che la conosceva, si sentiva inseguita e raggiunta, pensava che Paolo poteva non essere a Roma. Non aveva denari, non voleva chiederne a suo marito. E con le labbra contorte da un amaro disprezzo, si ripeteva: «Vigliacca! Vigliacca!»
Era dunque lei che ripartiva per la Sicilia, che mancava alla parola data all’amante? Quest’idea le era sopratutto intollerabile; ella imaginava il corruccio di Paolo, lo ingrandiva, udiva le sue accuse, considerava più delle proprie ragioni quelle di lui. Per darsi animo, per farsi perdonare, gli giurava che la separazione sarebbe stata di corta durata; ma un’irrequietezza febbrile s’impadroniva di lei; a Palermo i suoi colloquii col marito si facevano più aspri; ella si metteva ad enumerare tutti i motivi di dolore che le aveva dati quell’uomo: i tradimenti, le derisioni, i disprezzi, le brutalità, gl’insulti. Egli non aveva avuto che dileggi per tutto quello che gli aveva dato: la verginità dell’animo e del corpo, il fiore della sua giovinezza, tutta sè stessa! Come le aveva amareggiata la vita! E nel ribollimento del suo rancore, ella quasi si mordeva le mani, all’idea dell’errore suo proprio, della rovina da lei stessa voluta, legandosi a quell’uomo quando tutto l’aveva messa in guardia contro di lui, lui stesso pel primo! Non v’era dunque più riparo a quel danno? Dov’era dunque l’arditezza, il coraggio che la gente le riconosceva? La gente, adesso, la compiangeva; sua zia l’esortava a farsi animo quand’ella prorompeva in lamenti sdegnosi. Ma non sapeva che lamentarsi! Perchè era così difficile spezzare una catena trascinata pesantemente da anni, romperla una buona volta con quel passato?
Paolo le aveva scritto da principio, poi le sue lettere si erano fatte rare e fredde; a un tratto cessarono. Adesso era lei che lo scongiurava, che gli chiedeva la pietà d’un rigo. Quando Stefana tornava dalla posta senza recarle nulla, ella non credeva alla donna, quasi se la prendeva con lei, restava un’intera giornata senza dire una parola a nessuno, col cuore oppresso, col bisogno di gridare, di piangere.
Il dissesto finanziario di suo marito era talmente cresciuto, che egli aveva dovuto cominciare a vendere; e i creditori insodisfatti minacciavano di togliergli di mano l’amministrazione del patrimonio suo e di suo figlio. Nell’avversità, egli si avviliva, diventava un altro uomo, fiacco, indeciso; ed ella sentiva che sarebbe stato ingeneroso da sua parte lasciarlo ora che stava per fallire. Però, quando egli veniva a narrarle i suoi imbarazzi, a chiedergli dei consigli, ella protestava:
— Cosa vuoi da me? Sono affari che ti riguardano! Perchè vieni a contarmeli adesso?
Una sera, che ella gli aveva risposto sgarbatamente, Guglielmo osservò, con una freddezza studiata:
— Sai che ti trovo molto mutata? Dacchè non siamo andati a Roma, sei diventata un’altra…
— E che vorresti intendere?
— Nulla! Avevi fretta di andare a Roma… c’erano delle ragioni che ti chiamavano lì?
Ella rispose, facendo sporgere il labbro, con un tono di superiorità offesa:
— I tuoi sospetti non arrivano alla suola delle mie scarpe…
Guglielmo finse di tossire.
— Che cosa vorresti dire? — ripetè allora ella, sentendosi avvampare. — Bada che non tollero le tue insinuazioni…
— Non fare la voce grossa!
— Faccio la voce che mi piace… Non ti permetto d’ingiuriarmi…
Alzatosi, egli le venne incontro, l’afferrò per un braccio.
— Sta zitta, sgualdrina… o ti piglio a pedate…
Liberatasi con uno sforzo violento, piantato lo sguardo su di lui, con l’espressione di un immenso stupore, ella gridò:
— Tu mi scacci? Tu mi scacci? Ma son io che ti scaccio…
E ad un tratto corse in camera sua. Aveva cominciato a vestirsi, al buio, battendo il capo contro lo spigolo dell’armadio, rovesciando delle seggiole, strappando dei bottoni; poi chiamò Stefana, con un grido.
— Prendi il tuo scialle… vieni con me…
La donna, esterrefatta, congiunse le mani:
— Non dirmi nulla, o ti strozzo! Lo scialle…
Degli scoppii di tosse nervosa le laceravano la gola; le mani tremanti non riuscivano ad agganciare la veste. Rapidamente, a testa alta, guardando dritto dinanzi a sè, seguita dalla donna che mormorava: «Vergine santa! Vergine santa!» attraversò la casa senza incontrar nessuno, scese le scale, uscì nella via.
Come sua zia se la vide dinanzi, pallida e sconvolta, esclamò:
— È finita?… Sia come vuol Dio!
Nessuno chiuse occhio, quella notte. Aggirandosi irrequieta per le stanze, stordita dalla sua risoluzione, ma come liberata da un’enorme gravezza, ella non udiva i discorsi della zia, che le dava dei consigli, che tentava ancora di persuaderla a tornare con suo marito se, ravveduto, egli avrebbe promesso formalmente di mutare condotta. Lo zio, fatto un dispaccio al nonno, uscì in cerca di Duffredi; tornò a riferire che egli era contento di quella soluzione. Però anche lui diceva di aspettare il pentimento, contava sugli imbarazzi finanziarii, sull’influenza che avrebbe potuto spiegare l’intervento del nonno.
La notizia s’era propagata in un lampo; il domani, delle persone venivano a trovarla: ad una voce, le davano ragione: aveva veramente sofferto abbastanza con quell’uomo, era stata troppo buona a sopportarla tanto… Egli si meritava quella lezione; ma si sarebbe certamente pentito, sarebbe venuto a scongiurarla di tornare a casa sua.
Ella lasciava dire, cogli occhi ardenti, col corpo indolenzito da una interminabile notte di veglia. Stefana aveva già consegnato al telegrafo il dispaccio diretto ad Arconti: «Je suis libre. Attendez-moi dans quelques jours. N’écrivez pas.»