IX.

Quella lunga parentesi che era stata la sua dimora a Milazzo si chiuse d’un tratto; appena entrata in casa della zia, ella riprese la vita di prima come se non l’avesse mai interrotta. Giulia, ora baronessa Turi, venne a trovarla per la prima, le chiese perdono del suo silenzio; ma le erano accadute tante cose!
— Sei contenta? — domandò lei.
L’amica fece spallucce, esclamando giocondamente:
— Eh, sai! Bisogna adattarsi!
Bice Emanuele e Anna Sortino erano sempre quelle d’un tempo: una tutta poesia, l’altra tutta prosa. Del resto, Anna era anche lei fidanzata, col marchese Pucci; talchè Giulia restava sempre la sua fida compagna. Le aveva presentato suo marito: un bell’uomo, un po’ troppo forte secondo il suo gusto, ma pieno di forme; e stavano sempre insieme, come sorelle. La società, intorno ad esse, non era mutata: la Gelia, un poco più vecchia, era sempre circondata da antichi amici e da nuovi sospiranti; Matilde Gerosa aveva una febbre più ardente negli occhi misteriosi, ed al suo apparire, come prima, un senso di pauroso rispetto faceva ammutolire i più ciarlieri. Enrico Sartana era sempre fuori e non aveva ancora preso moglie; sua madre veniva spesso a far visita alla zia, come se nulla fosse accaduto tra loro: la prima volta che la vide, l’abbracciò con effusione, la chiamò figlia mia, come un tempo. Il babbo stava a Venezia, si diceva anzi che non sarebbe più tornato in Sicilia. E i Crociati eran sempre gli stessi; però ella scorgeva, centro di attrazione di tutti gli sguardi, un giovane sconosciuto, elegantissimo, che s’incontrava dovunque, in carrozza, guidando una meravigliosa quadriglia di roani, o fermo in sella come una figura da romanzo illustrato, o a piedi tra lo stormo degli altri Crociati.
— Chi è quello li? — aveva chiesto all’amica.
Giulia sorrise un poco, prima di rispondere.
— Guglielmo Duffredi… Duffredi di Casàura… Ti viene proprio nuovo?
— Assolutamente!
— Credevo che lo conoscessi…sai cosa si dice? Che tuo nonno t’ha condotta qui perchè egli ti veda…
Ella si morse le labbra. Ancora un’esibizione, ancora un’offerta che facevano di lei. Ma il corruccio, questa volta, svaniva in un grande stupore. Quell’uomo che era fra i più invidiati in tutta Palermo, avrebbe potuto dunque divenire suo marito? Lo stupore cresceva, mano mano che ella apprendeva qualche cosa di nuovo sulla sua ricchezza, sul lusso di cui si circondava, sui suoi successi mondani, sui suoi viaggi a Londra, a Pietroburgo, sui rifiuti che aveva opposti a partiti più vantaggiosi di quello di lei. Era d’una nobiltà quasi regale: i Duffredi discendevano da Umfredo, figlio naturale di Drogone d’Altavilla conte di Puglia, uno dei tanti fratelli di Roberto il Guiscardo, i fondatori della dinastia Normanna! E la zia e lo zio, con un’aria di mistero, parlavano di quel progetto, convenivano che il nonno aveva avuto ragione, perchè un matrimonio come quello lì era il sogno di tutte le ragazze. Adesso, avevano la casa in rivoluzione: i decoratori, i tappezzieri, i fornitori d’ogni genere andavano e venivano tutto il giorno; si facevano preparativi grandiosi per il carnevale, per delle feste in cui i due giovani dovevano incontrarsi. E la voce si spargeva, dei complimenti le venivano sussurrati all’orecchio; però, quando ella incontrava Duffredi, egli non la guardava neppure, tirava dritto, sferzando i cavalli o confabulando cogli amici. L’interesse e la curiosità di lei crescevano, miste a un dispetto, a una specie di sfida ch’ella lanciava a sè stessa. Perchè non la notava? La trattava come una provinciale? Non era buona ad attirarlo?
E la sera che le fu presentato, intanto che il giovane s’inchinava, ella abbassò appena il capo, di traverso, continuando a parlare con Giulia, animatamente, di tante cose, senza però saper troppo bene quel che diceva, guardando con la coda dell’occhio lui, che la guardava anch’egli, da lontano. Pieno di distinzione, di eleganza, con la sua carnagione leggermente dorata, coi suoi capelli nerissimi, i baffi castagni, quasi biondi, il viso magro, il naso affilato, un po’ troppo lungo, ma di razza
I giovanotti cominciavano a sollecitare gl’impegni; nessuno però veniva da lei, con la tacita intesa che ella dovesse ballare col pretendente; però non veniva neppur lui, occupato a discutere in un gruppo, dinanzi a un balcone, a voce un poco alta. Le si appressò, infine, quando stavano per dare il segnale della danza.
Ballava bene, ma tenendosi troppo discosto; ella avrebbe voluto dirgli: «Stringa dunque!»
— La signorina — le chiese con voce un poco cascante — non era venuta prima d’ora a Palermo?
— Sì, due anni fa.
— Io sono stato a Milazzo; non capisco come ci si possa vivere.
Era la verità; però, a sentirla dire da un altro, in tono leggermente sprezzante, ella si sentiva quasi umiliata. Nondimeno, gli domandò:
— Vi conosce qualcuno?
— Sì, Luigi Accardi; fummo insieme in collegio.
Ella restò con un senso di stupore dinanzi a quello strano incontro. Adesso tutti si contendevano un impegno con lei; ella passava da uno ad un altro ballerino, adulata, ammirata; e come l’animazione del ballo cresceva, ella dimenticava Duffredi e il matrimonio, con una turbinosa visione negli occhi, tutta al piacere della festa.
Il domani, entrando nella camera da lavoro della zia, vi trovò la famiglia raccolta a confabulare.
— È come se fosse fatta — insisteva il nonno. — Fate conto che verrà a farla.
— Che cosa? — chiese ella.
— La domanda di Duffredi.
E tutti cominciarono a spiegare l’eccellenza di quel partito. Non si parlava della nobiltà, fra le prime del mondo; gli mancava, è vero, un titolo, il rappresentante del ramo diretto essendo suo cugino il principe di Casàura; ma quel cugino aveva cinquantacinque anni, e un solo figlio naturale, ragione per cui il titolo di Casàura sarebbe venuto, col tempo, a lui o alla sua discendenza. Intanto egli aveva una grande sostanza — bastavano i tre feudi di Caltanisetta! — e un vecchio zio malaticcio, il marchese di Lojacomo, che viveva con lui e gli avrebbe lasciata tutta la sua sostanza.
— È una fortuna! Una vera fortuna! — diceva la zia.
— Davvero! — confermava suo marito.
— Tu cosa dici? — chiese il nonno. — Parla, rispondi…
— Che cosa volete che vi dica? Faccio quel che volete voi.
Non era vero. Ella esultava, in cuor suo; non avrebbe potuto sognare una fortuna più grande; aveva ben letto un’invidia secreta negli occhi delle sue antiche nemiche. Quell’uomo incarnava il suo tipo di distinzione e di eleganza; ed ella provava per lui un singolare contrasto di impressioni: le piaceva, trovando che aveva un naso da Pulcinella; lo ammirava malgrado, anzi a cagione della sprezzante superiorità che aveva nell’accento e nell’attitudine.
Il sabato seguente egli non venne. La serata passò meno animata, il nonno era di cattivo umore, v’era nell’aria qualche cosa che ella non capiva, stordita come sempre dal piacere della danza, dalle lodi che raccoglieva. Il giorno dopo, una collera del nonno annunziò una cattiva notizia. Duffredi era partito per Napoli; ma, spiegava la zia, sarebbe tornato presto — il tempo di sistemar degli affari. Perchè dunque non aveva fatta la domanda prima d’andarsene? Ella non dava però molta importanza a questo; avrebbe voluto piuttosto che egli avesse cercato di vederla da sola, di scriverle, per dirle ciò che provava per lei, il bene che le voleva, la felicità che sperava. E se non le voleva bene? Tutta sola, ella si strinse un poco nelle spalle. Infine! Ne avrebbe trovato un altro!
La sera venne da lei Anna Sortino, che sposava a giorni. Le parlò del suo corredo, del viaggio di nozze, le annunziò che Giovannina Leo era promessa con Cutelli.
— Mi fa piacere — disse ella.
— Si, ma è cattiva, sai! Non va dicendo che Duffredi non ti vuole, che è partito perchè ha una relazione a Napoli? Anche se fosse vero, sarebbe una malignità rallegrarsene, come fa lei!
Allora, repentinamente, all’idea che quell’uomo le sfuggiva, che la gente avrebbe riso di lei, tutta la sua superbia s’impennò: no! egli sarebbe stato suo! ella avrebbe vinto! Poichè un’altra donna lo amava, egli le appariva esaltato, più degno d’amore, ed ella si sentiva impegnata a contenderlo a quell’altra, a spiegare nella lotta tutta la forza che le veniva dalla sua purezza di vergine, dal suo candore incontaminato.
Egli tornò, venne da lei; ma con un’aria triste, con un’espressione più interessante. Ed ella imaginava che quell’altra lo avesse lasciato, che il suo cuore fosse sanguinante, che egli avesse bisogno d’un conforto, che lo cercasse nell’amor sano e forte d’una sposa; e si sentiva attirata di più verso lui, tutta disposta a questa pietosa missione.
Il nonno stava fuori delle giornate intere, tornava sopra pensieri; degli amici, don Gaetano Linguaglossa principalmente, lo venivano continuamente a trovare, chiudendosi in camera con lui, come se ordissero una congiura. Finalmente, ella comprese che qualche cosa dovesse esserci per aria: una volta Duffredi venne di giorno, a domandare del nonno; restò un pezzo con lui; poi passò a salutare le signore, rapidamente, e andò via…
Quando il nonno disse che era venuto a parlare del matrimonio, che fra giorni avrebbe fatta la domanda formale, ella restò a capo chino, a guardare per terra, in preda a un sordo scontento. Ella dunque non contava per nulla? Non le diceva neppure una parola d’amore? Era dunque una cosa, un oggetto da barattare? Tutto il suo romanticismo insorgeva contro quella prosa, contro quel mercato; le dava un sottile rimpianto dei poetici amori giovanili, delle emozioni che Enrico Sartana e Luigi Accardi le avevano fatto provare.
Passeggiando di su e di giù per la sua cameretta, in preda a una concitazione crescente, dei propositi di scandalo le frullavano per il capo: ella avrebbe risposto un no tondo e netto alla proposta concreta, ella non si sarebbe arresa, a costo di soffrirne, a costo di morirne! Imaginava che egli intendesse farle un’elemosina, sposandola; e voleva metterselo sotto i piedi, rifiutarlo ancora se, apprezzandola tardi, egli le fosse morto dinanzi. Poi ella se la prendeva con sè stessa, con le stranezze della sua natura; ma tornava per questo a persuadersi che nessuno riusciva a comprenderla!
Il sabato venturo, quando cominciò a venir gente, ella si studiò di nascondere la sua agitazione. Le signore la baciavano con effusione, si avvicinavano alla zia, mormorando dei «mi rallegro» cogli occhi rivolti a lei; gli uomini le davano delle strette di mano più calde, o s’inchinavano più profondamente. Ella aveva alzato fieramente il capo, tirandosi i bracciali verso il gomito, fiutando l’aria con le narici dischiuse, in attesa della lotta. A un tratto, un piccolo sciame di amiche entrò, con delle mani levate a salutare, con delle brevi retrocessioni reverenti. Ella si vide circondata, intanto che ciascuna esclamava, con accento di devozione e di rispetto:
— Signora Duffredi!
— Donna Teresa di Casàura!
— Signora Duffredi di Casàura!
Subitamente, il suo sdegno, la sua fierezza ribellata si stemperavano in una compiacenza trionfante, in una voluttà di amor proprio esaltato, in una ebbrezza di dominazione, durante la quale ella si sentì fatta più alta, le parve di oltrepassare con la sua statura la statura di quelle amiche prosternate.
— Ci accorderai ancora la tua protezione?
— Non bisognerà domandarti udienza per vederti spero?
— Dammi un bel bacio!
Adesso tutte la baciavano, ed ella non pensava più a nulla, nella dispersione di tutta la sua volontà, col solo bisogno di assaporar quel trionfo… era dunque vile? Si lasciava vincere? Qualcuno s’era messo al pianoforte, eseguiva un ballabile di Chopin: la musica affrettava i battiti del suo cuore; tutti gli occhi eran fissati su di lei; e Duffredi, salutata la zia, le si dirigeva incontro. Ella non vide più chiaro, non pensò più nulla, fin quando il giovane, fermatosi accanto a lei, disse sottovoce:
— Signorina, suo nonno m’ha fatto l’onore di concedermi la mano di lei… però… — ella adesso tremava da capo a piedi — bisogna che lei stessa dica se è disposta ad accordarmela-.
Il sangue le si ritirò intorno al cuore: un’angoscia ineffabile. Come baleni rapidissimi, dei pensieri le solcavano la mente, tutti insieme: l’amore che egli non le confessava, la voce che lo diceva legato ad un’altra, i suoi propositi di rifiuto e il bisogno di uscire da quella vita, la sua ebbrezza vile di poco fa e la paura di darla vinta alle sue nemiche; e tutto questo si confondeva, si compendiava in una domanda che, mentre Duffredi parlava, ella credeva quasi di formulare ad alta voce: «Che fare? Che fare?» Appena egli ebbe finito, aspettando una risposta, delle parole le uscirono dalle labbra, inconsciamente, senza che ella ne intendesse il senso:
— Se il nonno ha detto di sì…
— Grazie… — mormorò egli; e subito il nonno, la zia, lo zio, le amiche la circondarono.
— Il Signore ti benedica! Baciami, cara… qua la mano! Teresa! I miei augurii… ma li mangeremo presto questi confetti? Io protesto! E a me non dici nulla? Ah, sorniona, le fai di nascosto? Vieni un po’ qui!
Delle strette, degli abbracci, delle parole sussurrate all’orecchio: «Come hai fatto a conquistarlo? T’invidiano, sai!» e un coro di esclamazioni ammirative: «Che bella coppia! Sembravano destinati l’uno all’altra!» una dolcezza di lodi che le scendeva dritta al cuore, le accendeva gli sguardi, esaltava il suo spirito, gonfiava il suo petto, intanto che ella pensava: «È finita! Non si può tornare indietro!»
Duffredi, tra un crocchio d’uomini, riceveva delle congratulazioni da canto suo; era anch’egli animato in viso, pareva insofferente di star fermo, veniva a mettersele un poco vicino, scambiava qualche parola, s’allontanava nuovamente. Perchè non le stava sempre al fianco? Perchè non le diceva nulla all’orecchio, qualcuna di quelle espressioni che fanno chinare gli sguardi e affrettare il respiro; perchè non se la prendeva sotto il braccio? Ella avrebbe voluto stringersi a lui, dirgli con quell’atto che dipendeva ormai tutta da lui! Sarebbe stato per un’altra volta, quando non avrebbero avuto dinanzi tanti spettatori. Egli tornava, infatti; veniva quasi ogni giorno; però ella aspettava sempre che le dicesse una parola dolce. Aveva avuti dei gioielli magnifici, che le amiche non si stancavano di ammirare; ma una tenera frase d’amore non le avrebbe fatto un piacere men grande.
Lo zio di lui, inchiodato sempre a casa dalla podagra, le scrisse una bella lettera, che la commosse più di quella mandata dal babbo da Venezia. Era un gentiluomo dello stampo antico; in gioventù aveva fatto parlare di sè tutto il regno delle Due Sicilie, vivendo in mezzo al fasto della Corte. Quando ella andò nella sua futura casa, il vecchio volle alzarsi ad ogni costo, le venne incontro fino alla scala, le baciò galantemente la mano. Ella gli offrì il suo braccio per ricondurlo fino alla poltrona, e le bastò quel breve tragitto per conquistarlo.
La casa era antica, ma signorile, tutta divisa a stanzoni enormi dalle vôlte alte come cupole, dai pavimenti lisci e lucidi come specchi su cui si riflettevano le linee dei mobili rococò. Ella ne aveva cominciato il giro col cuore in festa, tutta confortata dalla simpatia dimostratale da quel bel vecchio; però Guglielmo era molto freddo, precedeva la comitiva quasi infastidito, si allontanava, batteva un piede. Come si trovarono soli un momento, dal dispetto ella fece per raggiungere gli altri.
— Non si passa! — esclamò lui, preso a un tratto da una bambinesca voglia di scherzare.
Ella disse, freddamente, sul punto di prorompere:
— Lasciatemi passare…
— Cos’hai? Sei in collera?
E le prese delicatamente una mano, guardandola negli occhi. Ella cominciò a tremare, intanto che il giovane le girava un braccio attorno alla vita, accostava la sua guancia alla sua, appoggiava tempia contro tempia.
— Poverina… Poverina…
E con un impeto frenato, cominciò a suggerla a baci. Ella avrebbe voluto dirgli: «Sì, sono tua! Tutta tua!» dalla gratitudine per quella buona parola; ma sottraendo un poco le sue guancie e le sue labbra al fuoco di quei baci, chiedeva invece, sollevando lo sguardo fino agli occhi di lui:
— Mi vuoi bene, di’, mi vuoi bene?
— Sì… sì…
La voce del nonno si avvicinava; egli si ricompose dicendo un gesto di fastidio. Però ella uscì trionfante da quella casa, dalla sua casa, vedendo fugati tutti i suoi dubbii, guardando all’avvenire con fede sicura. Trovava Duffredi fatto secondo i suoi desiderii; non era molto istruito, ma possedeva una grande competenza mondana, conosceva la genealogia delle più grandi famiglie d’Europa, era amico di diplomatici, di ufficiali stranieri; sapeva la storia di tutti i cavalli vincitori del Derby e del Grand Prix; e certi giorni che il discorso s’avviava su qualcuno di quei temi, non finiva più di parlare, allegro, vivace; certi altri, però, un pensiero molesto errava sulla sua fronte. Non s’occupava dei preparativi del matrimonio, diceva: «Fate voi… fate come volete…» poi si correggeva: «Come vuole Teresa.» Questo temperava per lei la brutta impressione del fate voi quasi annoiato. Ella si diceva che bisognava prenderlo col suo carattere, com’era fatto. Quella sua specie di freddezza stanca accresceva il valore delle sue lodi; una volta le aveva detto: «Come sei bellina!» un’altra l’aveva trovata elegante. Ma le incertezze di lei rinascevano, per un voi datole invece del tu, per un rifiuto di andar fuori con lei a far delle compere. Quando egli aveva espresso un proposito, vi si ostinava; ella restava un giorno di malumore. Poi si consolava ancora se egli era più espansivo, più affettuoso, come il giorno che andarono alla sua villa di Misilmeri. Era fuori del paesetto, in una posizione amenissima, in mezzo a giardini d’aranci. Mentre ne facevano il giro, Guglielmo le diceva che vi avrebbero passato il venturo autunno, perchè in inverno, se lo zio marchese stava meglio, se ne sarebbero andati a Roma, vi avrebbero messo casa. E in giardino, come furono soli, la baciò a lungo, abbracciandola fitta, ripetendole che le voleva tanto bene. Così, ella non s’inquietava più, se talvolta delle ombre pareva velassero la fronte di lui, se restava qualche giorno senza venire: era sicura dell’amor suo, era felicissima. Egli pareva impaziente che i preparativi fossero finiti, affrettò la sottoscrizione del contratto. Fu una festa intima, coi soli parenti e qualche amico appena. Il nonno le costituiva in dote la Rocca, il Gelso e le altre proprietà che aveva acquistate di recente; il babbo le assicurava una rendita di cinquemila lire: tutt’insieme un valore che s’avvicinava al milione. Ella comprendeva poco dei patti stipulati, dei termini curialeschi; sapeva che da quel momento, dal momento che avevano firmato, erano marito e moglie. Guglielmo le restava a fianco, dinanzi al balcone, parlando dell’avvenire, del giorno che sarebbero stati uniti per davvero, del viaggio di nozze che avrebbero fatto, appena sposati, fino a Parigi.
— Faremo presto… appena sarò tornato…
Ella credè d’aver udito male.
— Tornato? Tu vai dunque via?
— Per pochi giorni soltanto… Vado a Napoli, ho degli affari…
Ella esclamò, fissandolo negli occhi:
— Tu parti? Ora? Mi lasci ora?
— Ma non ti lascio! Vado e torno, ti dico; quindici giorni, al più…
A un tratto, prendendolo per una mano, ella cominciò a scongiurare, a bassa voce:
— Non andare, Guglielmo. Se mi vuoi bene, non andare! Andremo insieme, affretteremo le pratiche… Hai aspettato tanto, non cadrà il mondo se tarderai un altro poco! Fammi questo favore: è il primo che ti chiedo! Sono superstiziosa, non mi lasciar sola in questi giorni, mi parrebbe un triste presagio…
— Ma che romanticherie!
— Fammi questo piacere, dimmi di sì, che non parti… dimmi di sì!
Egli rispose:
— Non insistere, è necessario.
Ella lasciò la sua mano, non disse più nulla, aspettò di esser sola per nascondersi il viso tra le palme, per mormorare scrollando il capo: «Che errore! Che inganno!» Un velo le cadeva dagli occhi: egli non l’amava, non era suo, non era stato mai suo! Ella non poteva nulla su di lui! Che cosa era dunque la sua seduzione se quell’uomo le sfuggiva così? Allora, il proposito di romper tutto, di dirgli: «Vi rendo la vostra parola, tutto è finito tra noi!» tornava a tentarla; ma ella s’accorgeva di non poterlo più tradurre in atto, perchè voleva bene a quell’uomo, perchè si sentiva legata a lui dai baci che le aveva dati, dalle speranze che le aveva fatto nutrire… Che importava? Era dunque meglio legarsi per tutta la vita a chi non l’amava? Nulla v’era di compromesso: quel foglio di carta poteva lacerarsi, dei matrimonii s’erano rotti la vigilia d’andare alla chiesa. Ella avrebbe ripresa la propria libertà; sarebbe stato soltanto più difficile trovare un altro partito, quella rottura le sarebbe riuscita di pregiudizio. Che importava? Avrebbe ricominciata la sua vita di fanciulla, si sarebbe rassegnata alla solitudine, alla tristezza… e sconsolata, impietosendosi al suo destino, rompeva in singhiozzi.
Ma come già mormoravano che tutto fosse rotto, che egli non sarebbe tornato, nè presto nè tardi, come le sue nemiche le venivano innanzi con un’aria dolente, quelle persuasioni cedevano subito ad una sfida ostinata: «No, sarà mio! dovrà esser mio!»
La zia, col suo buon senso, cominciava già a fare delle osservazioni, a parlare liberamente: «Che razza di fidanzamento era quello?» e le consigliava di sciogliersi; ma ella rispondeva:
— No! adesso è tardi! Me l’hanno voluto dare, adesso lo voglio!
Ella avrebbe sofferto tutto, perchè la gente non ridesse alle sue spalle, perchè quella rottura non facesse le spese di tutte le conversazioni. Egli le scriveva, annunziava il suo prossimo ritorno, ed ella adesso lo difendeva:
— Se mi scrive che verrà! Se vuole che si faccia presto!
Andava fuori come prima, parlava a tutte della prossima cerimonia nuziale, mostrava dovunque un viso giocondo. Improvvisamente, un giorno, alla passeggiata della Libertà, impallidì come se uno spettro le fosse apparso dinanzi: in una victoria rapidamente incrociatasi con la sua carrozza scorse Enrico Sartana: il giovane la guardò fiso, senza cavarsi il cappello.
Un tumulto le si scatenò nell’anima. Qual giuoco del destino le metteva dinanzi quell’uomo, mentr’ella passava per così dure prove? Che cosa voleva egli dire con quello sguardo, con quell’insulto? Che la disprezzava? Che non l’aveva dimenticata? Ed ella, pensava ancora a lui, se al solo vederlo s’era sentita agghiacciare? Che altro avrebbe fatto egli adesso? Avrebbe cercato di incontrarla? di rammentarle il passato? Ella esclamava, stringendosi la fronte: «Mio Dio! mio Dio! perchè tutto questo deve accadere a me?»
Si diceva, per darsi forza: «Io sono d’un altro! Non posso, non debbo ascoltarlo!» Ma quell’altro non l’amava, non tornava, non le scriveva! E l’impegno preso dinanzi al mondo? E i contrasti che sarebbero scoppiati in famiglia? Avrebbe voluto partire, raggiungere Duffredi, rivelargli tutto, provocare una spiegazione; o piuttosto confidarsi a sua zia, chiedere consigli a Giulia, o piuttosto ancora mandare Stefana ad Enrico… non sapeva ella stessa che cosa. Allora, invocava la memoria della sua mamma. Bambina, rammentava che il nonno, per distrarre la mamma agonizzante, le aveva narrato un giorno un romanzo in cui un cavaliere, andato a morire in Palestina per liberare il Santo Sepolcro, aveva ottenuto dal Signore di ricomparire tre volte sulla terra, nel corso dei secoli, quando un mortale pericolo avrebbe minacciato una persona della sua stirpe. Ella si chiedeva se la sua mamma, di lassù, non vedeva il suo pericolo, se non poteva soccorrerla…
Inaspettato, Guglielmo tornò, di buon umore, affettuoso, con delle casse di regali — e Sartana non s’era fatto vedere. Ella giunse le mani, rese le più fervide azioni di grazie al buon Dio, alla santa anima che l’aveva protetta.
— Ma perchè sei restato tanto tempo? — disse al fidanzato, con un tono di dolce rimprovero.
— Ho pensato per te…
— Per me… ed a me?
— Si capisce!
Sentiva rinascersi, tornava da morte a vita. Adesso tutto era pronto: le carte, il corredo, la casa; e il tempo pareva avesse l’ali.
I finimenti di brillanti, gli abiti regalati dallo sposo erano una magnificenza; i doni che ella raccoglieva uno più bello dell’altro; però restava col secreto desiderio d’un mazzo di fiori, tutto bianco, che il suo fidanzato avrebbe potuto mandarle le mattine di quegli ultimi giorni. Ella non esprimeva quel desiderio perchè, chiesto, l’omaggio non avrebbe avuto più valore.
Guglielmo, a misura che la data del matrimonio s’approssimava, non le pareva più come al suo ritorno da Napoli; ma ella non faceva più caso di queste intermittenze di contegno; soltanto, il giorno che si doveva andare al Municipio, come tutti erano pronti, egli tardava, tardava, non compariva. L’inquietudine cominciava a nascere in tutti; temevano che si fosse sentito improvvisamente poco bene, mandarono a casa sua: egli arrivò finalmente, pallido in viso, scusandosi. Le carrozze partirono, una dopo l’altra, in processione; la gente si voltava, ferma sui marciapiedi. Accanto alla zia, ella non diceva nulla, guardando lo scorrere della folla, trovando che quei momenti non le davano l’emozione sognata. A un tratto, fermi ai Quattro Canti, scorse un manipolo di Crociati che stavano a contemplare la sfilata delle
carrozze. Ella si buttò rapidamente indietro per non dar loro il gusto di scorgerla, di far dei commenti. Una folla di curiosi, al Municipio; il Sindaco in persona che cingeva la fascia tricolore, un sommesso che Guglielmo rispondeva alla sua domanda, un più sicuro che rispondeva ella stessa; e un gran rimescolìo, sorrisi, strette di mano. Di nuovo in carrozza, alla fotografia Ricciardi: un’idea del nonno, che lei aveva combattuta, parendole una cosa borghese quel gruppo che il fotografo combinava lungamente, intanto che Guglielmo frenava a stento la propria impazienza. Ed a casa, fino a tardi, della gente che andava e veniva, un andirivieni di persone di servizio, delle discussioni sull’ora in cui doveva celebrarsi, il domani, il matrimonio religioso.
Prima delle cinque, avrebbero fatto a tempo a imbarcarsi subito dopo; ma il nonno pretendeva che s’aspettasse un altro giorno ancora, volendo far celebrare la cerimonia di sera, in gran gala, e chiudere con un ballo. Ognuno dava consigli, ella non aveva volontà. Guglielmo disse, alzando le spalle, sul punto di andar via:
— Fate quel che vi piace.
Ella lo prese in disparte; gli chiese, ansiosamente:
— Cos’hai? Sei seccato?
Egli rispose:
— Sai, tuo nonno ha certe idee! Vuol tirare un fuoco d’artifizio? Non siamo fatti per intenderci.
E adesso, sì, ella preferiva che si aspettasse un altro giorno ancora, che si ritardasse ancora il momento decisivo, col cuore chiuso da una vaga, indefinibile ambascia…
La volontà del nonno aveva trionfato; la cerimonia era fissata per le sei della sera successiva. Di buon mattino, erano stati a confessarsi; la mezza giornata era trascorsa lentissimamente; poi subito erano cominciati i preparativi della toletta. Stefana piangeva, aiutandola a passarsi la veste nuziale, appuntandole sul seno il fior d’arancio fresco che le aveva colto lei stessa; anche Miss e la zia avevan gli occhi un po’ rossi: ella faceva la forte, s’irrigidiva contro l’emozione; ma agiva come per effetto d’una spinta esteriore, sentendo che bisognava andare fino in fondo, fatalmente, a qualunque costo. Ricominciava l’andirivieni degli intimi, la processione delle carrozze, la folla dinanzi al portone ed in chiesa. Un gran tappeto per terra, un acuto profumo di fiori, l’altare splendente come una raggiera. Ella non udì più nulla, vide solo la gran vampa delle faci, pensò alla sua mamma, alla sua sorellina, alla fanciulla che moriva in lei, a quel cadavere che si sarebbe trascinato sempre con sè, e due grosse lacrime le rigarono il viso. Adesso bisognava che ella rispondesse ancora; inghiottito il suo pianto, alzò il capo e disse:
— Sì.
— Cos’hai? — chiese Guglielmo, chinandosi un poco verso di lei.
— Nulla… nulla!
Quella parola la riconfortò tutta: non toccava a lui adesso di proteggerla, di sostenerla, di amarla? Egli le diede il braccio, traversò al suo fianco la piccola chiesetta, prese posto allato a lei, in silenzio.
In un impeto di tenerezza, ella gli buttò le braccia al collo.
— Guglielmo!
— Teresa… — E le prese la mano.
Ella si scosse tutta come per un brivido. Gli disse:
— Sono tua, adesso…. per sempre! Non ho che te al mondo!
— Sì… sì… poveretta…
E, passatole un braccio alla vita, la baciò lievemente in fronte. Salendo le scale di casa, ella s’appesantiva sul suo braccio. S’era appena buttata sopra un divano, spossata dall’emozione, che ricominciava lo stordimento: a tavola, come il servizio s’inoltrava, tutti avevano delle cere gioconde, i discorsi s’incrociavano da un capo all’altro, gli augurii, i commenti; poi, come arrivò gente, tutti passarono nel salone. Adesso, ella era nuovamente animata; aveva preso poco cibo, ma il vino di sciampagna le dava alla testa. Il suo trionfo, in mezzo alla festa, era completo, assoluto: ella si conteneva un poco, perchè il brio vivace non le pareva de mise. Guglielmo, dopo aver fatto un giro con lei, la cedè agli altri giovinotti con la miglior grazia del mondo.
Sopravvenivano altri invitati, ella era costretta a traversare continuamente il salone, accompagnando le signore, andando a salutare le amiche che le facevano cenno da lontano. Ad un tratto si vide dinanzi la Sartana, che le tendeva le braccia, sorridendo. Ella si guardò istintivamente intorno: Enrico, in fondo al salone, parlava allegramente con suo marito, stringendogli la mano; poi s’avanzò verso di lei.
Ella chinò un poco gli occhi, dicendosi mentalmente: «Coraggio! Ci siamo!» e come le fu vicino, lo guardò in viso.
Egli disse, stringendole la mano:
— Posso presentarle anch’io le mie congratulazioni?
Ella strinse forte la sua mano, rispondendo:
— Sono fra le più gradite!
Un momento, rimasero guardandosi; la fisonomia di lui prendeva adesso un’espressione di sottile ironia.
— Vi rammentate — riprese, piano — degli augurii che un tempo voi credeste di farmi? Come sono mutate le circostanze, e come sono invertite le parti!
Ancora, ella chinò gli occhi. Disse, senza rialzarli, guardando l’anellino nuziale lucente al suo dito:
— Se vuole essermi amico, non parli di questo, la prego… pensi… che è troppo tardi, che io non potrei più ascoltarla.
Il giovane fece col capo, col braccio, un gesto di consenso.
— È vero; mi perdoni. — Poi aggiunse, rapidamente: — Ciò non impedisce che io soffra, che domani sera…
Col seno allevato dal respiro frequente, ella alzò uno sguardo severo su di lui. Egli tacque. Per fortuna, nessuno era intorno a loro; e, malgrado i pericoli di quella spiegazione, ella vi trovava un fascino arcano, era come ammaliata da quella romanzesca fatalità.
Il giovane chiese:
— Mi accorderà una danza? — ma, prima che ella rispondesse, soggiunse: — No, non voglio…
— Come le piace!
Della gente adesso s’appressava; ella gli disse:
— M’offra il suo braccio, m’accompagni di là…
Come furono un istante soli, egli riprese:
— Mi dà un bocciuolo di quei fiori? — e guardava il fior d’arancio olezzante sul suo seno.
Ella esitò un istante; poi staccò un fiorellino e glie lo porse.
Il turbine della festa la riprendeva. Ella era pentita d’avere accondisceso a quella strana richiesta; poi si diceva, con un sorriso che non sapeva bene donde le venisse: «Povero ragazzo!» E gli eventi rapidi, incalzanti, straordinarii, la stordivano, le davano il bisogno d’un istante di quiete, di solitudine, di raccoglimento.
Quando tutti furono andati via, Guglielmo si congedò anche lui. Lo zio esclamò:
— Pazienza; ancora ventiquattr’ore!
Ella accompagnò suo marito fino all’uscio. Egli la strinse forte, le pose sulla bocca dei baci umidi.
— A domani!
— A domani…
Tornò a lenti passi, con le braccia pendenti lungo i fianchi, piena della vaga paura dell’ignoto, del mistero che l’attendeva. Sua zia l’accompagnò nella sua cameretta; ella pensava che forse le avrebbe detto qualche cosa.
La zia diceva:
— Se fosse qui tua madre! Che consolazione sarebbe per lei… le dorrebbe di perderti, sì; ma noi donne siamo destinate a questo… ci siamo passate tutte… tu puoi chiamarti fortunata… hai un marito giovane, con un bel nome, in una posizione invidiata… dipende da te ch’egli ti voglia bene e ti faccia felice… sai che i mariti sono come noi ce li facciamo… tutto dipende dall’accortezza, dalla prudenza della donna… tu potrai molto su di lui, vedrai!
Sì, ella avrebbe contato su di sè stessa, sulle sue forze per guadagnarsi il cuore di suo marito; ma come più il momento in cui ella avrebbe dovuto assumersi questa missione si avvicinava, ella sentiva la propria debolezza, la passività impotente del suo sesso, la sua ignoranza del mondo — e la forza dell’uomo, la forza della sua volontà e dei suoi muscoli… Ella si rannicchiava, paurosa, rabbrividendo, nel suo verginale lettuccio sul quale non avrebbe più riposato, correndo con la mente da un ricordo ad un altro, rivedendo in una successione tumultuosa tutta la sua vita: Milazzo, le sue povere morti, delle scene perdute in fondo alla memoria e che si ricostruivano a un tratto in tutte le più minute particolarità. Riapparivano le figure degli adolescenti che ella aveva creduto di amare; la voce di Enrico Sartana le risuonava ancora all’orecchio. Come nulla accadeva di quel che si era previsto! Chi le avrebbe detto, sei mesi fa, che ella avrebbe sposato Duffredi? Non lo conosceva neppure! Il ricordo di Luigi Accardi non le diceva più niente; un tempo, non aveva creduto possibile pensare ad un altro uomo! Però, un principio di tristezza la invadeva. La vita tanto sognata sarebbe cominciata fra breve, nondimeno una specie di rammarico accompagnava l’agonia della vita da cui aveva voluto uscire. Perchè dunque questo scontento? Avrebbe forse voluto tornare indietro? La sua mamma, la sua sorellina pregavano in cielo per lei?
Il giorno seguente, il cielo apparve tutto velato da una bassa cortina di nubi. Ella tentò di reagire contro l’oppressione di quel grigio che si aggiungeva all’oppressione del suo spirito. Si dava l’ultima mano alle casse, alle valigie: dalla sua camera venivano fuori tanti oggetti minuti a cui ella non aveva pensato e che restava a considerare un poco, senza sapere che farne. Stefana glie ne chiedeva, come dei ricordi; Miss anche lei. Ella non sapeva quale simpatia trovasse ora nel viso severo, quasi duro di Miss, che le aveva destato un tempo tanta avversione. La vecchia governante partiva fra giorni per l’Inghilterra: chi poteva dire se si sarebbero riviste più? Si parlava poco; di tanto in tanto qualcuno faceva delle osservazioni che restavano senza risposta. Alle undici, ella andò a passarsi la toletta grigia da viaggio; un’ora dopo venne Guglielmo, pronto anche lui per la partenza. Si aspettava, per andare a colazione, l’arrivo di Linguaglossa. Egli tardava; ad un tratto arrivò, pallidissimo in viso, con lo sguardo smarrito.
— Che cos’avete?
— Che disgrazia terribile! Matilde Gerosa… giù dal balcone… morta… sfracellata sul colpo…
Della gente lo circondò; egli rispondeva piano alle domande di cui l’assediavano. Però ella udì ancora:
— Suo marito… scoperto tutto… le lettere…
Sentì un gran brivido di freddo passarle pel corpo; e nel súbito orrore che la invase, vide quasi il cadavere informe giacente attraverso la strada, sbarrarla, sbarrare tutte le strade che ella doveva percorrere. Allora, il suo terrore dinanzi a quella vita ignota, misteriosa, che per lei si schiudeva e che per la disgraziata finiva in quel tragico modo, contro le lastre taglienti del marciapiedi, crebbe talmente, che ella credette un istante di svenire. Sola, ella si sentiva, sola oramai, perduta, più sola dinanzi a quello sconosciuto seduto silenziosamente al suo fianco, che se le fosse realmente mancata ogni compagnia. E come il nonno, alzandosi, fece un segno, ella si afferrò a lui, alla zia, convulsa, come sul punto di annegare, con un istinto di salute che le suggeriva un grido represso: «No! Non voglio… non voglio andare… pietà!»
Ella sentiva adesso qualche cosa di caldo sulla sua mano: le labbra di Stefana, che baciavano la mano fredda e tremante.
— Qui! Qui!
E buttò le sue braccia attorno al collo rugoso della povera serva, si strinse al cuore il suo capo devotamente piegato, la baciò sulle guancie.
— Zia! Miss!
Degli abbracci, ancora, degli augurii, dei saluti a tutti, dei ricordi per gli assenti, come per una separazione eterna, come per una morte. Le carrozze partivano scalpitando, le cose sfuggivano come in sogno; ella avvertì a un tratto l’aria del mare che le colpiva la fronte infiammata.
— Addio! Addio! Buon viaggio! A rivederci!
La barca si dondolava sul mare leggermente mosso; ancora dei saluti, ancora dei baci. Dalla riva, i restanti agitavano i fazzoletti. Ella dava libero sfogo alle lacrime mute, salutando. Guglielmo guardava verso il largo, verso il vapore. I remi battevano forte sugli scalmi, in cadenza.