V.

— Guarda, guarda un po’, quell’imbroglione di tuo nonno!
Era sorta una lite, provocata dai creditori di Ragusa, l’antico proprietario del Gelso. Sostenevano che costui li aveva frodati, vendendo quel feudo quando, pei suoi tanti debiti, non poteva più considerarsene come padrone. Si parlava di rivendica in danno, di azione pauliana, pioveva della carta bollata e Guglielmo ne spiegazzava dei fogli:
— Guarda in quali impicci mi mette! Questa è la tua famosa dote! M’ha venduto la pelle dell’orso, capisci? Una causa sulle spalle!
— È forse colpa mia? Che cosa posso farci? che ne so? Perchè te la prendi con me?
— Già, è lo stesso che dire al muro! Hai la testa ai nastri, agli svolazzi: queste son le cose di cui t’intendi!
E come più l’affare minacciava di complicarsi, più se la prendeva contro di lei.
— Hai visto, eh? Senti quel che dice l’avvocato? Una causa che durerà degli anni! Capisci in che imbrogli mi cacciano?
— Ma Guglielmo — protestava allora — perchè affliggi me, adesso?
Egli si traeva indietro, turandosi la bocca, affettando di prodigar delle scuse:
— Perdono, sai! Scusa! Non lo farò più! La colpa è tutta mia!
Poi riprendeva:
— Questa è la famosa dote! Sono più le noie che altro! Capisci? Perchè tu non te ne venga con la tua famosa dote! Imbroglione ed intrigante! Gli puoi esser grata, a quell’intrigante di tuo nonno! Già, la colpa è mia, che mi son lasciato mettere nel sacco!
Lo sdegno le ribolliva in cuore, nondimeno taceva, soffriva, lo lasciava dire. Avrebbe voluto minacciarlo, confonderlo con la rivelazione dei propri meriti; ma non diceva nulla, disgustata, insofferente di vederselo dinanzi, non sperando altro che di esser lasciata in pace. A poco a poco, l’infelicità di quella sua condizione veniva conosciuta da tutti; ella stessa, senza lagnarsi apertamente, senza riferire i suoi motivi di dolore, faceva comprendere agli intimi lo sconforto in cui viveva. Tutti la compiangevano; alcune le dicevano:
— Voi siete una santa! Un’altra al vostro posto gli avrebbe reso pan per focaccia…
Con Giulia, era più espansiva; le narrava quel che suo marito le faceva soffrire, le esortazioni interiori che ella rivolgeva a sè stessa.
— Che fare? Urtarlo di fronte? Ribellarmi? È peggio ed inutile! Andarmene? E come? Per far che? Con un bambino, un innocente che c’è di mezzo? Domando al Signore di darmi forza! lo lascio dire, lo lascio fare, lo evito… purchè mi rispetti…
Giulia le dava ragione, si lagnava ella stessa della condizione disgraziata che la società faceva alle donne. Toscano cominciava forse a trascurarla?
Ella lo aveva visto spesso vicino a una signora di Girgenti, la baronessa Cannetto, venuta a stabilirsi a Palermo: una donna matura, ma libera, sul conto della quale si dicevano tante cose e che molti uomini circondavano. Guglielmo glie l’aveva presentata, quasi forzandola a trattarla.
— Per questa qui non ci sono difficoltà? — aveva osservato lei, in tono leggermente ironico, ma senza secondo pensiero.
E un giorno, quando un’intimità s’era stretta fra loro, la zia Carlotta le disse:
— Non ti far vedere troppo con quella donna.
— Perchè?
La zia non volle rispondere altro; ma Giulia le ripetè più tardi la stessa cosa, e allora, subitamente insospettita, ella esclamò:
— Tu sai qualche cosa! Dimmi tutto! Sarò forte, vedrai…
— Ma no, nulla…
— Non sei sincera! Vo’ sapere… te ne scongiuro! Mio marito!
Come l’amica non rispondeva, ella si portò una mano alla fronte:
— Con lei?… Oh!
Restava interdetta, dallo stupore, dalla mortificazione: una vecchia, a quarant’anni, ritinta, infinta… quella vecchia era preferita a lei?
— E si vedono? Oh, te ne prego, non mi nasconder nulla! Guarda: sono tranquilla; che cosa potrei fare? Si vedono, dove?
— In una casa… fuori porta Sant’Antonino. T’assicuro che non so precisamente dove…
Anche questa! Questa con le altre! Ed ella si ripiegava ancora su sè stessa, inghiottiva l’amaro, rinunziava ai lamenti sterili, ridicoli ed umilianti. Non metteva alla porta quella smorfiosa, la riceveva, le restituiva le visite, studiando il suo contegno, misurando la sua falsità. Con la bocca chiusa, il collo un poco piegato, colei le prodigava elogi, dimostrazioni d’amicizia, la chiamava amorino mio, la baciava in viso! Ella sentiva la tentazione d’incrociare le braccia, di guardarla bene negli occhi, di dirle, lentamente: «Spudorata, a chi vuoi darla a intendere con le tue smorfie? Come hai il coraggio di comparirmi dinanzi?» Quarant’anni? Ma doveva averne di più. Sotto la veletta, sotto la cipria, si potevano contare le rughe! Le mani con le dita cariche di anelli sfolgoranti facevano pietà! I capelli dovevano esser tinti! Ed era costei che le preferiva! Che cosa aveva dunque, che cosa sapeva fare, per sedurre ancora gli uomini? Ma non era piuttosto per l’attrattiva del nuovo, del diverso, del frutto proibito, che suo marito preferiva quella vecchia a lei, giovane e fresca, ma saputa e risaputa? Non era il desiderio del nuovo, del diverso, del frutto proibito che metteva in lei stessa un’irrequietezza, uno scontento, una febbre intermittente di cui Sampieri ed Accardi avevano provocato due assalti? V’era della gente che conosceva le delizie della passione, il sapore del mistero, l’emozione del pericolo! Pericoli, spasimi, torture, tutto era seducente, tutto dava valore all’esistenza! Tutto era compensato dalle ebbrezze divine, dalle estasi misteriose… Sognandone ad occhi aperti, languendo di desiderio, restava lunghe ore immobile sopra una poltrona, o a letto; a un tratto, si sollevava protendendo il busto, offrendosi, come se un essere presente ed invisibile, come se un fantasma, come se l’aria potesse abbracciarla, porgendo l’orecchio come se qualcuno mormorasse delle parole d’amore. Sola nella sua carrozza, si stringeva in sè stessa, imaginando di avere una persona cara al fianco, di far sentire a questa persona il proprio corpo, freddolosa e innamorata. Se incontrava delle donne sole procedenti a capo chino lungo i muri, supponeva che tornassero da un convegno d’amore; gli uomini vi correvano, e tutti avevano un secreto compenso alla volgare monotonia della vita. La felicità degli altri faceva la sua infelicità: ella non avrebbe mai conosciuto i palpiti e i delirii che aveva provati in sogno! Eppure, si sentiva un cuor tenero e forte, una fede viva e  profonda: nessuna di quelle altre le pareva altrettanto degna d’amore quanto lei stessa. Si giudicava capace d’una passione grande, immensa, imperitura: l’aspettava, l’affrettava… Poichè suo marito veniva meno a tutti i suoi doveri, non era ella sciolta dai proprii? A che cosa era tenuta verso di lui? Ognuno avrebbe preso per la sua via; dinanzi alla gente sarebbero rimasti uniti, salvando le apparenze, come ella aveva letto che si faceva nelle grandi famiglie aristocratiche, a Parigi, a Londra. Non le importava più nulla degli intrighi di suo marito; era tacitamente inteso che ognuno riprendeva la propria libertà.
Una volta, rientrata tardi dopo aver fatte molte visite, il cameriere le disse:
— C’è stata la baronessa Cannetto.
Ella rispose tranquillamente:
— Va bene… le hanno detto che non c’ero?
— Non so… credo di no, perchè è salita… l’ha ricevuta il signor cavaliere…
— Ah!
Ella si morse le labbra. Ancora quest’altro affronto! Però la sua maggiore irritazione era contro sè stessa, che non restava indifferente come aveva giurato. Il domani, nel suo salotto, chinatasi a raccogliere il tagliacarte cadutole, vide qualche cosa per terra, accanto al poggia-piedi. Una forcina da capelli… una forcina non sua, come ella non ne aveva portate mai! Tutto il sangue le montò al viso; rapidamente, senza un istante di esitazione, andò in camera di suo marito.
Egli leggeva un giornale, fumando, sdraiato sopra una sedia a dondolo. Gli disse, freddamente:
— Un’altra volta, quando riceverai in casa mia le tue ganze, procura che non dimentichino nulla.
Guglielmo abbassò il giornale, guardandola curiosamente.
— Sei ammattita?
— Rimanda la sua roba a quella sfrontata, se non vuoi che la rimandi io stessa con un mio biglietto da visita!
E gettò la forcina sopra un tavolo.
— Ma di chi diavolo parli?
— Ah, non lo sai? Non mentire, guarda; perchè io posso tollerar tutto, fuorchè la menzogna!
Egli ripiegò il giornale, mettendosi le mani in tasca.
— Adesso ti pregherei di non rompermi il capo.
— Sì, non è vero?
— Precisamente… mi secchi l’anima, con le tue tragedie! Ieri è venuta una signora, io stavo per uscire, s’è fermata un momento. Sono cose che accadono tutti i giorni.
Ella batteva un piede, incrociando le braccia.
— Proprio? Ma perchè accadono precisamente a te? Perchè non accade a me d’essere ricevuta da un signore, solo?
Come egli scuoteva tranquillamente la cenere del proprio sigaro, ella stese un braccio:
— Ma bada, sai! Quello che non è accaduto potrebbe un bel giorno accadere!
Allora egli scoppiò a riderle in viso.
— Ah! ah!… ah! ah!… ah! ah!
— Guglielmo, non ridere! Guglielmo, bada!
— Ah! ah!
— Bada che finora ho sopportato, ho sofferto, ho resistito… bada!
— Che vai minacciando, sciocca? Imbecille?
— Di gettarmi in braccio al primo venuto!
— Fàllo! Próvati! Ed io non ti caccio a pedate, sciocca che sei? Non mi libero di te?
— Sta bene! Si resta intesi! Soltanto, avverti quella sgualdrina di non metter piede in casa mia…
Egli si alzò, dicendo con voce minacciosa:
— Casa tua? Casa tua? Questa è casa mia, qui comando io, capisci? Qui tu non sei nulla!
— Io ti prometto che se colei mi comparisce ancora dinanzi, la mando ruzzoloni per le scale.
Allora le si avvicinò rapidamente, alzando un braccio.
— Ah, sì? — gridò, coi denti stretti, il pugno chiuso, gli occhi iniettati di sangue. — Ah, sì? Ed io ti prometto che farò venir qui tutte le ciabatte di Palermo, qui dentro! In camera mia! Te presente! Capisci? Tutte le ciabatte di Palermo, quelle da una lira, capisci?
Ella sentì un gran freddo passarle per la schiena. Egli continuò:
— Qui, in casa mia, dove io sono il padrone, e tu niente! Dove tu sei venuta a ficcarti per forza, dove ti ha ficcata quel farabutto di tuo nonno.
— Oh!
Ella si ritrasse, lentamente, barcollando, cercando un appoggio con una mano, portandosi l’altra alla tempia. I polsi le battevano con violenza, un velo avvolgeva tutte le cose; ella s’aggirava per la sua camera automaticamente, non sapendo quel che facesse. A un tratto gridò, buttando indietro il capo, stendendo minacciosamente il braccio, increspando le narici:
— Lo farò, sai! Lo farò!
L’abbattimento soprovveniva, tanto più profondo quanto più forte era stata l’esaltazione. Ella sentiva a un tratto che quei propositi di vendetta erano vani, perchè ella non avrebbe saputo come fare, perchè le repugnava darsi a qualcuno, così, freddamente, senza amore… Dei lunghi giorni passavano, durante i quali ella non vedeva più suo marito altro che a pranzo, dinanzi alle persone, scambiando con lui una dozzina di sillabe. Chiusa nelle sue stanze, delle fantasmagorie le sfilavano dinanzi: rievocava tutta la sua vita passata, e pensando alla storia del suo matrimonio, un pentimento smanioso la rodeva: come era caduta nello stesso errore di sua madre! Perchè non s’era ribellata in tempo? Cento volte, la condotta di quell’uomo glie ne aveva data l’occasione: una sola parola sarebbe bastata a salvarla! Che fatalità! E non potere distruggerla più! Doverne subire eternamente il peso! Se avesse saputo evitarla, come la sua vita sarebbe stata diversa! Enrico Sartana l’avrebbe fatta felice: perchè non lo aveva aspettato? Si accusava, riconosceva che la colpa era stata sua! E si metteva a pensare a lui, assiduamente. La ricordava ancora? Si sarebbero incontrati mai?… Adesso egli viveva a Napoli, e la notizia del suo matrimonio corse un giorno per tutta Palermo: sposava un’ereditiera, la duchessa di Santorsola. Allora, anche quel ricordo andò svanendo: le restavano solo gl’inutili pentimenti, le dolorose imaginazioni della felicità che altrimenti le sarebbe toccata, le vane aspettazioni d’un compenso al quale sentiva di avere diritto. Disperando di ottenerlo, si proponeva di rinunziare al mondo, di ritirarsi in campagna, di darsi tutta all’educazione di suo figlio. Se lo faceva recare vicino, trovandolo un amore, compiacendosi del suo precoce sviluppo; però il bambino non restava volentieri con lei, o aveva delle voglie insaziabili, o metteva tutto sossopra. Ella tentava di riafferrarsi alla vita esteriore, ma la vuotaggine delle conversazioni, la grettezza dei giudizii e dei pregiudizii finivano di disgustarla. La provincia non era fatta per lei, e il rancore contro suo marito cresceva, poichè egli non aveva neppure mantenuto la promessa di stabilirsi a Roma, di passarvi almeno gl’inverni. Ma avrebbe preferito farsi tagliare la lingua piuttosto che dovergli qualche cosa, e precipitando in una sfiducia infinita, s’appartava, usciva di rado, faceva poche visite. Durante una di queste, dalla marchesa di Carini, le presentarono un forestiere: il conte Aldobrandi. Non era giovane, ma ella non aveva ancora l’idea d’una distinzione come la sua: se invece d’essere innanzi a due piccole provinciali si fosse trovato in cospetto di due regine, non avrebbe potuto contenersi altrimenti.
— Ha detto, Aldobrandi? — chiese alla marchesa, quando egli si fu congedato.
— Sì, gli Aldobrandi di Firenze, sa bene…
— E cosa viene a far qui?
— Cerca casa; precede sua moglie che viene da noi per salute.
— Ah, è ammogliato?
Non lo avrebbe supposto. Rivedendolo una sera a teatro, notò che egli la guardava con insistenza. Era già legato con suo marito, venne a trovarla nel palco. Ella ne provò un’intima sodisfazione. Tutti gli occhi del pubblico elegante erano su di lui; le piaceva mostrare che ella riceveva fra le prime i suoi omaggi; e riprendendo a un tratto la padronanza di sè, cominciò a sfoggiare tutto il suo spirito, la sua seduzione. Egli era stato nella diplomazia, parlava del suo soggiorno di Madrid e di Bucarest; un poco del fascino regale gli si era attaccato. Venne a trovarla a casa; per istrada, al passeggio, la seguiva in carrozza, la salutava tre, quattro volte, voltandosi sempre a guardarla.
Ella pensava: «Ci siamo! Mi fa la corte!» Gli dava un po’ retta, lo guardava a sua volta, lusingata che un uomo suo pari, nella cui memoria doveva esserci un harem, notasse una provinciale come lei. Però, non ammetteva che egli potesse essere pericoloso: le piaceva fisicamente, lo trovava d’uno chic supremo; poi pensava che aveva moglie, che doveva avvicinarsi alla cinquantina, e non ammetteva che potesse esservi nulla fra loro.
Il conte tornava a trovarla, le dimostrava in ogni occasione la propria preferenza, la ubbriacava di lodi, le diceva che il suo salotto era il più attraente di Palermo, che ella era la dama più elegante e spiritosa di Sicilia.
— Via, non m’aduli! — fingeva ella di protestare, sorridendo — Lei non le conosce tutte…
— Crede dunque che ci sia bisogno di conoscere le persone per giudicarle? Non basta vederle? Non vi è un’impronta, una linea, qualche cosa che rivela, da mille miglia, la grazia, l’intelligenza, tutti gl’istinti più alti e più nobili?
Ed accompagnava le parole con un lungo sguardo scrutatore, che diceva: «Quest’impronta, questa linea, questo qualche cosa lo vedo in voi, nei vostri gesti, nel vostro abito, nel vostro corpo…»
Ma ella scrollava il capo, ribattendo:
— L’argomento è abile… fa onore al suo talento di diplomatico…
— Questo vorrebbe dire che io fingo?
— Che grossa parola! Non fingere, ma… dare a intendere… Quistione di sinonimi!
— Dunque non mi crede? E se io le dicessi che appena l’ho vista….
Tutte le volte, però, che egli minacciava una dichiarazione, ella lo interrompeva, gli chiedeva notizie di sua moglie:«Sta bene? E quando verrà?» per rammentargli i suoi doveri, per fargli comprendere che quel linguaggio gli era interdetto. E con un senso di trionfo, vedeva che quelle allusioni lo imbarazzavano, turbavano la sua correttezza anglosassone, finivano quasi per irritarlo.
Finalmente la contessa arrivò: una bruna, alta, magrissima, senza petto, con due occhioni enormi, inquieti, febbricitanti; d’una eleganza indefinibile, originale, capricciosa e chifonnée. Ella si era legata con la nuova venuta, le aveva reso nei primi tempi tutti i minuti servigi che si debbono ai forestieri, mettendo a sua disposizione la propria carrozza, facendole da guida per la città, accompagnandola nel mondo. La contessa le dimostrava la propria gratitudine, confidandosi con lei, dicendo che trovava Palermo una bella città, ma che vi stava a malincuore, perchè aveva lasciato altrove la miglior parte di sè, perchè suo marito era per lei da tanto tempo un estraneo. Un giorno si erano chiamate di tu; ora ella la considerava come un’intima amica. Il conte, traendo profitto della frequenza dei loro incontri, insisteva nella sua corte, nelle sue allusioni; ella lo lasciava dire, sedotta da quella condizione drammatica, dalla lotta che imaginava si combattesse in sè stessa fra il rispetto che doveva all’amica e la simpatia sempre più forte che l’uomo le ispirava. Però, quando la contessa si lagnava della propria solitudine, ella la confortava:
— Ma tu hai accanto tuo marito! Un marito che tutte t’invidiano! Che è il cucco delle nostre signore…
L’altra alzava le spalle, affondava il capo nella touffe di tulle che portava sempre annodata intorno al collo esile.
— Te lo regalo… lo vuoi?
Egli, come la capitava sola, riprendeva con maggiore insistenza:
— Avete giurato di farmi dannare? Perchè siete così?
— Così, come, di grazia?
— Così tentatrice, così diabolica, così divina? Sorridete, sì; sapete che per un vostro sorriso qualcuno darebbe la vita?
— Ah! ah! — ella rideva, di cuore. — Ma sa che lei è di pessimo gusto? Ha sua moglie vicina, che vale tanto più di me..
— Lo dica un’altra volta!
— E parla del mio sorriso! Ma il sorriso di sua moglie è un incanto! Non mi parli, per carità, delle bocche piccole come la mia. Le labbra di sua moglie sono dei petali carnosi! E quel pallore così distinto! E quello sguardo che affascina! Quel languore pieno di soavità, quella voce che è una melodia… uomo, farei pazzie per lei!
Sentiva quel che diceva, ma pensava pure che fosse dover suo tenergli quel linguaggio; poi ancora le piaceva ascoltar le proteste del conte, che erano altrettante esaltazioni della bellezza sua propria. E come egli, più umilmente, a voce più bassa, esprimeva il suo voto, ella lo interrompeva:
— Tacete… no, mai!
— Ma perchè? Vi dispiaccio tanto? Sono così disgraziato da riuscirvi intollerabile?
Messa alle strette, ella evitava di rispondere.
— Che c’entra questo? Io ho dei doveri… e voi anche!
Allora egli sorrideva un poco, scetticamente.
— Doveri? Ma se da per tutto si fa così!
E aveva preso a deridere gli sciocchi scrupoli provinciali, la buffa gelosia da Arabi andati a male dei Siciliani, narrando quel che si faceva da per tutto, le raffinatezze del piacere, gli sfrenamenti delle orgie. A poco a poco le sue parole diventavano più crude; ella avvampava, ascoltandole. Grandi dame che si vendevano, velate, in casa di provveditrici discrete, quando avevano bisogno di denaro; duchesse spagnuole che facevano chiamare i toreadori più gagliardi; alte cortigiane che ricevevano i principi nei letti dalle lenzuola di raso nero perchè il roseo delle carni spiccasse di più; le orgie imperiali di Saint-Cloud, le caccie aux flambeaux in cui le prede erano rappresentate da donne ignude… Malgrado l’ansia malsana di sapere quelle cose, ella gl’imponeva di tacere, si portava le mani alle orecchie; egli continuava. La contessa di Streetford, prima di andare a Corte, quando era vestita di tutto punto, sfolgorante di gemme, si abbandonava al suo cocchiere in livrea; la Cordellani riceveva con certi accappatoi ovattati che s’aprivano rapidamente, in modo che ella poteva mostrarsi tutta agli amanti negli intervalli fra una visita e un’altra; la principessa Valitzine, la celebre Russa, aveva dei gusti contro natura… Ella si chiedeva come era arrivata fino al punto che quell’uomo le parlasse così! Ritrovandola, egli cercava di ricominciare.
— Basta! — esclamava lei — non voglio saper nulla, non voglio nausearmi…
— Ma la vita è così!
— È molto brutta, convenitene…
— Bisogna conoscerla!
E le parlava delle donne che aveva avute: analizzava la loro bellezza, entrava in particolari intimi, faceva dei paragoni con lei, riferiva le fantasie, le stranezze che avevano avute alcune, le sensazioni che gli avevano procurato altre: una corsa di notte, in islitta, a Bucarest, sotto le pelliccie, in un deserto di neve; la visita fatta con la moglie del suo ambasciatore a un museo secreto… Le mandava dei libri, dei romanzi; ogni volta erano più arditi, più liberi. Ella si sentiva prendere insensibilmente, malgrado il proposito di resistergli. Fingeva di non comprendere le cose che le diceva, gli restituiva quei libri senza parlargliene, pensando così di non compromettersi; ma si sentiva tutta inerme dinanzi a lui, sedotta dall’idea ch’egli la desiderasse, vedendosi messa per questo solo a paro con tutte quelle donne più belle, più ricche, più nobili; presa certe volte, repentinamente, dalla folle tentazione di sentirsi giudicar tutta da un conoscitore suo pari… E una soggezione la vinceva, pensava intimidita che egli doveva trovarla molto provinciale; aveva paura, lei così padrona di sè, di commettere delle gaucheries. Egli era vissuto nel fasto delle Corti, conosceva i secreti delle alcove regali! Però, come si faceva più ardito, ella lo scostava:
— No, è inutile! Vostra moglie mi è amica… non la tradirò mai!
— Tradire? No, non la tradirete…
Ella rovesciava il capo, lasciava pendere un braccio, oppressa, turbata, intanto che egli le alitava in viso, mormorando:
— Non c’è bisogno di tradirla…