VI.

In mezzo alle distrazioni della nuova stagione estiva, quando ella era tutta ai suoi trionfi mondani, il pensiero di lui le tornava alla mente. Aveva una ansiosa curiosità di sapere ciò che egli faceva, che cosa provava per lei. Pensava che fosse pentito della rottura, che si disperasse rammentando la felicità perduta, che una fiera battaglia si combattesse nell’animo suo, tra la passione e l’orgoglio. La figura di lei doveva sempre stargli dinanzi, seguirlo dovunque, impedirgli di pensare ad altro! Era bene che fosse così, che egli soffrisse dopo averla fatta soffrire. Ella riprendeva la sua vita abituale, cercava la società, si compiaceva di brillarvi; non aveva rimorsi, il torto era tutto dalla parte di lui. Però s’aspettava da un momento all’altro di vederlo comparire: egli avrebbe lasciato tutto, sarebbe partito di nascosto, l’avrebbe raggiunta. Che cosa avrebbe fatto lei stessa? Lo avrebbe respinto? Si sarebbe piegata? All’ora della posta, ella imaginava di ricevere una lettera di Paolo piena di ricordi e di supplicazioni; e delle frasi di risposta si scrivevano nel suo pensiero: «No, è troppo tardi, credetemi… I disinganni di cui mi sono abbeverata furono troppo amari, perchè io possa affrontarne di nuovi… La vita non si rifà, il passato non torna!… Finite di dimenticarmi e possiate esser felice: questo è il mio ultimo voto…» Gli occhi le si arrossavano, pensando a queste cose; e con la posta non veniva nulla per lei. Allora degl’impeti di sdegno per poco non la spingevano in braccio ad altri. Il ricordo di Morani la sosteneva; ella voleva serbarsi pura per lui. Disperava d’ottenere l’amor suo, ma non poteva, affrontare la sua disistima. Dove era egli a quell’ora? Qual’altra creatura gli sorrideva? Forse amava una vergine che avrebbe fatta sua!
E la propria miseria le si rivelava in tutto il suo orrore. Ella era definitivamente abbandonata, senza una parola, come l’ultima delle donne. L’ultima delle donne non si sarebbe lasciata così, dopo cinque anni di vita comune! A che cosa le erano dunque giovati i suoi sacrifizi? A legittimare le insidie che tutti gli uomini le tendevano, a prepararle un avvenire di abbassamenti continuati… Ella si sentiva mancare il respiro; avrebbe voluto piangere, e battersi. E allora, pensando all’abisso cui andava incontro, sentiva la tentazione di scrivere a Paolo, di cedere per la prima. Egli l’aveva crudelmente ferita; ma era sempre l’uomo che le aveva fatto battere il cuore, a cui ella aveva dato tutta sè stessa! Forse una falsa superbia li tratteneva entrambi dal muovere il primo passo nella via della riconciliazione; perchè non lo avrebbe fatto lei? E cominciava delle lettere, ma le stracciava una dopo l’altra. Le espressioni fredde, i rimproveri larvati non sarebbero riusciti a nulla, e le preghiere non avrebbero fatto peggio? S’egli l’avesse lasciata senza risposta?
Finì per rinunziare a quel tentativo. Che cosa le restava da fare? Perdonando il male che le aveva cagionato suo padre, sperando di trovarlo un altro per lei ora che la sapeva in quella triste situazione, rammentando il bacio disperato che aveva posto sulla sua mano la notte della morte di Laura, andò a trovarlo a Venezia. Egli la volle con sè in casa; e nel vedersi tutto il giorno dinanzi la donna che aveva fatto tanto soffrire la sua mamma, che ella stessa aveva tanto aborrita e che ora trattava familiarmente, pensava allo strano giuoco del destino, alla dispersione fatale dei sentimenti creduti più saldi. Suo fratello, che adesso aveva preso moglie, era per lei come un estraneo; restavano insieme a lungo senza sapere che cosa dirsi; e il cuore non aveva nessuna parte in tutte quelle relazioni. Alla lunga, accorgendosi d’essere d’impaccio, ripartì. Per un poco, pensò di tornarsene a Palermo. Ma che cosa vi avrebbe fatto, tra l’ostilità di tutti? Scrisse, nondimeno, a sua zia, per la prima dopo tanto silenzio; le disse, in frasi vaghe, i suoi disinganni, il vuoto della sua esistenza, il bisogno che ella aveva di perdono e d’affetto. La zia rispose subito; ma senza offrirle di riprenderla con sè. Pure, ella non troncò quella corrispondenza.
Negli accessi di tristezza che la piegavano, la folla, il movimento, le erano diventati odiosi; ella riprese più presto degli altri anni la via della casa. Non c’era nessuno a Roma, Morani con le sorelle era in campagna. Ella passava lunghi giorni senza vedere anima viva. Accompagnata da Stefana, in abiti scuri, dimessi, se ne andava spesso, per vie fuori mano, alla villa Mattei. La malinconia di quella solitudine, accresciuta dal tramonto della bella stagione, le pareva convenire allo stato dell’animo suo. Il poco verde appassito dei rami confusamente aggrovigliati era uno sfondo adatto alla sua figura, su cui l’opera del tempo diventava ogni giorno più manifesta! La gran pace, il silenzio rotto ad ora ad ora dei fruscii lievi delle foglie cadenti, dai trilli degli uccelli migranti, la immergevano in una mestizia senza fine. Qualche cosa come una caduta di foglie avveniva dentro di lei; ella sentiva di sopravvivere a sè stessa; la miglior parte del suo cuore, della sua bellezza, era morta. Le restava il fascino delle rovine, delle torri slabbrate dal fulmine, delle fronti curvate dalle avversità. Se un passo d’uomo risuonava lungo i viali, ella chinava gli occhi, evitando di guardare, tracciando dei segni enimmatici con la punta del suo ombrellino. Malgrado la negligenza della sua toletta, l’istintiva eleganza della signora di razza doveva imporsi all’attenzione dei passanti; chi la vedeva a quel modo, doveva pensare, con un sottil senso di rammarico, alle fortunose vicende che avevano condotta una donna come lei a compiacersi nella muta tristezza di quel giardino solitario, doveva provare la tentazione di leggere in quel cuore ferito pel quale il mondo non avea più sorrisi. Ed ella sentiva che era un altro inganno quell’imaginarsi oggetto all’attenzione di qualcuno, quella vaga aspettazione di un essere capace di vincere lo scetticismo di cui s’era imbevuta… Ella sentiva freddo quando pensava a che cosa era ridotta. Ah, se l’autore di quella rovina avesse potuto leggerle nel cuore, vederne lo strazio! Stolta ella stessa, che gli aveva creduto, che aveva fatto di quell’amore la ragione della propria vita!… Poi, i rimproveri che formulava contro di lui cadevano anch’essi; ella riconosceva la propria parte d’errore. Sì, ella lo aveva amato; ma, sulle prime, quell’amore non le aveva impedito di cedere ad un altro. Dimenticava dunque la sua colpa, l’origine della freddezza di Arconti? Pensando all’antica avventura, ella si chiedeva: «Perchè feci questo? Non sono inaccessibile al capriccio?» E allora si ripeteva che la colpa non era stata sua, ma delle circostanze, della mancata protezione materna, dell’esempio che suo padre prima, suo marito dopo le avevano dato, della perversità di Aldobrandi. L’istinto di seduzione, la smania di piacere l’avevano perduta: la sua vanità era stata esaltata dalla preferenza che gli uomini le mostravano; ma adesso ella riconosceva che l’avevano preferita perchè s’eran visti incoraggiati. Considerando tutta la sua vita, da lontano, quasi disinteressatamente, ella scopriva la logica che l’aveva regolata, la fatalità d’ogni evento. Sola in mano del nonno buono ma autoritario, era fatale che ella non potesse fare un matrimonio felice; il disinganno, la rappresaglia, le persuasioni della fantasia l’avevano indotta al passo falso. Una idea la disarmava contro Arconti; che se non fosse stato lui a sospingerla, un altro avrebbe preso il suo posto… Questo egli aveva compreso, questo lo aveva distolto da lei!… Ma quando pure ella fosse stata fatta a un altro modo? se avesse amato lui soltanto, senz’altre ragioni fuorchè quelle del cuore? Tutto sarebbe finito egualmente! Il tempo, i disaccordi inevitabili, la diversità dei caratteri presto o tardi avrebbero prodotta la conclusione medesima. Ella non poteva dire di averlo veramente amato sul principio; ma quando s’era sentita maggiormente stretta a lui, non era stata l’idea di mostrarsi conseguente nella colpa che l’aveva sostenuta? Ella aveva creduto che l’amore durasse eternamente: ma v’era qualche cosa senza fine, nel mondo? Aveva creduto ancora che ogni creatura umana non potesse amare più d’una volta in tutta la vita: ma quanti uomini aveva ella amato, in modo diverso? Ed ora si domandava che cos’era dunque l’amore, se esisteva, se non era anch’esso un inganno, il più funesto di tutti?
La lentezza con cui trascorrevano i suoi giorni vuoti alimentava quelle riflessioni amare. Per evitare i tristi pensieri ella s’immergeva nella lettura. I libri le avevano fatto un gran male esaltando la sua imaginazione, pascendola di allettanti finzioni, di chimere seducenti; ma oramai era troppo tardi per smettere, il male era già fatto, e malgrado il suo scetticismo, le restava in fondo al cuore inassopito il bisogno d’emozioni, di scosse, di palpiti. Feuillet era il suo pascolo prediletto; le nobili anime, i cavallereschi amori, le passioni eroicamente contenute o tragicamente divampanti esaltavano tutto l’esser suo. Chiuso il volume, i suoi sguardi vagavano intorno, e la figura di Morani le sorgeva dinanzi, con qualche cosa del fascino del Giovane povero. Poi scuoteva il capo: che cosa sperava? a quall’altra funesta lusinga voleva abbandonarsi?
Spesso, la notte, ella sognava di Milazzo; le pareva di ritornarvi, ma la città non si trovava più in pianura, le mura del Castello si ergevano colossali e paurose, le finestre della cattedrale bombardata risplendevano stranamente in pieno giorno, un vecchio sollevava una lapide, guidandola pei sotterranei comunicanti col sepolcreto di San Francesco di Paola — e si destava di scatto, agghiacciata e tremante. Quel sogno, per un certo tempo, tornò molte volte: e sveglia, alla luce del sole, ella pensava alla piccola città, ai luoghi dov’era trascorsa la sua fanciullezza e che non rammentava più nettamente, con un senso vago e indefinibile di terrore. Le imagini funebri non erano un funesto presagio? Ella diventava superstiziosa, tutto era tinto per lei di malinconia. Stefana veniva a mettersele vicino, cominciava a parlare di mille cose, cercando di distrarla, di farla sorridere, costringendola ad andar fuori quando era rimasta a lungo in casa, rimproverandola dolcemente se la vedeva ostinarsi nel suo cordoglio, parlandole di Paolo, dicendole:
— Gli uomini sono tutti così… vedrai che tornerà!
Ella non sapeva se affrettare o ritardare col desiderio il giorno in cui egli sarebbe tornato a Roma. Però cercava nei giornali, prima d’ogni altra cosa, le informazioni parlamentari, le notizie intorno alla data della riapertura della Camera. Una sera, aperto il Fanfulla, i suoi sguardi furono attirati dalle grosse sbarre nere di una necrologia. Tutte le volte che scorgeva quel funebre segno, il cuore le si stringeva ed ella dovea vincere un’istintiva repulsione prima di leggere fra quelle righe. Anche ora esse l’attiravano e la respingevano insieme; a un tratto un nome parve balzar fuori: Morani… Eduardo Morani… Ella non comprendeva: il suo nome, lì, impossibile! Un errore, un’altra persona… e come il foglio le tremava nelle mani, le righe parevano entrare l’una nell’altra, le parole si sdoppiavano, si confondevano… Impossibile! Un altro! E il senso del periodo le sfuggiva, afferrava solo delle frasi: «Di ritorno da pochi giorni a Roma… una febbre perniciosa… malgrado tutti i rimedii… nel fior della vita… Povero amico! povero cuore!» Ella sorse in piedi, con le mani fitte tra i capelli, gli occhi spalancati, gridando soffocatamente: «Morto! Morto!» e dei suoni tremuli come lamenti le uscivano dalle labbra semischiuse ed esangui. «Morto! Dio! Dio!» Con l’impressione di freddo intenso che a un tratto le serpeggiava pel corpo, ella incrociava le braccia sul seno, comprimendolo, sostenendosi, sentendo che era sul punto di cadere, che il cuore le si schiantava…. morto… lui! Impossibile, assurdo! E di nuovo si precipitava sul foglio, spiegazzandolo, divorando le linee funeste. Allora, come non era lecito più dubitare, come il saluto estremo le tornava sotto gli occhi: «Povero amico! povero cuore!» i suoi occhi si gonfiarono di pianto. Ah, era atroce morire così! Apprendere così la morte d’un essere amato, buono, ammirato! Ella dunque non lo avrebbe visto più, non avrebbe udita la sua voce dolce, non avrebbe più stretta la sua mano leale! No, no; era più forte di lei… ella non voleva, non poteva mettere un freno alle lacrime; un’accorata pietà gliele spremeva dal cuore… Si moriva dunque così, prima d’avere avuto il tempo di vivere? Perchè? Terribile, incredibile! Ah! i suoi funebri presagi! E come ella rammentava le volte che era stato presso di lei, le parole che le aveva dette, il suo cordoglio cresceva. Come era stato buono! Di quanto rispetto l’aveva circondata! Di che nobile animo aveva dato prova!… Nell’intimo della sua coscienza, nel secreto del suo cuore, che cosa aveva provato per lei? Non lo avrebbe saputo mai! Egli era morto, portandosi con sè il suo secreto… povero cuore! Povero cuore! Essere amata da lui: l’ambizione che ella aveva vagamente nutrita, la speranza che le aveva confusamente sorriso! Che cosa sarebbe stato l’amor suo? E tutto invece era finito, per sempre… Che tristezza in quello svanire d’una larva, d’un sogno non ancor precisato, d’un sentimento incosciente, neppur nato! Come il vuoto le si faceva più largo dintorno! Come tutto era freddo, e muto, e oscuro intorno a lei!
Ella aveva smarrito l’idea del tempo in quella lugubre notte, quando la vecchia Stefana le venne vicino. Vedendole gli occhi rossi, il viso impallidito, la donna chiese:
— Che cos’hai? Che cos’è stato?
— Una triste notizia… una disgrazia…
La vecchia scrollò il capo:
— Vita e morte sono in mano di Dio! Non t’affliggere sempre…
Ma ella trovava un malinconico conforto a parlare di lui, a dirle tutto il bene che le aveva ispirato. Come un incubo, il ricordo doloroso non le diede tregua fino all’alba; e al cessare dei sogni torbidi, ella ritrovò lo stupore attonito della sera innanzi, con un bisogno di sapere qualche cosa del morto, con la vaga aspettazione d’un avvenimento inatteso, quasi d’un miracolo, d’una risurrezione. Era decisa di andare a trovar le sue sorelle; però Stefana la consigliò di aspettare un altro giorno, e intanto la trascinava verso le stanze interne, le parlava di molte cose, quasi volesse fuorviare la sua attenzione. Dapprima, ella non aveva compreso; a un tratto, come nel silenzio del pomeriggio s’udirono dei lontani squilli di tromba, ella gettò un grido:
— Lui!
Allora dovè materialmente lottare contro la vecchia che tentava di distoglierla dalla vista; e dietro la finestra, aggrappata con una mano alle cortine, premendosi il cuore con l’altra, intanto che gli accordi della marcia funebre si facevano sempre più vicini, ella scorse una grande croce nera, la fila dei frati reggenti i ceri dalle fiammelle tremolanti.
— Ah… ah! Pietà!
L’anima si struggeva al canto lento, lungo, straziante, echeggiante come un insistente ultimo appello; alla vista della bara coperta di fiori, delle bandiere lugubremente raccolte, del breve stuolo di amici che seguivano, a capo chino, raccolti e silenziosi. Ella era caduta in ginocchio, protendendo le braccia, dicendogli addio, non vedendo più nulla dal pianto, sentendosi trafigger le tempie dai funebri squilli, scrollando amaramente, disperatamente il capo come se nulla potesse consolarla della vita… Più tardi fu una nuova voluttà di dolore, in casa di lui, tra le braccia delle sue sorelle; e poi, a poco per volta, l’acuto dell’angoscia si venne calmando: ella pensava allo scomparso con un rimpianto infinito e composto. Come lo avrebbe amato, se avesse potuto rivederlo! Come avrebbe voluto essere amata da lui! Talvolta, ella dimenticava che era morto, credeva di vederselo innanzi, gli tendeva la mano, gli parlava come aveva un tempo parlato agli eroi imaginarii dei suoi libri. Tratto tratto, il ricordo di Paolo risorgeva, e qual nuova meraviglia si operava adesso? Il morto ed il lontano si confondevano per lei in un essere solo; attraverso la figura inafferrabile di colui che se ne era andato per sempre sorgeva la figura dell’antico amante, ma trasfigurata, con qualche cosa della seduzione dell’altro. Inconsapevolmente, ella attribuiva all’assente le attrattive, le virtù che l’avevano fatta sognare nel morto, si sentiva prendere da un bisogno irresistibile, violento, di rivederlo, di versar su di lui la passione che le rigermogliava nel cuore. Così, quando seppe che Arconti era a Roma, quando lo scorse da lontano, quando lo guardò un momento negli occhi, non lottò più. Gli scrisse, lo attese con un’ansia mortale, gli si gettò fra le braccia, se lo strinse selvaggiamente al petto, chiamando, senza voce, con un muto muover delle labbra, non più Paolo, ma: «Eduardo! Eduardo!»
Fu un ritorno dell’amore antico, ma più torbido, più tormentato, senza fede sulla sua durata. Poichè ella si era piegata per la prima, comprendeva di non esser più in diritto di lagnarsi di nulla; ai suoi lamenti egli avrebbe potuto rinfacciarle: «Sei stata tu che m’hai chiamato…» Però ella gli stava dinanzi umile, supplice, disposta a sopportar tutto, ad accettare quel tanto che egli poteva darle ancora. Non lo rimproverava dell’abbandono in cui l’aveva lasciata, gli chiedeva soltanto:
— Hai pensato qualche volta a me? Come hai pensato a me?
— Ma con desiderio, con rammarico, con passione…
Ella scuoteva il capo, comprendendo che egli le diceva quelle cose per condiscendenza; e, a quel pensiero, rispondeva con tono sommesso di preghiera:
— Senti, se tu non m’ami, se non provi più nulla per me, fingi almeno, dimmi qualche volta una buona parola… Vedi che io non sono esigente! Non costa molto, una buona parola!
Paolo le turava la bocca, la stringeva furiosamente; e a un tratto ella credeva di notare che anche lui aveva un pensiero secreto, accarezzava in lei un fantasma invisibile… E a poco a poco il suo proprio inganno svaniva, ella non riusciva ad operare la sostituzione dei primi tempi; ed era come se il morto morisse un’altra volta nella sua memoria…
Un senso di rispetto le impediva di parlar di lui a Paolo, quando questi insisteva per sapere a chi ella avesse pensato durante la loro rottura; egli non s’acquetava all’assicurazione che nessun uomo le aveva detto nulla, alludeva ancora al principe di Lucrino.
— Sono stanca di giurartelo! No, credimi; non posso più ricominciare… ho sofferto troppo! Dopo di te mi seppellirò in qualche solitudine, andrò a chiudermi per sempre in qualche campagna di Sicilia…
Ma come, ingolfato nella politica, egli ricominciava a trascurarla, ella gli s’afferrava al collo, supplicando:
— No, non mi sfuggire… non mi lasciare… lusingami ancora! — Poi, nascosto il viso tra le mani: — Non mi precipitare all’orrore di altre colpe…
— E la campagna dove volevi seppellirti?
Egli la prendeva sopra un tono di scherzo; ella rispondeva, sorridendo a sua volta:
— Ah, contenterebbe il tuo amor proprio, non è vero? Che una donna come me rinunziasse al mondo per causa tua?
L’idea della propria umiliazione finiva talvolta per farla soffrire; la previsione di essere nuovamente abbandonata da lui le riusciva insopportabile; ella s’acquetava pensando che se avesse voluto, sarebbe stata lei a lasciarlo.
Così trascorse un’altra stagione. Non era tanto di guadagnato? Quando egli era buono, glie lo diceva:
— Grazie per quest’altra felicità che mi dài.. Quando penso a quel che soffersi pel tuo abbandono, all’abisso che mi vedevo scavato dinanzi, non mi pare possibile! Grazie! grazie! Ma quanto durerà?
In quaresima, per la prima volta dacchè si conoscevano, venne a Roma la famiglia di lui. Quando gli chiese che cosa veniva a fare, egli rispose, vagamente:
— La mamma sta poco bene… mio padre ha delle seccature da sbrigare…
Ella non aveva nessun interesse a conoscere quella gente; però, dall’impaccio di Paolo, comprese che egli voleva evitare un incontro. L’orgoglio di lei, a quell’idea, ricominciò a sanguinare: era dunque così disprezzata da lui! creduta indegna di entrare per un momento in mezzo alla sua famiglia! Lo sbaglio commesso con quella tarda ripresa d’un legame finito le si rendeva adesso palese. E non le restava neppure il diritto di lamentarsi…
Prima delle vacanze, Paolo le annunziò che quell’anno doveva tornare a casa più presto del solito. Ella non oppose nessuna difficoltà, nè gli chiese se e quando contava di rivederla, rimandando la spiegazione alla sera del congedo, ma senza essere neppur certa che l’avrebbe provocata. Come lo scoppio di un fulmine, il giorno precedente, una notizia la stordì. Il principe di Lucrino, incontratala per via, accompagnatala un pezzo, le disse a un tratto, dopo averle inflitte mille sciocchezze, con un’allegria espansiva:
— Dunque, abbiamo un matrimonio parlamentare?
— Che matrimonio?
— Ma quello dell’onorevole Arconti…
Col cuore subitamente afferrato e stretto da una morsa, ella sostenne lo sguardo indagatore di quell’uomo; disse, ridendo:
— Davvero?
— Con la figlia del senatore Rigoni… la famiglia dello sposo è venuta a Roma per questo…
Ah, quel ritorno a casa, fra gli urti dei passanti, lo schioccar delle fruste dei cocchieri, con un velo dinanzi agli occhi, un rumorio minaccioso che pareva inseguirla, incalzarla, che faceva precipitare il suo passo; e lo smarrimento, la vertigine che l’obbligarono ad arrestarsi a mezza scala, afferrata alla maniglia, ansimante, perduta; e il sordo ribollir della collera, appena entrata a casa, il furore con cui si strappava la veletta, con cui gettava lontano il suo cappello, i suoi guanti, la rabbia con cui scacciava la vecchia che le diceva qualcosa.
— Vattene… via! Hai capito?
Scacciata anche lei! Gettata via come una cosa inutile e vile! Egli la gettava via! A quest’idea, all’idea di sapersi abbandonata per un’altra, di saperlo felice con un’altra, il rancore la divorava. Essergli rimasta scioccamente fedele! Non essere stata lei a infliggergli quel tormento, a ferirlo nel suo orgoglio, a vendicarsi dei suoi disprezzi! Essere umiliata da lui, sferzata a sangue, calpestata sotto i piedi, derisa, schernita! Oh! oh! Due lacrime ardenti le traboccavano dalle gonfie ciglia, si evaporavano sulle guancie infiammate… Ella si rodeva, nell’impeto furioso di commettere una pazzia, di far parlare tutto il mondo di sè. E non le aveva detto nulla! Forse era già partito! Allora, corse al campanello, chiamò a lungo, fin quando Stefana apparve.
— Senti… scusami… ma corri da lui… domanda se è qui… se non è partito… No, non dir questo… se è qui, soltanto… senza farti vedere… corri… fa presto!
Vederlo! Udire da lui stesso se era vero! Vedere fin dove arrivava la sua viltà! E dei progetti le attraversavano lo spirito: correre da quell’altra, dirle: «È mio!», gettarsi fra loro… E poi? A un tratto, la coscienza della propria debolezza l’abbatteva. Col viso nascosto contro il guanciale, il petto compresso, le mani afferrate alla coltre, ella non poteva pianger neppure… Ma era nulla il dolore antico, il dolore della separazione reciproca suggerita dalla stanchezza, dinanzi a quel che avveniva adesso, alla solitudine in cui ella restava intanto che la vita ricominciava a sorridere
all’altro! Allora pensava: «Ma se non lo amavo più? se ero stanca di lui?» E voleva dirglielo, buttargli in viso il disprezzo che le ispirava soltanto… Invece, vedeva un altare sfolgorante, una coppia felice, e dietro un pilastro, nell’ombra, una donna vestita a nero, la tradita, l’abbandonata… E finalmente le lacrime scorrevano, il freddo guanciale le beveva… Ma ella lo amava! Non lo aveva mai amato tanto! Come il giorno in cui lo aveva tradito, ella assisteva adesso alla rivelazione dell’amor suo!
— Non è partito… è qui…
Rimandò la donna, si mise a misurare da un capo all’altro la camera, come una leonessa ferita. Che fare? Che dire? Fingere, aspettare che egli si decidesse a rivelarle i suoi progetti… Provocarlo piuttosto, sferzarlo… o supplicarlo ancora! Ripeteva a voce alta le frasi che pensava: «Se credete che io v’abbia amato mai! No! tu non farai
questo: non merito tanta crudeltà…» Imaginava le risposte che egli le avrebbe date, e come l’ora scorreva, l’ansia, il tormento crescevano; a un tratto, a un improvviso squillo del campanello, ella sussultò, scattò in piedi, sentì tutto il suo sangue rifluirle al cuore…
— Tu parti?
Dopo averle baciata la mano, egli rispose:
— Domani.
— Credevo… che non saresti venuto…
— Perchè?
— Nulla!… temevo… Si è sciocchi quando si ama…
Egli si cavò lentamente i guanti, guardandone la cucitura. Disse:
— Tu cosa farai?
— Non so… non ho ancora stabilito… aspetto che tu stesso decida..
— Ma tu sei libera!… non c’è ragione di vincolarti…
Vi fu un momento di silenzio. Ella domandò:
— E quando conti di ritornare?
— Presto, spero… più presto del solito…
— Non mentire!
S’era alzata, appoggiandosi alla spalliera della poltrona, fissandolo in viso.
— Se tu non vuoi credermi… — rispose egli, scrollando le spalle.
— Non mentire… so tutto!
E adesso egli chinava lo sguardo. Irrigidita, col capo eretto, il respiro breve e precipitato, ella lasciava cadere delle parole lente e gelate:
— Tu parti… per non vedermi più… per raggiungere un’altra… credevo però che avresti avuto… la lealtà… di dirlo…
Più lungo, più penoso, il silenzio tornò a pesare dintorno. Egli evitava sempre di guardarla. Il rancore e lo sdegno ribollivano in lei, traboccavano quasi; ella frenava gl’impeti da cui si sentiva strozzare.
— Tu non rispondi nulla?
— Cosa vuoi che dica? Se non sono creduto! se tu presti fede piuttosto alle ciarle della gente!
— Allora… allora… — e febbrilmente la mano di lei stringeva la sua — allora, giura che mi hanno ingannato… giura che non è vero… Tu taci! Tu eviti di guardarmi! Tu non hai il coraggio…
— Oh, insomma!
Di scatto, anch’egli sorse in piedi. Ella indietreggiò, spalancando gli occhi, riparandosi istintivamente con un braccio, presa da una folle paura, credendo che fosse sul punto di batterla. E come egli si stringeva la testa fra le mani, traendo un sospiro d’ambascia, prorompendo a un tratto:
— Ma perchè mi torturi? Non vedi che soffro? Che volete da me?
Ella cominciò ad assentire, col capo, con la mano:
— Sì, sì… hai ragione… il torto è mio! Tutto mio! Non gridare… sei libero, guarda: non ti trattengo, va’… va’…
— Non capisci tu dunque…
— Zitto! Non dir nulla! Capisco, sì, sì… capisco che non si dice a una creatura: «Sai, non t’amo più, ne amo un’altra, tu sei d’inciampo alla mia felicità, lasciami, vattene…» Ah!… ah!
Cadde sul divano, col capo contro il bracciale, le labbra contratte da brividi sibilanti. Egli venne a mettersele accanto, a tentare di sollevarla, di persuaderla:
— Ma non è questo! Se ti hanno detto male! È la mia famiglia che ha dei progetti… che crede di costringermi…
— Non m’ingannare… tutto è finito, per sempre…
Egli non rispose. Allora, ricomponendosi, passandosi una mano sulla fronte, ella disse:
— Tutto era già finito da un pezzo… il torto fu mio, a tentare di risuscitare un cadavere… adesso, ecco, comprendo!
Si alzò e gli stese una mano.
— Non è colpa di nessuno… doveva finire così!… Siate felice.
Gli occhi di lui si velarono di lacrime.
— Vi ho molto amata, credetemi…
Ella fece un gesto vago. Aveva bisogno di tutta la sua forza per contenersi. Egli restò un poco in silenzio, a capo chino; poi fece un passo.
Allora un singhiozzo violento le straziò la gola.
— Dio!… Mio Dio!
Credeva di morir soffocata, il pianto tempestoso si mutava in una tosse convulsiva e lacerante. Egli diceva qualcosa; col capo, con tutta la persona, ella faceva cenno di no, di no. Come quello strazio si venne sedando, l’altro disse, piano:
— Se volete, non partirò…
Allora le sue lacrime cessarono d’un tratto.
— Addio!
Egli chinò il capo.
— In qualunque circostanza potessi esservi utile, ricordatevi che avete in me un amico…
— Grazie… Vi ringrazio.
Ed era scomparso! E non era tornato indietro! E non era venuto a gettarlesi ai piedi, a domandarle perdono, a lasciarla almeno con una buona parola… Così! Così! Una pietra sepolcrale si chiudeva dunque su quel passato, qualche cosa crollava nell’anima di lei… un momento, ella stette in ascolto, udendo il clamore pauroso del silenzio; poi si sentì torcere ed abbattere…
E il domani, nell’abisso di miseria morale, di sofferenze fisiche in cui era precipitata, aspettava ancora. Come niente veniva, come l’ora della partenza trascorse, ella mandò ancora Stefana da lui. Credeva che non fosse partito, che sarebbe venuto ancora una volta. Era troppo triste, troppo malvagio lasciarla così…
— Partito… è partito?
Allora un impeto selvaggio di sfida la sollevò. Che viltà, che viltà! E ad un tratto il cameriere venne ad annunziare:
— Il signor principe di Lucrino.