V.

Un giorno Laura non si alzò. Aveva gli occhi luccicanti, le labbra aride e un febbrone da cavallo. Il dottore aspettò un poco prima di pronunziarsi, poi confabulò col nonno. Ella udì la parola tifoidea, e il nonno cominciò a fare come un pazzo. Le grida con cui mandava via la gente, con cui strapazzava le persone di servizio, s’udivano da un capo all’altro della casa. Poi, quando passava dall’ammalata diventava così buono, così dolce, così delicato, che non pareva più lui. Con le sue mani forti e rugose confezionava le pillole, regolava le dosi delle medicine, attento, minuzioso, pazientissimo. Andava lui stesso in cucina, per curare la preparazione del brodo, delle gelatine che la poveretta non assaggiava neppure. Allora lui cominciava a pregarla, a insistere, promettendole tutto quel che voleva purchè prendesse qualche cosa, accarezzandola, vezzeggiandola, e poi scoppiando a bestemmiare se l’altra, con una nausea invincibile, rifiutava ancora.
— Ebbene, nonno, prenderò quel che vuoi… non t’inquietare!
Ella s’era messa accanto al letto della sorellina e non si muoveva più di lì. Vedendo quelle povere guancie consumate dalla febbre, toccando quelle manine ardenti, si sentiva struggere di tenerezza; avrebbe voluto prendere lei stessa il suo male, le avrebbe dato un poco del suo sangue. La sera, curvandosi a baciarla, prima d’andare a letto, le diceva:
— A domani, sorellina; ma guarita, veh! E se guarita proprio proprio non è possibile, migliorata almeno, con una febbricina leggiera leggiera, e poi più leggiera ancora, fin quando non avrai più niente, non è vero? Allora, vorremo divertirci, sai! Le belle passeggiate che faremo, i regali che strapperemo al nonno: vedrai!
Invece la febbre non cessava. Adesso, per ordine del dottore, una volta il giorno avvolgevano quel povero corpo stremato dal male in un lenzuolo imbevuto d’acqua e aceto: la malatina rabbrividiva, batteva i denti, tremava, cogli occhi socchiusi che parevano rovesciarsi, ma senza lamenti, senza impazienze, pregando soltanto il nonno di non insistere a volerle dare del cibo.
Il babbo non sapeva ancora nulla; fu lei stessa che gli scrisse. Allora cominciarono a piovere dei telegrammi, due il giorno, ai quali bisognava rispondere subito. Ma perchè non veniva lui stesso? Che cosa poteva trattenere un padre dall’accorrere al letto d’una figliuola in quello stato? Ed ella l’accusava sordamente, comprendeva che il nonno non parlasse mai di lui.
Pareva che quella febbre non dovesse cedere mai; invece un giorno cominciò a declinare, e a poco a poco scomparve.
— Hai visto? Hai visto? — esclamava, carezzando il visino pallido della sorellina. — Te lo dicevo io che saresti guarita? E quando questa testina e quegli occhioni dicevano di no, di no, come se le febbri durassero eterne?
Una convalescenza interminabile, intanto. Passò un mese prima che Laura potesse fare un giro per le stanze, un altro prima che potesse uscire in carrozza chiusa.
Come veniva l’inverno, per distrarla il nonno ebbe un’idea: invitò i suoi amici a passare la sera in casa sua. Venivano i Giuntini, i Ferla, tanti altri, e conducevano tutti i figli; si giuocava alla tombola, al sette e mezzo, al lansquenet. Luigi Accardi non mancava mai. Una sera che le si era seduto accanto, ella sentì afferrarsi la mano sotto il tavolo. Le parve d’udire un forte zufolìo, sentì freddo, poi una vampa che le saliva alla fronte. La notte non potè dormire: un’angoscia deliziosa le invadeva il cuore; ella si diceva raggomitolandosi sotto le coltri: «Mi ama! Mi ama! Com’è bello!… Quanto bene gli voglio!» e sorrideva pensando all’audacia con cui egli aveva sfidato un pericolo.
Adesso, egli armeggiava sempre per sederle vicino, e le mani s’annodavano, si stringevano, si accarezzavano. Tratto tratto, ella svincolava la sua per non dar sospetto; ma doveva fare uno sforzo, perchè egli non voleva lasciarla. Quando non erano seduti accanto, la guardava a lungo, intensamente, cogli sguardi umidi, come se volesse penetrarla tutta; ella lo guardava di sfuggita, rapidamente, e il seno le si dilatava dalla felicità, gli occhi le ridevano, non poteva star ferma, andava vicino a Laura tutta avvolta in uno scialletto, le stampava dei baci sonori sulla fronte e sulle guancie.
Nelle buone giornate, usciva con lei in carrozza, ed era lieta di farsi vedere con la sorellina, chinandosi a tirarle il plaid sulle ginocchia, a chiederle come si sentisse. Luigi aveva un attacco nuovo, un phaeton dalle ruote sottili straluccicanti. Egli passava e ripassava vicino alla carrozza delle signorine, salutando, facendo schioccar la sua frusta, e il cuore di lei si gonfiava d’orgoglio, ma quando Laura diceva di sentir freddo e la loro carrozza rientrava, ella non sapeva reprimere un moto di malumore.
In carnevale, il barone Accardi invitò la gente a ballare da lui: la casa era stata rimessa apposta a nuovo, e gli oggetti del cotillon venivano da Napoli. Tutta la società di Milazzo non parlava d’altro; ella smaniava per esservi condotta.
Vi andò, finalmente, sola con Miss. Le parve di entrare in un mondo nuovo; i suoni, le luci, il moto della danza la stordivano, l’inebbriavano; Luigi, ballando con lei, la stringeva alla vita, le mormorava: «Teresa! Teresa!» soffocato dall’emozione, incapace di dire altro. Tutti, del resto, la guardavano ammirandola; ella capiva che gli uomini parlavano di lei, che le sue amiche l’invidiavano un poco.
In quaresima, la gente riprese a venire da loro. Si facevano delle sciarade in azione, si scioglievano dei doppi-sensi, degli enimmi: ella non sbagliava mai, non subiva mai penitenze. Una volta, toccò a Luigi quella di contentare all’orecchio; quando le si avvicinò per mormorarle che cosa le dava, disse piano:
— Un bacio.
Il cuore le si mise a tempestare, non vide più chiaro, ma s’irrigidì per non tradirsi.
A un tratto, quelle belle serate cessarono: Laura, non ancora guarita del tutto dalla prima malattia, fu costretta a rimettersi a letto, con un forte raffreddore. Sembrava che il suo petto si spezzasse, sotto gli sforzi che lo scuotevano negli accessi della tosse. Il dottore veniva mattina e sera, quantunque avesse tanti ammalati, fra gli altri la moglie del Ricevitore, con la stessa malattia. Accanto al letto della sorellina, lei lavorava, senza dir nulla; una tristezza infinita le piegava il capo sul ricamo: le pareva che mai più avrebbe rivisto Luigi. Quel male che le impediva di andar fuori, di fare la solita vita, era una cosa da nulla, una infreddatura più forte delle altre. E udendo tossir la sorella, a lungo, una specie d’impazienza smaniosa la faceva sgarbata con lei. Un giorno vennero a dire, sotto voce, che la moglie del Ricevitore era morta.
Lauretta riposava, col respiro breve, le guancie pallide, i pomelli rossi. Ella buttò il suo ricamo, congiunse le mani, alzò gli occhi al cielo e si mise a pregare.
Che rimorso la straziava, pensando com’era stata senza cuore, come aveva potuto divertirsi mentre la poveretta pativa! Aveva paura di volgere gli occhi verso di lei, le pareva di vederla morta — e piangeva di tenerezza, ritrovandola meglio. L’acuto della malattia passava; a poco per volta Laura si rimise; ma la tosse non l’abbandonò più.
Ella aveva fatto alla sorellina il sacrificio di ogni svago, restando a curarla, a tenerle compagnia. Ne era orgogliosa, però di tanto in tanto il seno le si gonfiava di rimpianti, di aspirazioni alla luce, all’azzurro, alla gioia. Non potendo ancora esporsi all’aria aperta, Lauretta insisteva perchè la sorella andasse fuori sola; lei rifiutava ostinatamente; ma quando l’altra non insisteva più, sentiva gli occhi gonfiarlesi di lacrime. Imaginava che Luigi, alla lunga, si fosse dimenticato di lei, che avesse preso a voler bene ad un’altra; e, dalla contrarietà, si scarnava i polpastrelli intorno all’attaccatura delle unghie fino a sformarsi la punta delle dita.
Un giorno che erano sole, Laura fu più premurosa del consueto:
— Va’ fuori sola… fammi questo piacere! Se no, mi par d’essere più ammalata… Va’… — e sorridendo aggiunse: — Va’, t’aspetta Luigi Accardi…
Ella sentì tutto il sangue affluirle al volto. Con un sorriso d’indulgenza quasi materna. Laura riprese:
— Non ti far rossa…. che c’è di male? Credevi che non me ne fossi accorta?
Allora ella l’abbracciò fitta, nascondendole la testa sul seno.
— È vero, sì o no, che gli vuoi bene?
— È vero…
E le confidò tutto. Era la prima volta che parlava di queste cose. Guardava l’uscio, per paura che sopravvenisse qualcuno: guardava la sorella con un altro occhio; le pareva che vi fosse qualcosa di mutato d’intorno.
Dopo quella confessione, non le nascose più nulla. Lauretta stava ad ascoltarla, tra seria e indulgente, col capo avvolto in un fazzoletto, come una vecchina, quasi quelle felicità e quelle disperazioni non fossero per lei. E si faceva forza per accompagnarla, usciva in carrozza chiusa, sepolta sotto le coperte, tossicolando.
Ella la divorava di baci, dalla gratitudine; non pensava che potesse soffrire, e quando la sentiva tossire, si diceva: «È la stagione; quando verrà l’estate non avrà più nulla.»
In maggio, andarono ogni giorno insieme alle funzioni del Mese di Maria: la chiesa era tutta odorante di rose e d’incenso, le fanciulle cantavano, accompagnate dall’organo, le laudi della Vergine; padre Raffaele, il rettore, distribuiva imagini sante su carta ricamata come un merletto, che ella serbava nel libriccino di devozioni della povera
mamma. Ma, in estate, Lauretta peggiorò: la tosse cresceva, con delle esasperazioni vespertine, con una piccola febbre serale. La poveretta dimagrava sempre più, il petto le si affondava, certi giorni un sudor freddo le appiccicava i capelli sulla fronte. Vedendole le guancie pallide colorirsi di un vago rossore, ella diceva talvolta al nonno, che era cupo e triste:
— Ma non è poi tanto ammalata, nonno! Oggi è colorita in viso…
Il nonno non rispondeva, più cupo, intrattabile con tutti gli altri, una feminuccia dinanzi all’ammalata, che adesso avea ripreso il letto e non l’abbandonava più.
Dal lungo starvi, delle piaghe le si formavano sul corpo. Quando la medicavano, ella fuggiva, non fidandosi di vederle, rabbrividendo da capo a piedi al solo imaginarle. Ma lei era sicura che sarebbe guarita presto. Adesso, col caldo, venivano delle visite, la sera, a sentir la musica. Come tutte le altre estati, il palchetto pei suonatori era rizzato in mezzo al passeggio della Marina, e si riudivano sempre gli stessi pezzi: una polka del Flik-Flok, il second’atto dell’Ernani, il quartetto e la tempesta del Rigoletto. Delle persone che venivano in casa loro, alcune restavano intorno al letto dell’ammalata, altre passavano nella terrazza. Ella ve li accompagnava, facendo gli onori di casa. Luigi, che veniva coi suoi, le stava sempre intorno.
Una sera che si trovarono soli un momento, egli l’afferrò alla vita, la baciò in bocca, mormorando:
— Mi vuoi bene? Teresa, Teresa mia?
Ella disse di sì, sommessamente, tremando da capo a piedi; egli soggiunse:
— Mi dai i tuoi capelli?
Venne gente, dovettero separarsi. Ella preparò a lungo la ciocca dei suoi capelli, intrecciata con delle pensées, legata da un piccolo laccetto rosso e avvolta in un pezzetto di carta trasparente.
Quando Luigi tornò e le prese la mano al buio, ella gli diede l’involtino. A un tratto vi fu un rimescolìo nella camera dell’ammalata, sedie urtate, un lume sollevato, delle voci che chiamavano. Accorsero tutti; Laura aveva una sincope: il respiro quasi spento, gli occhi rovesciati.
— Non è nulla! — dicevano tutt’intorno. — La debolezza, la prostrazione, tanti mesi di letto…
Però il nonno fece venire un dottore da Messina. Fu ordinato il mutamento d’aria, e subito tutti partirono per il Capo. La mattina, prima che l’aria s’infuocasse, l’inferma scendeva in giardino a braccio della sorella; faceva un po’ di moto, a piccoli passi, fermandosi spesso. Poi si metteva a sedere, sotto l’ombrello, ed ella le coglieva dei fiori, glie li faceva piovere in grembo. Le parlava dell’avvenire, l’assicurava della guarigione, faceva dei progetti contando su di essa. Poi, riprendendola sotto il braccio, la riconduceva a casa. Una sera, mentre lei ripassava la mazurka Capricciosa ballata con Luigi, vennero a chiamarla: Laura aveva un’altra sincope. Il domani venne il dottore, parlò a lungo col nonno; poi questi mandò a Milazzo il giardiniere, per spedire un telegramma. La risposta arrivò a Miss: «Parto col postale di domani, sarò costà sabato, fate trovare carrozza sbarcatoio.»
— È il babbo che viene, nonno? — chiese ella, impaurita.
Il nonno non rispose, inginocchiato dinanzi alla cassetta bassa di una libreria, donde cavava vecchi giornali illustrati, che erano lo svago della malatina. Messili in ordine, glie li recò, reggendoli lui stesso dinanzi al letto, sfogliandoli, girandoli per mostrare le figure disposte di fianco.
— Basta, nonno… così ti stanchi… — diceva Laura tratto tratto.
— Non mi stanco… se mi stancassi, mi riposerei! — E come la vedeva sorridere, chiedeva: — Tu come stai? Meglio? Senti adesso una cosa… — Tacque un poco, poi riprese: — Se venisse qui… tuo padre… ti piacerebbe?
L’inferma spalancò gli occhi, come stordita.
— Tuo padre… di’, ti farebbe piacere?
— Oh, nonno, il babbo! Nonno, il babbo!… — e non sapeva dire altro.
— Il babbo, sì: parlo turco forse? Se ti fa piacere, lo chiameremo…
La poveretta piangeva di contento, gli gettava le braccia scarne al collo mormorando:
— Grazie, nonno…. Com’è bello! Grazie! Grazie!
— Va bene, abbiamo inteso…. Cosa c’è da ringraziare?
E con la voce burbera, troncò il pianto e le effusioni della malata, la quale adesso diceva di voler aspettare il suo babbo levata. Malgrado ogni protesta, il giorno dell’arrivo si alzò. Avevano calcolato che la carrozza sarebbe giunta alla Rocca verso le due; a quell’ora volle scendere in giardino. Però il tempo passava senza che arrivasse nessuno.
— Che sarà? — chiedeva inquieta.
— Nulla, il ritardo del vapore! — rispondeva il nonno.
Ma non si tranquillava, porgeva l’orecchio, guardava il mare.
— C’è stato cattivo tempo? Il cocchiere non lo conosce… gli avete detto di andare proprio al porto?
Era nervosa, insofferente. Si ostinò ad aspettare ancora, sentì freddo, dovettero portarla su quasi a braccia; ma, appena a letto, perdette i sensi. A un tratto si udì un rumore lontano, poi una voce che chiamava, dei passi affrettati. Il babbo comparve sulla soglia dell’uscio, fermandosi ansiosamente. Il nonno, alzato un braccio, fece segno di far piano. Ma egli era già accanto al letto, con un braccio attorno al capo della bambina, cercando gli occhi di lei. Gli occhi di Laura si schiudevano allora, e la mano fredda e madida, abbandonando quella della sorella, tentava di carezzare il viso del babbo.
— Come stai, Lauretta? Come stai? — chiedeva egli, alzando lo sguardo.
— Meglio… — rispondeva il nonno, guardando l’inferma. — Stai meglio, non è vero? È niente, adesso è passato…
Ancora un altro miglioramento. Per prudenza, la fecero rimanere a letto; ma pareva così felice, col babbo da una parte, la sorella dall’altra, il nonno che girava per la camera, come avesse un gran da fare, ma senza far niente! Una mattina, presto, si alzò un poco, ma non potè scendere in giardino per il tempo che minacciava. Quando si rimise a letto, cominciò la pioggia, scrosciante; fu una burrasca di corta durata. Al tramonto, il sole brillava fra le nuvole squarciate, e Lauretta, serena, sorridente, ascoltava i progetti che facevano per l’avvenire.
— Ma il babbo resterà un pezzo con noi, non è vero? Non è vero, nonno? — chiese, voltandosi verso di lui, che se ne stava appoggiato ai piedi del letto.
— Si capisce.
— Sì!… Sì!
Sarebbero tornati a Milazzo, con l’autunno che s’avanzava; al Capo non c’era più ragione di restare. Poi, guarita Lauretta, sarebbero andati a Palermo, a Firenze, a Parigi, tutti, tutti!
— Anche tu, nonno; non è vero?
— Anch’io, eh! — E come in quel momento entrava la moglie del fattore, aggiunse: — Anche donna Mara!
Risero tutti. Calò la sera, mentre ancora facevano progetti.
La luce della lampada infastidiva un poco Laura. Sollevatasi, disse alla sorella:
— Teresa, coglimi dei fiori…
— Subito, sorellina!
Ella scese in giardino. Dalle piante, tutte bagnate dalla pioggia recente, esalava un profumo intenso, acutissimo. Sorgeva la luna, tra nuvolette d’oro, e la luce d’argento bagnava tutto quel verde scuro, umido e stillante. Disteso con una mano il grembiale, lei cominciò a farvi piovere i gelsomini che spiccava con la destra. Ne era quasi pieno, ma ne coglieva ancora, voleva coglierne ancora più; voleva seppellire la sorellina sotto la nevicata odorosa. Di repente s’udì un grido terribile. Ella tremò da capo a piedi, lasciò cadere i fiori, incrociò le mani sul petto. Un altro grido, dei rumori confusi. Allora ella cominciò a correre disperatamente verso casa, e nella corsa vide una finestra schiudersi, il nonno uscire sulla terrazza, alzare le braccia minacciose al cielo. Prese un nuovo slancio, salì a precipizio la scalinata, traversò come un lampo le stanze e s’arrestò sull’uscio. Intravvide una forma rigida sul letto, una gran macchia di sangue, e s’intese spingere indietro.
— Babbo! Nonno! Babbo…
— Zitta! Zitta! Son’io, Stefana… di qui… chiudete! Zitta! Tuo padre…
Allora, afferrata la mano del babbo in un impeto furioso, scoppiò in pianto alto, convulsivo, lacerante, con la bocca contorta, le mani tremanti, il petto rotto dai singhiozzi. Nella stanza buia, il riflesso della luna metteva un vago chiarore; ella non vedeva, non udiva, riprendeva a piangere più forte; in mezzo al pianto dirotto, mandava dei lamenti rauchi, sordi, rantolosi.
— Teresa! Figlia mia… Coraggio! Poveretta, ha ragione!
Le mani dure, rugose, incallite, della moglie del fattore cercavano le sue, teneramente; Stefana la teneva stretta, la baciava in viso, confondendo le proprie lacrime con le sue.
Portarono un lume, e come ella scorse Miss, sola, in un angolo, piangere silenziosamente, a capo chino, sentì un singhiozzo più violento squarciarle la gola, dischiuse la bocca come se una mano la soffocasse.
— Teresa! Signorina! Figlia mia! — e Stefana balbettava, annaspando:
— Bambinuccia! Per carità… fàllo per tuo padre… Signore!
A un tratto ella si alzò.
— Lasciatemi. Voglio vederla, l’ultima volta…
Allora tutt’e tre le donne le si misero dinanzi, facendo barriera, scongiurando tra le lacrime:
— Signorina! Thérèse! Per carità! Vuoi ammazzarti!
La fecero ricadere sul divano, raggomitolata, come un ammasso di panni, e i lamenti riprendevano, più sordi, più tristi.
— Il nonno… — balbettava ella — il nonno…
— Poveretto! Anche lui! Chi gli avrebbe detto che doveva vedere anche questo? Angeletto di Dio! — esclamavano le donne, pietosamente. — E buona, come non ce ne saranno più al mondo…. mai e poi mai… Creatura buona! Ora è in paradiso, a pregare per noi…
Le strida e le querele si facevano più lunghe; ma quello che la straziava era il pianto muto, incessante di Miss. La notte passava: si udivano di tanto in tanto delle voci che chiamavano dal giardino, il portone della stalla che gemeva sui cardini, i cavalli scalpitanti nella corte, il canto lontano dei galli. Poi comparve il nonno, curvo, avvolto in un gran soprabito, cogli occhi asciutti. Ella gli s’afferrò, baciandogli la mano, bagnandola di pianto, spegnendovi sopra le strida che le uscivano dal petto. Anche il babbo gli strinse l’altra mano; lui disse:
— Basta, basta… adesso basta… la volontà di Dio! Adesso, voi altri ve ne andrete…
— No! No! È impossibile!
— Ve ne andrete, la carrozza è attaccata… Va’ a prender gli scialli, Stefana… Ve ne andrete tutt’e tre, con Miss… Resto qua io… Andiamo, basta!
Alzatasi, ella implorava ancora, con le braccia tese ansiosamente, di poter passare di là; ma tutti la trattenevano.
— Va’! Teresa! Fate presto, il cocchiere ha da fare… non perdiamo tempo… Andiamo!
Scese così, sospinta, tentando di voltarsi, con lo scialle che le cadeva per terra, mandando dei baci alla finestra spalancata e lucente nella notte muta e serena.
La carrozza partì. Rannicchiata in un angolo, accanto al babbo, ella soffocava i singhiozzi che le salivano alla gola. Cogli occhi sbarrati sulla via polverosa che pareva scorrere come un fiume, con una mano premente sul cuore, ella si ripeteva, trattenendo il respiro: «Sorella mia! Sorella mia!» e uno stupore l’irrigidiva, pensando che mai, mai più l’avrebbe rivista. «Sorella mia! Sorella mia!» Che fuoco! Che dolore! Pensare sempre a lei! Stamparsi nel cuore la sua dolce figura! averla sempre dinanzi per tutta la vita!
— I fiori! I fiori che avevo colti per lei!
Il pianto riprendeva, lungo, cocente. Era morta! Morta! La gran macchia di sangue… il viso di cera… Se non fosse morta? Perchè le avevano impedito di baciarla? Ma i medici li avevano ingannati, non avevano detto che doveva finir così presto! Se lo avesse saputo! Come avrebbe voluto starle in ginocchio dinanzi, tutti quegli ultimi giorni! E invece aveva pensato a svagarsi, aveva riso, aveva pensato ad altri! Allora, come dei chiodi le entravano nelle carni: tutti gli sgarbi che le aveva fatti, le insofferenze da cui era stata presa udendola tossire, le distrazioni che aveva cercate, le cure che non le aveva prodigate, i baci che non le aveva dati e che non avrebbe potuto darle più, mai! E la sua bontà, la sua pazienza di piccola martire, e il bene che aveva voluto a lei… «Sorella! Sorella mia!» Ma le lacrime cessavano di scorrere, nell’angoscia da cui si sentiva presa ricordando tutte le liti che le aveva cercate, le cattive parole che le aveva dette quand’era bambina: «Mummia sgobbona… dottoressa bestia…» Come aveva potuto? A un tratto, rammentava l’ira con cui l’aveva picchiata, una volta, la vampa che l’aveva acciecata intanto che batteva quel piccolo corpo — e si portava le mani al collo, lo stringeva, soffocando un rantolo sordo…
La campagna era chiara come all’alba; il riflesso della luna tremolava sul mare, e la via non finiva più, quella via fatta tante volte, con la gaiezza in cuore, insieme con la sorellina morta, con la mamma morta… morta! Morta! E lei avrebbe potuto vivere più? Tutto era finito per lei. Era stata un’immensa sciagura la perdita della sua mamma, ma nessuno sapeva quello che lei perdeva adesso: la sua compagna, la sua confidente, il suo buon angelo consolatore! Non si portava con sè una parte di lei? Che cosa avrebbe fatto più, sola? Le sue labbra si torcevano dall’amarezza, pensando all’avvenire; non c’era avvenire per lei: una successione di giorni bui, con l’imagine della poveretta sempre dinanzi, sempre nel cuore…
Adesso entravano nella città addormentata, silenziosa; le mura del castello, enormi, tagliate dalla luna, correvano, sparivano; ed a casa la desolazione cresceva, dinanzi al letto vuoto della sparita, dinanzi a tutti i piccoli oggetti che le erano appartenuti, sui quali ella metteva dei baci disperati.
Che notte! che oppressioni! che risvegli terribili! E che tristezza nel nuovo giorno! Che scoppii di pianto ad ogni notizia, ad ogni viso nuovo!
— La portano via a mezzogiorno… A San Francesco di Paola…
— Dei fiori… copritela di fiori bianchi!
Erano delle grida convulsive che le uscivano dalle labbra, non erano parole.
E il suono orribile delle campane, che la faceva balzare in piedi a ogni ripresa, e il cadere pauroso del giorno, e il ritorno del nonno, invecchiato di cent’anni, con la schiena curva, gli occhi aridi, le mani tremanti… come gli divorava la mano a baci, egli la trasse in disparte, con un’aria di mistero, nella sua camera.
— Vieni! Zitta, vieni…
Cavò di tasca il suo gran portafoglio di cuoio, lo aprì e ne trasse una busta. Aprì anche quella, con le mani che gli tremavano spaventosamente, e come trasse la ciocca di capelli morbidi e neri, scoppiò in pianto anche lui.
— Ah… ah! Nonno!
Erano terribili le lacrime del vecchio, le contrazioni spasmodiche del suo viso rugato. A un tratto, s’alzò, e mostrando un pugno al cielo, gridò:
— Cristo!
Caduta sopra una poltrona, ella aveva perduto i sensi. Le convulsioni la ripresero, restò lunghi giorni a letto. Adesso venivano le visite: erano il nonno ed il babbo che le ricevevano, vestiti a nero, con le voci rauche. Parlavano tutti piano, l’uscio di casa restava aperto, non si udiva suono di campanello, entrava chi voleva; e Stefana, venendo al suo capezzale, le riferiva i nomi delle persone che erano di là. Venne anche Luigi Accardi, coi suoi; ma quel nome non le fece nessun effetto: le pareva che fosse passato tanto tempo! Aveva un gran vuoto nella testa.
Il babbo partì, poi vennero gli zii di Palermo; nulla rompeva la tristezza di quella casa, niente leniva il dolore di lei.
Il dottore disse un giorno:
— Perchè non ve ne andate fuori? Sarà la miglior medicina!
E come tutti restavano in silenzio, riprese:
— Andate via, andate a Palermo; svagatevi un poco… Volete che anche quest’altra creatura pigli un malanno serio, si assoggetti a questi disturbi?
La zia insisteva anche lei, diceva che il soggiorno di Palermo era necessario per completare l’istruzione di Teresa, per farle vedere un poco il mondo. Ella udiva quei discorsi, indifferente, senza dir nulla, come se si trattasse di un’altra.
Così fu decisa la sua partenza insieme con Miss; il nonno volle restare, non ci fu modo d’indurlo.
— Sono vecchio… voglio restar qui… Vi dico di no.
Prima di partire, andarono con la zia e con Miss, in carrozza chiusa, su a San Francesco di Paola. Inginocchiate dinanzi alla lapide bianca, empirono la chiesa di sommesse querele, di singhiozzi soffocati. Poi si divisero in pianto dal nonno; egli baciò a lungo in fronte la nipotina.
Quando il vapore cominciò a muoversi, ed uscì dal porto, e sfilò lungo la Marina, dinanzi alla linea del paese che finiva sotto i Cappuccini, ella restò a guardare tutti quei luoghi, col cuore chiuso, cogli occhi cocenti. Cercava la sua casa, dov’erano successi tanti avvenimenti; San Francesco di Paola, dove riposavano la mamma e la sorella, la villa del Capo, la Lanterna, la spiaggia remota di San Papino… e quando tutte quelle cose furono scomparse, e restò solo il mare d’un azzurro così carico che pareva quasi nero, ella ebbe freddo e paura.