VII.

Talvolta gli zii, senza parlare precisamente di matrimonio, le chiedevano chi preferisse fra tutti i giovanotti che le stavano attorno.
— Nessuno! — rispondeva, tra le denegazioni incredule e certi sorrisi d’intelligenza che marito e moglie scambiavano.
— Vediamo: Bracciaferri?
— Cosa? Per bacco: bell’animale! Sfido io! Chi, l’aiutante maggiore? Un carambolaio!
— Sibiliano, allora?
— Già, per fargli la pappa!
— San Demetrio?
— Ah, quello sì, davvero! Molto elegante, molto soigné! Coi calzoni sotto i tacchi, i capelli sul bavero… Brrr!
— Insomma, non c’è proprio nessuno che sia degno di te?
— E a voi che cos’importa? Avete fretta di mandar via la vostra nipotina?
Con due baci e due salti la scena finiva, salvo a ricominciare qualche tempo dopo. Però, essi non le parlavano mai di Enrico; avevano soltanto delle reticenze, dei sorrisi d’intelligenza, come per significare: «Sappiamo! Sappiamo!»
Un giorno, ricominciando la solita litania, la zia le disse a bruciapelo:
— Ed Enrico Sartana?
— Chi, San Giorgio cavaliere? — rispose subito lei, piegando un poco il capo, atteggiando il viso a bellezza insipida.
— Eh! eh!… — tossicchiò lo zio.
— Perchè? — chiese lei arrossendo un poco.
— È proprio San Giorgio cavaliere? Ti è assolutamente indifferente?
— Assolutamente.
— Così, se ti domandasse, lo rifiuteresti?
Ella non rispose, la zia non insistè. Non poteva rispondere, col cuore gonfio di tenerezza e di rimorso. Egli l’amava! La chiedeva in isposa: era chiaro! Non lo aveva ancora detto a lei, aspettando di parlarne prima ai parenti: un pensiero del quale ella apprezzava tutta la delicatezza, pel quale doveva essergli grata! La madre di lui non la trattava già con maggiore effusione, non la chiamava: figlia mia? Allora, ella doveva maritarsi? Era dunque giunto il tempo in cui
sarebbe davvero entrata nella vita? Lo aveva aspettato tanto; adesso era giunto! La proposta della zia suonava per lei come una rivelazione.
Ella si vedeva già fidanzata, già sposa: passato e presente s’inabissavano lontano; una nuova esistenza, un nuovo orizzonte le si schiudeva dinanzi. Ella lavorava ad imaginare tutto quello che le sarebbe accaduto, sospingeva col desiderio il corso degli avvenimenti, dimenticava la realtà circostante — e ritrovandosi a un tratto in mezzo ad essa, fra le parenti che non parlavano più di domanda, tra le amiche garrule o indifferenti, dinanzi a Enrico che non diceva ancora nulla, comprendendo di essersi troppo affrettata a costrurre un edifizio sopra una semplice supposizione, sentivasi presa da una stanchezza sfiduciata, da un principio di disgusto. Odiava i giorni monotoni che non le portavano nessuna emozione, che scorrevano per lei come per tutti gli altri. Ella si sentiva fatta a un modo diverso dal comune, si sentiva destinata a qualche cosa di alto e di grande. Chi aveva un cuore come il suo? Chi poteva comprenderla?
Le altre parlavano ad ogni momento della loro dote; e prima di dar retta a qualcuno, volevano sapere se era ricco, e quanto; a lei sarebbe parsa la profanazione di tutto il suo ideale, un simile calcolo. E quando seppe che la casa Sartana non era più solida come prima, Enrico gli parve più interessante: avrebbe voluto dirgli: «Io sono ricca per due: ciò che è mio non è tuo?» Invece, egli le tornava dinanzi per tentare qualcuno dei suoi soliti epigrammi! Ella rispondeva freddamente, con un disprezzo superiore, intanto che si sentiva struggere d’amore disconosciuto, intanto che avrebbe voluto dirgli: «Perchè mi tratti così? Guardami, leggimi nell’anima!» Per vendetta, si volgeva nuovamente a Platamone; ma costui, dopo esserle stato una serata intorno, parlava di tornarsene in Germania, di stabilirsi a Vienna, perchè si annoiava a Palermo, dove non c’era nulla da fare, nulla che lo trattenesse… E se lei fosse stata realmente presa dalle sue assiduità, dagli sguardi languidi che le rivolgeva? Anch’egli dunque mentiva? Non vi era proprio nessuno a cui potersi fidare?
Ella non poteva nemmeno contare sulle amiche: Giulia, contenta di Toscano che ogni quindici giorni aveva un’avventura, non capiva il suo scontento; Bice Emanuele era sempre un po’ isolata nel suo idealismo, la Sortino le pareva un po’ troppo volgare per comprenderla; Enrichetta Geremia, fidanzata con Balsamo, era come perduta per tutte; e le altre, le maligne, quasi avessero compresa quella freddezza sorta fra lei ed Enrico, non si lasciavano sfuggire nessuna occasione di notarla, di alludervi, intanto che le protestavano affezione ed interesse. Ella lasciava dire, studiando di non tradirsi; quando un giorno in casa della Carduri, vide la Leo che confabulava in un gruppo di compagne. Al suo appressarsi, colei smise di parlare, come imbarazzata.
— Che dicevate di bello? — chiese ella, appoggiandosi al braccio di Giulia.
— Nulla… una notizia di matrimonio…
— Ah, sì? E chi sposa?
— Sara Máscali… ma sai, non è ancora ufficiale… una cosa che si dice… Io l’ho saputo da mia cugina.
— E lo sposo? — insistè lei, intanto che le gambe le si piegavano.
Rosa rispose, evitando di guardarla:
— Dicono, Enrico Sartana.
La sua vista s’annebbiò come se tutte le sue vene si fossero vuotate di sangue. Sentiva morirsi, appesantirsi sul braccio di Giulia; ma nell’abbandono di tutte le sue forze, la paura di lasciarsi scorgere la sosteneva.
— Una bella coppia! — disse, componendo le fredde labbra a un sorriso, intanto che ansimava, che il cuore le si schiantava. — Sarà una bella coppia!
Giulia la condusse dinanzi a una finestra.
— Soffri? — le chiese amorosamente.
— Io? No… perchè dovrei soffrire?
Ma non udiva nulla di tutto quello che si diceva intorno, sentiva un rumorìo confuso nelle orecchie, un freddo serpeggiante a brividi per la schiena, e quando finalmente si trovò sola, nella sua cameretta, si chinò sul suo letto, affondò il viso sui guanciali e scoppiò in pianto. Adesso nessuno la vedeva; adesso la sua disperazione poteva liberamente prorompere. Delle parole rotte, perdute tra i singhiozzi, le salivano alle labbra: «Come? Perchè? È dunque vero?» Che cosa aveva fatto a colui? Come aveva meritato quel tradimento? Se egli non l’amava, perchè le aveva tolta la pace? Se l’amava, perchè sposava quell’altra? Perchè non le aveva mai detto una sola parola?
— Mio Dio! Mio Dio!
Rialzatasi, passatasi una mano sugli occhi, ella restava a guardar fiso in un punto, come abbacinata: no, no: nulla poteva spiegare quella doppiezza, quel tradimento… nulla, fuorchè la malvagità, il calcolo vile! Quell’altra non era più ricca di lei? più ricca d’assai? Era dunque per questo! Non poteva esser che questo! Ed ella si disperava per un tal uomo? E se pure lo aveva amato, l’amor suo non finiva, non moriva dinanzi alla rivelazione di un animo così vile? Ah, sciocca, ah, sciocca! E adesso, passeggiando su e giù per la camera, si stringeva una mano con l’altra, forte, fino a farsi male, si premeva una tempia, arrestavasi tratto tratto a battere i piedi, fremente, convulsa, con un riso amaro che le increspava le labbra. Voleva ridere, voleva sghignazzare, voleva metterselo sotto i piedi, dal disprezzo… No! no! no! Disprezzarlo sarebbe stato ancora pensare a lui; egli avrebbe trionfato! Non curarlo voleva; dimenticarlo, annientare la sua memoria, guardarlo come si guarda un estraneo, il primo venuto, la folla!
Però la sua indifferenza, il suo scetticismo, non la difendevano da un’ansia secreta, tutte le volte che al passeggio, a teatro, in società, ella s’aspettava di vederlo apparire. E adesso egli era diventato invisibile. Era andato via, o passava il suo tempo accanto a quell’altra?
Lo scorse improvvisamente, un pomeriggio di domenica, alla villa d’Alì, dove s’eran dato convegno tutte le conoscenze della principessa, per festeggiarne il natalizio. Come faceva molto caldo, la principessa riceveva in giardino, all’ombra delle acacie: le signore sedevano sulle poltroncine di ferro disposte attorno a una gran tavola di marmo; gli uomini erano in piedi, accanto alle dame, o raccolti in gruppi; le ragazze smarrite pei viali a coglier fiori, a inseguirsi, intanto che dei camerieri circolavano, con dei vassoi pieni di dolci, con delle caraffe di liquori e di rosolii splendenti come enormi blocchi di topazii, di rubini e di zaffiri, con dei boccali d’acqua ghiacciata imperlati di brina. Vinta da una secreta oppressione tra l’allegro cicaleccio delle compagne, sotto gli sguardi ammiratori degli uomini, ella s’era forzata a fare come le altre, a ridere, a scherzare, a procurarsi un principio d’ebbrezza, vuotando uno dopo l’altro i minuscoli calici di cristallo; poi, vedendo Giulia che sfogliava una margherita doppia, le strappò di mano il fiore, continuando a sfogliarlo lei stessa dei petali rimasti.
— Non t’ha amata… non t’ama… non t’amerà… non t’ha amata… non t’ama… grulla, hai visto?
E l’aveva piantata, mettendosi a cogliere dei lillà, dei ciuffi di vainiglia… A un tratto, svoltando dietro il viale delle palme, scorse Enrico Sartana.
— Oh, voi!
Non aveva saputo frenare l’istintiva esclamazione Egli le stringeva intanto la mano libera di fiori, e guardandola negli occhi diceva:
— Da quanto tempo non ho più il piacere d’incontrarla!
— Sì, davvero… — rispose lei, tutta intenta a comporre il suo mazzo. — Sono lieta però di vedervi; così, posso farvi le mie congratulazioni…
— A proposito di che?
— Ma, del vostro fidanzamento! So che sposate una bella signorina, una mia amica… Scusate, quella vainiglia… Grazie! Vi auguro di tutto cuore ogni felicità.
Ella non sapeva come tutte quelle parole le uscissero dalle labbra; il fuoco dei dolci liquori, il profumo di quei fiori l’avevano esilarata; la vista di lui finiva di rimescolarle il sangue, di turbarle la mente.
Raccolta la vainiglia e presentatala a lei, Enrico disse guardando quei fiori e quelle mani con una espressione appassionata:
— Non posso esser felice con chi non amo.
Una risata argentina le gorgogliò in gola.
— Allora, scusate, fate male a sposarla!
— Infatti, non la sposo.
— O dunque?
I loro sguardi si erano confusi, mentre essi indietreggiavano un poco.
— Non la sposo… a costo di dare un dolore a mia madre… era lei che avrebbe voluto… voi sapete che io non posso disporre del mio cuore…
— No, non lo so… — rispose ella, senza lasciarlo cogli occhi, sollevando il capo, intanto che i fiori le cadevano di mano.
— Ve lo dico io, se non lo sapete… Il mio cuore è vostro.
Chinatosi rapidamente, raccolto il mazzo pel gambo ancora tutto caldo della mano di lei, lo aveva baciato religiosamente. Ella non udiva più che il battito sonoro del cuore, il martellar frequente delle tempie. Un raggio di sole, filtrando attraverso il denso fogliame, si posava sulla testa di lui, oro sopra oro; dei cinguettii d’uccelli scoccavano rapidi e brevi come baci.
— Teresa, voi non potete augurarmi la felicità — continuava il giovane — potete darmela! Io sono pronto a sfidar tutto e tutti… ma se voi mi sostenete, se non mi abbandonate!
Allora, con gli occhi quasi lacrimosi, ella disse:
— Ah, son io che v’ho abbandonato?
— Sì, sì… avete ragione… Accusatemi! Sono senza scusa! Ma ora… sentite: vicino a voi, per sempre!
Egli le aveva appena presa una mano, che delle voci chiamarono:
— Teresa! Teresa!
— Eccomi… son qui…
Sciolta dalla sua stretta, ella correva incontro alle compagne, ebbra e folle di gioia. Erano dei torrenti d’oro che il sole declinante riversava, rutilando, dietro il fogliame, sui viali del giardino; fiumi di diamanti che i viali sabbiosi facevano riscintillare; una nuova vita che la brezza marina, appena levatasi, faceva scorrere nel suo sangue. Ella abbracciava fitta fitta la sua Giulia, batteva le mani, scoppiava a ridere, si diceva mentalmente: «Siamo serie!» ma riprendeva
a sorridere, ad aggirarsi, a parlare, insofferente dell’immobilità e del silenzio, sentendosi struggere quando Enrico levava gli occhi su di lei, gli occhi pieni di fiamme e di carezze, gli occhi di chi era per sempre suo!
Era suo, infatti! Adesso egli riprendeva a prodigarle, più di prima, attenzioni grandi e piccole, a starle intorno, a trovarsi da per tutto dove ella andava, a non andare dov’ella non era, a non vivere che per lei. Non poteva più parlarle da solo a sola, come quella volta; le mormorava soltanto qualche parola tenera, le stringeva di nascosto la mano; ma questo le bastava perchè il suo cuore continuasse a vibrare come quel giorno benedetto, perchè una gioia suprema illuminasse tutta la sua vita. Adesso tutte sapevano le assiduità di lui, tutte alludevano al coronamento felice di quell’amore, anche la zia e lo zio dimostravano ad Enrico una premura, una preferenza, come se egli fosse già il fidanzato, come se non mancasse altro che una formalità perchè tutti lo riconoscessero tale. Il rancore delle sue nemiche, della Leo, della Carduri, della Máscali, era anch’esso un segno della sua fortuna. Dicevano che dopo averla conosciuta bene, Enrico si sarebbe pentito, perchè lei era incostante, pericolosa, troppo avida di piaceri, incapace di far felice un marito. A quei giudizii malvagi, a quegli augurii funesti, ella scrollava il capo: erano dettati dall’invidia, non riuscivano a turbare il suo contento. Ella viveva d’una vita intensa, come in sogno, col cuore pieno d’una sola idea; tutte le impressioni che riceveva dileguavano, svanivano nella beatitudine di sapersi amata, nella previsione di un bene più grande. Nel ridestarsi dopo una sera passata accanto a lui, le sue labbra si schiudevano naturalmente al sorriso, pensando alle dolcezze passate, alle dolcezze avvenire, a quella sua sospensione in un gaudio continuo. Talvolta, ella faceva suonare il suo nome futuro: «Baronessa di Lerma… Teresa Sartana di Castrovecchio…» più tardi «Duchessa di Castrovecchio…» si vedeva già dame, con degli abiti à traine, scollati, con dei gioielli sfolgoranti, o in abiti da camera dal taglio ampio, dalle maniche larghe, dalle ricche trine; o in costumi da passeggio, serii, con dei cappellini chiusi, degli ampli nastri formanti un grosso nodo sotto un orecchio… Poi vedeva la sua casa: un quartiere nel palazzo
Sartana, ma rimesso a nuovo, con una victoria dai cavalli piaffant sul selciato del cortile; poi il suo salotto, il suo boudoir, dove le sue amiche sarebbero convenute per il five o’ clock… e poi dei viaggi, Roma, la Corte, Parigi in lontananza, anche Londra, le corse, gli spettacoli… E poi il suo ritorno a Palermo, le novità che avrebbe portate per la prima, il successo che avrebbe avuto, l’autorità che avrebbero acquistato i suoi giudizii… Perchè tutto questo si realizzasse, che cosa mancava? Nulla! Una visita della principessa, una lettera al babbo che era a Parigi, una lettera al nonno…
Il nonno arrivò come un fulmine, senza un annunzio: una scampanellata violenta, e un’irruzione col cappello in testa, con un sacco da notte buttato malamente in un canto.
— Nonno! Nonno! Che bella improvvisata!
— Dov’è tua zia? Dov’è quell’altro? Ne fanno delle belle! Si può sapere dove sono? Non c’è nessuno in questa casa? Adesso ci penso io! Ah, siete qui? Tu va’ via: ho da parlare…
E spintala per una spalla, chiuse l’uscio. Il suo primo stupore diede luogo ad uno smarrimento, ad una paura crescente d’istante in istante. Si trattava di lei! Parlavano in quel momento di lei, del suo matrimonio, del suo avvenire! Ed ella non doveva saperne nulla! doveva esser messa alla porta, così, come una cameriera! Risolutamente, corse all’uscio più vicino. Si udivano, a intervalli, le parole concitate del nonno, delle frasi spezzate, con dei silenzii e delle riprese più vivaci:
— A tradimento? Ah, queste cose? Ed io che dormivo tranquillo… sissignore, lo avevo detto, vi avevo pregato… è uno spiantato, non hanno più nulla, corpo del diavolo, volete capirlo? Debbo pensarci io! La marito da me. Chi voglio io! E se non era un amico che m’avvertiva… la porto via, subito subito…. questa la vedremo! Cosa vi siete messo in capo? Tante grazie! Mi faccio tagliar la testa, piuttosto… neanche un centesimo: do tutto a un ospedale… vi dico che la vedremo!
E se ne andò, facendo sbattere gli usci, come una furia.
— Che cosa è stato? — chiese ella, entrando.
Lo zio, indignato, riferiva l’opposizione violenta che veniva a fare a quel matrimonio, le minaccie che aveva profferite.
— È un villano! Questo non è il modo! Si vede proprio che è un villano…
— La quistione è un’altra; se dice di no, sarà di no!
— Ed io non conto? — proruppe ella.
— Tu… tu… non lo conosci! Che cosa vuoi fare?
— La vedremo!
E come il nonno, tornato verso sera, le diceva, con una voce che si studiava di parer calma:
— Sono venuto a prenderti… andiamo a Milazzo.
— Perchè, nonno? — gli rispose, tranquillamente — Cosa vuoi che venga a farci?
— Perchè così mi piace! — esclamò lui. Poi riprese: — Perchè succedono delle cose graziose, mentre io sto lontano… perchè i romanzetti li tolgo io dal capo alle persone…
— Io non ho romanzi pel capo, nonno…
— Ah no? Tanto meglio! Allora tornerai a casa, hai capito? Dove non c’è il rischio di incontrare degli scapestrati che danno la caccia alle doti…
— Nonno!
— Eh? Ah, tu credi che quel rompicollo ti venga dietro pei tuoi begli occhi? Sono i quattrini miei che l’attraggono… ma starà fresco, starà… degli spiantati! Una famiglia che non si regge più in piedi! E i miei quattrini debbono servir per loro? Sposalo dunque, ma se aspettate che io dia un soldo!
Ella disse:
— Che cosa importa! Io gli vo’ bene.
— Ah, gli vuoi bene, stupida che sei? Cosa vuol dire che gli vuoi bene, stupidaccia?Te lo farò veder io, il bene… ma se va dietro ad un’altra, mentre ti tiene a bada, a un’altra che è più ricca di te? Se ogni giorno lui e sua madre si mettono a fare i conti delle doti, per vedere qual’è il pezzo più grosso?
— Questa è una volgare malignità.
— Ah! ah! ah! Bravissima! mi piace, la volgare malignità… dove le impari queste frasi? È una malignità che sua madre fa la corte ai Pini, che suo zio tiene a bada la Barbagallo, e che giuocano con tre, con quattro mazzi di carte? Ah, tu credi che ti voglia bene, stupidaccia?
E piantò tutti un’altra volta.
Ella scoppiò in pianto, ma un odio violento contro quel vecchio cattivo, malvagio, che calunniava in tal modo la gente, arrestava le sue lacrime. Non credeva una parola di quella calunnia atroce; attestava all’imagine di Enrico che niente avrebbe scossa in lei la fede salda, cieca, di cui egli era meritevole. Adesso, con gli zii, non si parlava d’altro che del da fare, del modo di resistere a quel vecchio ostinato. Lo zio era irritatissimo, parlava di non riceverlo, incoraggiava la sua passione; la zia pareva cominciasse a dubitare. Ma ella si diceva che mai avrebbe accolto il dubbio indegno. Però Enrico avrebbe potuto farsi vivo, prendere un’iniziativa, forzare la mano di sua madre, scriverle una parola di conforto! Invece era il nonno che, senza farsi più vedere per alcuni giorni mandava un suo amico, don Gaetano Linguaglossa, a ripetere, con belle maniere, il dispiacere che quell’intrigo gli procurava. Don Gaetano che parlava pianissimo, masticando le parole, come dietro un confessionale, aggiungeva le sue riflessioni: quello che il nonno aveva fatto per questa nipote, il bene che le voleva, le buone ragioni che doveva avere per opporsi a quel matrimonio.
— Perchè… veramente… veda bene… la casa Sartana non è più la stessa d’un tempo… niente affatto! E una grossa dote soltanto la può salvare… la signorina è molto ricca; ma non basta, veramente… e la principessa madre ha messo gli occhi altrove, veda bene! Non dico pel giovanotto, certamente… ma anche lui bisogna che ci pensi, in fin dei conti!
Poi tornava il nonno, ma senza parlar di nulla, imbronciato però, irascibile con tutti, freddissimo con lei. Se aspettava di vederla piegarsi! Ella non diceva nulla, certa che Enrico avrebbe smentite quelle infamie. Avrebbe voluto rivolgersi a suo padre, scrivergli di tornare a Palermo, per sostenerla, per assicurare la sua felicità; ma suo padre non rispondeva da tre mesi ad una lettera d’augurii, non si era mai curato di lei, l’avrebbe ancora lasciata senza risposta!
Talvolta la risoluzione di vestirsi e di andare in casa di Enrico, accompagnata da Miss o dalla cameriera, o anche sola, la prendeva come un bisogno irresistibile. Che le importava delle conseguenze, della compromissione! Tanto meglio! Lo amava, e voleva dargli una prova dell’amor suo! Bisognava credere che lui non sapesse nulla degli ostacoli sopravvenuti, altrimenti non avrebbe aspettato tanto a decidersi! No, li sapeva: Linguaglossa aveva almeno detto d’essere stato a parlare con la principessa. Allora? Poteva dunque esser vero che egli non si decideva? Che faceva dei calcoli vili? Che mentiva? No! No! Ella quasi gridava no! nella ribellione di tutto il suo spirito. Non poteva esser vero, non era! Ma allora? E un giorno, entrando dalla zia, la sorprese mentre esclamava: «Povero ragazzo!»
Ella portò le mani alle tempie, sbarrò gli occhi, vedendolo ucciso, morto per lei!
— Zia! In nome di Dio, la verità…
— Non è nulla! — rispose la zia. — Lo hanno costretto a partire.
— Partito?
— È partito… lo hanno allontanato… i suoi parenti…
Ella vacillò, stese le mani e cadde.
Quando riaprì gli occhi, tutti le erano intorno, a prodigarle delle cure, a confortarla. Partito? Andato via? Tutto finito? Senza una lettera, senza una parola? Perchè? Chi lo aveva forzato? Il suo cuore sanguinava come quello di lei? O non pensava più a lei, si era rassegnato facilmente, correva ad altri amori, ad altre donne? E si mentiva con quel viso? Ma v’era forza che poteva costringere un uomo a rinunziare ad un grande amore? Qual era la verità? Non avrebbe mai potuto saperla? E avrebbe dovuto vivere sotto quel cielo che egli non mirava più? Oh, mai, mai!
Così, due giorni dopo, s’imbarcò col nonno per tornare a casa.