VII.

Chérie dormiva, fra la bionda aureola dei suoi capelli, un po’ diffusi sul guanciale: la lampada veneziana, presa da un palazzo ducale, ardeva ancora nei suoi foschi vetri di un verde oscuro, quando già il sole era alto. Dormiva, quietamente, con la bocca un po’ schiusa e umida, sui denti bianchi e brillanti. In piedi, presso il gran letto a colonne, nello stile di Enrico II, Paolo la guardava dormire. Forse la luce verde dava riflessi lividi a quel volto di uomo, o pure egli era livido? Ella sorrise, nel sonno: mosse lievemente la testa, come se volesse parlare ed egli si chinò su lei, quasi a raccogliere il segreto di quel sogno. Ma, subito, si rigettò indietro: aveva trasalito, come ad un avvertimento interiore. Stava da tempo così: non osava svegliare la placida dormiente, tutta rosea nel suo sonno giovanile, spirante la leggiadrìa delle creature fatte per l’amore e a cui l’amore dà tanto fascino. Ma quell’ombra, quella luce verdastra, quei grandi mobili austeri fra cui la bionda amava di vivere, come a contrasto di quella sua beltà fresca e vivida, lo opprimevano: fuori vi era la luce, vi era il sole ed egli si sentiva soffocare. Due o tre volte, aspettando che ella si svegliasse, gli era venuta una voglia frenetica di fuggire. Scappar via, solo, scappare lontano, andare a gittarsi in un posto deserto, fuori dei viventi, lontano da Chérie, non volendola vedere più, non osando sostenere il suo sguardo! Questo progetto folle e ardente lo riarse, due o tre volte; ma una volontà fuori di lui, almeno egli credeva fuori di lui, lo teneva inchiodato, nella calante mattinata, di fronte a quel letto, innanzi a quella bella donna profondamente presa dal sonno. Che avrebbe detto, ella, trovandosi sola allo svegliarsi? Avrebbe forse creduto a una villania o ad una pazzia? Avrebbe ella supposto che egli fosse andato a uccidersi? Così, egli pensava: e restava, inchiodato, immobile, incapace di dare le spalle a quel caro volto fresco, a quei capelli biondi, sparsi sulla batista dell’origliere; restava, vinto egualmente dal ribrezzo di sè, dalla paura, dalla pietà. A un tratto, l’idea di parlare con Chérie, di dirle qualche cosa, gli fu insopportabile; fissava con occhio attento quella bocca bella socchiusa, da cui sarebbero uscite, forse fra un minuto, le parole di saluto, di interrogazione, a cui avrebbe dovuto rispondere ed ebbe un moto di orrore. Facendo uno sforzo supremo, si voltò, per andarsene, ma urtò in un mobile, qualche cosa tintinnò, Chérie si risvegliò, subito, levando la testa:
– Paolo? Paolo?
Egli si riaccostò al letto, senza rispondere. In silenzio, ella si sollevò sul letto, gli gittò le braccia al collo e con una carezza tutta gentilezza, mise la sua guancia presso alla sua.
– Che fai? – gridò Paolo non sapendo reprimere un brivido di terrore, ma non osando respingerla.
– Ti amo, questo faccio – ella disse, non accorgendosi ancora di nulla – Ho dormito troppe ore…
– Hai sognato? – egli domandò, con una voce strana.
– No: non sogno mai. E tu?
– Non ho dormito, io.
– Allora, tu mi ami di più. Che vergogna per me!
E rise, di un bel riso sonoro. Egli non potette neppure sorridere. Ella chiese:
– Che hai?
Ma nello stesso tempo, ancora, pose infantilmente la sua guancia presso quella di Paolo: questa volta, egli si rigettò indietro. Una espressione di pena sfiorò il volto di Chérie: ella spalancò i larghi occhi azzurri, interrogando:
– Perdonami – disse Paolo, con una subitanea tenerezza – perdonami… è quel gesto…
Si fermò, sentendo che stava per dire tutto.
– Che gesto?
– Nulla, nulla.
– Mi vuoi bene?
– Sì.
– Molto?
– Immensamente.
– Fino a quando?
– Fino a… sempre!
Ma la voce di lui era monotona, come fosse stata per sempre privata di espressione; e parlava a occhi bassi.
– Apri un poco, perchè io veda la tua faccia – ella chiese, con un lieve sospetto.
– No – egli rispose, immediatamente.
– Vuoi restare all’oscuro?
– Sì, sì.
– Il sole ti piaceva una volta, mi ricordo.
– Non ora, più. L’ombra è amica.
– Tu sei triste, Paolo.
– Un poco.
– E perchè, dunque?
– Forse, perchè sono stato troppo felice – egli rispose, in tono enigmatico.
Ma Chérie credette solo al senso amoroso della frase e fece un moto di soddisfazione.
– Avevi dimenticato la felicità?
– Oh sì! – gridò lui, con accento desolato.
– E adesso, adesso – interrogò Chérie, con ansietà.
Egli non rispose.
– Apri la finestra – chiese lei, di nuovo, curiosa di scorgere bene il volto del suo novello amante.
– No, Chérie, per amor di Dio, non apriamo! La luce mi farebbe morire.
Vi era tanta desolazione paurosa, in questa esclamazione, che Chérie si turbò.
– Spegniamo anche la lampada, allora – ella suggerì, cedendo alla strana emozione di Paolo.
E toccando un bottone, nascosto dietro la cortina di lampasso del letto, la lampada si spense. Ombra perfetta. Stavano, così: egli in piedi, presso la sponda del letto: ella, sollevata sui cuscini, tenendogli le braccia al collo, ma senza stringerlo, senza toccare il suo volto.
– Sei contento, ora? – ella domandò, pianissimo.
– Sono tranquillo.
Un profondo silenzio regnava in quella stanza, piena di tenebre; si udivano i due respiri, quello di Chérie calmo, eguale, lieve come quello di un fanciullo, quello di Paolo Herz più forte, un po’ affannoso, talvolta.
– Ti do noia, così – ella chiese dopo qualche tempo, sembrandole che Paolo avesse il petto oppresso.
– No, cara.
– Mi vuoi bene?
– Sì, cara.
– Ripeti: Chérie, io ti adoro.
– Chérie, io ti adoro.
– Ed è vero? è vero?
Nessuna risposta.
– Paolo?
– Amore?
– Rispondi, dunque!
– A che?
– Ti avevo chiesto, se era vero che mi adorassi.
– Non avevo udito – disse Paolo, con voce anche più sorda.
La donna disciolse il cerchio delle sue braccia, mutamente e ricadde sul letto. Pian piano, nell’ombra egli ne cercò una mano, che giaceva abbandonata sul letto: la strinse, la trovò fredda. Allora cadde in ginocchio, avanti a quel letto, col capo nascosto fra le coltri, singhiozzando senza versare una lacrima, gridando, convulso:
– Ah Chérie, perdonami, perdonami, io soffro tanto, io soffro, io soffro!
E prostrato, con le braccia buttate sul letto, stringendo nervosamente quella mano che si era fatta gelida, con la bocca contro la stoffa della coltre, egli continuò a gemere, a gridare, confusamente, il suo ignoto dolore. Ella non gli disse nulla: aveva distesa l’altra mano e gli carezzava i capelli, così, come a un bimbo che gridi per un male, a cui non vi è rimedio.
– Chérie, Chérie, perdonami, consolami, sono un infelice, sono un miserabile! – seguitava lui, singultando aridamente, battendo la testa sul letto.
– Poveretto, poveretto – disse lei, con un tono vago di pietà, con la sua affascinante voce di canto – Che hai?
– Ho male, ho male, soffro, Chérie soffro come se morissi e come se non potessi morire…
– Dimmi che hai… dimmelo…
– Tanto male, tanto male… Non puoi sapere, Chérie… che male, qui, dentro di me, che mi soffoca…
– Non puoi dirmi il tuo male? Non posso io consolarti, guarirti?
– Vorrei… vorrei che tu potessi! – egli gridò, non osando più nascondere il suo segreto.
– Ma non posso, è vero? Non posso guarirti? – ella chiese, con un po’ di malinconia nella cara voce armoniosa.
– L’ho sperato! L’ho sperato… – e pronunziò la frase, la prima volta con un’aspirazione, la seconda con una delusione immensa.
– Dimmi il tuo male, dimmelo – ella mormorò, insistendo, con molta dolcezza, con una certa tristezza.
– Non me lo domandare! Paolo esclamò, con tono di sbigottimento, quasi che l’idea di rivelare la segreta miseria della sua vita gli facesse orrore.
– Non è per curiosità – ella soggiunse, piano. Ti assicuro che non è per curiosità. È per interesse… di te… – e finendo queste parole, leggermente, la voce le tremò.
– Chérie, Chérie, quanto sei buona! Ma non dimandare, te ne prego!
– Forse… ti farebbe bene…
– No, no, lasciami soffrire, così senza conforto, non ne merito, non ne sono degno… tu sei una persona buona, semplice…
– E scema – ella completò, fra l’ironia e la tristezza.
-… io sono un essere malato… cattivo… laido… – egli continuò, con voce sdegnata, quasi parlasse a se stesso e non rispondesse più a lei.
Chérie non rispose. Di nuovo la sua mano si arrestò sui capelli di Paolo Herz, con una carezza fugace. Lo sentì trasalire, allontanandosi. Allora, subito, ella gli disse, con intonazione freddissima:
– Te ne prego, Paolo, apri quella finestra.
Egli obbedì, subito. Tutta la gaia luce meridiana entrò nell’austera stanza e la riempì di pulviscolo d’oro. Qual viso era quello di Paolo! Pallido di un pallore terreo e con gli occhi rossi e le tempie rosse, come se invece di lacrime, fosse salita colà un’onda di sangue, con lo sguardo torbido e smarrito, tutti i suoi anni parean passati dalla bella virilità, all’accasciamento e allo sconforto di un’età più lontana. Chérie, sgomenta, si ricordò il bel volto fine un po’ consumato, ma leggiadro, ma arso dalla fiamma di una giovanile passione, che ella aveva veduto la sera innanzi. Una notte, dunque, aveva fatto quel cangiamento? Una notte. Egli la guardava, come perduto.
– Va di là – gli disse lei – va in salone. Aspettami.
Gli aveva parlato con più dolcezza, ora: ma sempre come se comandasse. Senza rispondere, egli volse le spalle ed uscì.
Quando fu solo, fra le piante verdi dalle larghe foglie, di quel salone che era anche una serra, fra quelle sete ricamate di fiori esotici e di animali favolosi, fra quei vasi alti e sottili ove si elevavano dei fiori dal lungo stelo, fra quei mobili molli e profondi, dove pareva così soave sdraiarsi e non pensare, sognare e non dormire, in una luce temperata, ma limpida, coi rumori della città che giungevano assordati, ma giungevano, solo, come indifeso contro il mondo, come con l’anima dolorosa nuda innanzi agli occhi della gente, Paolo Herz ebbe un altro impeto di disperazione, un accesso di follia. Caduto sovra una poltrona, con la faccia fra le mani, tutto il suo essere sentimentale, si contorceva di spasimo e interrotti lamenti escivano dalle sue labbra. La luce, l’aria, la beltà e la pace delle cose intorno, pareva che lo irridessero, che l’offendessero: ed egli si copriva gli occhi per non vedere, si copriva il volto per non farsi vedere. Da chi? Dalla luce, dall’aria, dalle belle e pacifiche cose che lo circondavano. Un bisogno novello, istintivo, di fuggire, come un animale sanguinante, in una tana profonda e sconosciuta lo assalse. L’ora passava, ella sarebbe venuta, adesso: non era più notte: ella avrebbe veduto la sua figura sconvolta: ella avrebbe udito ancora gli urli della sua inesprimibile disperazione.
Ma mentre gli tumultuava dentro il desiderio della fuga, di una fuga lunga, senza termine, la sua volontà mancava di qualunque forza: si sentiva fiacco: si sentiva, meccanicamente, dominato dall’ordine di Chérie:
– Ella mi ha detto: aspettami – pensava, con un pensiero che si manteneva estraneo a tutto l’altro movimento della sua anima.
E aspettava. Ella apparve dopo qualche tempo. Aveva indossato un suo vestito di seta a righe minute bianche e nere, di un taglio assai succinto: e i biondi capelli erano raccolti in un grosso nodo ricciuto, a metà testa, traversati da due spilloni d’oro matto. Ella aveva sempre lo stesso volto sereno e giovanile, ma guardandolo bene, non so quale nova fermezza vi si leggea. Ella andò a lui, gli si sedette dappresso, ma non vicinissima e gli parlò:
– Paolo?
– Chérie?
– Sei più tranquillo, ora?
– Sì.
– Vuoi ascoltarmi? Puoi?
– Sì, sì.
– Tu sei malato, Paolo: tu dicevi il vero, ieri: sei molto malato.
– Molto, molto, molto – diss’egli, con un’insistenza di voce e di espressione, guardandola coi suoi occhi smarriti.
– Vuoi tentare di guarire? Vuoi? – gli domandò lei, con la sua voce cantante e seduttrice,
– Oh non è possibile, non è possibile!
– Tentare, soltanto?
– Oh Chérie, non mettermi alla disperazione!
– Tentare… tentare…
– E come? Come?
– Partiamo insieme – ella le disse, levando il bel viso florido e guardandolo coi suoi grandi occhi nuotanti nell’azzurro.
– Partire, per dove?
– Dovunque, lontano… partire…
– Partire, come, quando?
– Oggi, fra poche ore, insieme.
– Chérie, Chérie, è impossibile! – egli esclamò, dolorosamente.
– Perchè, impossibile? Chi vuol partire, parte!
– Chérie!
– Non sei libero?
– Sì, sono libero.
– Non hai tu denaro?
– Sì, sì, ho del denaro.
– Hai qualche obbligo, qualche legame?
– No, nessuno.
– Niente ti vincola?
– Niente.
– Ebbene, parti con me.
– Chérie, Chérie… – gridò lui, come se tutto il suo essere spasimasse.
– Parti con me – ripetette lei, lentamente, con una suggestione continua, – Andremo molto lontano… viaggeremo presto… viaggeremo assai… vedrai tanto mondo diverso… dimenticherai…
– Io porto il mio male in me – soggiunse Paolo, con voce sorda.
– Partiamo, partiamo… – riprese lei, quasi non avesse udito.
– Vuoi tu viaggiare con un agonizzante?
– Non importa – ella rispose, crollando il capo. – Vieni via, Paolo, ti sentirai meglio, il tuo male avrà una pausa.
– Dove, che questo interno tormento non vi sia? Conosci tu questo paese?
– Paolo, io sono una persona che ti vuol bene, non so tante cose. Ti dico, solo: andiamo via. Vedrai… sarò una buona compagna di viaggio… mi fermerò, dove a te piacerà restare… andremo via dai paesi che non ti piacciono… vieni via.
– Qual triste viaggio di nozze tu mi proponi, o Chérie!
– Perchè, triste?
– Perchè lo sposo è morente!
– Morente, di che?
– Di tutto, Chérie.
– Anche di amore? – e lo fissò, negli occhi.
– Anche di amore. – egli rispose, a capo basso.
Ella impallidì un poco: ma si rimise subito.
– Io sarò un’anima tenera per te, Paolo.
– Non ti prendere questo duro incarico, povera creatura; lasciami al mio destino.
– No, no, ti voglio bene, mi sei sempre piaciuto… tentiamo questa salvazione, Paolo…
– Un lugubre compagno di viaggio, Chérie…
– Dimenticherai, dimenticherai… – ella disse, con la sua intonazione malinconiosa, che dava tanto fascino alle sue parole.
– Non dimenticherò, mai – egli dichiarò, aprendo le braccia, con un gesto definitivo.
– Tutto si dimentica – disse Chérie, semplicemente.
– Io non posso.
– Tenta.
– Ho tentato… lo sai… ho tentato – egli disse, con una umiliazione atroce di tutto il suo essere.
– Ebbene?
– Non mi domandare, Chérie! Ella tacque, un poco. Ma poi, ostinatamente, ritornò al suo quieto assalto.
– Partiamo oggi, Paolo.
– No.
– Senti, è meglio che partiamo. Che farai tu, qui?
Egli la guardò, smarrito.
– Che farai questa sera, oggi, domani? Dove andrai? In che posto troverai refrigerio, distrazione, obblìo? Chi ti consolerà?
– Dio! egli esclamò, convulso.
– Senti, vieni via. Fuggi questo paese; fuggi coloro che conosci; fuggi ogni ricordo; fuggi ogni cosa. Oh Paolo, io sono una povera persona sciocca, ma io so, questi dolori che cosa sono, io comprendo, così, che tu sei un infelice, un miserabile… Ne ho visti degli altri… non vi è che partire…
– Gli altri, gli altri! Felici gli altri!
– Sarai felice ancora; vedrai. Ma parti. Solo, qui, non puoi restare.
– Solo? Tu andresti via?
– Si – diss’ella, voltando il viso. – Ho voglia di espatriare.
– Anche tu soffri? Anche tu, poveretta? È possibile?
– No – ella rispose, subito – Non soffro, io. Non sono mica una creatura sentimentale – e sorrise un pochino, fuggevolmente, – Sono un po’ malinconica, talvolta: quando mi dicono che ho malato il cuore. In generale, mi annoio spesso. Ora, da qualche tempo, mi annoiavo moltissimo…
Chérie parlava con molta disinvoltura, senza però giungere a dare un’aria di perfetta naturalezza a quello che essa diceva. Le sue mani mettevano in ordine, macchinalmente, degli oggetti di porcellana della Cina, tutti bianchi, in una scansia e così, spesso, ella distoglieva i suoi occhi da quelli di Paolo Herz.
– Tu sei venuto – ella riprese – … io ho subito pensato di partire con te. Giusto… questo ti serve, anche… la cosa sarà utile ad ambedue…
– Tu sei buona – mormorò Paolo Herz, subitamente intenerito.
– Oh, non tanto! Faccio anche il mio interesse… sono una donna interessata…
– Povera Chérie!
– Perchè mi compatisci? Non compatirmi. Va a fare le tue valigie, per partire.
– Così presto?
– Bisogna sempre partire subito, quando si vuol andar via. Se si ritarda, si resta.
– Tu dici che bisogna andar via? – egli chiese, guardandola, coi suoi torbidi occhi pieni d’incertezza.
– Sì, sì, sì.
– Dove andremo?
– Dove ci porterà il primo treno che troveremo, e poi un altro treno; e poi un altro…
– Fin dove?
– Chi lo sa!
– Che faremo, laggiù?
– Niente, Paolo; nulla più di qui.
– Ma io dovrò vivere, pensare, agire, Chérie, comprendi questo? Io sono inetto a ciò, adesso.
– Non ti capisco – ella mormorò, chinando gli occhi. – Ma qualunque paese sarà migliore di questo.
– Io non posso amarti! – gridò Paolo vincendo la sua ripugnanza a dire una cosa atroce.
Ella lo guardò: sorrise appena: poi disse, con quel suo tono di mistero, che facea parere molto più profonde le cose che ella dicea.
– Chi lo sa!
– Chérie, io sono un infame e un inetto!
– Paolo, Paolo, taci… tu esalti i tuoi nervi… tu aumenti il tuo turbamento…
– Chi tradisce, è un infame, Chérie, non vi può essere pietà, per chi tradisce. Io ho tradito.
– Calmati… calmati – e gli prese le mani, come si prendono le mani di un ammalato, che vaneggia.
– Che vuoi, Chérie, ho tradito, ho commesso un tradimento odioso… io mi sento perduto…
E smorto, sconvolto, egli la fissò, come se non la vedesse, come se non la riconoscesse, come se non fosse stata proprio lei, a essere lo strumento del tradimento.
– Perduto, perduto, perduto… – ripeteva lui, follemente.
– Pace, Paolo, non pensare a ciò…
– Come, non pensare? È lo stesso come dire a chi ha un morto, in casa, di non pensarci più.
– Paolo, chi è morto, dunque?
– Il decoro del mio amore è morto, è morta la sua dignità, è finita la sua forza e la sua saldezza, io ho tradito!
E questo grido, continuò a escirgli dal cuore lungo, aspro; egli non sapeva che ripetere questa parola del tradimento, in tutti i tuoni. Ella lo ascoltò, per un pezzo, meravigliata più che dolente: due o tre volte, le palpebre dei grandi belli occhi azzurri battettero, come per rattenere le lacrime. Ma egli non vide, questo: gittato sovra un divano, battendo la testa sui cuscini, egli esalava il suo dolore e l’orrore di se stesso. Così, vagamente, ella intese che era meglio parlargli del suo strazio e gli chiese:
– Paolo, non era… non era tutto finito?
– Tutto, che? Di che parli? – domandò lui, trasognato.
– L’amore… fra te e Luisa Cima…
Egli levò la testa, a quel nome e con voce tetra:
– Tutto non era finito…
– Come? T’amava ella, ancora?
– No. Non mi amava, più.
– Da qualche tempo… mi pare…
– Sì, da vario tempo. Forse, non mi ha mai amato.
– Perchè? Non dire questo… non lo dire di nessuna donna – ella mormorò, con bontà.
– Mai, Chérie, mai! Non la conosci! Non la sai! Mi ha mentito, non mi ha mai amato!
– Tutti mentiscono un poco, nell’amore – ella soggiunse, a occhi bassi, appena appena rimproverandogli, così, la sua menzogna della sera scorsa.
Egli non comprese.
– Poichè non ti amava, da tanto tempo, non eri tu libero?
– No – egli disse, tetramente, Ero legato.
– Come?
– Legato da un giuramento.
– A Lei?
– A me stesso.
– Non ti capisco – ella disse, ancora, guardandosi le perfette mani.
– Io l’amavo…
– Ebbene?
– E l’amo.
– Ah! – diss’ella, senz’altro.
– L’amo sempre, l’amerò sempre, non amerò mai altra donna, è così, nessun’altra!
E si guardò intorno, con occhi fuori, come se qualcuno gli impedisse, gli contrastasse questo amore e che egli fremesse di dichiararlo a tutti quanti. Invece, Chérie lo guardò, con occhi pieni di una grande pietà, una pietà non profonda, forse, ma grande, una pietà che taceva molte cose, ma che per questo era una grande pietà. Adesso, si era seduta e teneva le mani in grembo: la beltà di quel dolce volto non parea fosse stata turbata, solo era piena di una pietà grande: pietà non sapiente, forse, non magistrale, non alta, ma umile, ma tenera, ma femminile. Ella non gli chiese conto della notte: ella sentiva che, egli stesso, si pentiva troppo amaramente di quello che aveva fatto.
– Avevo giurato… avevo giurato di restar fedele a quest’amore solitario… sempre… e avevo tenuto il giuramento… per tanto tempo… e ora, ora, ora!
Si prese la testa fra le mani, per nascondere le lacrime che gli salivano agli occhi.
Vedendo quell’uomo piangere, Chérie si curvò su lui, gli liberò il volto dal velo delle mani, gli passò delicatamente il suo fazzoletto sugli occhi, con un atto materno. E non seppe dire altro che la parola che si dice agli sconsolati, a coloro cui è morto qualcuno:
– Non piangere, non piangere così…
Ma una suprema debolezza aveva atterrato Paolo Herz, sorgente da tutta la sentimentalità quasi muliebre del suo spirito: egli piangeva come un misero, come un bimbo, come una donna, preso, appena appena ogni tanto, da un accesso virile di collera. La istessa pietà di Chérie che egli intravvedeva vagamente, quasi senza intendere da chi venisse e come e perchè, aumentava il suo irrefrenabile dolore.
– Ma non piangere, non piangere tanto, infine… – mormorava lei, seguitando a comprendere poco e non sentendo che la compassione semplice per un dolore grande e ignoto.
– Ah io sono infelice… un povero infelice… il più povero e il più infelice uomo della terra… quello che non ha pane, che non ha tetto, che chiede l’elemosina, nella via, è meno miserabile di me… io ho perduto tutto… tutto è finito…
Chérie pensava, naturalmente. «Ma se ella non lo amava più, da tempo, che cosa è dunque finito? chi ha tradito Paolo?» Però nulla ella diceva, di ciò, intuendo un mistero dell’anima, che non poteva nè misurare, nè apprezzare. Prono sul divano, singultando, Paolo continuava a dire:
– Tutto è finito… tutto è finito.

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Fu un pallido uomo, distratto, smemorato, senza volontà e senza forza, quello che seguì Chérie, nel viaggio malinconico che essi intrapresero a traverso l’Europa. Paolo Herz si lasciava condurre, di treno in treno, di città in città, di albergo in albergo, come una creatura inerte, incapace di reagire, poichè era incapace di agire. La loro vita era singolarissima. Tutte le cose esterne del viaggio erano regolate da un servo che prendeva gli ordini da Chérie, alla mattina: e tutto si compiva, senza fretta, senza rumore, con la taciturnità e la compostezza di persone che portano seco un malato. Egli, forse, fisicamente, malato non era; ma tutte le corde dell’energia infrante, spenta ogni iniziativa, il suo spirito era prostrato nell’invincibile abbattimento, da cui non si risorge, salvo una crisi violenta. E niuna cosa e niuna persona, più, poteva dare all’anima e ai sensi di Paolo Herz la scossa che li doveva vivificare o uccidere. Egli si lasciava condurre dappertutto, docile, obbediente, senza mai un atto di ribellione, senza una parola di rifiuto: Chérie regolava la sua vita; e come un fanciullo, come un malato, egli viveva secondo Chérie. Ma, un fanciullo senza sorrisi e un malato senza speranze, obbediva alla bellissima donna, dalla florida chioma bionda e dai begli occhi azzurri: mai gli usciva dalle labbra una parola, che desse segno di una sua risurrezione. In pubblico, veramente, egli non sembrava che un uomo triste senza essere acerbamente addolorato, taciturno per sua elezione, non tetro: egli accompagnava la donna nelle passeggiate, nei teatri, nei pubblici ritrovi, correttissimo, smorto, parlando con lei due o tre volte, in una serata. Non aveva neppure l’aria di annoiarsi: aveva l’aria di vivere, senza vedere e senza sentire la vita.
Ma quando restavano soli, solissimi, in un vagone, in un salotto di albergo, Chérie e Paolo, egli lasciava che la sua fisonomia esprimesse tutta l’angoscia che premeva, perennemente, il suo cuore. Senza dir verbo egli si abbandonava sovra una sedia, esausto dallo sforzo di vivere: tutta la sua orribile miseria, lo mordeva, nella carne e nel cuore; ed egli provava lo spasimo dell’irreparabile.
La donna non gli domandava nulla. Decisa a compire sino all’estremo il suo ufficio d’infermiera ella restava le lunghe ore, accanto a lui, silenziosa, vigile, seduta in una poltrona, così immobile e così taciturna che egli dimenticava perfettamente la sua presenza. Ma ella vegliava! Nel vagone, ella lo vedeva agitarsi, levarsi, aprire e chiudere i cristalli, incapace di trovar pace, seguendo con occhio smarrito la fuga delle campagne e dei villaggi, innanzi al treno, guardando giù, con qualche cosa di disperato, nello sguardo. Nell’albergo, ella lo vedeva inquieto, senza requie, andare e venire, non potendo liberarsi del suo indicile tormento. Sino a tardi, essa aspettava: poi si levava, andava, a lui, gli diceva, dandogli la mano:
– Buona notte.
Macchinalmente egli rispondeva:
– Buona notte.
Ironico augurio! Ella giovane, senza preoccupazione altro che quella pietosa, per il suo amico, stanca del viaggio, si addormentava del suo bel sonno senza sogni: egli combatteva ogni notte una battaglia con l’insonnia. In quelle ore di solitudine, Paolo Herz era avvilito da un profondo senso di degradazione. Il tradimento che aveva commesso, così brutalmente, obbedendo al cieco istinto sensuale che si era avvolto nella luce lusinghiera di un novello, giovane, fresco amore, questo tradimento compiuto con entusiasmo fisico, con un delirio di tutto il suo essere terreno, gli sembrava, ogni giorno più, una deturpazione, una violazione del più prezioso tesoro che egli conservasse nel suo cuore: il suo amore. Si sentiva vile, sporco, cinico, macchiato dall’indelebile peccato della carne, simile a qualunque animale senza intelletto e senza cuore; faceva orrore a se stesso.
Giacchè poteva Luisa Cima non averlo amato mai, o averlo abbandonato crudelmente, dopo un breve capriccio; poteva egli essersi disperato di questo abbandono, nelle lunghe cogitazioni delle sue ore solinghe; poteva egli aver sentito la fine della sua esistenza di amante; ma questo era un fatto fuor di sè, che egli subiva, che egli pativa, come Gesù sofferse la Passione. In quella orrenda disperazione il suo amore restava puro, schietto, alto: amore doloroso, amore straziato, amore spasimante, ma senza peccato, senza decadenza, senza degradazione. Luisa Cima aveva potuto togliergli la sola felicità della corrispondenza amorosa, gli aveva levato il bacio e lo sguardo, il sorriso e la parola: egli non aveva più un’amante, egli non era più un amante: ma egli era un innamorato! Ciò che viveva nel suo cuore, l’amore, era intangibile: la piccola donna dal viso appena roseo dagli occhi neri, dolci e maliziosi, la perfida donna dai capelli neri, morbidi, fini, lucidi, come se fossero bagnati, poteva infrangere tutto, fare una rovina di tutto, ma non toccare l’amore nell’anima di Paolo Herz. Oh quello era collocato in un posto sicuro, chiuso, messo nell’arca santa che niun mortale può violare, nell’arca del pensiero e del sentimento! Ella avrebbe potuto spezzare la fronte di Paolo Herz, attraversargli il cuore con un pugnale, non vincere quell’idea e quell’affetto. Questo orgoglio aveva sostenuto Paolo, nelle lotte atroci contro l’abbandono: questa fierezza del suo amore, che era suo, che niuno poteva levargli, mai, che niuno poteva nè offendere nè ferire!
Ebbene, egli stesso, volontariamente, aveva aperto la porta del tabernacolo, spezzata la santa reliquia e rovesciato l’altare: egli aveva rinnegato non l’amore di Luisa Cima ma il suo: egli aveva tradito, non Luisa Cima, ma se stesso: egli aveva disperso al vento, per sempre, tutto il suo tesoro. Giammai più, giammai egli avrebbe ritrovato la fermezza fiera, il candore appassionato, la nobiltà ardente, la fedeltà incrollabile, che erano le virtù alte di questo amore. Aveva tradito: aveva tradito. Le parole sacre della passione che sono sacre, sol perchè dette nella sincerità e nella profondità di questo sentimento, egli le aveva dette a un’altra mentendo: le sue labbra avevano baciate, delirando di amore, quelle di un’altra donna, e il suo delirio era falso, era un inganno dei sensi: egli si era dato a una donna e aveva avuto una donna, ma un’altra! Il tradimento era più brutto, più sporco, più laido, perchè compiuto così, non contro l’amante, ma contro l’amore, non contro Luisa, ma contro sè. L’incanto era spezzato; ogni santa magia era distrutta: ed egli era un essere volgare e vile, un essere povero e infelice, una creatura senza dignità e senza orgoglio, senza rifugio e senza conforto.
Oh notti atroci! Egli espiava, in quelle notti, la notte del suo peccato: egli la espiava in tutte le forme, le più crudeli: egli si odiava e si disprezzava: egli che si era creduto grande e puro, innanzi alla perfida Luisa Cima, adesso si sentiva mille volte più basso di lei. Le ragioni naturali della vita erano infrante: i legami che uniscono l’uomo all’esistenza, la speranza nelle cose e negli uomini, la fede in se stesso, erano sciolti, per sempre. Aveva tradito! Possedeva una cosa bella, onesta, superba, e l’aveva insultata e calpestata; da se stesso, aveva espulso dal suo cuore ogni sorgente di tenerezza e di orgoglio e l’aveva contaminata. Traditore, infedele, impuro, egli, in certi momenti, accostandosi allo specchio, nel vedere il suo pallido viso, aveva ribrezzo!
Nelle atroci notti, oramai, una fatale convinzione si faceva posto nel suo spirito. Come uomo, egli era distrutto: distrutto come amante. Mai più, mai più avrebbe potuto accostarsi ad una donna, desiderandola, volendola; l’idea di un simile fatto, gli metteva un terrore folle, la crisi di un ferito che vede il ferro chirurgico. Due o tre volte, ingenuamente, Chérie, che nel suo buon senso, credeva alle forze semplici della vita, lo aveva guardato con gli occhi seduttori, con gli occhi che invitavano: due o tre volte era stata provocante, sperando di guarire così Paolo Herz. Ma aveva visto un tale sgomento in lui, gli era parso così tremante, così pallido, che la donna, non comprendendo più nulla, aveva chinato il capo, un po’ umiliata, si era ritirata nella sua stanza, tutta pensosa. Mai più, nessuna donna, dopo Luisa Cima! e mai più, in sè, nessun amore, dopo che egli aveva così ignobilmente tradito il suo. Eternamente solo, solo nel ricordo dell’abbandono e solo con la testimonianza della propria turpitudine: una solitudine senza decoro, senza serenità, senz’ombra di conforto. Confortarsi in chi? In che cosa? Tutto era finito: tutto, anche l’idealità sublime del suo amor solingo. Col tradimento, tutto era finito.
Egli si levava da questi notti con gli occhi cavi e brucianti, con uno smarrimento di coscienza, che lo faceva parer vaneggiante. Chérie lo sogguardava, sempre più sorpresa. Adesso, non si parlavano più. Non si davano neppure la mano. Egli cercava di isolarsi, assorbito dalla sua fissazione sentimentale, uscendone solo per considerare Chérie con spavento, poichè ella era stata la causa del tradimento. Ella domandava a se stessa: «perchè gli faccio paura?» Ma non glielo chiedeva, oramai intimidita e stanca. La infermità morale di Paolo Herz sfuggiva a qualunque cura ella potesse tentare, e la poveretta aveva finito per annoiarsi mortalmente e sovra tutto, per sentirsi inutile e noiosa. Viaggiavano da quattro mesi, insieme: e il tentativo era stato troppo lungo. Una sera, a Vienna, glielo disse:
– Paolo?
– Chérie?
– Non ti pare che sia meglio finire?
– Che cosa?
– Questo viaggio, insieme.
– Ah!… sì.
– Io vorrei restare, ancora, con te – ella aggiunse, gentilmente – ma non serve a nulla.
– Non serve a nulla.
– Me ne vado, allora, Paolo?
– Sì.
– Tu resti?
– Non so.
– Che farai?
– Non so.
– Vuoi che io resti, Paolo?
– No.
– Trovi che ho torto? Che faccio male?
– No, Chérie: tu hai ragione e fai benissimo.
– Mi serbi rancore?
– No: non ti serbo rancore.
– Mi vuoi bene, un poco, allora? – disse ella, scioccamente.
Egli rabbrividì: tremò. E disse:
– No, niente.
Così, si lasciarono.