I. La mano ingemmata

Tutto chiuso nella preziosa pelliccia di lontra, fumando una fine e odorosa sigaretta russa, Roberto Alimena guardava distrattamente il facchino dalla blusa azzurra che, ritto nel compartimento di prima classe, collocava pazientemente sulla reticella i bagagli eleganti e ricchi del giovane viaggiatore, le valigie, i sacchi da viaggio, i portamantelli, le borsette di cuoio dalle cifre di argento: R. A. Il giovane signore era solo, sotto la tettoia della ferrovia; nessuno era venuto ad accompagnarlo alla stazione: il conduttore dell’omnibus del Grand Hôtel, cavatogli il berretto gallonato, lo aveva lasciato nel grande atrio dove si prendono i biglietti, dopo aver consegnato i bagagli al facchino. Non una donna, non un amico aveva avuto l’idea di salutare Roberto Alimena, alla stazione: ed egli compiva o lasciava compiere tutte le operazioni della partenza, silenzioso e tranquillo, guardandosi attorno, senza curiosità e senza impazienza.
La giornata di gennaio era molto bella, molto limpida, ma freddissima: una delle tre o quattro giornate di freddo, dell’inverno napoletano. Gli impiegati erano avvolti nei cappotti pesanti e andavano e venivano, presto presto, per riscaldarsi. Un braciere ardeva, nella stanza della Pubblica Sicurezza, dove regnava il popolare ispettore Rotondo: ma nell’ampia camera si gelava egualmente. Una schiera di viaggiatori arrivava, per partire con quel diretto di Roma, delle due e cinquanta, che, mentre vi permette di far colazione a Napoli, vi dà agio di pranzare comodamente a Roma, dove arriva verso le otto. Per lo più, erano stranieri, quelli che viaggiavano: inglesi, americani, russi che avevano già passato una settimana, due, tre a Napoli e che risalivano a Roma, a Firenze, a Venezia, a Nizza, sopra tutto a Nizza, i più ricchi e i più mondani.
Anche Roberto Alimena, che aveva cercato invano la Pulmann, lo sleeping-car, una carrozza, infine, dove si avesse meno freddo che in un vagone di prima classe, era diretto a Nizza. Voleva restare una settimana a Roma, desiderando, così, vagamente di assistere al ballo del Quirinale e al primo ricevimento dell’ambasciata inglese: poi, avrebbe ripreso il treno per Genova e Ventimiglia. Nulla era certo però: giacchè nulla era mai certo nello spirito e nel desiderio di Roberto Alimena. Il nobile e dovizioso signore era restato un mese a Napoli, facendo la gran vita, giuocando, avendo donne, frequentando circoli, teatri e passeggiate, bene accolto dovunque, perchè era simpatico, perchè era di una grande famiglia lombarda, perchè era ricco. Pareva che non volesse, non dovesse mai più andar via, tanto si era legato con la società napoletana, coi giovani eleganti e anche con qualche donnetta: pareva che una incipiente passione per donna Chiara Mastricola dovesse scoppiare veemente. A un tratto, senza dirlo a nessuno, si era determinato a partire. Il freddo improvviso lo aveva sgomentato: non poteva vivere, dove avesse freddo. Andava sempre verso i paesi caldi, per istinto. Aveva piantato tutti i convegni e tutte le poste, aveva lasciato la donnetta e la signora senza un saluto e da una sera a una mattina, pagato il conto al Grand Hôtel, lasciato il suo indirizzo di Nizza, lasciava Napoli.
Un corteo di nozze si agitava fra gaiamente e malinconicamente, intorno a lui: il treno delle due e cinquantacinque è famoso per questa partenza di sposini. Era uno sposalizio borghese, ma ricco: la sposa, malgrado il suo elegantissimo vestito della Ville de Lyon, aveva degli orecchini di brillanti troppo grossi per una signora che viaggia, e lo sposo si sprecava in troppi abbracci e baci ai suoi amici e parenti, chiamando: caro zio. … caro compare. … caro Ciccillo. Con un po’ di sorriso sulle labbra, Roberto Alimena guardava questo corteo. La cosa che più lo faceva ridere, nel mondo, era il matrimonio. Prego credere che Alimena non era uno scettico. Ma rideva del matrimonio, come tutti gli esseri indipendenti, freddi di cuore, disoccupati e male avvezzi, o troppo bene avvezzi, dal destino. Ne rideva, come di qualche altra cosa!
Questi era il bel giovane dal volto bruno, di un bruno ambrato, dai mustacchi castani a riflessi fulvi che s’incurvavano sovra una bocca aristocratica e sarcastica. Roberto Alimena era indipendente, disoccupato e male avvezzo, perchè era ricco, molto ricco, immensamente ricco e nobile: era freddo di cuore, perchè aveva perduto sua madre e suo padre fra i dieci e i quindici anni, perchè a trent’anni, da nove anni amministrava da sè la sua fortuna e si era avvezzo a vincere tutto col denaro, col nome, col fascino personale. Perchè avrebbe dovuto amare qualche cosa e qualcuno? Chi non ha difficoltà, nella vita, non ne sente il peso e non ne apprezza i sentimenti. Roberto Alimena aveva lievemente amato, qua e là, ma l’amico devoto e a cui si è devoto, egli non lo aveva: ma l’amante passionale e di cui si è appassionato, non l’aveva mai avuta. Giammai egli aveva sognato il focolare domestico, non avendone mai posseduto. E rideva del matrimonio, come di varie altre cose serie dell’esistenza.
Mancavano pochi minuti alla partenza. Roberto Alimena comprò dei giornali francesi e inglesi dal venditore ambulante e salì nel suo scompartimento. Vi era solo. Aveva già regalato cinque lire al conduttore del treno, per restar solo; ma costui gli aveva garentito la solitudine alla partenza da Napoli, niente altro. Per viaggio. … si sarebbe veduto.
Roberto Alimena nel suo quieto egoismo, prima ancora che partisse il treno si era seduto al suo posto, coi piedi sullo scaldapiedi; si era messo un berretto di lana inglese, invece del cappello; si era avvolto le ginocchia e i piedi in un plaid di pelliccia e aveva appoggiato la testa a un lungo cuscino di pelle imbottito di piume, con cui egli viaggiava sempre. Era determinato a dormire, se poteva, sino a Roma. I forti guanti di pelle foderati di lana gli garentivano le mani: eppure egli s’infastidiva di doverle tener fuori del plaid per leggere e per fumare.
La partenza da Napoli avvenne un po’ dopo le tre, perchè all’ultimo momento si era dovuta aggiungere una carrozza, mentre Alimena restava rispettato e solingo nel suo scompartimento. Egli aveva guardato, con occhio distratto, tutto quel movimento, a traverso i cristalli: e non aveva neppure mandato un saluto a Napoli, mentre il treno si metteva in moto. Che gliene importava, infine, di Napoli? Chi ci lasciava, che cosa vi lasciava che gli premesse? In vero, proprio nulla.
Si era divertito, come dappertutto, anche a Napoli: ma divertito mediocremente, a fior di pelle, senza importanza.
Si sarebbe egli divertito maggiormente nel paese dove andava? Non ne sapeva nulla. Non gliene importava nulla. In fondo, era un personaggio alquanto passivo, che si lasciava vivere, seccato spesso e mancante di un cardine qualunque, nella vita: e incapace anche di cercarlo, questo cardine! Andava, così, altrove, perchè faceva freddo a Napoli, perchè a Nizza, forse, avrebbe avuto più caldo, ma senza un rimpianto per Napoli e senza desiderio per Nizza. Qualche volta, un amico più affezionato gli diceva:
— Roberto, tu non hai nessuna ragione di vivere.
— È vero, — rispondeva Alimena, con un bizzarro sorriso — ma non ho nessuna ragione neanche di morire. —
Verso Caserta, Roberto Alimena cominciò a sonnecchiare: a Sparanise, dormiva. Il Figaro giaceva per terra sul New York Hérald: due o tre residui di sigaretta erano caduti sul sedile, senza, per fortuna, cagionare incendî: e Alimena dormiva. Sino allora non era stato disturbato da nessuno: due o tre volte, fra veglia e sonno, aveva veduto qualche faccia apparire dietro i cristalli e subito sparire: come in sogno. Adesso si era sdraiato lungo, sul divano: e dormiva profondamente. Quando si arrivò a Ceprano, era sera. Nella fermata di cinque minuti, Roberto Alimena non fece altro che voltarsi e rivoltarsi sotto il plaid di pelliccia, ma non si destò. Neppure il cambio degli scaldapiedi, sempre un po’ rumoroso, arrivò a scuotere il suo pacifico sonno: il battere degli sportelli, in partenza, non turbò il suo sogno.
Giacchè dormiva e sognava. Adesso, gli pareva di non essere più solo, nel suo scompartimento: gli sembrava, nel sogno, che fantomaticamente, come un soffio d’aria che attraversi un ambiente, qualcuno fosse entrato nella vettura e che vi si fosse fermato. Sognando, però, gli sembrava che l’oscurità dello scompartimento fosse così profonda, che egli, malgrado aguzzasse gli occhi — gli pareva così mentre dormiva e sognava — non arrivava a vedere chi fosse questo qualcuno. In fondo, mentre dormiva, il suo sogno diventava penoso: due o tre volte si agitò sotto la pelliccia, come se volesse liberarsi da un incubo, ma non riuscendovi. Pian piano, il sogno diventava più intenso, prendeva l’aspetto di un’allucinazione.
Adesso gli sembrava vedere due occhi fissi su lui, occhi immoti, glauchi, come l’acqua di uno stagno: sentiva, nel sogno, quello sguardo senza calore, ma fisso e ostinato. Di chi era quello sguardo? Apparteneva a una persona, a una persona viva, o a una visione? Di chi erano quegli occhi che, stranamente, nelle ombre fitte di cui il suo sogno era circondato, egli vedeva benissimo e li vedeva verdi, glaciali, immobili su lui? Nel sonno e nel sogno, egli sentiva crescere la sua pena, la sua ansiosa curiosità e gli pareva che non si potesse muovere, sotto quello sguardo, che quegli occhi lo vincolassero nel sogno e nella vita, lo legassero sotto la loro ossessione.
A un tratto, mentre l’incubo di Roberto Alimena si faceva più profondo e quasi insoffribile, il treno ebbe un urto di fermata. Con uno sforzo, Roberto Alimena si svegliò, si levò a sedere, trasognato, guardandosi intorno. I ferrovieri chiamavano la fermata di Frosinone. Un uomo era veramente seduto di fronte a Roberto Alimena.
Il giovane signore, quasi sveglio, represse un moto d’irritazione contro il conduttore. Ecco che gli aveva fatto salire qualcuno, malgrado le cinque lire! Per fortuna che era una persona sola e un uomo: e che egli avrebbe potuto, Roberto Alimena, riprendere il suo sonno interrotto.
— Purchè non salga qualcun altro, ora, — borbottò fra sè quel grazioso egoista che odiava, et pour cause, le ferrovie italiane così mancanti di agi e di comodità.
Per il suo compagno di viaggio non ebbe neppure un istante di curiosità. Appena, se lo guardò. Che gliene premeva? Tentò di dormire, sdraiandosi di nuovo: ma restò con gli occhi aperti. Accese una sigaretta, sperando che il fumo gli facesse ritornare un po’ di sonno. Niente. Pazientemente, pensando che avesse dormito abbastanza, si rialzò e si accomodò a sedere, senza occuparsi punto del signore che era dirimpetto a lui. Ma nell’accomodare la sua pelliccia, sulle gambe, urtò contro un piede del viaggiatore, sullo scaldapiedi:
— Pardon, — gli disse subito Roberto Alimena. Costui non rispose: non mosse neppure il capo.
— Che ineducato! — pensò fra sè, il giovane signore.
E, subito, si calmò.
— Forse non sa il francese, — pensò ancora Alimena — sarà un tedesco, un inglese. —
Così, guardò il suo compagno di viaggio. Il suo vagone era rischiarato da quel tale fioco lumicino a olio, che serviva appena a diradare le tenebre, negli scompartimenti: lumicino che, quando il treno correva, era così vacillante che faceva persino male agli occhi. In quelle incerte penombre, Roberto Alimena vide un uomo chiuso in un grosso paletot oscuro, dal bavero alzato e chiuso sul mento da una faldetta di panno con due bottoni: la parte inferiore della persona spariva sotto un plaid di lana, molto ampio e oscuro: le mani erano calzate di guanti di lana marrone. L’uomo portava un berretto calcato sugli occhi, con due orecchiere abbassate: onde, di tutta questa persona non si vedevano che gli occhi, dei pomelli bianchi, esangui, una bocca sottile sotto i mustacchi biondi e un principio di barba bionda. Malgrado la penombra, però, Roberto Alimena vide che quegli occhi erano verdi e fissi, come quelli che aveva sognati. Occhi senza espressione, senza calore, senza significato: specchi verdi, piuttosto, che non riflettevano alcuna immagine.
— I sogni sono una cosa tanto strana, — disse fra sè Roberto Alimena.
Naturalmente, dopo ciò, il giovane gentiluomo non mise nessun altro interesse a scoprire chi fosse il suo compagno di viaggio. Costui non si moveva, con le mani in grembo e incrociate le grosse dita calzate di lana, sul plaid. Non fumava, non dormiva. Roberto Alimena si dette da fare, per passare meno male l’ora e mezzo che ancora lo divideva da Roma. Si levò e aprì il suo sacco da viaggio: ne cavò una borraccia di cuoio di Russia e di argento, dove vi era un cognac vecchissimo: ne cavò un bicchiere di argento, da un astuccio. A questo punto, la sua naturale cortesia lo arrestò:
— Debbo o non debbo offrire del cognac a questo uomo morto, dagli occhi verdi e forse tedesco? —
La cortesia vinse. Roberto sporse il bicchiere e la borraccia allo sconosciuto:
Puis-je vous offrir? — gli disse.
Costui non rispose. Levò una mano e fece un atto di negazione e di ringraziamento: i suoi occhi dardeggiarono, per la prima volta, uno sguardo vivo su Roberto Alimena.
— Meno male, capisce il francese, — disse fra sè Roberto Alimena, bevendo, uno dopo l’altro, due bicchierini di cognac.
Poi, pacatamente, ripose tutti i suoi arnesi nel sacco da viaggio e il sacco sulla reticella. Fu allora che si accòrse che il bagaglio dello sconosciuto era nullo: non vi era niente sulla reticella, sul suo capo. Ma molti viaggiatori girano spesso, portando solo dei grossi bauli. Evidentemente l’ignoto non aveva con sè che il suo plaid.
Alimena si sedette di nuovo e si mise a fumare. Ma le sigarette gli si spegnevano facilmente; il freddo era acuto e i cristalli del compartimento erano appannati. Roberto soffriva del freddo, malgrado tutte le sue pellicce: e a questo attribuiva il senso di fastidio che lo vinceva. Difatti, aveva una nervosità strana. Quell’ora gli pesava molto.
Non poteva leggere, perchè la luce mancava: non poteva chiacchierare col suo compagno, giacchè non sapeva in che lingua esprimersi e non sapeva se costui gli avrebbe risposto. Poi, Alimena discorreva poco, in viaggio. Questo rientrava nel suo egoismo. È un incomodo, spesso, il discorrere, il legarsi, anche per un’ora, con qualcuno che non si conosce; egli taceva dunque.
Ma con quanto desiderio, oramai, egli invocava la stazione di Roma e più l’Hôtel d’Europe, in piazza di Spagna. Aveva telegrafato gli conservassero due stanze nei cui buoni caminetti egli avrebbe fatto accendere un gran fuoco. Decisamente, si gelava. Alimena aveva come una rigidità, nelle braccia, nelle gambe quasi pietrificate. Giammai, in viaggio, aveva avuto tanto freddo. Si pentiva mille volte di essersi mosso di giorno: di notte avrebbe almeno trovato la Pulmann, dove sono i caloriferi.
Guardò il suo compagno, come se volesse dirgli: che freddo! Che faccia aveva costui! Ora, gli occhi avevano assunto un aspetto cristallino, come vecchi specchi in una camera buia, cristallino-verdastro: sembrava si fossero congelati. Pareva più pallido: anzi, più bianco. E la bocca, sotto i mustacchi biondi, era livida, con una espressione di sofferenza.
— Anche egli crepa di freddo, — pensò Roberto.
Adesso il treno ballonzolava più rapido sulle rotaie, ma l’ultima ora di viaggio fu eterna, per Roberto Alimena. Si sentiva male, pel freddo: non osava neanche levarsi, per prendere un’altra volta il cognac. E mentre egli soffriva nelle sue pellicce, pensava che, sotto tutta quella lana, forse il suo vicino tremava di freddo. Difatti, costui, per quel poco di viso che si vedeva, pareva un morto: un morto con gli occhi aperti.
— Se muore qui, io non lo soccorro davvero, — mormorò fra sè Roberto, spaurito all’idea di dover muovere solo una mano.
Infine, infine, la stazione di Segni apparve e man mano si sgranarono gli ultimi minuti che dividevano il treno da Roma. Con uno sforzo veramente lodevole, Roberto si cavò il berretto, quasi battendo i denti, ma non osò smuovere la persona di sotto le pellicce. Vi era tempo!
— Roma, Roma, Roma, — gridarono i ferrovieri.
Lo sconosciuto, per il primo, si alzò. Roberto Alimena che si era levato dopo lui, vide un uomo piccolo, magro, mentre lo aveva supposto alto e forte: vide che il paletot grosso male nascondeva una gobba sulla spalla sinistra.
— Gobbo! Buona fortuna! — disse Alimena, che era italiano e superstizioso.
Lo straniero non toccò il suo berretto, andandosene, non salutò, non si voltò: ritto nel vagone, mentre chiamava due facchini, Roberto lo vide sparire tra la folla, col suo plaid sul braccio. In questa, era accorso il conduttore:
— Lei mi scuserà, signore, — disse — ma quel viaggiatore non ha voluto udir ragione.
— Non importa, non mi ha dato noia. Facchini badate alla roba.
— Questi stranieri sono così ostinati, — mormorò il conduttore, mentre anche lui dava mano a scaricare il bagaglio di Roberto Alimena.
— Già, doveva essere un tedesco, — disse costui, prendendo quello che più gli premeva, fra i bagagli, cioè il suo sacchetto a mano, dove conservava i suoi valori. — Dove è salito?
— A Ceprano.
— A Ceprano? Non vi sono che i tedeschi per salire da un paese come Ceprano. —
Così si avviò piano, tanto era irrigidito, seguìto dai due facchini. Adesso, era come liberato da quel senso di pena: camminando, sentiva meno freddo. E si mise nell’omnibus dell’Hôtel d’Europe con un senso di soddisfazione.
L’appartamentino fissato era quello del numero 11, su piazza Mignanelli, al pianterreno: una stanza da letto, una stanza per vestire e un salottino. Roberto Alimena rivide con piacere gli antichi camerieri e non chiese altro che del fuoco. I facchini dell’albergo appena appena depositavano i bagagli nella stanza da letto e nella stanza da toilette, che già un gran fuoco crepitava nei due caminetti. Ogni pena di Roberto si dileguò, quando si distese sovra un seggiolone, accanto al fuoco, aspettando il pranzo.
Avrebbe, veramente, voluto pranzar fuori di casa, ma all’idea di aver troppo freddo si era spaurito: sarebbe escito dopo pranzo, per andare in un teatro.
— Se non fa freddo, io resto a Roma quindici giorni, — pensò lui, nella mobilità del suo spirito e nella soddisfazione del suo corpo che aveva caldo.
Dopo poco, lo avvertirono che il pranzo era pronto: e vi andò volentieri, portando seco la pelliccia, a ogni evento. Ma l’albergo era tutto riscaldato coi caloriferi e trovò dappertutto la stessa temperatura eguale. A tavola, solo, domandò un giornale per vedere la lista degli spettacoli. Gayarre cantava la Favorita al Costanzi.
— Andrò, — disse.
Pure, non uscì immediatamente, dopo pranzo. Era stato preso da quella graziosa inerzia di chi ha ben pranzato, di chi ha caldo e di chi non ha preoccupazioni. Ma non aveva neppur sonno, perchè aveva dormito nel treno.
Così, pian piano, aprì il suo nécessaire da toilette, il bauletto dei suoi vestiti, il baule speciale fatto per le sue camicie. Egli era non solo accurato molto, ma raffinato per la sua persona e non si negava nessuna delle eleganze, nonchè delle comodità. Ogni sera, dovunque si trovasse, indossava la marsina, previa una minuziosa toilette della sua persona, la seconda o la terza della giornata. Solo per cavar fuori tutto quello che gli serviva, dalle spazzole alle bottiglie, dai cavastivali ai panciotti bianchi e neri, ci mise qualche tempo.
— Forse, farei bene a decidermi per un servo, — pensò fra sè, nella camera di cui aveva acceso tutte le candele.
Non si decideva mai, per comodità, perchè diceva che un servo, in viaggio, dà più noie che vantaggi, perchè le noie sembravano sempre troppo superiori. Ma ora, con tutta quella roba sparsa sul letto e sulle tavole, sentiva di aver bisogno di qualcuno. Fra le altre cose non trovava la scatola di pelle, con manico, dove metteva le sue cravatte: ancora una scatola speciale.
La cercò, un poco, fra le valigie semiaperte e i sacchi. Egli era in veste da camera, una abitudine un po’ borghese, ma così comoda. Cercò meglio e la trovò, questa scatola, nella stanza da toilette, sovra un grosso baule. Ma ne vide un’altra, vicino.
— Che è? — disse, cercando di rammentarsi.
E la prese nelle mani. Era una scatola di pelle nera, lunga quasi un metro, alta da trenta a quaranta centimetri, non molto pesante, ermeticamente chiusa.
— Che è, questo? — ripetette ad alta voce.
Per quanto cercasse, nella sua mente, quella scatola non rassomigliava punto a nessuna delle sue. La girava e rigirava, fra le mani, osservandola bene. Uscì fuori, nella sua camera: contò i colli. Erano proprio dodici. La scatola, il tredicesimo collo, era in più.
— Non è mia, — pensò, posandola sopra un tavolino.
Era un po’ sorpreso, veramente. Anche, un poco annoiato. Suonò. Venne il cameriere.
— Mandatemi il facchino che ha portato la mia roba. —
Venne il facchino.
— Tu hai portato la roba?
— Sì, Eccellenza. Manca qualche cosa?
— No. Dove hai trovato questa scatola?
— Nell’omnibus, insieme con quest’altra, — e additò quella delle cravatte.
— Va bene: va. —
La sorpresa cresceva. Roberto Alimena suonò di nuovo: riapparve il cameriere.
— Questo appartamento è stato occupato sino a ieri? — chiese il giovine signore, con aria indifferente.
— No, Eccellenza.
— Era vuoto?
— Vuoto da una settimana.
— Ah! E chi vi è stato?
— L’onorevole Pansilo Costabile, la sua signora e un bimbo.
— Che gente è?
— Gente per bene, ricca. Viene ogni anno.
— Chi ha messo in ordine le stanze?
— La cameriera.
— Volete mandarmela?
— Sì, Eccellenza. —
Dopo tre minuti, Giovanna, l’anziana fra le cameriere, apparve.
— Buona sera, Eccellenza, — ella disse, riconoscendo Roberto Alimena.
— Buona sera. Avete riordinato voi l’appartamento, dopo che sono partiti i Costabile?
— Sì.
— Vi era nulla?
— Nulla.
— Non avevano niente dimenticato?
— Nulla, nulla. Sappiamo l’indirizzo, a Firenze, avremmo rinviato gli oggetti.
— Va bene, grazie.
— Comanda altro?
— Nient’altro. Buona sera. —
Dunque, nessuno poteva aver dimenticato quella scatola nell’appartamento numero 11 dell’Hôtel d’Europe. La cameriera e il cameriere avevano parlato chiaro. E anche il facchino, soprattutto il facchino, non aveva detto di aver trovato la scatola nell’omnibus, accanto a quella delle cravatte?
Roberto Alimena tornò al tavolino, dove, sotto la luce di un candelabro acceso, giaceva la scatola misteriosa. Senza toccarla, turbato, — una delle poche volte turbato nella sua vita — egli la guardò meglio. Era di pelle di chagrin, nera: non consumata, certo, non vecchia, ma usata. Guardando sul suo lato destro, egli scorse un fermaglio di argento, curiosamente niellato: ma la scatola era chiusa perfettamente. Come si era, dunque, trovata nell’omnibus? Avrebbe voluto interrogare il conduttore, ma egli si trovava in giro certo; nè gli parve di dover troppo prolungare le indagini. Intanto, egli restava lì, immobile, dinanzi a quel cofanetto nero, con gli occhi attaccati a quella pelle nera che non portava nè cifra, nè segno, nè nulla; il tempo passava e Roberto Alimena ardeva di curiosità, egli che era sempre stato così poco curioso.
Di chi era, quella scatola? Del deputato Costabile, scordata forse dietro a un mobile, di qualche viaggiatore che l’aveva lasciata nell’omnibus dell’albergo, di qualcuno che aveva viaggiato con lui, dell’ignoto tedesco, forse?
E immediatamente il cervello di Roberto Alimena vibrò in questa convinzione: la scatola doveva appartenere a colui. Perchè, come, quando, egli non lo avrebbe potuto dire; ma ne era sicuro. Il viaggiatore pareva non avesse bagaglio, ma nell’ombra Roberto Alimena poteva non aver visto quella scatola; e il tedesco, quello che sembrava un tedesco, l’aveva dovuta dimenticare, colà, scendendo dalla carrozza. Era sua, certo.
La seconda idea di Roberto Alimena fu questa: restituire subito la scatola al suo proprietario. Cercarlo, restituirgliela. Essa poteva contenere gioielli, denaro, carte importanti, qualche cosa a cui lo straniero doveva tener molto, giacchè era il suo solo bagaglio. A quell’ora, egli doveva essere desolato di quella dispersione. Ridargliela!
Sì; ma come? Chi era costui? Dove era andato? Si era fermato a Roma? In quale albergo? Come cercarlo, come trovarlo? Adesso Roberto ripensava il modo bizzarro con cui lo straniero era salito nel treno, da quella stazione di Ceprano, che non apparteneva neppure a una città, in quel silenzio dove Roberto non aveva neanche udito la sua voce, in quella penombra dove nessun tratto della fisonomia si scorgeva, salvo quegli occhi verdi, così freddi, così gelidi; e infine, quella scomparsa tra la folla della stazione di Roma, una scomparsa, un annegamento! Restituire, come?
I suoi occhi si attaccavano sulla scatola di pelle, oramai affascinati. Egli dimenticava di essere in veste da camera, dimenticava la marsina sul letto, dimenticava Gayarre che cantava la Favorita e che egli doveva andare a sentire. Un interesse crescente lo dominava. E, nervoso, oramai, chiamò ancora una volta. Il cameriere anziano, le premier, Francesco, apparve, corretto, muto:
— Francesco?
— Eccellenza.
— Come si fa, quando si è perduto un oggetto?
— Vostra Eccellenza? …
— No, no, non io! Come si fa?
— Si mette un avviso per le cantonate. …
— E l’oggetto si ritrova?
— Eh. … qualche volta. …
— È un mezzo malsicuro. Non ve ne è altro?
— Si fa inserire la notizia nei giornali.
— Già. Comprendo. Ma neanche è sicuro.
— Neanche. Eccellenza, chi ha trovato qualche cosa, difficilmente la restituisce. —
Roberto Alimena levò gli occhi sul volto del cameriere.
— Perchè dite questo?
— Perchè, se è un poveretto, si tiene l’oggetto: se è un signore, si annoia di restituirlo, se ne scorda. … e vale lo stesso.
— E se uno volesse avvertire chi ha perduto un oggetto di averlo ritrovato?
— Oh, è facile! Si va in questura e si deposita l’oggetto trovato.
— Ah! È vero, avete ragione, Francesco. —
Un silenzio si fece.
— Vostra Eccellenza vuole il tè?
— No, uscirò. Andate pure. —
Subito, le idee di Roberto Alimena avevano cambiato corso. Tutta la complicazione di quella scatola misteriosa svaniva, di fronte alla risoluzione data da Francesco. Bastava, l’indomani, passando per san Marcello, salire un momento in questura, dichiarare di aver trovato fra la propria roba quel cofano ignoto, dire, più o meno, a chi avesse potuto appartenere, depositare la scatola e andarsene. Tutto finiva, così. Se lo sconosciuto era ancora in Roma, se cercava quel che aveva perduto, sarebbe andato in questura e avrebbe ritrovato la sua preziosa cassetta. Ah che nella vita non vi sono nè misteri, nè complicazioni!
Calmato, oramai, Roberto Alimena finì di vestirsi, senz’accorgersi che era abbastanza tardi. Ordinariamente, quando esciva dall’albergo, lasciava la porta della sua camera aperta, giacchè non aveva paura dei ladri. Ma questa volta la chiuse, portando seco la chiave: vi era cosa non sua, in quella stanza.
Arrivò al teatro, che cominciava l’ultimo atto della Favorita; giusto a tempo per udire il divino Gayarre cantare lo Spirto gentil. Una delizia! In un palco vide subito Héliane Love, una donnina elegantissima, brillantissima e legata in rapporti d’amore e di denaro con un suo amico, Fiorenzo Scotti.
Un po’ inquieto, di nuovo, lasciò la sua poltrona e andò a visitarla. Ella era sola ed egli si mise in fondo al palco. Héliane lo accolse teneramente: le era sempre un po’ piaciuto, Roberto Alimena, e adesso meditava di lasciare Scotti. Dopo varie chiacchiere frivole, Roberto, ritornato alla sua curiosità, le raccontò la sua avventura. Héliane disse subito:
— E che vi è nella scatola?
— Non lo so.
— Come, non lo sai?
— È chiusa.
— Dovevi aprirla.
— Aprirla?
— Ma naturalmente. È la prima cosa che io avrei fatta.
— Tu sei donna.
— Non solo le donne sono curiose.
— Io non sono curioso.
— Va là, che tu fremi di sapere che vi è dentro.
— Io? no.
— Oh, che uomo senza sangue! Apri, apri, ora che vai a casa.
— È serrata bene.
— Non vi è chiave?
— No. Niente.
— Un fermaglio?
— Una serratura inglese.
— Forzala.
— Tu mi consigli una effrazione.
— Devi farla, — diss’ella, scrollando il capo.
— E perchè?
— Per tua sicurezza.
— Sicurezza?
— Già. Non vuoi tu consegnare la scatola alla questura?
— Sì.
— Ebbene, la più volgare prudenza vuole che tu apra il cofano.
— Non intendo.
— E se vi è denaro? Se il possessore dichiara che vi era un milione, invece di mille lire e tu non sai niente? Se vi sono carte compromettenti?
— Hai ragione, — disse lui, tutto pensoso.
— Ascoltami, Roberto, è meglio aprirla.
— Mi ripugna.
— Non vi è nessun male.
— Sì; ma ne ho ritegno.
— Vuoi che venga con te, all’albergo, ad aprire la scatola? — diss’ella, con tono di civetteria.
— E che direbbe il portiere del mio albergo, vedendo apparire dopo mezzanotte una così bella donna e così elegante? — disse Roberto con molta galanteria, ma eludendo la risposta.
— Probabilmente rimarrebbe colpito d’ammirazione. … — ella rispose, ridendo male.
— Il portiere è un uomo, ma è pagato per essere virtuoso, — ribattè Roberto, cercando di scherzare.
Héliane Love fece una smorfia espressiva e soggiunse:
— Andiamo all’albergo, tu entri in camera, porti via la scatola e andiamo a casa mia ad aprirla.
— E Fiorenzo Scotti?
— In viaggio!
— Volevo dire. …
— Anche se fosse qui, — riprese lei, subito, indispettita — io sarei libera egualmente.
— Non t’ama più?
— Mi adora: ma lo tengo a posto. —
A un tratto, Héliane Love sembrò enormemente volgare a Roberto Alimena. Le donne che si vantano di avvilire gli uomini, lo disgustavano. Un po’ più freddo, giacchè egli era sempre corretto con qualunque donna, disse:
— Non parliamo più di questa scatola. Domani la deposito e buona notte.
— Tu l’aprirai! — disse, un po’ malignamente, Héliane Love che era molto delusa.
— No.
— Scommettiamo?
— Scommettiamo.
— Una discrezione? — diss’ella, aprendo i suoi grandi occhi azzurri, ove lampeggiò non la passione, ma l’avidità.
— È andata.
— Ti dirò io quello che voglio, se perdi, — soggiunse, con molta grazia.
— Come vorrai, ma non guadagnerai, — disse lui, sempre un po’ freddo.
— Vedrai che bel dono ti farò, se guadagni! — e rise, in un modo incantevole.
— Quello anche lo stabilirò io, — mormorò lui, guardandole i denti che ella aveva bianchissimi e luccicanti.
Lo spettacolo finiva, Héliane Love pregò Roberto Alimena di accompagnarla almeno sino a casa: ella possedeva un grazioso villino al Macao. Il giovane gentiluomo si sentiva perfettamente tranquillo dinanzi alla bella donnina e non temeva i pericoli di simile accompagnamento. D’altronde, Héliane Love era una creatura troppo furba, per scoprire troppo presto le sue batterie. Civettare, sì, molto: quanto all’amore, era un’altra cosa, per cui ci voleva del tempo, della volontà, dell’astuzia e della freddezza d’animo.
Nella carrozza parlò essa, ancora, della scatola.
— È nera, è vero?
— Nera: di pelle di chagrin.
— Che sia una scatola da guanti?
— Troppo grande.
— Da istrumento musicale?
— Sai che hanno una forma speciale: non è possibile che contenga nè un violino, nè un mandolino.
— Un nécessaire da toilette?
— Già. … forse. … Ma non è possibile, è troppo leggiero.
— Fra i due o tre, che possiedo, — soggiunse Héliane — ve ne è uno leggerissimo.
— Ma non è un nécessaire, ne sono certo.
— E sei certo della persona cui apparteneva?
— Quasi.
— Era un uomo?
— Un uomo: un fantasma!
— Come? — diss’ella, con un leggiero brivido.
— È apparso come un’ombra: è sparito come uno spettro, — disse Roberto Alimena, con un tono di racconto fantastico, che egli esagerava un poco.
— Dio mio!
— Hai paura dei fantasmi, tu, Héliane? — egli chiese, prendendole la mano inguantata, dalla grande manica di pelliccia.
— Non ci credo. … e ne ho paura, — ella mormorò, con una voce di terrore infantile, che era molto seducente.
— Io non ne ho paura, mentre ci credo, — soggiunse Roberto, con una perfetta sicurezza.
— Che dici?
— Ci credo, ecco.
— Va a finire che morirò di paura, questa notte, — ella borbottò fra i denti. — Perchè ci credi?
— Così, — disse lui, con aria misteriosa, metà vera, metà canzonatoria.
— Ne hai visti?
— . … Sì.
— Quando? Come?
— Oggi. Non era quello un fantasma? Quelli che noi sogniamo, non sono fantasmi? Quelle persone che, ogni tanto, appaiono e scompaiono, in una via, in un salone, non so dove, sbucati improvvisamente, spariti improvvisamente, non sono, forse, fantasmi? E non sono fantasmi certe figure che vediamo nella nostra immaginazione?
— Già. … ma non esistono.
— Che ne sai tu? E certa gente, che incontri, così curiosa, così bizzarra, non ti pare che appartenga al mondo delle ombre?
— Roberto, per amor di Dio, non mi far pensare a certe cose! — ella esclamò stringendosi a lui.
— Via, coraggio, Héliane, che questi fantasmi, tutti quanti, sono più o meno innocui, — e diede in una gran risata.
— Lo dici tu! — e fremeva ancora.
— Nessun uomo è mai morto per un fantasma, — e rideva ancora, mentre le baciava le dita inguantate.
— Sarà. … Ma io non ci dormirei, con quella scatola in camera, questa notte!
— Come? Se volevi aprirla poco fa?
— Poco fa. … Ma dopo. … Questo tuo viaggiatore spettrale. …
— Ti assicuro che era un fantasma, Héliane, — e rideva sempre.
— Non ridere tanto. Con quella scatola, in camera. …
— Dovrei trovare qualche anima buona che mi ospitasse. … — e la sogguardò.
Ella chinò gli occhi, senza rispondere. Intanto erano arrivati al villino Love, in via Macao.
Roberto Alimena scese subito dal coupé e offrì il braccio a Héliane Love, per accompagnarla nel peristilio del suo villino, blandamente illuminato da una gran lampada opaca.
Egli si fermò sulla porta dell’anticamera a pianterreno, chiusa da una tenda di velluto rosso cupo a ricami di oro vecchio, un po’ simile alla tenda di una chiesa.
— Non vieni a prendere una tazza di tè? — ella gli disse, vagamente, senza insistenza, comprendendo che egli non voleva restare e che ella non doveva insistere.
— Se permetti, te la verrò a chiedere domani, — disse lui, evitando cortesemente il rifiuto aperto.
— Dalle due alle quattro: non esco mai prima.
— Sola?
— Sola.
— Sei un mostro di fedeltà, Héliane.
— Anche Fiorenzo Scotti lo pensa.
Tant mieux: buona notte, cara. — E se ne andava: ella lo richiamò:
— Ricordati che devi spiegarmi l’enigma di quella scatola, domani.
— Se lo appuro!
— L’appurerai, l’appurerai. —
Héliane disparve dietro la cortina rossa: ed egli discese lentamente, a piedi, fumando quelle sue eccellenti sigarette russe, per le vie che conducevano al centro di Roma. Faceva un freddo asciutto, ma non crudo: ed egli camminava bene sul selciato secco, per le vie deserte, fra piazza delle Terme e il Tritone Nuovo.
Doveva rientrare? Andare al club delle cacce? Era presto, ancora: e adesso si pentiva di non aver accettato quella tazza di tè da Héliane Love. Non era un tranello, no, perchè quella cara, elegante donnina era troppo furba, per tendergliene uno, così grossolano: ma era un principio di tranello.
Fumando, fumando, si trovò in piazza Colonna. Non era stanco: ma si rammentò di aver dormito molto poco in quel giorno, e una delle regole costanti del suo egoismo era di dormir molto, moltissimo, sempre che potesse e dappertutto. Decise di andare in albergo.
Piazza di Spagna era assolutamente deserta, a quell’ora non avanzatissima della notte: ma è quartiere di forestieri, di alberghi, di case mobiliate e il silenzio vi si fa subito dopo le dieci. Egli bussò al campanello elettrico dell’Hôtel d’Europe e subito gli venne ad aprire il portiere, con una lanterna in mano. Mentre entrava, Roberto Alimena istintivamente si voltò: venendo da via Condotti e andando verso Propaganda, un uomo intabarrato, piccolo, correva lungo il muro: e così, in un lampo, Alimena pensò che fosse il suo sconosciuto del treno, quello che aveva dimenticato la misteriosa cassetta.
Alimena pensò anche, subito, di slanciarsi dietro al gobbetto: ma il portiere era lì, con la lanterna in mano, che aspettava: ma poteva non esser lui: e Roberto sarebbe stato ridicolo! Egli temeva il ridicolo come la peste bubbonica. Intanto, l’uomo era scomparso verso Propaganda e sarebbe stato impossibile di raggiungerlo. Il portone dell’Hôtel d’Europe si richiuse dietro Alimena.
Il giovane gentiluomo rientrò nel suo quartierino alquanto nervoso: sentendo che non avrebbe preso sonno subito, domandò al portiere di dargli un po’ di acqua calda, se ve ne era, a quell’ora. Voleva farsi un grog. Dopo pochi minuti, il portiere gli portò quest’acqua calda e augurò la buona notte. Il salottino e la stanza da letto erano ben caldi, giacchè il fuoco vi era restato acceso tutta la sera: Roberto accese anche la lampada che era sopra una consolle, invece di quelle candele dalla luce miserabile, così caratteristica, degli alberghi e si mise con molta calma, accanto al caminetto, a farsi il grog: aveva del cognac, dello zucchero, del limone, sempre in camera, e lo gustò a sorsi brevi, a intervalli, pensando che era stata un’allucinazione, quella che aveva avuta sul portone. Oramai, fissato di aver avuto un’avventura bizzarra, egli non vedeva che dappertutto il suo gobbo tedesco, dagli occhi verdi gelati!
Finito il suo grog, guardò l’orologio: erano circa le due, era ora di dormire. Ma una idea gli venne in mente: forse Héliane poteva aver ragione e quella scatola doveva essere un nécessaire da toilette. Sarebbe stato logico: quel viaggiatore non aveva altri bagagli, con qualche baule, forse, nel vagone delle merci: e portava seco il suo nécessaire. Infine, nulla si opponeva a che la scatola racchiudesse delle spazzole e dei pettini.
Per sincerarsi, volle vedere di nuovo la scatola: andò nella stanza da letto e la ritrovò dove l’avea lasciata, cioè sul tavolino di mezzo, accanto a quella delle cravatte: e la portò in salotto, per osservarla sotto la lampada. Mentre la guardava, attentamente, ebbe come un senso di fastidio: gli parve di dare questa osservazione, forse un po’ indiscreta, in piazza. Difatti, le imposte erano ancora aperte e quel pianterreno dava in piazza Mignanelli, a mezzo metro dal suolo. Macchinalmente, guardò in istrada, prima di chiudere: non era un’ombra, quella che si staccava dalla base dell’obelisco alla Immacolata Concezione? Sì! Il tedesco? Fole, fole: era una guardia di pubblica sicurezza che veglia sempre, a quel posto, durante la notte. Roberto Alimena ebbe un lieve sorriso e serrò le imposte.
Un nécessaire da toilette? Bene strano, dunque: troppo lungo: troppo leggiero: senza un manico, senza un anello, senza una correggia. Due volte, la scatola fu girata e rigirata da lui: prestò orecchio, se nulla facesse rumore, dentro, il che sarebbe stato naturale, se vi fossero delle spazzole e dei pettini. No, no. Lunga, leggiera, nera, con un fermaglio semplicissimo di argento. Ma che fermaglio?
Era un fermaglio a linguetta serrata, evidentemente, in una serratura a cui mancava la chiave o il segreto. Non si comprendeva come fosse avvenuta la connessione perfetta fra il coperchio e la scatola: ma essa era ermetica. Voltando, Roberto Alimena vide anche che i due cardini erano d’argento. E mentre osservava tutto questo, un desiderio immediato lo colpì, ardentissimo: quello di aprire la scatola: un fiotto di sangue gli fece bruciare la fronte.
Come aprirla? Bisognava forzarne la serratura. E quale serratura! Senza pensare più a nulla, obbedendo a un istinto invincibile, egli cercò qualche cosa e non trovò che una stecca di avorio per tentare l’effrazione. Ma fu inutile. L’avorio non faceva che rigare la lamina d’argento, ma non la smuoveva: e, a un certo punto, la punta della stecca si ruppe.
Questa resistenza della serratura lo irritò: gli ostacoli lo rendevano sempre convulso, tanto era abituato a vincere, nella vita. Cercò un altro istrumento e trovò una custodietta dove erano le forbici, le pinzette, il temperino, ma li adoperò tutti, invano, contro quella chiusura così salda. Lasciò andare la scatola, affranto. Girò per la stanza, guardandosi intorno, domandandosi se non avrebbe infranto la serratura contro la pietra di marmo del caminetto. E se ciò che vi era dentro, era fragile? Se si rompeva ogni cosa? Applicò al suo volto bruciante le sue mani gelide, per calmarsi. Oramai, era deciso ad aprire quella cassetta. Nulla poteva rimuoverlo da quella decisione. Solo, pensava freddamente al modo di aprirla, senza infrangere nulla: e dopo aver passeggiato, una ventina di volte, avanti e indietro nella stanza, ebbe una idea. Se la serratura era invincibile, avrebbe rimosso i cardini e avrebbe aperto la scatola dalla parte di dietro. E armandosi di tutti quei piccoli strumenti che aveva, egli cominciò il lavoro di scardinamento: si trattava di estrarre la vitarella che regge i cardini e che era fissata fortemente Quanto tempo mise a tale lavoro? Chi sa! Si dovette aiutare con le pinzette, con le forbici, col temperino, con le dita: spezzò la punta delle forbici, si ammaccò i polpastrelli. Eppure, muto, paziente, ostinato, seguitò il suo lavoro, come il carcerato che lima, con una corda da orologio, le sbarre della sua finestra. Quando ebbe risoluto uno dei cardini, cercò di penetrare con la stecca nell’apertura; ma trovò una resistenza molle, molto strana. A questo punto, egli ebbe come un brivido. Era solo. La notte era alta. Come un malfattore, egli si affaticava a un’opera oscena, violando la proprietà altrui, violando il segreto di uno sconosciuto: ed era lui il gentiluomo perfettissimo, Roberto Alimena! Fremette, quasi avesse il senso di qualche cosa di straordinario che si preparasse.
Ma vinse questo soffio di sgomento. Adesso, bisognava finire il suo lavoro. Tanto, la violazione era fatta. Così sconquassata, non avrebbe mai potuto far credere che la cassetta non era stata toccata. E si mise attorno al secondo cardine, raggiungendo lo scopo più rapidamente. La seconda vite cadde: egli mise la stecca e sollevò il coperchio, che si arrovesciò dall’altra parte, infrangendo la serratura.
Sopra un morbido letto di velluto nero, posava una mano femminile ingemmata. Non solo la mano, precisamente: ma anche un pezzo di braccio, troncato quattro dita sotto il gomito. La mano e il pezzo di braccio posavano nel senso della lunghezza della cassetta: il coperchio, anche di velluto imbottito, ne seguiva tutta la forma e combaciava sopr’essa, come l’astuccio di un gioiello. Per fermarla, però, questa mano, da un braccialetto d’oro con un grosso zaffiro stellato, due catenine si saldavano a due anelletti, sul velluto del fondo: e la mano restava immobile, soffice e non ispostabile.
La mano tagliata e ingemmata era bellissima. Lunga, con le dita affusolate e separate, come quella dell’amante del divino Raffaello, aveva delle linee perfette. Era anche posata artisticamente, col polso appoggiato al velluto, con la palma leggermente sollevata e la punta delle dita appena appoggiate, in una giacitura composta, lieve, quasi immateriale. Le unghie, rosee, lucide, riflettevano il chiarore della lampada: erano lunate e tagliate a mandorla: l’orlo della carne se ne staccava, con eleganza.
La mano non era nè rosea, nè bianca: era color carne, color naturale, del bianco avorio con una velatura di sangue dietro la pelle liscia, senza una ruga. Mano di tinta viva, di persona che era giovane, bella e sana: nulla di esangue, di cereo, di oscuro, in quella mano. Le vene si scorgevano appena; ma guardando bene, dall’indice e dall’anulare, si vedevano partire, in una tinta azzurro-violetta, le due vene più importanti della mano: e parevano quasi gonfie di vita.
La mano era fulgidamente ingemmata: dal mignolo all’indice, le quattro dita erano cariche di anelli. Il mignolo aveva, specialmente, una grossa perla nera circondata da otto brillanti; l’anulare una opale smagliante, che rifletteva tutti i colori dell’iride; il medio un grosso smeraldo, quadrato, stupendo; e l’indice un rubino color del sangue; mentre, ancora, tutte le quattro dita portavano cerchi e stelle di brillanti, stretti l’uno contro l’altro, con una ricchezza d’idolo indiano. In tutto, gli anelli erano tredici: tre al mignolo quattro all’anulare; tre al medio; tre all’indice. Pure, così carica di gemme, la mano tagliata restava leggiera come qualche cosa di alato, come pronta a involarsi.
Al polso non vi era che un solo braccialetto, una fascia d’oro, con zaffiro stellato. Poi, il braccio continuava nudo, rotondo, puro, con la stessa tinta di carnagione viva, con le vene che salivano dall’avambraccio, con una grazia di riposo, sul velluto. Poi, il braccio finiva, troncato netto.
Dove era la troncatura, perfetta, per nascondere i muscoli e la carne tagliata, era stato applicato un tondo di pelle, dello stesso colore vivido del braccio e della mano: così quel tronco finiva come completato, come se mai fosse stato distaccato da un corpo umano, come se quella mano e quel braccio esistessero da sè.
La mano era la sinistra. Guardandola bene, essa era incolume da ogni lavoro, così pura di forma, da parere statuaria, se non avesse conservato quel colore di carne così parlante, dirò. Delle leggiere fossette si delineavano, dove si articolavano le dita dal palmo e l’indice era più lungo, un poco, dell’anulare, il che indica perfezione di razza. Non era grassa e rotonda, come certe mani belline e stupide: nè magra, come certe mani troppo spirituali: nè abbattuta, come certe mani che hanno travagliato; nè troppo stretta da altre mani, con un aspetto d’innocenza, malgrado il lusso delle sue gemme.
Guardando bene gli anelli, si vedeva che, salvo il grosso smeraldo che aveva una legatura antica, quasi ieratica, tutti gli altri erano legati in forma moderna, come se fossero allora esciti dalle mani dell’orafo. E il braccialetto, sulla fascia di oro, portava tre parole scritte in caratteri greci, impresse profondamente nel metallo.
Esterrefatto, Roberto Alimena guardava la mano tagliata. Era notte altissima. Egli era solo, chiuso in quella stanza, con quella mano sotto i suoi occhi immobili.