IV. Il corso dei fiori

Quell’anno, il carnevale ferveva, a Roma. Era l’ultimo tempo in cui il denaro ancora fluiva, per le vene e per le arterie della capitale, mentre il crac edilizio e quello delle banche era imminente. Vi erano balli aristocratici e balli popolari: feste al Quirinale, nel mondo diplomatico e veglioni in tutti i teatri. In tutte le trattorie, grandi e piccole, alle due di notte si cenava: e il vino di Asti spumante e lo champagne scorrevano a fiotti, egualmente.
Il corso dei fiori, in quell’ultimo giovedì di carnevale, si annunziava splendido. Per lo più, è un trionfo del cavolo e della plebe: la plebe romana che si vendica come può, della sua qualità di plebe. Per lo più, il corso dei fiori si risolveva sempre in uno slancio di cavoletti, di mazzetti d’insalata e non tutti slanciati gentilmente: spesso erano proiettili pericolosi. Ma quell’anno, come ho detto, il denaro scorreva a fiumi e la plebe era contenta. D’altronde, il comitato del carnevale aveva così bene organizzato le cose — miracolo novissimo — che il campo sarebbe stato tenuto dalle sue carrozze, dalle sue giardiniere piene di fiori. Così, molte famiglie ricche e molte donnine ricche di denari non proprî, molti stranieri si decisero di intervenire al corso dei fiori: e il movimento delle vetture, dei pedoni, dei balconi si cominciò ad animare verso le due.
Mazzolini di fiori volavano dai balconi alle carrozze e viceversa: era, in principio, uno scambio raro e lento: poi, si fece più forte. Delle vetture cariche di fiori, portandone persino sulle ruote, andavano pianissimo, fermate dalla folla e il volo dei fiori si faceva alto e fitto, il chiacchierìo della folla diventava un clamore.
Due giovanotti, elegantissimamente vestiti, andavano a piedi, pian piano, a braccetto, prendendo sul volto, nel collo, sulle mani, dei mazzolini di fiori che venivano loro lanciati da qualche bella signora, da sopra un balcone o da una carrozza trasformata in aiuola. L’uno alto, bruno, pallido, con l’aria finissima, era il giovane conte milanese Roberto Alimena: l’altro, biondo, alto, con certi belli occhi celesti, con una testa di arcangelo fra dolce e fiera, era il conte Ranieri Lambertini, di una grande famiglia romana, molto illustre, ma un po’ compromessa nelle ricchezze. I due giovani si erano incontrati e si erano piaciuti: si vedevano spesso e in quel giorno avevano rinunziato ad andare sopra il balcone delle Cacce o alle finestre del Circolo Bernini, per godersi, a piedi, il corso dei fiori.
Verso il caffè Aragno, l’ingombro delle vetture e dei pedoni era imponente. Non potendo andare più avanti, Alimena e Lambertini si fermarono, scambiando dei saluti e dei sorrisi con le carrozze dove passava un amico o un’amica. Giusto, una bellissima vettura tutta adorna di violette e di camelie, qualche cosa di ricchissimo e già sciupato dalla folla, si era fermata poco lontana da loro, e la dama, sola, che l’occupava, faceva loro dei segni amichevoli.
— Héliane Love! — disse Ranieri Lambertini, sorridendo. — Chiama voi.
— Me o voi, caro Ranieri!
— O ambedue!
— Ambedue, certo. Andiamo. —
E i due gentiluomini si avvicinarono, a stento, a traverso la folla, a traverso i mazzetti di fiori che piovevano da tutte le parti. Héliane Love tutta vestita di flanella bianca, un costumino da uomo, un cappellino bianco, aveva l’aria più graziosa e più sbarazzina del mondo.
La sua vettura era piena di fiori che le avevano lanciato e che ella lanciava, a sua volta, piena di piccole bomboniere.
— O Alimena, buon giorno; buon giorno, Lambertini, eccovi a piedi, come due filosofi! Che fate dunque?
— Filosofiamo, bella Héliane, — disse Ranieri, mentre Roberto Alimena, appoggiato allo sportello, sorrideva, torcendosi il mustacchio.
— E vi ammiriamo, — soggiunse galantemente Roberto.
— Ah! pochissimo. Se no, verreste in carrozza con me!
— Chi dei due? — disse finemente Ranieri Lambertini.
— Ambedue! — esclamò ella con vivacità.
— Io te lo aveva detto, — mormorò Ranieri a Roberto.
— Che cosa? Che cosa? Parlavate male di me, è vero? — gridò la donnina, continuando la sua battaglia di fiori.
— Ma io vi adoro, Héliane, — disse Ranieri, con gravità.
— E io vi idolatro, — soggiunse Roberto, con maggior gravità.
Ella scoppiò in una risata, crollando la testa sotto il diluvio di fiori che saltavano, volavano da tutte le parti.
— Venite, venite con me, — gridò ella, mentre la sua vettura si metteva in cammino, pian piano.
— Io non posso, — disse Ranieri.
— Perchè?
— Ho giurato di non andare con nessuna donna, — disse lui, ridendo.
— Giurato, a chi? a Lei? — ella strillò, mentre la vettura si fermava di nuovo.
— A Lei, proprio.
— E voi, Roberto? Voi non avete Lei!
— Voi, per me, siete Lei. Ma ho giurato a Lui.
— Chi Lui?
— Chi? Fiorenzo Scotti.
— M’ero scordata. Bene, bene! Egli è qui, poco lontano.
— Vi aspetta?
— A san Carlo al Corso.
— E volevate noi?
— Ci secchiamo, lui ed io!
— Voi, forse.
— Anche lui, anche lui! Ma vado via, ripasserò, aspettatemi. Ho dei domino, se volete venire, vi maschererete o mi maschererò. A rivederci!
— A rivederci, — dissero i giovanotti, vedendo allontanarsi la vettura di Héliane.
— Simpatica, molto, — disse Ranieri.
— Sì: un po’ pericolosa, — soggiunse Roberto.
— Oh no!
— Ama le cose lunghe.
— Voi non le amate, Alimena?
— No.
— Non siete mai stato innamorato?
— No, fino a poco tempo.
— E ora?
— Ora. … è un’altra cosa, — disse, a voce più bassa, mentre camminavano fra la folla e il chiasso, Roberto Alimena.
— Anche io sono innamoratissimo, — sospirò Ranieri Lambertini.
— Così, tanto? Da molto tempo?
— Da più di un anno.
— E siete corrisposto?
— Purtroppo!
— Lo rimpiangete?
— No, me ne affliggo per lei.
— Amore contrastato?
— Contrastatissimo, amico mio. Amore impossibile.
— Una maritata? — disse Roberto Alimena.
— No. Di altra nazione, di altra religione, di altro ceto. Un disastro, credete.
— Come avete fatto a innamorarvi così?
— Chi sa! —
Appena appena erano giunti a piazza Sciarra, parlando, distratti oramai, quando da un’altra vettura ebbero dei segni di richiamo. Però, la signora che era in questa carrozza, era mascherata. Vestita di un gran domino di raso azzurro, orlato di pelliccia bianca, di un cappello grande, a conchiglia, di raso azzurro, aveva una mascherina bizzarra, di trama d’argento, sul volto. Ella sollevò la mascherina e chiamò i due giovani.
— Oh donna Clara! — disse Ranieri, prendendo la minuta mano inguantata. — Vi presento Roberto Alimena, mio amico; tu, certo, conosci la bella contessa Clara Loredana, per la fama della sua beltà, — soggiunse, subito.
Subito, la contessa si tolse la mascherina: e dai suoi begli occhi dardeggiò uno sguardo a Roberto Alimena.
— Vi cercavo, Ranieri, per invitarvi a pranzo, — disse, poi, la contessa, con la sua voce dolce di veneziana.
— Oggi?
— Oggi.
— Non posso, purtroppo.
— Perchè?
— Ho un impegno.
— Dite questo, da tre volte, — ella mormorò, con accento languido. — Il vostro amico è scortese, conte Alimena.
— Scortesissimo, signora, — disse Roberto, fissando nel bel volto roseo e sereno, quella molle beltà delle lagune.
— Voi, verreste?
— Subito!
— Meno male, si trova ancora un uomo galante, — ella sospirò. — Allora, a prendere il tè, Ranieri, domani sera?
— . … farò tardi.
— Portate anche Alimena. —
I due amici si inchinarono, acconsentendo.
— Vado in giro, per questo corso di fiori, ma mi annoio. Mi sono mascherata, perchè sono sola. Perchè non salite in vettura, con me?
— Abbiamo un convegno, — disse subito Ranieri.
— D’amore?
— Oh no!
— Di giuoco, allora! Ci scommetto che è di giuoco!
— Avete indovinato, contessa.
— Dio, quanti uomini ci prende, il maccao!
— È un giuoco veneziano, — disse, sorridendo, Alimena.
— Credete? — diss’ella, vivamente, sorridendogli.
— Lo sanno tutti. —
In questi pochi minuti di conversazione la bella contessa Clara Loredana aveva sempre guardato e sorriso ad Alimena, mentre Ranieri, appoggiato allo sportello, era un po’ nervoso. E, andandosene, la contessa lasciò un minuto la sua manina in quella del conte Roberto Alimena; e mentre si allontanava verso piazza Colonna, si voltò a sorridergli, mostrando i denti bianchissimi.
— Chi è, costei? — domandò Alimena, incuriosito.
— Una signora per metà.
— Avventuriera?
— Per metà.
— Misteriosa?
— Così, così.
— È ricevuta?
— Non dappertutto, ma quasi dappertutto.
— Maritata?
— Vedova.
— È esistito, un conte Loredana?
— Sì: nobiltà veneta, decaduta.
— È la vostr’amante, Ranieri?
— No: un flirt. Ma già infranto.
— Perchè?
Ella era gelosa.
— Ella?
— L’altra, Rachele!
— Ah! siete un innamorato perfetto.
— Io sono, sì, innamorato, — dichiarò Ranieri Lambertini — ma la terribile condizione in cui ci troviamo, la mia fanciulla ed io, ci consiglia a non aggravarla di più.
— Così grave?
— Gravissima, — disse Ranieri, seriamente.
— Mi sembra, però, che essa non vi preoccupi: vi ho visto allegro, brioso. …
— Sì, naturalmente. Sono amato dalla più bella creatura del mondo. …
— Ma non potete averla. …
— L’avrò, l’avrò! — disse baldanzosamente Ranieri.
— Capisco che gli innamorati vincono tutto!
— Sì: giacchè, alla fine, tenteremo il rimedio estremo.
— E quale?
— Fuggiremo insieme.
— E perchè non lo avete già fatto?
— Ella non voleva: è buona, è onesta. Ma ci dovremo arrivare! I pericoli che ci circondano sono troppo grandi.
— I pericoli? — domandò con curiosità Roberto Alimena che, oramai, s’interessava a tutte le storie drammatiche.
— Molti!
— E quali?
— Neppure io saprei dirveli. Ma da che amo Rachele, sono seguìto, pedinato, perseguitato; ma due o tre volte ho avuto delle liti, per la via; ma sono assediato da mendichi, da facchini, da fattorini. …
— Dite sul serio? — mormorò Roberto, colpito da grande meraviglia, notando la strana coincidenza.
— Sono sfuggito, per miracolo, a due o tre accidenti; e in uno, in un accidente di vettura, in cui il cavallo ha preso la mano al cocchiere, dovevo perire; per la mia disinvoltura, ne sono escito con una frattura al ginocchio.
— Lo attribuite alla misteriosa persecuzione?
— Già.
— Il padre, i parenti?
— No, non solo; ma ci deve essere qualcuno, qualcuno potente e oscuro che, da quando io ho amato Rachele, ha giurato la mia morte.
— E lo dite così tranquillamente?
— E che fare, mio caro? Per ora, sono più forte di lui: non mi ha ucciso, e Rachele mi ama sempre più.
— Ma state in guardia?
— Sto in guardia, — disse quietamente Ranieri Lambertini.
E come se il destino avesse voluto dar subito la sua conferma alle sue parole, a un tratto, un grande panico assalse la folla, in quell’estremo punto del Corso, dove erano giunti chiacchierando. Una detonazione, non fortissima, e un fuggi fuggi, un gridare, un arrovesciarsi sulle ruote delle carrozze, un vociare. Un colpo di rivoltella era stato tirato sulla folla, dalla folla: e la palla era passata molto vicino a Ranieri Lambertini, ferendo al petto un cavallo di botte. Spinti dalla folla, un po’ pallidi, guardandosi in volto, i due amici erano giunti a piazza Venezia, mentre invano avevano tentato un movimento indietro, per cercare l’autore del colpo di rivoltella. E nel vocìo, chi diceva che il colpo era stato tirato da un balcone dell’Albergo Campidoglio, chi da una carrozza dove erano quattro donne, chi da un viandante che era sparito. I due amici, taciturni, preoccupati, erano risaliti fino al palazzo Torlonia e si erano fermati sotto il portone. Il corso dei fiori era ricominciato.
— Che vi ho detto? — disse Ranieri Lambertini, con un lieve sorriso, toccando il suo mustacchio biondo.
— Avete ragione. Ma chi sarà costui?
— Non lo so.
— La vostra Rachele non vi ha mai parlato di un rivale?
— Mai; ma avrà taciuto per prudenza.
— Credete a un rivale?
— Credo a un rivale ignoto, respinto e perverso: un essere bizzarro, certo, e capace di ogni nefandezza, — disse Ranieri Lambertini, con una certa esaltazione.
— Anche voi! — disse Roberto Alimena.
— Come, anche io?
— Dico che qualche altro, nella vita, si è potuto trovare a contatto con esseri simili, — soggiunse, vagamente, Roberto Alimena, per non manifestare il suo caso.
— Forse, ma non come me. Sono sicuro di dover trattare con un atroce malfattore!
— E perchè non indagate?
— Rachele è muta e teme peggio, forse.
— E perchè non fuggite?
— Lo farò.
— Presto?
— Al più presto. Ve lo confido in amicizia.
— Potete contare sulla mia segretezza. Ma non dite che vi seguono?
— Sempre!
— Sapranno il vostro piano.
— No. È troppo ben combinato. —
Roberto Alimena sorrise, pensando al proprio piano che fra due giorni egli avrebbe messo in esecuzione.
— La fanciulla è decisa?
— Teme sempre, che la sua fuga faccia morire il suo vecchio padre che l’adora. Ora, però, non esita più.
— Sicchè, vi perderemo presto? — domandò Roberto, mentre di nuovo si mettevano in cammino.
— Prestissimo.
— Andrete lontano?
— Molto lontano: è necessario, — soggiunse Ranieri Lambertini, seriamente.
Non tanto lontano, — parve che dicesse una voce stridula, tra la folla, accanto a loro. Ambedue si voltarono vivamente. Roberto, specialmente, a cui parve aver udito, un’altra volta, quella voce. Ma non potettero sorprendere che visi voltati in aria o teste chinate di gente che lanciava fiori o che ne riceveva: nessuna faccia sospetta era intorno a loro. Roberto cominciava a turbarsi seriamente.
— Ci spiavano, — disse, con freddezza, Ranieri.
— Ma non potete immaginare chi sia?
— L’ho immaginato, talvolta.
— Come?
— Un’allucinazione. … una visione fantastica, — disse, pensoso, Ranieri.
— Chi, dunque?
— Il mio rivale, il mio persecutore, è gobbo, magro, con gli occhi verdi, — asserì Ranieri.
— Che dite? — gridò Roberto.
— Sì, gobbo, piccolo, con gli occhi verdi: certi occhi verdi come la pelle dei rospi, — ripetette Ranieri Lambertini senza accorgersi dell’agitazione di Roberto Alimena.
— Lo avete visto, dunque?
— Visto? No. Intravisto: apparso per un minuto secondo dinanzi a me, poi scomparso.
— Quante volte?
— Tre volte. Una sera, l’ho incontrato nella via dove abita Rachele; quest’uomo mi è passato frettolosamente vicino e m’ha guardato, con quei suoi occhi cristallini. …
— Già, cristallini, — replicò Roberto, come in sogno.
— Uno sguardo orribile, terrificante! Un’altra volta, è strano, ho incontrato quest’uomo nelle scale della mia casa: mi sono precipitato dietro a lui, ma non l’ho potuto raggiungere.
— Fugge, sfugge. …
— La terza volta, non lo credereste? Mi è parso di vederlo in chiesa, a san Pietro, dove conduceva alcune signore americane.
— Scomparso?
— Come un ago in un mucchio di paglia!
— San Pietro è grande. …
— E, notate, amico mio, che io non sapevo, non so chi è costui, nessuno mi ha detto niente, nessuno mi ha avvertito. … eppure io sono convinto che costui è il persecutore mio e di Rachele! Vi sembro pazzo, eh?
— No, — rispose lentamente Roberto. — Mi sembrate savio. Queste intuizioni, questi presentimenti esistono. Io ne ho avuti.
— Anche voi? Allora mi comprendete! Ma vi è di più. Io avverto un fenomeno curioso. Vi è mai successo di penetrare in un ambiente assolutamente oscuro e di intendere che lì dentro vi è qualcuno? Voi non vedete e non udite nulla: ma avete la sensazione che vi sia qualcuno. Così, pel mio genio malefico. È giorno, nella via: è notte, in casa: sono solo, sono in compagnia; in qualunque stato, in qualunque momento, io sento che egli è attorno a me, non so dove, ma poco lontano!
— È strano, è strano, — mormorò Roberto.
— In questo minuto, vedete, egli è vicino a noi, — disse piano, Ranieri Lambertini. — Non avete udita la sua voce?
— Forse la conosco, — disse, pianissimo, Roberto Alimena.
— Come? sarebbe mai possibile? Parlate, parlate, Alimena, toglietemi da queste ombre!
— Amico mio, io non posso, nella strada, confidarvi il mio segreto, — disse, pianissimo Roberto. — Ma vi giuro è legato col vostro!
— Sì? Cerchiamo lo stesso uomo, forse?
— Io cerco una donna.
Non la troverai, — fu un soffio di voce che passò fra i due amici, come la prima volta.
Questa volta, ambedue credettero che essa partisse da un piccolo monello che era passato accanto a loro, vendendo dei mazzolini di fiori. Ma, al solito, il bimbo sgattaiolò nella folla. I due amici si guardarono di nuovo, allarmati.
— Questo è troppo, — disse Roberto.
— Partirò, partirò con lei, — replicò Ranieri fieramente.
Tacquero. Erano giunti di nuovo a piazza Sciarra. Héliane Love era ritornata indietro. E li chiamò, nuovamente.
— Andiamo un po’ con lei, — disse Roberto, piano, a Ranieri. — Ci distrarremo. Questo ambiente di mistero mi soffoca.
— Avete ragione. Del resto, non siamo ancora morti. E per levarci dal mondo, ce ne vorrà! — esclamò Ranieri Lambertini.
Meno di quel che credete, — mormorò la stessa voce, passando rapida.
Questa volta, parve che venisse da un balconcino di un ammezzato, tutto adorno di fiori, pieno di fanciulle e di signore che lanciavano fiori e ridevano.
— Non pensiamoci, non pensiamoci, — ripetette Roberto. — Andiamo con Héliane Love. —
Difatti, salirono nella vettura di costei.
Essa sorrise loro, e la guerra dei fiori ricominciò, vivacissima, frammezzata dalle risate e dai dialoghi con Héliane che era molto eccitata, quel giorno.
Del resto, ella, che era una persona fine, riconoscente ai due giovani che erano venuti a farle compagnia, abbassò sul volto una veletta di merletto molto fitta; ella non voleva comprometterli con le belle signore dell’alta società.
— Temo per gli occhi, — spiegò lei, sempre con molta finezza.
S’incontrarono con la vettura della contessa Loredana. Costei si era buttata a sedere, stanca oramai, e si lasciava piovere addosso tutti i fiori che le gittavano. Del resto, quasi annottava e la folla si era un po’ diradata. Ma la bella veneziana riconobbe i due giovani e si levò in piedi, gridando:
— Traditori! Traditori!
— Radamès, Radamès! — rispose Ranieri, scoppiando a ridere.
— Me la pagherete! — ella gridò, ancora. — Conte Alimena, vi attendo domani sera. —
E la vettura passò.
— Chi è questa sfacciata? — domandò Héliane che era seccatissima.
— Una dama, — rispose Roberto.
— Ma chi!
— Una dama, mia cara.
— Maleducata allora!
— Forse non è correttissima.
— Di quale dei due è innamorata? — disse Héliane Love, guardando i due amici.
— Di ambedue, — disse, ridendo Roberto.
— Ambedue, ambedue! — soggiunse, ridendo, Ranieri.
— Presuntuosi!
— Anche voi ci amate, Héliane? — chiese Roberto, sempre scherzando.
— Io? neppur per sogno! — e si morse le labbra, indispettita.
— Via, via, siate buona, confessate la vostra passione, — soggiunse Ranieri.
E così continuarono a scherzare, andando ancora in su. Adesso le carrozze diradate accendevano dei lumi di bengala, come pure sopra i balconi, e gli ultimi cesti di fiori semivivi, quasi appassiti, volavano. Allora, accadde un fatto curiosissimo.
Le carrozze che seguivano il corso dei fiori, tutte le volte che arrivavano alla fine del Corso, in piazza del Popolo, giravano intorno all’obelisco, per prendere la fila del ritorno e l’affollarsi delle vetture era stato tanto durante la giornata, che, spesso, le stazioni in piazza erano state lunghe; tanto che, varie volte, piazza del Popolo, era parsa trasformata in una platea di equipaggi. Ora che la sera era caduta, e le vetture erano diradate moltissimo, non si aspettava più tanto. Difatti, la carrozza di Héliane Love dove erano anche Roberto Alimena e Ranieri Lambertini si fermò solo un pochino intorno alla fontana. Lo spettacolo era fantastico. Tutte le carrozze ferme avevano accesi dei bengala e su certe tribune di legno, in piazza, fatte per il pubblico che voleva godersi il corso dei fiori, anche vi erano accesi dei bengala: luci verde, rosse, bianche ondeggiavano sull’obelisco, sulle muraglie e sugli alberi del Pincio, sull’acqua della fontana, sulle facce degli astanti.
— Quanto è bello, quanto è bello! — gridò Héliane Love, battendo le mani in piedi con uno slancio puerile d’ammirazione.
In questo, una carrozza a due cavalli, aperta, padronale, sbucò dalla porta del Popolo, come se venisse da villa Borghese, a quell’ora, o dall’aperta campagna, dalla via Flaminia. Camminava al trotto e al trotto passò presso l’equipaggio di Héliane Love. Dentro vi era una donna, cioè una figura di donna tutta avvolta in un vestito bianco di lana, a larghe pieghe, simile ad una tonaca; un mantello bianco copriva questa veste, un mantello ampio, senza maniche, sotto cui la persona spariva. Elevandosi dal mantello, un cappuccio di lana bianca serrava tutta la testa, coprendone i capelli perfettamente: con un largo nastro di seta bianca si annodava sotto il mento, coprendolo, quasi. La faccia era coperta da una mascherina di raso bianco, sicchè nessun lineamento della fisonomia traspariva, salvo gli occhi, a traverso i buchetti della maschera; però si scorgeva che la donna era alta e slanciata.
Accanto a lei vi era un piccolo essere avvoltolato in un domino nero, non si sa se uomo o donna; piccolo e contorto sotto il raso nero, anche a lui un cappuccio nero si abbassava sugli occhi, anche a lui una mascherina di raso nero, copriva il volto ermeticamente. La carrozza era guidata da un cocchiere in livrea azzurra-cupo, con filetti gialli, livrea elegantissima; i due cavalli erano belli e vivaci, due bestie di prim’ordine.
Come ho detto, l’equipaggio passò accanto a quello di Héliane rapidamente. Ella vi gittò uno sguardo e disse subito:
— Giovanotti, guardate se quella donna non sembra un fantasma? —
I due si scossero, si spenzolarono dalla carrozza ma giunsero appena a intravedere qualche cosa. Si scambiarono un’occhiata, niente altro.
— Vi era, al solito, un marito piccolissimo, accanto a quella donna alta: un marito piccolo e gobbo, forse.
— Veramente? — gridò Roberto Alimena, non potendo frenarsi mentre Ranieri si torceva convulsamente il mustacchio.
— Sì, sì, sempre così! —
Essi si arrovesciarono fuori degli sportelli per vedere, ma non era possibile. La carrozza del fantasma, come diceva, ridendo, Héliane, non era scomparsa, ma si era impigliata nella fila che risaliva il Corso, da piazza del Popolo a piazza Venezia. La carrozza di Héliane era distante tre o quattro carrozze e non si vedeva nulla.
— Héliane?
— Roberto!
— Bisogna che assolutamente sappiamo chi vi è in quella carrozza.
— Un’avventura? — diss’ella, con voce un po’ alterata.
— No, no, cara. Ma una cosa grave, forse!
— Per te, Roberto?
— Per me e per Ranieri.
— Un duello?
— Non domandare, cara, neppure noi ti sapremmo rispondere. Si tratta di cosa seria. Cerchiamo raggiungere quella carrozza. —
Allora, tutti e tre, un po’ turbati, i due uomini certamente più di Héliane Love, si alzarono in piedi sul sedile posteriore della carrozza, per parlamentare al cocchiere.
— Si può raggiungere quella carrozza?
— Quella, quella, quattro carrozze innanzi!
— Osserva bene, Luigi, — disse Héliane.
— È impossibile, eccellenza, — disse il cocchiere crollando il capo — vi è la fila, e le guardie non mi lasceranno passare.
— Spezza la fila!
— Tanto non me lo lasceranno fare!
— E che si potrebbe fare per incontrarla di faccia, per arrivarle dietro? — disse Héliane, che si era eccitata molto, mentre i due giovani si guardavano esitanti.
— Eccellenza, voltiamo per un vicolo, qui a destra, e andiamole incontro per san Lorenzo in Lucina.
— E il giro non è troppo lungo? — osservò, tremando d’impazienza Roberto.
— E se ci sfugge? — disse Ranieri — mentre noi voltiamo a destra e seguiamo le vie interne, se essa prende una via interna anche?
— Eh, arrischiamoci! — disse Héliane Love audacemente. — Tanto, ora appena la vediamo. —
Pure, la vedevano ancora.
— Volto? — disse il cocchiere, all’angolo di via san Giacomo.
— Sì, purchè tu faccia in un baleno le strade interne. —
Prima di voltare i due giovani misurarono con l’occhio la lentezza delle vetture e s’impressero bene in mente che vetture precedevano e seguivano quella del fantasma. Vi era una vettura di diavoli rossi, prima: e tre signore sole senza maschera dopo.
Intanto, il cocchiere aveva già voltato per san Giacomo non trottando, ma galoppando per via Ripetta, che a quell’ora per fortuna era deserta. Le tre persone erano mute, divorate dall’ansietà. Héliane Love già esaltata da quell’ambiente romantico, i due giovani oppressi dal desiderio di un po’ di luce. Quando imboccarono via in Lucina e si andarono a fermare all’angolo del Corso, presso il Circolo Bernini, guardando l’orologio erano passati quattro minuti. Avevano divorato la via.
— Non sarà mica passata, la vettura del fantasma? — domandò Héliane Love un po’ ridendo.
— È impossibile, — disse Roberto.
— È impossibile, — disse Ranieri.
— Salvo che abbia voltato, — soggiunse il cocchiere — non è passata. —
In piedi, tutti e tre guardavano verso il fondo del Corso con ansietà viva. Ancora nulla si vedeva, ma le carrozze andavano appena a un mezzo trotto.
— Dite al cocchiere che cosa dovrà fare, — disse Héliane, da donna preveggente — quando apparirà la carrozza.
— Restate fermo, Luigi, sino a che essa sia passata, — disse Roberto — in modo da mettervi, però, subito dietro ad essa.
— Sta bene, eccellenza. —
Passavano le carrozze. Ranieri, muto, le osservava, le contava.
— Ci siamo, — egli mormorò, a un tratto.
Difatti, di lontano, compariva, sotto i bengala, la vettura dei diavoli rossi.
— Attenzione! — esclamò Héliane Love.
— Non ti gittar fuori, non ti muovere, Héliane, — disse, a bassa voce, un po’ tremante, Roberto.
— Va bene, — ella rispose, anch’essa un poco tremante.
Ora, la carrozza del fantasma si avanzava lentamente, quasi di faccia a loro. Il domino nero, piccolo, forse gobbo, era seduto, raggomitolato: il domino bianco, o la figura vestita di bianco, era in piedi. Pareva molto alta. Adesso la carrozza dell’omiciattolo nero e della grande donna bianca si appressava sempre più e quando passò, rasente la vettura di Héliane Love, il piccolo domino nero si voltò ai due giovani e li guardò a traverso i fori della maschera. Ambedue ebbero la stessa impressione: sentirono uno sguardo gelido, verde, scintillante come la lama di una spada.
— È lui, — mormorò Ranieri Lambertini.
— È lui, — mormorò Roberto Alimena.
— È ciò che cercavate? — disse, impazientissima, Héliane Love, mentre la carrozza si metteva dietro a quella dell’uomo nero e della donna bianca.
— Sì, — disse cupamente Ranieri.
— In pieno romanzo, dunque! — disse lei soddisfatta nella sua fantasia.
Al passo, la vettura di Héliane Love, coi due giovani dentro, seguiva quella del piccolo uomo nero e della donna bianca. Costoro stavano immobili, senza voltarsi, la donna sempre in piedi, come irrigidita nella sua posizione di statua, l’uomo sempre rannicchiato al suo posto. I due giovani e la donna erano sempre inginocchiati sul sedile posteriore, per guardar bene.
— Sarà lui? — domandò, come a sè stesso, Ranieri Lambertini.
— Sarà lui? — identicamente chiese a sè Roberto Alimena.
— Sarebbe bene si voltasse, — mormorò l’uno all’altro.
— Ora lo faccio voltare io, — disse Héliane Love, che aveva udito.
E prese due o tre mazzolini di fiori, con grande abilità li mandò tutti nella carrozza del domino nero e della donna bianca. Ma nessuno dei due si voltò.
— Ostinati! — esclamò lei, irritandosi.
E ne gittò degli altri, più presto, non colpendo sempre, per la fretta.
— Niente, niente! — esclamava, nervosissima.
Ansiosamente, i due giovinotti guardavano questa lotta, fra i proiettili di Héliane Love e la immobilità di quei due. Per fortuna la carrozza di Héliane era piena di fiori da gittare.
— Cerca di colpire la donna, — disse Roberto.
— Anche a lei, ti interessi?
— No. … ma può essere un filo. —
E difatti, Héliane Love si mise a bersagliare la donna di mazzolini. Costei, finalmente, si volse. Essi erano a piazza Colonna che la luce elettrica inondava di chiarore. Si volse, la donna, e gittò un lungo sguardo nella vettura della saettatrice. Lungo sguardo, di occhi molto fieri, molto tristi e molto dolci, strano sguardo di meraviglia, di dolore, di alterezza e di bontà, sguardo complesso che strappò un grido a Ranieri e fece fremere di sorpresa e di misteriosa commozione Roberto.
— Che avete? — disse Alimena, turbato dal grido di Ranieri.
— Gli occhi di Rachele! Lo sguardo di Rachele! — gli disse costui, a voce soffocata.
— Credete che sia lei?
— Non so. … non so. … con quell’uomo. … ella è a casa sua, ne sono certo. … ma quello sguardo. … —
La donna aveva volte le spalle, di nuovo, con un moto lento e un po’ rigido.
— Sarà lei? — mormorava Ranieri, al colmo del turbamento.
— Vogliamo accertarcene? Vogliamo scendere dalla carrozza? Avvicinarci a piedi? — disse Roberto.
— No, no, li perderemmo subito di vista. … Seguiamoli, dovunque vanno; vediamo dove entrano; interroghiamo il portinaio, il cocchiere. … —
Héliane Love non aveva udito che poche parole di questo dialogo fatto a voce sommessa. Del resto, era una donna fine e aveva perfettamente inteso che i due giovani erano agitatissimi. Ella chiese:
— Gitto ancora dei fiori?
— Sì, — disse macchinalmente Roberto.
— Sì, sì, — replicò Ranieri, come un’eco.
Ella, ora, ne gittava quanti gliene venivano tra mani, vuotando la sua carrozza, strappando le ghirlande di fiori che l’adornavano, devastandola, ma i due parevano ricaduti nella loro immobilità di statue. Adesso Héliane era in piedi sul sedile: anche i due giovani vi erano saliti, formando un gruppo strano: del resto, in quella fine di giornata di carnevale, ciò non si notava. Adesso il Corso si vuotava, le carrozze andavano più presto e quasi si arrivava a piazza Venezia. D’un salto, Roberto Alimena andò a collocarsi presso il cocchiere e preso un ultimo fascio di rose bianche lo gittò contro la donna bianca, colpendola fra le spalle e il collo.
Ella si volse, con lentezza. Fece un gesto bizzarro, come per isvolgersi dai suoi panneggiamenti bianchi, e con la mano destra lanciò un fiore a Roberto, guardandolo. Subito, l’omino si era levato di scatto e gittandosi su lei, afferrandola pel braccio destro, l’aveva violentemente fatta sedere di nuovo.
Mentre Roberto Alimena, commosso all’estremo, raccoglieva il fiore che la donna bianca sconosciuta gli aveva lanciato con tanta grazia, un’orchidea dal disegno e dal colorito bizzarro, dal profumo inebbriante, Ranieri Lambertini aveva gridato:
— Per Dio! È una donna con un sol braccio!
— Che dici! un sol braccio! come lo hai visto? — urlò Roberto, allibito, dando del tu al suo novello amico, nella confusione.
— L’ho visto, come vedo te, — esclamò Ranieri, esaltato anche lui — quella donna ha gli occhi di Rachele e un braccio monco!
— Luigi seguite rapidamente quella carrozza, — gridò Héliane al suo cocchiere.
Difatti la vettura dell’omino e della donna bianca aveva preso un trotto abbastanza rapido per piazza Venezia e per la salita di via Nazionale. Le strade si sfollavano, oramai, perchè la gente andava a pranzo e le carrozze potevano correre. Pareva che gli sconosciuti volessero sottrarsi alla persecuzione della carrozza di Héliane; essi avevano dovuto dare l’ordine di correre al loro cocchiere, giacchè egli guadagnava sempre più terreno. Muti, ansiosi, i due gentiluomini ed Héliane s’irritavano di una quantità di piccoli ostacoli, che si frapponevano al loro equipaggio. Due volte la loro carrozza fu sviata nelle rotaie del tram: una volta un carrettino si mise di traverso. Pareva che il caso favorisse la fuga dei due sconosciuti.
— Ci sfugge, — diceva sordamente Ranieri Lambertini.
— Non può essere, non deve essere! — esclamava Roberto Alimena.
— Luigi, corri, — diceva continuamente Héliane al suo cocchiere.
Costui adesso sferzava vivamente i suoi cavalli, quasi che la nervosità e l’emozione dei suoi padroni gli si fosse comunicata. Adesso la distanza fra le due vetture diminuiva di nuovo e la donna bianca si distingueva perfettamente. Però ella non si voltava più, come se il piccolo domino nero glielo avesse proibito. Le due vetture si trovavano ora all’esedra di Termini; lì parve che la carrozza degli sconosciuti rimanesse un minuto indecisa, poi si slanciò per la via della stazione. Dietro correva sempre l’altra carrozza: era una vera caccia silenziosa, concentrata, commossa. Gli sconosciuti non si fermarono alla stazione; il loro equipaggio s’internò per il dedalo delle strade nuove dell’Esquilino, verso via Venti Settembre.
— Ma dove vanno? — chiese ansiosamente Héliane, che non aveva compreso nulla, ma a cui si era comunicata la febbre di quella caccia.
— Chi lo sa! bisogna seguirli, — replicò Roberto Alimena.
— Bisogna seguirli, — ribattè Ranieri Lambertini.
Ora l’ampia via Venti Settembre, deserta in quel momento, si svolgeva propizia a quella fuga e a quella caccia. Di nuovo la carrozza dei perseguitati acquistava vantaggio: decisamente voleva sfuggire a quella strana maniera d’inseguimento. Essa non si fermò a nessuna porta di via Venti Settembre, anzi attraversò l’arco di porta Pia con un fragore sordo.
Quando la videro internarsi o meglio ingolfarsi nelle ombre di via Nomentana, i tre si guardarono in viso, stupiti.
— In campagna! si va in campagna, — disse Héliane, battendo le mani e cercando la sua pelliccia.
— Siete armato? — domandò Ranieri, sottovoce a Roberto.
— Sì, — disse costui, pianissimo e freddamente. — E voi?
— Io pure, — rispose Ranieri — ma la presenza di Héliane m’imbarazza. —
Roberto crollò le spalle, con un atto di rassegnazione. La corsa sulla via Nomentana assumeva un aspetto fantastico. Allora quella strada di campagna non aveva quella lunga fila di palazzi e di villini che ora vi sorgono; salvo tre o quattro grandi ville, sul principio, tutte oscure e forse deserte, non vi era altra traccia di abitazioni. La illuminazione era molto scarsa. Un fioco lampione, ogni cento passi. E dai due lati si estendeva la campagna romana, vasta, deserta, nera. Un’aria fredda e umida faceva rabbrividire i tre persecutori e a ogni lampione che passavano, la luce che si ripercuoteva sulle loro figure, ne mostrava il pallore e gli occhi un po’ stralunati.
Fantastica caccia! Roberto Alimena e Ranieri Lambertini erano certi di avere innanzi a sè, in quella carrozza, il loro peggiore nemico, un essere nefasto e terribile: e in quella donna bianca, chi sa che cosa sognavano! Héliane Love, donna disoccupata e anima immaginosa, come tutte le donne, era giunta a un certo parossismo anche lei. La notte, l’oscurità, questa corsa a traverso l’austera e tetra campagna romana, tutto veniva ad eccitare in sommo grado anche una persona estranea al dramma, come Héliane.
Ma la vettura dei perseguitati quasi pareva avesse messo le ali. Si udiva, ma poco si distingueva più. Quando vi erano delle salite e delle discese, spariva: quasi s’inabissava. E andava, andava, sempre più lontano.
— Sembra un tranello, — mormorò Ranieri all’orecchio di Roberto.
— Torniamo indietro, non esponiamo Héliane a un pericolo, — rispose Roberto, preoccupatissimo.
— Questa è una partita perduta, — replicò Ranieri.
Pure, le carrozze correvano. Quella dei perseguitati era lontanissima e già passava sul piccolo ponte che cavalca l’Aniene. A un tratto sparve e nessun rumore s’udì più.
— Fermate, Luigi, — disse Héliane prima di giungere al ponte.
— È caduta nel fiume, la carrozza, — disse Ranieri, sogghignando.
Non un’ombra, non una casa, nella campagna il deserto e il piccolo Aniene che lo attraversava. Sul ponte, i tre si guardavano, muti. Dove era, dunque, scomparsa la vettura? Che era accaduto di essa e dei suoi viaggiatori? Dove cercarli?
Stavano, così, istupiditi, quando, improvvisamente, sbucando dalle tenebre della via, la carrozza riapparve al galoppo e passò rasente loro, come una freccia, tornando a Roma.
Era vuota.

. . . . . . . . . . . . . . .

Un profondo silenzio regnava nella piccola casa di Mosè Cabib, al vicolo del Pianto. Come al consueto, il vecchio rivendugliolo era rientrato in casa verso le nove, aveva cenato mutamente, insieme a sua figlia Rachele e al suo misero commesso. Taciturna, la bella figliuola dell’ebreo non aveva aperto la bocca, tutta raccolta nei suoi pensieri.
Mosè Cabib sembrava molto preoccupato da vari giorni. Due o tre volte era rientrato improvvisamente nella sua casa, guardandosi attorno con occhio sospettoso, indagando, come se temesse di trovare qualche nemico appiattato in casa. Invece aveva ritrovato Rachele intenta a qualche suo mirabile lavoro di ricamo, in cui la fanciulla eccelleva, occupata a leggere; una sola volta l’aveva trovata scrivendo: ma ella, prima che le mani di suo padre adunghiassero il foglio di carta, dove essa scriveva, lo aveva, con un moto rapido e fiero, lacerato in mille pezzi. Il vecchio aveva borbottato delle parole di minaccia all’indirizzo di Ranieri Lambertini e se ne era andato.
Di sera, Mosè Cabib rientrava sempre oscuro nel volto e con l’aria molto stanca. Sua figlia, abituata ai lunghi silenzi, non l’interrogava. Ella sentiva che qualche cosa di grave si maturava, fra lei e suo padre; il dramma della piccola casa nel vicolo del Pianto precipitava verso una catastrofe. Le ultime timidezze e gli ultimi terrori, vaghi e secreti dello spirito di Rachele Cabib, venivano dileguandosi. Ella era adesso decisa a giuocar tutto per tutto.
Così, quella sera, le parve di leggere nel viso di suo padre una espressione di dolore e di collera insieme, un senso di paura e di tristezza. Quando il commesso fu andato via, ella si trattenne ancora un poco, muta, con le mani in grembo, quasi aspettando che suo padre le dicesse qualche cosa. Rosa, in un angolo oscuro della stanza, faceva la calza e non si udiva che il ticchettìo dei ferri. Mosè Cabib finì di fumare la sua pipa. Allora la sua figlia si levò e gli disse:
— Buona notte, padre.
— Buona notte. Non andare ancora a letto, però.
— E perchè?
— Perchè dovrò, forse, dirti qualche cosa, — soggiunse il padre, ad occhi bassi.
— Voi?
— Io.
— E perchè non me lo dite adesso?
— Più tardi, più tardi, forse.
— Va bene, — ella disse, freddamente, voltandogli le spalle.
Quando la figliuola Rachele fu risalita nella sua stanza, Mosè Cabib licenziò anche la serva, dicendole di coricarsi e di non preoccuparsi di qualunque rumore udisse in casa. Costei crollò le spalle senza rispondere e se ne andò a dormire. Però non si addormentò punto, giacchè, conoscendo i segreti che agitavano quella casa, anch’essa, nella sua rozzezza, comprendeva che qualche cosa di straordinario si preparava per quella notte.
Sopra, neppure Rachele Cabib si addormentò; il suo spirito immaginava per quella notte un singolare combattimento e una decisione estrema. Tentò di leggere, ma non le riuscì. La sua attenzione non si fermava sulle frasi del libro; ella si distraeva subito, pensando ai casi suoi.
Un principio di agitazione le dava degl’improvvisi fremiti: andò a gittarsi ai piedi del ritratto di sua madre; ma non vi trovò quella pace che vi cercava.
Inginocchiata, con la faccia tra le mani, ella s’immerse in profondi pensieri e si distrasse dal momento presente.
Quanto tempo trascorse così, neppure lei avrebbe potuto dirlo; certo, la mezzanotte doveva essere vicina. Ad un tratto, si riscosse; un lungo fischio attraversò il grande silenzio del vicolo del Pianto. Era un fischio dolce e malinconico, un po’ rauco. Alla distanza di cinque minuti, il fischio si ripetè, egualmente lungo, dolce e malinconico.
Tendendo l’orecchio parve a Rachele Cabib che il passo di suo padre attraversasse la casa; ma era un passo così cauto, così soffocato, che appena appena poteva dirsi percettibile. E di nuovo, sempre alla distanza di cinque minuti, il fischio si udì novellamente. Poi, più nulla.
Ella si levò e, nervosissima, tese l’orecchio: le parve che dei passi si udissero al piano inferiore. Ma non ne fu certa.
Stette così, aspettando mezz’ora nel più intenso turbamento: ed era così eccitata, che due colpetti battuti alla sua porta, la fecero sussultare.
— Chi è?
— Sono io, tuo padre.
— Che volete?
— Aprimi.
— Che volete?
— Voglio che tu mi apra, — disse la voce irata di Mosè Cabib.
— Siete solo?
— Sì, sono solo, — replicò lui, sempre in collera.
Ella schiuse la porta un pochino ed il vecchio entrò; difatti nessuno lo seguiva. Egli dette uno sguardo in giro per la stanza, con la sua solita diffidenza, poi le disse:
— Vieni un momento, giù.
— Perchè? — chiese lei, aggrottando le sopracciglia.
Qualcuno vuole vederti.
— Chi è costui?
— Il Maestro, — e la voce di Mosè Cabib si fece umile, timorosa, rispettosa.
— Egli non ha nessun bisogno di vedermi, — replicò lei, gelidamente.
— Sì, ne ha bisogno assoluto, — ribattè Mosè con durezza.
— Io non ho bisogno di veder lui, — rispose la figliuola, decisa ad affrontare qualunque scena.
Devi vederlo.
— Debbo? Chi me lo impone?
— Io. —
Ella tacque, un minuto.
— E se disobbedissi?
— Porterei il Maestro quassù.
— No! — gridò lei. — Nella mia stanza, no! Dove è il ritratto di mia madre, no!
— Tua madre! Non nominare tua madre, — disse il vecchio, con occhio smarrito.
— Ah! essa mi avrebbe difesa contro costui, essa mi amava, essa era una buona madre! — gridò Rachele Cabib torcendosi le mani.
— Figlia, figlia, — disse Mosè, con accento più tenero — il Maestro non vuole farti del male, desidera solo parlarti. Ascoltalo. Ti prego solo di ascoltarlo: non mi puoi negar questo!
— La sua vista mi fa orrore, — disse Rachele, rabbrividendo.
— È un grande spirito, è un grande Maestro, — mormorò lui, con terrore e ammirazione. — Vinci il tuo orrore, te ne scongiuro.
— Oh, padre, che mi costringete a fare! — ella disse con voce di lamento.
— Ascoltarlo, solamente! — replicò il padre, pregando, a mani congiunte.
Ella si decise, a un tratto. Ma il suo volto diventò freddo, marmoreo.
— Sentite, padre, — ella disse con voce ferma e tranquilla. — Io ascolterò costui. Ma non farò nessuna delle cose che egli mi domanderà, nessuna.
— Come tu vorrai, come tu vorrai, purchè tu voglia ascoltarlo.
— Io risponderò duramente a tutto, padre. Iddio m’inspira, — ella replicò, con la stessa fermezza. — Io scaccerò questo miserabile impostore, questo uomo nefando, dalla mia casa.
— Signore, Signore, illuminala tu, falle vedere la sua via! — disse il vecchio, con esaltazione.
Difatti, prima di scendere giù, Rachele Cabib fece una breve preghiera mentale: si accostò al ritratto di sua madre e lo baciò. Poi, disse risolutamente al padre:
— Precedetemi. —
Difatti, il vecchio ebreo si avviò avanti, trascinando un poco il passo; Rachele Cabib si trattenne qualche minuto, ancora, nella sua stanza, non volendo entrare al cospetto del Maestro insieme con suo padre.
Poi, decisasi, discese leggermente per le scale ed entrò nella stanzetta che serviva per ricevere e per pranzare, in casa Cabib.
Questa stanzetta era illuminata da un solo lume a petrolio su cui era collocato un modesto paralume di carta. Sicchè, salvo il tavolino su cui la luce batteva in pieno, la stanzetta restava in penombra.
Il Maestro era seduto nel vecchio seggiolone di Mosè Cabib e la piccola persona deforme e rattrappita si perdeva in quell’ampia seggiola. Teneva le mani sui bracciali di pelle nera e nella penombra sembravano bianche e rigide come quelle di un mostro. Malgrado la poca luce, si vedeva un volto veramente orribile, più che pallido, scialbo; con gli zigomi sporgenti e le mascelle prominenti; senza un pelo sulle labbra e con radi peli brizzolati e incolti, sulle guance; una bocca tagliata diritta, come una ferita netta netta, con le labbra sottili di un roseo che andava al cremisi; con una tastiera di denti grossi e giallastri; con una fronte sfuggente, su cui si ergeva una capigliatura bizzarra, di capelli quasi rossi, ma fini e incolti, anche essi, quindi intrigati come una boscaglia: e infine quegli occhi verdi, verdi, verdi come l’acqua verde, gelidi, fulminei talvolta e talvolta semplicemente vitrei. Il corpo era deforme: una gobba sulla spalla sinistra contorceva quel torace enorme su quelle gambe corte, sottili, ignobili. Era orribile.
L’espressione del suo viso non si distingueva bene. Rachele non lo guardò neppure e si appressò alla tavola: restò in piedi, guardando in aria, come se nulla vedesse. Mosè Cabib si era messo in un cantuccio, sopra una sedia e il capo era reclinato sul petto, le mani congiunte in grembo come un uomo disfatto.
— Buona sera, Rachele Cabib, — disse la voce stridula e fischiante del Maestro.
— Buona sera, Marcus Henner, — diss’ella, piegando le braccia sul petto e chinando gli occhi.
— Avete tardato molto, Rachele.
— Non volevo discendere, — ella rispose fieramente, senza degnarsi di guardarlo in volto.
— No? Perchè?
— Perchè trovo inutile il vedervi, Marcus Henner. —
Le rade sopracciglia del Maestro si contrassero, a questo nome ripetuto e che egli non doveva amare: ed egli tacque, un momento.
— Siete discesa, poi, — osservò, con una umiltà falsa.
— Sì.
— Perchè?
— Per obbedire a mio padre.
— Solo per questo?
— Solo.
— Tanto mi odiate, dunque, Rachele Cabib?
— Io non vi odio, — ella disse, fieramente.
— E che sentite, allora, per me?
— Disprezzo, — ella pronunziò, nettamente.
Marcus Henner si morsicò le labbra e non rispose: dal suo cantuccio, Mosè Cabib rivolse uno sguardo supplichevole a sua figlia. Costei non si smosse.
— Perchè mi disprezzate? — disse Marcus Henner, reprimendo a stento la propria ira.
— Perchè mi sembrate un essere ignobile.
— Rachele! — supplicò il padre, dalle ombre in cui stava.
— La verità è sacra, padre. Io disprezzo Marcus Henner perchè è una creatura ignobile, — replicò la fanciulla, con audacia.
— Siete la sola persona che osi ingiuriarmi così, — disse il Maestro, dardeggiando una delle sue occhiate verdi alla bellissima ebrea.
Costei ebbe l’aria di non accorgersene. Stava, in piedi, con la testa alta, sfidando il piccolo gnomo dalla faccia scialba di mostro.
Costui serrava convulsamente i bracciali della seggiola quasi imprimendo le unghie nella pelle nera.
— Io vado via: buona notte, Marcus Henner, — ella disse, dopo una pausa.
— Rachele, ho da parlarvi, Rachele, — costui replicò subito, con voce imperiosa.
— Voi me lo dite come un ordine? — e la bella voce fremeva di collera, le mani si dilatavano nella ribellione.
— No, — rispose il Maestro, pianamente. — Ve ne prego: voglio pregarvi. Restate. Debbo dirvi delle cose gravissime.
— Per voi, sì: per me, no.
— Anche per voi, Rachele. Sapete che vi amo.
— Lo dite.
— È così. Perchè non ci credete?
— Perchè non siete capace d’amare. Siete un uomo senza cuore.
— Chi vi dà il diritto di creder questo? Perchè giudicate così male un uomo che non conoscete e che vi adora? Perchè siete ingiusta? Io vi adoro.
— Marcus Henner, non avete altro a dirmi? — domandò novellamente la fierissima giovinetta che fremeva a ogni parola di amore uscita da quelle labbra.
— Sì, io vi adoro e voglio che siate mia, — egli dichiarò, con un lampo di passione, di desiderio, di orgoglio negli occhi.
— Questo, mai, — disse ella, duramente.
— Così deve essere.
— Così non sarà.
— Chi potrebbe opporsi a Marcus Henner, al Maestro?
— Io, — ripetè la fanciulla, con la stessa durezza.
— Io vincerò la vostra volontà.
— Voi non la vincerete.
— La spezzerò, allora.
— Potrete spezzare la mia vita, non la mia volontà.
— Preferireste la morte, dunque?
— Mille volte, la morte: non voi! —
Le mani del Maestro si contrassero e una debole fiamma di sangue salì alle sue guance.
— Voi vi siete incapricciata di quel Ranieri Lambertini. …
— Non nominatelo! — gridò lei, facendo un moto con la mano, per arrestare le sue parole.
— Perchè?
— Perchè il suo nome si sporca sulle vostre labbra, — ella disse, con un moto di profondo ribrezzo.
— Voi mi costringete a uccidere quell’uomo, Rachele Cabib, — disse Marcus Henner, mordendosi le labbra sottili che si erano fatte bianche.
— Oh, egli non morrà! — gridò ella, trionfalmente.
— Morrà, morrà, per me.
— Vi è qualche cosa che lo salva!
— E che è?
— Il mio amore. È un amuleto, il mio amore, — ella dichiarò, misteriosamente.
Il gobbo si fece smorto e parve che un lieve tremore gli agitasse le labbra.
— Egli non vi ama, egli vi lascerà, voi sarete mia.
— Egli mi ama e io non apparterrò che a lui.
— E se vi abbandonasse? Se vi tradisse? Se morisse?
— Cercherei un altro sposo, più sicuro, più fedele, più amoroso, — ella mormorò, in tono profondo ed enigmatico.
— Che dite? — gridò Marcus Henner, esaltandosi per la prima volta.
— Nulla!
— Voi avete parlato di un altro?…
— No. Ranieri Lambertini è il mio fidanzato. …
— Egli non vi sposerà mai. Il suo Dio non è il vostro; voi siete plebea, senza nazione, senza patria, ed egli è nobile, ricco, ha una patria, ha una casa. …
— Che importa? Ranieri Lambertini sarà il mio sposo. …
— Invece, io venero lo stesso Dio vostro. Egli mi ha rivelato segreti che gli altri ignorano. Io conosco le ragioni della Vita: io so i segreti della potenza, della ricchezza, della grandezza. Nulla mi è ignoto! Io posso farvi grande, invidiata e rispettata. …
— No, — ella disse.
— Io sono uno scienziato, tanto più forte, perchè oscuro: io ho scoperto il modo di indovinare il pensiero dell’uomo e quello di dirigere la sua volontà: Dio mi ama, Dio mi serve. … — e i suoi occhi verdi lampeggiarono sinistramente.
— Voi siete un sacrilego! — ella esclamò, rabbrividendo, nascondendosi la faccia tra le mani.
Un profondo sospiro sollevò il petto di Mosè Cabib.
— Voi sarete la compagna della mia potenza e della mia gloria; voi sarete la regina dove io sarò il re! Presto Israele trionferà di tutti i suoi nemici; noi abbiamo oro, forza, scienza; i vili cristiani sono nostri. …
— Non ingiuriate questo popolo che non conoscete, — ella disse, profondamente.
— Che dite?
— Dico che i cristiani valgono molto più di voi; che voi siete un impostore! — ella gridò, al colmo dell’esasperazione.
Marcus Henner diede un’occhiata terribile a Mosè Cabib. Costui si levò e disse alla figliuola, con voce tremante:
— Rispettalo, rispettalo, egli è il Maestro.
— Egli usurpa un nome sacro! — rispose lei, decisa a giuocar l’ultima sua carta.
— Come! — gridarono i due uomini, nello stesso tempo.
— Sì, lo usurpa. Il nome del Maestro lo ha portato una sola persona, divina, e nessuna lo porterà, mai più, senza essere un impostore, — ella replicò, a denti stretti, come una tigre pronta a mordere.
— Tu parli di Gesù! Tu parli di Gesù! — gridò il padre, avanzandosi verso lei, in atto di colpirla.
— Sì, — ella rispose, senza batter palpebra.
Anche Marcus Henner si era levato. La sua deformità, ora, pareva cresciuta: egli pareva più storto, più gobbo che mai. Una espressione d’ira tremenda e impotente contorceva il suo viso che sembrava quello di un mostro.
— Volete farvi cristiana, è vero? — sibilò la sua voce, fra i denti.
— Sì, — replicò la giovinetta, imperterrita.
— Maledetta. … maledetta. … maledetta, — balbettò il vecchio Mosè Cabib, vacillando, con voce soffocata nella strozza.
— Io mi farò cristiana, padre, — ella soggiunse, chinando gli occhi per non vedere lo strazio di suo padre.
— Morrai, prima. … prima. …
— Morrò, ma cristiana, — ella soggiunse, fermamente.
— È lui, è Ranieri Lambertini che v’induce a rinnegare il vostro Dio? — chiese Marcus Henner, con voce tremante di collera impotente.
— Dio si è rivelato a me, direttamente, — ella disse, congiungendo le mani, come ispirata.
— Follìe, follìe! — gridò Henner.
— Tuo padre ti proibisce, intendi, ti proibisce, questa vergogna! — urlò il vecchio.
— Sì; ma mia madre me lo consiglia.
— Tua madre? Tua madre? — esclamò il vecchio, sogguardando Marcus Henner.
Costui chinò gli occhi, tacendo.
— Mia madre mi ha detto di farmi cristiana, per salvarmi da costui, — disse Rachele Cabib, appuntando il suo dito verso Henner.
— Tua madre è morta.
— Io non credo che sia morta, — replicò la fanciulla, mentre Marcus Henner curvava la testa sul petto.
— È morta, è morta.
Ella mi ha parlato, in sogno. …
— Parlato?
— Una notte, io l’ho vista presso il mio letto, — riprese la fanciulla, con voce lenta e monotona, come se raccontasse questo fatto a sè stessa. — Io la vedo spesso, così. …
— Visioni. … — disse Marcus Henner, che era stato preso da un tremito visibile.
— Io la vedo spesso. Ella è alta, vestita di bianco, tutta quanta, con un viso ancora fresco e giovanile, con certi grandi occhi neri, teneri, fieri e tristi. … — e la voce della fanciulla pareva parlasse come in sogno.
I due si guardarono, con una cera profondamente sgomenta.
— Mi parla, talvolta: la sua voce è pura, è dolce, è affascinante. Mi dice delle cose amorose. Io l’ascolto, e prego, durante il sogno, che il sogno duri. … —
Marcus Henner aveva nascosto il suo volto tra le mani.
— Oh quella voce, quella voce! — riprese Rachele Cabib con le mani congiunte sul petto, con gli occhi levati, pieni di estasi filiale, dimentica dell’ambiente, dimentica della compagnia. — Essa mi arriva all’anima come una seduzione irresistibile. Un anno fa, Marcus Henner, voi veniste in questa casa, per la prima volta; io vi avevo già visto, due volte, nella sinagoga, nell’ora dei divini uffici. … e mi avevate fatto ribrezzo! Poi. … veniste. … osaste parlarmi di amore, voi, voi! Invocai soccorso da mio padre; egli mi ama, ma subisce il vostro fascino, ma mi sacrificherebbe a voi, in nome non so di che, non so di che cosa! Allora, quella notte. … pregai molto. E addormentandomi, dopo aver pregato tanto, mi vidi accanto al letto mia madre. … tutta bianca. … si chinò sul mio letto e mi disse: Credi in Gesù Cristo! E sparve!
— Inganno, inganno dei sensi! — gridò Marcus Henner che si andava rialzando dall’abbattimento in cui era caduto.
— No. L’ho vista; l’ho udita. Non una volta soltanto. Sempre che voi mi siete apparso, sempre che voi avete voluto infliggermi il tormento e la vergogna del vostro amore ella è venuta. Ella mi ama, Marcus Henner, e vi odia, mia madre!
— Voi delirate, Rachele Cabib! — esclamò il Maestro, non dominando la sua commozione.
— Che importa! Anche un sogno può essere sorgente di odio, di amore, di vita. E sempre, sempre, ella mi ha nominato Cristo e la sua fede, quasi che quello fosse il mio solo rifugio, contro voi. …
— Oh Dio! — gemette Mosè Cabib.
— Non sospirate, non gemete, padre mio, — ella riprese, rivolgendosi a Mosè. — Quello che deve essere, sarà.
— Questa è una trama cristiana! — gridò Marcus Henner.
— No. Nessuno mai mi aveva detto nulla: neppure Ranieri Lambertini. Io ho conosciuto il conte in chiesa. …
— In chiesa! — gridò Marcus Henner, esterrefatto.
— In chiesa! — gridò Mosè Cabib, desolato.
— Sì, dal giorno in cui mia madre mi ha parlato di Gesù, io ho posto il piede in una chiesa cristiana. …
— E vi sei tornata?
— Sempre. Ogni volta che potevo uscire, sfuggire alla vostra sorveglianza, mi facevo accompagnare da Rosa, in una chiesa cristiana.
— Io scaccerò Rosa.
— È inutile, padre; ella non ha nessuna colpa. Io la costringevo ad accompagnarmi. Sono andata nelle piccole e nelle grandi chiese di Roma, le conosco quasi tutte e in tutte ho pregato. …
— Terribile, terribile! — urlò Mosè Cabib, con le mani levate, come se volesse minacciare il cielo.
— Voi siete una rinnegata, un’apostata, — disse tetramente Marcus Henner, guardando fisso la fanciulla.
— È nella chiesa di santa Maria Maggiore che ho visto per la prima volta Ranieri Lambertini. Pregava, pregavo. Ci guardammo, ci amammo. … e il resto, voi lo conoscete.
— E che vuoi tu fare? — disse Mosè Cabib, a sua figlia.
— Diventare cristiana e sposare Ranieri Lambertini, colui che amo, — diss’ella, quietamente, incrociando le mani.
— Io te l’impedirò, — gridò Mosè Cabib.
— Non potete.
— Sono tuo padre; la legge ebraica è chiara; mi devi obbedienza.
— Io non riconosco più la legge ebraica.
— Te la imporrò; te la imporrà il rabbino.
— Mi metterò sotto la protezione della legge italiana.
— Scellerata, scellerata! —
Marcus Henner intanto taceva, come se meditasse profondamente, sempre guardando Rachele.
— Tu sei minore, non puoi maritarti senza mio consenso, — riprese Mosè.
— Forse! Ma aspetterò di esser maggiore: o la legge mi darà una scappatoia. Non mi potrete impedire di esser cristiana.
— Ti chiuderò in casa.
— Fuggirò. Andrò dal Vicario, dal Papa. …
— Partiremo da qui. … Andremo lontano. …
— Sarò cristiana nell’anima, dovunque!
— Questa è una pazzia!
— Mia madre me lo ha detto.
— Era un sogno.
— Era lei — disse Rachele, misteriosamente.
— Era una realtà.
— Le tue visioni ti hanno teso un tranello.
— Io ho le prove della sua presenza in questa casa.
— Tu deliri! — disse Mosè, crollando le spalle.
— Ho le prove, vi ripeto.
— Quali sono?
— Non voglio dirle.
— Le dirai.
— Esse vi farebbero tremare, — ella mormorò, quasi volesse risparmiare suo padre.
Fisamente, Marcus Henner guardava Rachele e il suo occhio verde diventava più gelido, più limpido, come cristallino.
— Parla, hai detto tanto, di’ tutto! — disse Mosè Cabib a sua figlia.
— Ebbene, lo volete? L’ultima volta che ho visto mia madre, in sogno, è stato venti giorni fa.
— Venti giorni fa?
— Sì. Ella si è seduta accanto al mio letto e mi ha guardata, mi ha tanto guardata, con quei suoi occhi malinconici, e profondi, e amorosi. Poi, mi ha detto, pianissimo: «Combatti, combatti, vincerai il mostro.» Io l’ascoltavo, non potendo, nel sonno, nè parlare, nè muovermi. Pure, ella intese la interrogazione del mio sguardo. La sua mano si posò sulla mia, lieve, fresca: la strinse appena, dicendomi: «Ti dò un’arme, serviti di essa.» E subito, subito dopo, sparve.
— Un’arme, un’arme? — disse Mosè, tremando, come un giunco.
— Un piccolo crocifisso.
— Un sogno! Un sogno! — mormorò Marcus Henner, interrompendo il suo strano silenzio.
— Eccolo, — disse semplicemente Rachele.
E aperto l’alto del suo colletto, trasse dal collo un cordoncino di seta nera da cui pendeva un crocifisso piccolo. Atterriti, i due uomini non osavano nè guardarsi, nè guardare il crocifisso.
— Ella è venuta a me, veramente, — sussurrò Rachele Cabib, baciando il crocifisso con devozione. — Io ho tremato di un terrore ignoto, quando, svegliandomi, ho trovato veramente questo crocifisso nella mia mano. Ella è stata qui. Ella non è morta. —
Ed essa inchinò gli occhi dove ardeva un così fiero esaltamento. Quei due non le dicevano nulla. Solo, Marcus Henner, di nuovo, guardava la fanciulla, sempre fisamente, osservando se nulla si mutasse nei suoi tratti. Nulla! Ella non subiva in nessun modo il fascino di quegli occhi che, certo, avevano su tanti un potere ammaliatore.
— Voi mi avete ingannata, padre mio, — ella riprese, con voce triste.
— Io? Io?
— Sì, voi. Voi sapete che mia madre non è morta: voi mi avete sempre detto il contrario Perchè io sono sola, dunque, qui? Dove è mia madre? Chi me l’ha tolta? Che ne avete fatto? — ella chiese, levandosi, stendendo le braccia contro suo padre.
— Io? Io?
— Sì, sì, voi. I vostri detti sono sempre così oscuri! Ciò che mi narrate è sempre così misterioso! Dove è ella? Ditelo. Che fa? Perchè me l’avete tolta? Essa mi difenderebbe contro costui!
— Rachele, tu mi uccidi, — gemette Mosè Cabib, ricadendo sopra una sedia.
— E di mia madre, dite, che avete voi fatto? Non l’avete uccisa? Non l’avete perduta? Io non so niente! Difendetevi!
— Rachele, Rachele, Dio punisce i figli ribelli! — disse Mosè, esalando il suo dolore.
— Mia madre, mia madre!
— Io l’ho adorata, come adoro te!
— Ma mi volete dare a costui! —
Mosè chinò il capo. Un lampo terribile, a un tratto, illuminò la fisonomia di Rachele. E senz’altro, si diresse verso il gobbo dagli occhi verdi.
— Voi sapete dove è mia madre! — gli gridò, sulla faccia.
— No, — si difese costui, indietreggiando.
— Lo sapete, lo sapete. Ditemelo!
— Non lo so: non l’ho conosciuta, non la conosco, — disse il Maestro, abbassando per la prima volta gli occhi innanzi a Rachele.
— Giuratelo!
— Lo giuro.
— Su Dio! Sul vostro Dio! — ella gridò.
Marcus Henner tacque.
— Padre, padre, egli lo sa! — fece ella, torcendosi le braccia.
— No, no.
— Lo sa, padre, questo infame, questo crudele.
— No, Rachele.
— Giuralo, giuralo sul tuo Dio! —
Mosè Cabib tacque. Un silenzio atroce di tempesta si fece.
— Voi mi scacciate, Rachele? — disse colui, mordendosi le labbra, sino al sangue.
— Sì, uscite. Siete un impostore, uscite subito.
— Rachele! — scongiurò il padre.
— Via, via di qui, — gridò ella, sospingendo il gobbo con la voce e col gesto fuori di quella camera.
— Badate, Rachele! — esclamò il Maestro, giunto al colmo dell’esasperazione.
— Non vi temo. Uscite!
— Io mi vendicherò sulla persona che più amate, — minacciò Marcus Henner, retrocedendo verso la porta.
— Via, via!
— Ranieri Lambertini morrà!
— No. Andate via!
— Voi sarete mia!
— No. Fuori, fuori, essere immondo. —
Vacillando, non trovando nè il suo cappello, nè il mantello, ma indomito nel volto, Marcus Henner andava via, sotto la mano alzata di Rachele Cabib.
— Verrete ai miei piedi, a pregarmi, — disse lui, digrignando i denti.
— No. Prima morire.
— Ci verrete. Non avrò pietà, allora.
— No. Via, via!
— Mi vendicherò, Rachele, — disse, dalle scale, Marcus Henner.
Ella ascoltava il rumore del portone che si richiudeva. Rientrò: ma la voce di Marcus Henner stridette dalla strada, nella notte alta.
— Rachele, Rachele! —
Furiosa, ella schiuse il balconcino, e si piegò sulla ringhiera. La notte era alta, profonda, silenziosa; la via del Pianto era deserta. Il gobbo levò la sua faccia orribile di mostro verso il delicato volto della fanciulla, e disse:
— Io so dove è vostra madre; ma non ve lo dirò mai. —
E si allontanò così rapidamente che sparve in un minuto. Ma nulla poteva rispondergli la fanciulla. Brancolando, ella aveva tentato di attaccarsi alla ringhiera del balcone: ma era caduta riversa, per terra, svenuta.

. . . . . . . . . . . . . . .

Erano le cinque del mattino, quando Rachele Cabib dopo essersi levata dal suo letto e rivestita lentamente, dopo avere staccato dal chiodo, dove era sospeso, il ritratto di sua madre, prese un grande mantello di panno nero e vi si avvolse. Il mantello aveva un cappuccio, egualmente nero, ed ella lo sollevò sulla testa. La notte era profonda, ancora, in quel mese d’inverno. Per un certo tempo, la bellissima ebrea restò ferma in mezzo alla stanza, guardandosi attorno, come se cercasse qualche cosa che avesse obliata. In verità, non portava che un piccolo cofanetto antico, serrato ermeticamente, collocato sotto il suo braccio: lasciava la sua stanzetta in un perfetto ordine, linda, nuda, con qualche cosa di verginale, nel suo aspetto.
Pure, restava ferma, colà. Infine, ci aveva vissuto dieci o dodici anni, si era legata a quelle pareti, a quei pochi mobili, al suo lettuccio, ai suoi pochi libri. Colà aveva pensato, aveva pregato, aveva pianto. Una gran parte dell’anima si era sviluppata bizzarramente in quell’ambiente di solitudine e di povertà. Ella fremeva di tristezza. Ma, ad un tratto, si scosse e fece un atto decisivo, con la testa. Se ne andava.
Prima di uscire, baciò il guanciale su cui aveva dormito ed aveva sognato; baciò l’ovale bianco, dove era stato sospeso il ritratto di sua madre. Ed uscì. Discese le scale, all’oscuro, così piano che neppure uno scricchiolìo s’intese. Tratteneva il respiro. Camminava all’oscuro, ma aveva la pratica della sua casa e andava diritta, innanzi, nell’ombra, senza urtare in nessun mobile. Quando si trovò nel salotto del primo piano, dove, quattro ore prima, era accaduta quella orribile scena fra lei e Marcus Henner, ella si fermò, di nuovo. Piano piano si diresse verso la cucina, dove, in uno stambugio accanto, dormiva Rosa, la serva. Ed entrò in questo stambugio cautamente, dicendo come un soffio:
— Rosa! Rosa!
— Eccomi, — rispose l’altra, sussultando e balzando dal letto.
— Zitta, per carità, — mormorò Rachele, curvandosi verso lei, parlandole sulla faccia.
— Che avete, signorina? Vi sentite male nuovamente?
— No. Sono guarita.
— E che è, allora? — disse quella, alzando la voce, involontariamente.
— Parla pianissimo! Te ne scongiuro! Se mio padre udisse, saremmo perdute. Vuoi obbedirmi?
— Che volete? Eccomi qua.
— Vèstiti nel più profondo silenzio. —
Pianissimamente, Rosa cominciò a vestirsi: nell’ombra, Rachele aspettava, senza impazientirsi. A ogni movimento più brusco di Rosa, ella tremava tutta, temendo che suo padre udisse.
— Che dobbiamo fare? — disse la serva, quando fu pronta.
— Andar via.
— Ora?
— Ora.
— Per tornare?
— Per non tornare mai più.
— Signorina. … — disse l’altra, esitando.
— O adesso, o mai più, — replicò Rachele, con voce ferma e bassa.
— Ma è notte profonda!
— A momenti spunta l’alba. Prendi il tuo scialle, sbrigati.
— Signorina, siamo sole!
— Hai paura?
— No, ma. … — ed esitava ancora, mentre si avvolgeva la testa e le spalle nello scialle.
— Andrò sola, se hai paura!
— Per amor di Dio, non fatelo, — disse la serva, levandosi. — Dove andremo?
— Da Ranieri Lambertini.
— A quest’ora?
— Sì; non mi hai detto che mi aspettava sempre?
— Sì; è vero.
— Non conosci il suo indirizzo?
— Sicuramente.
— Ebbene, andiamo.
— Ma ci apriranno?
— Tanto busseremo che ci apriranno.
— Dio mio, Dio mio! — fece l’altra, segnandosi nell’ombra.
— Rosa, non mi hai tu spinta a questo passo?
— Sì, sì.
— Non mi hai detto che presso Ranieri Lambertini io ritroverò la felicità e la vita?
— Sì, signorina.
— Non sai tu che qui muoio? — disse Rachele, con voce soffocata dalla commozione.
— Ma perchè questa notte? Perchè?
— Da domattina temo le vendette più terribili; forse mio padre mi chiuderà in casa; forse mi condurrà via da Roma; forse mi darà nelle mani di lui … Domattina, Rosa, sarebbe troppo tardi.
— Avete ragione, — disse la serva, decidendosi, prendendo la mano della padrona, per camminare nella oscurità.
— Senti, — disse costei, uscendo dallo stambugio. — Traverseremo la cucina e il salotto, una dietro l’altra, senza parlare, all’oscuro. Discenderemo le scale di casa, anche così. Il portone si può aprire, senza rumore?
— Sì; ma farà rumore, richiudendolo.
— Lo lasceremo aperto. Andiamo.
— Dio ci assista! — disse Rosa, facendosi ancora il segno della croce.
— Dio ci assista, — ripetè Rachele Cabib, segnandosi anche lei.
E come ella aveva detto, Rachele e Rosa attraversarono la casa, lentissimamente, con la più grande cautela, quasi non respirando. Tendevano l’orecchio, verso la camera di Mosè Cabib, ma non ne veniva alcun rumore. Pian pianino discesero la scaletta, una dietro l’altra, soffocando ogni strepito. Ma, all’oscuro, Rosa non ritrovava il catenaccetto del portone. Lo ritrovò, infine, ma esso stridette un poco.
— Dio, Dio! — esclamò Rachele.
— Non si è potuto udire, — mormorò la serva, mentre spalancava il portoncino.
Guardarono nella via. Buio perfetto. Un perfetto deserto. Colà, quattr’ore prima, era risuonata la fiera minaccia di Marcus Henner e la parola rivelatrice: egli conosceva dove fosse la madre di Rachele Cabib, ma costei, ripensando a quel mostro, si rianimò.
— Coraggio, Rosa, fuggiamo, — ella disse, e animosamente si misero l’una sotto il braccio dell’altra.
Non si voltarono neppure a guardare la casa, dove Mosè Cabib dormiva, esausto da quella scena e credendo sua figlia a letto, ancora debole dello svenimento sofferto. Il portoncino restò spalancato.
— Che dirà vostro padre? — balbettò Rosa, parlando un po’ più forte, ora che si trovavano nella strada.
— Mi voleva dare a colui! — rispose Rachele, fieramente. — Andiamo da Ranieri. —
I lumi delle vie erano quasi tutti spenti. Rosa tremava.
— Signorina, se incontriamo dei ladri.
— Non abbiamo denari!
— Dei malintenzionati?
— Gesù ci aiuterà.
— Anche le guardie potrebbero fermarci.
— Diremo che andiamo alla messa delle sei, all’Ara Coeli.
— È vero. Camminiamo. —
Correvano, quasi. Ranieri Lambertini abitava il pianterreno di un suo palazzo, in via san Nicola da Tolentino, sopra piazza Barberini: lontanissimo, cioè, dal Ghetto. E quelle viuzze erano così tetre e nere, che Rosa correva sempre più, trascinandosi dietro la sua padroncina. Un momento, nella confusione della serva, credettero avere smarrita la via.
Difatti, avevano voltato per due o tre strade che non conoscevano punto; l’ombra della notte impediva che si leggessero le tabelle dei nomi. Due volte, Rachele Cabib si erse in punta di piedi, per discernere qualche lettera, sulle lastre di marmo, ma non potè:
— Dove siamo? — chiese a Rosa, stringendosele al braccio, fortemente.
— Signorina, non so bene. Qui sembra un forno. —
A un tratto, un uomo alto passò rapidamente accanto a loro, con le mani in tasca, fischiettando.
— Domandiamo a quell’uomo, — disse Rosa, affrettando il passo.
— No, per amor di Dio! — mormorò Rachele, a cui battevano i denti.
Un’altra persona passò presso loro, con una canna sulla spalla: era il lumaio che andava spegnendo gli ultimi lampioni a gas.
— Buon uomo, andiamo bene, per san Nicola da Tolentino? — chiese Rosa.
Costui le squadrò, curiosamente.
— Siete lontane, — rispose. — Andate sole, a quest’ora, — soggiunse, con sospetto.
— Ci ho una mia figliuola, in parto, — disse subito Rosa — e corro da lei, con quest’altra figliuola. In che via siamo? Il buio non mi fa capire più nulla.
— Ora, siete in via del Clementino; andate diritto sempre e vi troverete a via Fontanelle di Borghese; di là, per via Condotti e piazza di Spagna, sarete al Tritone e a san Nicola.
— È lunga, — disse Rosa. — Non ci accompagnereste, un poco? Vi regaleremmo qualche cosa.
— Care donne mie, è impossibile. Debbo spengere verso Campo Marzio, la Minerva e piazza Navona. Camminate presto e verso quelle vie troverete qualche guardia. —
Esse seguirono il consiglio. L’aver parlato con un essere umano, le aveva rincorate. Attraversata piazzetta Borghese, ora avevano infilata via Fontanelle. Colà, incontrarono due carabinieri che andavano a passo eguale.
— Meno male! — mormorò Rosa, mentre Rachele Cabib abbassava la testa, per non farsi scorgere.
I loro passi risuonavano, nella notte. Delle persone che venivano dal Corso, due uomini le sfiorarono e si fermarono un poco, guardandole. Le due donne, tutte tremanti, si misero a correre anche di più.
— Dio mio, Dio mio! — esclamava a voce bassa Rachele, che si sentiva piegare le ginocchia.
Ella, invero, non dava più un sol pensiero alla casa di vicolo del Pianto, che era rimasta vuota, col portone aperto: non un pensiero al padre, che pure ella aveva amato, che amava. Non la teneva che questo desiderio della fuga, affannoso, e il desiderio ardente di arrivare a casa di Ranieri Lambertini, subito.
— Lo troveremo? — disse a Rosa, mentre attraversavano il Corso, per passare a via Condotti.
— Certamente! Dove volete che sia?
— Ci accoglierà bene?
— Non aspetta che voi, signorina.
— Dobbiamo partire subito, subito, — disse, come fra sè Rachele. — Se no, egli ci trova.
— Partirete immediatamente.
— Tu verrai con noi, Rosa.
— No, signorina. Io me ne andrò al mio paese, in Ciociaria; comprerò una casetta colà.
— Anche tu dovrai partire prestissimo.
— Oggi stesso, signorina. Vostro padre potrebbe ritrovarmi ed io avrei dei guai.
— Partiremo, partiremo, — ripetette febbrilmente Rachele Cabib.
— Il conte sarà così felice! — disse Rosa.
— L’odio di lui ci seguirà sempre, — disse Rachele, pianissimo.
E si voltò indietro, come se udisse un passo. Difatti, mentre attraversava piazza di Spagna, parve che qualcuno, un’ombra, si mettesse a seguirle.
— Chi sarà? — domandò Rachele, senza voltarsi più.
— Nessuno, nessuno, non vi allarmate, camminiamo, — mormorò Rosa che comprese dover dare del coraggio alla sua compagna.
— Fosse lui?
— Chi, lui?
— Quell’uomo, quello che è venuto a insidiarmi in casa mia, stanotte. …
— Non può essere. È un viandante qualunque.
— E se fosse?
— Ma egli non sospetta che siete voi! … Come può sospettarlo?
— Ho detto che volevo farmi cristiana e sposare Ranieri Lambertini.
— Perchè lo avete detto? È stata una imprudenza.
— Ero indignata.
— Avete detto che volevate farlo subito?
— No.
— E come può essere lui, quello che ci segue?
— Chi sa! È un uomo misterioso, un mago.
— Non vi sgomentate, — disse Rosa, mentre ella stessa tremava.
— È un uomo capace di qualunque delitto.
— Andiamo, andiamo, — disse Rosa, tirando la sua compagna.
Il passo, per via Due Macelli, si avvicinava. Esse correvano, oramai, quasi perdendo la testa, nell’ombra, inciampando.
— Madonna mia Addolorata, mi voto a voi, — disse pianissima, Rachele.
I passi si allontanarono, subito. L’uomo che pareva le avesse seguite, aveva voltato giù, per l’Angelo Custode, mentre esse salivano su per il Tritone. Come furono in piazza Barberini, un appena diffuso chiarore di alba si vide nel cielo.
— Ci siamo, ci siamo, — disse Rosa.
E quasi rassicurate, certo più tranquille, infilarono via san Nicola da Tolentino. Il conte Ranieri Lambertini abitava nel terzo palazzo a mano dritta. Lo trovarono, naturalmente, chiuso ermeticamente. Sofferenti, si fermarono colà, come in salvo. Oramai, erano fuggite, erano sotto la protezione di un uomo che adorava Rachele Cabib. Rosa, animosamente, bussò un colpo. Nessuno rispose. Lasciò passare qualche minuto; poi, ne bussò due. Di nuovo, nessuna risposta.
— Che sarà? — disse Rachele, di nuovo esitante e sgomenta.
— È il portinaio che dorme, — disse Rosa, che aveva riacquistata tutta la sua disinvoltura.
Bussò ancora tre colpi, forti. Un passo strascinato si udì, e una voce sonnacchiosa chiese:
— Chi è?
— Amici, — disse Rosa.
— Chi siete? — replicò la voce maschile, che era rude.
— Amici del conte Lambertini.
— Ah! Non ci è, il conte. —
Le due donne si guardarono, esterrefatte. L’avvenimento non era grave; ma era il solo che non avevano preveduto. Ma Rosa si decise, subito.
— Portinaio, quando rientra il conte?
— E chi ne sa nulla! — gridò quello, con voce arrabbiata. — Non me lo dice mai a che ora rientra.
— Non deve stare molto, però, portinaio!
— E che ne so? — disse l’altro, soffocando una bestemmia.
— Portinaio, apriteci, — disse Rachele che fremeva tutta.
— E chi siete?
— Due donne, apriteci, — ella replicò, volendo violentare la mala fortuna di quel momento.
— Voi siete pazze, a quest’ora. Andate a cercare fortuna altrove. —
E si udì il passo che si allontanava, di nuovo.
— Che facciamo? — chiese Rachele, a Rosa, torcendosi le mani.
— Aspettiamo un poco.
— Qui, sole, allo scuro? E se non rientra?
— Non è possibile!
— Che ne sappiamo, noi, della sua vita? — disse Rachele, con una certa amarezza.
— Un giovanotto che vi vuol tanto bene! — esclamò Rosa, guardando in giù, se qualcuno arrivasse.
— Chi lo sa! —
Nessuno veniva. Disopra, fra le penombre del giorno che appena spuntava, due o tre carrozze passarono venendo disopra, cioè dalla stazione; era il treno di Napoli che era giunto da poco.
Qualcuno si piegò difuori la carrozza, per guardare quelle due ombre muliebri, appoggiate a quella porta.
— Che freddo, mio Dio! — mormorò Rachele, rabbrividendo.
Coraggiosamente Rosa bussò tre colpi. Di nuovo, si udì il passo trascinato del portiere che chiese, di dentro, con la sua voce aspra:
— Chi è?
— Per amor di Dio, portiere, apriteci, siamo due donne sole, a quest’ora! Il signor conte ci conosce, vi dirà che avete fatto bene, quando rientra, — supplicò Rosa.
Si intese un borbottìo sordo, di dentro. Si comprendeva che il portinaio era un po’ scosso.
— Aprite il portellino e vedrete che siamo donne, che siamo sole. È una cosa di grande urgenza, portiere, una cosa a cui il conte s’interessa molto! — riprese Rosa, trovando parole e modi di dire eloquenti.
Difatti, un rumore di catenaccio scorrente nei cerchi si udì.
La piccola porta del portone si schiuse di una linea e il portiere mostrò il suo volto dalla barba nera, un volto ancora sonnacchioso.
— Ma che volete? — disse lui, squadrando Rosa e Rachele.
— Portiere, — disse Rachele, ancora tremante — noi, qui fuori, moriamo di freddo e di paura. Fateci almeno entrare nel portone, staremo al sicuro e non batteremo i denti.
— Ma siete conoscenze del conte? — disse lui, con un’ultima occhiata di diffidenza.
— Vedrete, vedrete quando verrà, — mormorò Rosa, crollando il capo.
Il portinaio si scostò un poco e lasciò entrare le due donne nel cortile; esse restarono sotto l’androne, non osando avanzarsi. Rachele aveva gittato un profondo sospiro di sollievo e le erano venute le lacrime agli occhi, per reazione. Il portinaio, un burbero falso, ora che le aveva fatte entrare, si sentiva disposto a trattarle bene. Qualche grave ragione aveva dovuto indurre quelle due donne a presentarsi in quell’ora. E avevano tanta asseveranza, nel dire che conoscevano il conte Ranieri! Lo aspettavano con tanta sicurezza! Mistero di amore, forse. Ma il portiere era sinceramente affezionato al suo padrone, che aveva visto bambino, e non voleva essergli sgradito. Salì due scalini e andò nella sua cameretta a prendere due sedie.
— Sedete, — disse.
Quelle ringraziarono, un po’ commosse. Il cammino e il turbamento avevano stancato ambedue. Sedettero. Il portinaio accese con flemma la sua pipetta inglese, dono del padrone.
— Quanto tarda, il conte! — disse Rosa per attaccar discorso.
— Spesso tarda, la notte, — rispose il portinaio.
— Fino a quest’ora?
— No; così tardi, mi sorprende, — egli disse, senza smuoversi.
Rachele sospirò.
— Sono giovanotti, — osservò il portinaio dopo una pausa.
— Il conte è un bravissimo giovane, — disse subito Rosa.
— Una perla, comare mia. Ma si sa, a quell’età, le circostanze possono essere tante, — e si tacque, vedendo che Rachele lo guardava un po’ pallida, con gli occhi sbarrati.
Un silenzio si fece; albeggiava pienamente.
— Potrebbe anche esser partito, — mormorò il portinaio.
— Doveva partire? — disse Rachele ansiosamente.
— Sì: credo che abbia fatte anche le valigie, molte valigie.
— Oh! — disse lei con un sorriso.
— Ma sono qui, le valigie, — soggiunse il portinaio.
— Allora, non è partito.
— Eh! chi sa! Potrebbe esser andato via senza valigie e che poi se le faccia spedire.
— Vedrete che non è partito, — disse Rosa, sorridendo.
— Ma è giorno! — esclamò Rachele, di nuovo turbata. — Ha mai tardato tanto?
— Prima, prima, qualche volta. Da un anno a questa parte, ha sempre rincasato presto. —
Le due donne si scambiarono un’occhiata.
Mentre questi discorsetti seguivano tra il portinaio e le due donne, il portone era rimasto chiuso. A un tratto, due forti colpi lo scossero.
— Eccolo, — disse il portinaio, mettendo in tasca la sua pipa e andando ad aprire.
— Eccolo, — disse Rachele e Rosa, impallidendo e arrossendo.
Ma non era lui.
Era un servitore in livrea, una livrea azzurrocupo, filettata di giallo, una faccia scialba, portava una lettera.
— Il conte Luigi Lambertini, — disse al portinaio.
— È sopra: ma è troppo presto, per salire, — rispose costui, squadrando quel servo con occhio diffidente.
— Ambasciata di massima urgenza, — rispose l’altro.
E, difatti, aveva il viso stralunato.
— Da chi viene questa lettera? — domandò il portinaio, che aveva l’abitudine di fare l’inquisitore.
— Da una donna, da una signora, — disse il servitore evasivamente. — Ma vi assicuro che è una cosa gravissima.
— Salirò con voi, — soggiunse il portinaio.
Ansiose, smorte, le due donne rimasero sole. Si guardavano fra loro, in silenzio, senza osare di esprimere i propri pensieri. Sentivano che qualche cosa di grave era accaduto e non comprendevano altro. Tanto Rachele quanto Rosa sapevano che il conte Luigi Lambertini era lo zio di Ranieri, l’unico parente che gli rimanesse; uno zio che adorava suo nipote, quella lettera così urgente e così grave, a quell’ora, quando Ranieri aveva passata la notte fuori di casa, voleva dir molto. Ma che voleva dire? Sulla sua sedia, sotto quel portone, come una povera pezzente abbandonata, Rachele Cabib, la bellissima ebrea, anelava di segreto dubbio.
Alla fine, il servitore in livrea ridiscese: era solo. Passò ratto, innanzi alle due donne, senza fermarsi: esse non fecero in tempo neppure a chiamarlo, per sapere qualche cosa. E la loro paura crebbe, crebbe ancora.
Poi, dei passi si udirono, al primo piano, e la porta dell’appartamento si chiuse con violenza. Qualcuno scese le scale, accompagnato da qualcun altro: era un signore, non vecchio, vestito di scuro, molto dignitoso all’aspetto. Ma la faccia del gentiluomo era così stravolta, che i suoi lineamenti erano sformati; e il passo di quel robusto uomo, che di poco aveva varcato i cinquant’anni, era incerto. Accanto a lui scendeva il portinaio di casa Lambertini, egualmente turbato nel viso, taciturno; e questi due uomini passarono innanzi alle due donne, senza guardarle, quasi senza accorgersene, come se esse non esistessero. Un momento, il gentiluomo e il portinaio restarono fermi sotto il portone, mentre il portinaio fischiava per far venire una botte da piazza Barberini. E si guardarono, dopo, con occhi così dolorosi, il padrone e il servo, che Rachele, la quale li fissava intensamente, disse a Rosa:
— È accaduta una disgrazia a Ranieri. —
E fece per alzarsi. Ma Rosa la trattenne, con una mano sul braccio:
— Signorina, non vi muovete! —
Il gentiluomo, adesso, era salito in carrozza e dato un indirizzo al cocchiere, era sparito. Un minuto, il portinaio si era trattenuto sulla soglia a vedere la carrozza che andava via: poi, era tornato lentamente indietro.
— Donne mie, potete andarvene, — disse, con voce dolentissima.
— Perchè? — domandò Rosa, già in piedi, mentre Rachele, soffocando, non poteva aprir bocca.
— Perchè il conte Ranieri non torna per ora!
— Non torna? è partito?
— Che partito, poveretto! così fosse! una brutta disgrazia, una orribile disgrazia.
— Oh! Dio! — disse Rosa.
Pallida e fredda come un cadavere, Rachele Cabib non aveva vita che negli occhi, i quali guardavano terribilmente innanzi a sè.
— Lo hanno aggredito. … assassini. … una pugnalata in un fianco.
— Morto? — disse pianissimo Rosa.
— Quasi. …
— Dove è, dove è? — gridò ad un tratto Rachele, con voce altissima.
— Per amor di Dio, signorina. …
— Dove sta, portiere, ditemelo, che io lo vada a trovare, che io lo veda, prima di morire! — gridò Rachele, prendendo le mani di quel servo, pregandolo.
— Figliuola mia, a che serve? — disse il portinaio, che aveva le lacrime agli occhi. — Purtroppo quegli scellerati gli hanno dato un colpo mortale.
— Ah! Marcus Henner! Marcus, l’assassino! — gridò, come una pazza, Rachele Cabib. — Ditemi dov’è, per l’amor di Dio!
— È stato ferito alla porta della contessa Clara Loredana.
— Andiamo, — disse Rachele, senza badare a quel nome.
— Dove andate, dove andate? Il conte pare sia stato ferito per causa di donne ed è stato portato in casa della contessa, perchè lo hanno ritenuto agonizzante. Là è andato suo zio, poveretto!
— Andiamo, — ripetè tetramente Rachele Cabib.
— Ma se quella è la casa della sua amante! … — disse il portinaio. — Per lei, lo hanno colpito. Pare che l’assassino sia un rivale: il conte Roberto Alimena. Lo hanno arrestato. —
Gli occhi di Rachele Cabib lampeggiavano di follìa.