IV. Sulla traccia del mostro

Il conte Roberto Alimena era giunto in Londra in una giornata di bel tempo. Bel tempo relativo, naturalmente, al clima inglese: vale a dire, che non faceva freddo, non pioveva, e qua e là, a traverso lo strato bianco delle nuvole, si vedeva qualche lembo di cielo di un azzurro sbiadito. Egli conosceva già Londra, per esservi capitato due o tre volte, ad intervalli, restandovi un paio di settimane alla volta. Quel paese gli piaceva molto. La natura raffinata, indolente e fantastica del conte Alimena molto si confaceva a quell’ambiente dove l’estetica è la veste della comodità e dove il lusso ha qualche cosa di grande e di solenne, dove l’immaginazione meridionale riceve delle impressioni tutte diverse e si può smarrire ne’sogni più bizzarri.
L’Alimena aveva anche qualche amico a Londra, specialmente all’ambasciata, ed era sempre sceso all’Albergo Piccadilly, dove si ritrovò con un senso di viva soddisfazione. In fondo, egli aveva temuto di non poter passare il confine, e, con una specie di audacia curiosa, aveva fatto a Milano lungamente i suoi preparativi di partenza: si può dire che era partito con la più perfetta ostentazione. Nessuno lo aveva seccato, nè a Milano nè al confine, mentre era andato via di giorno, con un gran lusso di bagagli, e telegrafando qua e là. Evidentemente, la questura aveva avuto ordine di lasciar pure partire il conte Roberto Alimena: o non aveva avuto nessun ordine, il che valeva lo stesso. Egli aveva passato il confine, con un leggiero palpito, non già di paura, ma di una commozione complessa, e quasi indefinibile. Egli non aveva paura; ma il suo desiderio di ritrovare il gobbo maledetto dagli occhi verdi, lo aveva talmente preso, che il suo timore era quello di non poter avere le mani libere per ricercarlo, per smascherarlo e per debellarlo. Questa, oramai, era la sua missione nella vita: missione nella quale si adombrava il vivo e segreto amore che egli aveva per quella mano tagliata, il vivo e segreto amore per la donna vestita di bianco, che nella sera di carnevale gli aveva lanciato un fiore, levandosi in piedi, e a lui era parso che nelle pieghe della veste bianca si nascondesse la deformità di un moncherino. Così la indifferenza delle questure a suo riguardo lo aveva riempito di gioia.
Roberto Alimena era restato solo pochi giorni al Grand Hôtel di Parigi. In quel momento i divertimenti enormi della grande città non lo attiravano, ed egli non aveva neppur voglia di farsi vedere in pubblico. Era venuto per restare un mese; non restò che un numero limitatissimo di giorni. Egli, però, tentò di eseguire il piano meditato contro il gobbo dagli occhi verdi; e, accompagnato da lettere commendatizie pel direttore della polizia francese, egli si recò da lui per organizzare un sistema di scoperta anche al costo di molti denari.
Egli ebbe due o tre conferenze con quel signore, e, forse a torto, forse a ragione, Roberto Alimena si convinse che, malgrado i suoi brillanti successi, la polizia francese non avesse quella serietà che egli credeva necessaria ad una ricerca lunga e difficoltosa.
D’altronde il direttore della polizia gli dichiarò che in quel momento non poteva mettere nessun uomo capace a sua disposizione, visto che tutti erano impegnati in faccende di ordine delicato e grave. Forse fra quindici giorni, fra un mese, un paio di agenti che si trovavano a Bruxelles sarebbero potuti ritornare dalla loro sorveglianza sulle mene del principe Vittorio e avrebbero potuto aiutare l’Alimena nella ricerca del medico. Egli ringraziò e andò via. L’indomani s’imbarcava a Calais.
Nel tragitto da Calais a Douvres, l’Alimena ebbe una strana sensazione d’imminente dramma, diciamo così: presentimento che lo aveva già colto nelle serate di Roma, quando passeggiava con Ranieri Lambertini e mille vaghi pericoli li minacciavano. Mentre sonnecchiava giù nella sua cabina, egli ebbe una strana allucinazione: gli parve di vedersi accanto l’infame gobbo dagli occhi verdi, mentre lontano, bianco, si allontanava un fantasma femminile, e di questo volto muliebre egli non arrivava a vedere le linee: egli ne scorgeva solo lo sguardo, uno sguardo infinitamente triste e dolce, e gli pareva che questo fantasma lo salutasse con la mano, perdendosi, con una mano simile a quella tagliata, mentre il gobbo accanto a lui orribilmente sghignazzava. Si svegliò di botto da quest’allucinazione, ma gli rimase nei nervi un tremolìo invincibile, come più si avvicinava alle sponde dell’Inghilterra.
D’altra parte, il presentimento si poteva facilmente intendere: egli veniva in Inghilterra, senz’altra idea, che quella di trovare due agenti di prim’ordine, per viaggiare con essi l’Europa, pagandoli profumatamente, ed era così sicuro di riescire nel suo intento che il sogno quasi si spiegava.
Però, rimase due giorni a Londra, vivendo della vita londinese, ripreso dal fascino di quella vita lussureggiante di piaceri squisiti. Fu al terzo giorno che ritrovò uno de’ segretari, suoi amici, che già stava al corrente della disgrazia da lui sofferta, ma che aveva compreso che l’Alimena doveva esser vittima di un tranello.
Costui gli narrò sommariamente le cose, ma gli fece soprattutto intendere la necessità in cui si trovava di scoprire questo suo nemico e di strappargli il suo segreto. Il giovane segretario, abituato alle lunghe pratiche segrete della diplomazia, non si meravigliò di nulla e prese convegno col conte Alimena pel giorno seguente, per andare dal signor Vincent, direttore della polizia inglese.
Questo austero gentiluomo dalle labbra e dal mento perfettamente rasi, dalle fedine bianche, ricevette con fredda buona grazia i due giovani, e, sulle prime, non parve si volesse sbottonare. Ma quando il conte Alimena insistette, per avere una risposta soddisfacente, egli finì per dimostrare ad Alimena quali e quanti servigi straordinari quei detectives potessero rendere.
Il direttore della polizia narrò al conte Roberto Alimena e al marchese Billia due o tre esempi di processi celebri, in cui l’opera degli agenti era stata volta a volta così tenace, così intelligente, così ostinata e così intuitiva, che i più bei romanzi sensazionali degli scrittori inglesi e francesi non raccontavano nulla di somigliante. L’Alimena gli domandò se i detectives si mettessero mai al servizio di un privato per un suo interesse particolare, cosa che in Italia era proibita legalmente e che in Francia non si otteneva senza gravi difficoltà. Il direttore gli rispose che nella libera Inghilterra questo era un fatto comune, salvo che i grandi detectives, cioè i più capaci, i più furbi, quelli che arrivavano al sommo dell’arte poliziesca erano quasi sempre occupati e non disponibili.
— Eppure io ho bisogno che lei mi dia uno di questi uomini, — soggiunse Alimena con una ferma intenzione di vincere le difficoltà dell’impresa.
— Ho poco personale disponibile, — riprese il direttore. — Ed è poi un interesse grave quello che la induce a tal passo?
— È un interesse gravissimo.
— Di odio, di amore? — chiese freddamente il direttore.
— Di odio e di amore, — rispose Roberto.
— Lei cerca un rivale?
— Cerco un assassino.
— È una donna?
— Sì, anche una donna; ma, prima, l’assassino.
— L’ha egli uccisa?
— Forse ha tentato di ucciderla.
— E dove si trova quest’uomo?
— Io non lo so, signor direttore.
— Chi è?
— Non lo so.
— Non ha lei qualche indizio?
— Qualcuno; ma il vostro detective troverà tutto questo.
— Interessa lei solo questa ricerca?
— Interessa la vita di quattro persone.
— Lei ha ragione, — rispose con freddo sorriso il direttore della polizia — ed io cercherò di aiutarla. Crede che queste ricerche dureranno molto?
— Potrebbero durare una settimana, potrebbero durare un anno.
— Sta bene: l’uomo che potrebbe servirla è Dick Leslie.
— Potrebbe? Non può?
— È occupatissimo in questo momento, alla ricerca di un figliuolo naturale di un lord: una questione di testamento, una questione di milioni.
— E, crede lei, che la cosa andrà in lungo?
— Chi lo sa? — riprese il direttore. — Dick Leslie è capace di tutti i miracoli.
— Che peccato! — mormorò Roberto Alimena, pieno di malcontento.
— Lei non può aspettare? — chiese il direttore.
— Qualche giorno, sì; ma, non molti giorni.
— Speriamo che Dick Leslie rientri subito dalla sua missione, — soggiunse il direttore, accomiatando Roberto Alimena e il marchese Billia. — Creda, signore, che appena sarà di ritorno, io glielo manderò subito, se gravi cose non urgono. —
Roberto Alimena tornò al suo albergo fra contento e malcontento. Infine, il suo disegno era abbastanza fantastico: egli non sapeva chi fosse, dove fosse, che facesse il gobbo dagli occhi verdi; lo aveva visto due o tre volte di sfuggita, niente altro. Salvo questi connotati, e la sua condizione di ebreo, Roberto non avrebbe potuto dir altro a Dick Leslie, quando costui si fosse presentato; ed era un po’ poco, per cercare un uomo in Europa. Aveva poca fiducia nelle maggiori notizie che aveva chieste sotto il suggello dell’amicizia a Ranieri Lambertini: aveva nessuna speranza dalla parte del professore Silvio Amati, che era, infine, uno scienziato isolato dal mondo e immerso in uno studio assorbente. Cercare un uomo così, come un ago in un pagliaio, era un disegno pazzo. Ma Roberto Alimena concluse che non gli restava altro da tentare. Così, passò due giorni all’Albergo Piccadilly, immerso nelle dubbiezze e nelle riflessioni più strane, quando una mattina gli fu annunziata una visita. Veramente, non gli fu annunziata: gli fu detto che un gentiluomo chiedeva di parlargli, ma che non aveva voluto dire il suo nome. Roberto, che era sempre sospettoso e diffidente, cavò dall’astuccio un piccolo revolver meraviglioso, delizioso come un giocattolo, ma infallibile, e lo depose sulla scrivania, dicendo al cameriere di fare entrare lo sconosciuto.
Un uomo ancora giovine, robusto, con una fisonomia aperta e bonaria, con un paio d’occhi vivaci, ma senza malizia, un uomo dell’apparente età di trentacinque anni, raso il mento, le guance come un clergyman, e vestito decentemente di scuro, entrò nella camera, facendo un saluto disinvolto.
Roberto lo squadrò con una fredda occhiata e non vide in quella fisonomia e in quella persona che l’apparenza semplice, un po’ ingenua, forse di un placido borghese di Londra. Dal volto di quell’uomo tutto spirava ingenuità e bonomia: ognuno gli avrebbe confidato i propri segreti, senza esserne richiesto.
— Voi chi siete? — domandò il conte Alimena.
— Sono la persona che Vostra Signoria aspettava.
— Quale persona? — chiese Roberto, trasognato.
— Vostra Grazia non ha domandato di me, dunque? — chiese enigmaticamente il buon uomo.
— A chi?
— Vostra Grazia è il conte Roberto Alimena, italiano?
— Sì.
— Non è ella andato ieri l’altro alla direzione di polizia?
— Sì.
— Non le è stato detto che io sarei venuto da lei, appena avessi potuto?
— Voi, dunque, siete Dick Leslie? — domandò con ansietà Roberto Alimena.
— Così pare, — rispose con un sorriso bonario il detective — Dick Leslie, figliuolo di Rob Leslie e di Margaret Bright, nato a Withe-Chapel, in Londra. E, Dio salvi la Regina, — finì il giocondo uomo.
— Ma, siete proprio voi? — domandò, di nuovo, Roberto, che non sapeva persuadersi di quell’aspetto così schietto e di quella gaiezza così rumorosa.
— Ecco la mia carta, ed il mio ritratto, — disse Dick Leslie, cavando un foglio ed una fotografia, e mostrandoli a Roberto.
Era un foglio di passo della polizia di Londra, che dava anche i connotati dell’agente, simili a lui e simili al ritratto. Non vi poteva essere più dubbio.
Allora, Roberto Alimena disse al detective:
— Dunque, siete libero?
— Sono libero, Vostra Grazia.
— Avete ritrovato il figliuolo del lord? — disse Alimena, con la spensieratezza italiana. — Mi aveva detto. … il direttore della polizia. … — mormorò Roberto Alimena, mordendosi le labbra.
Dick Leslie ebbe una tale espressione di sorpresa e di candore, che Alimena stornò subito il discorso:
— Siete pronto a servirmi? — chiese, andando al fatto, come se fosse un vero inglese.
— Pronto.
— Si tratta di trovarmi un uomo.
— Va bene.
— Non so come si chiami.
— Bene.
— Non so dove sia.
— Bene.
— Non so neppure se sia un uomo o un essere fantastico.
— Bene, — replicò Dick Leslie, senza batter palpebra.
— Voi me lo troverete? — domandò Roberto, un po’ sorpreso.
— O vivo o morto, signore.
— Morto?
— Potrei indicarvi la sua tomba, — replicò il detective con una cordiale risata.
— Tanto meglio! Ma egli è vivo, forse.
— Vostra Grazia sa, dunque, qualche cosa di costui?
— Qualche cosa, sì.
— Vostra Grazia mi permette d’interrogarla?
— Sì. Interrogatemi.
— Come è quest’uomo?
— È un uomo di cinquant’anni, forse, poco meno.
— Piccolo, grande?
— Gobbo, piccolo.
— Gobbo davanti e di dietro?
— Sì, perfettamente gobbo.
— Bello, brutto, Vostra Grazia?
— Bello, come?
— Vi sono dei gobbi belli.
— Brutto, bruttissimo: un mostro.
— Benissimo. Qualche altro connotato?
— Occhi verdi.
— Verdi, proprio? Sinceramente verdi? Non azzurri? Non grigi?
— Verdi, verdissimi, non ho mai visto occhi così verdi.
— Benone, benone! Altro?
— Ha un viso scialbo e sul muso, sulle guance, pochi peli radi e sporchi.
— Vostra Grazia dove lo ha visto, l’ultima volta?
— A Roma, quattro mesi fa.
— Solo?
— Era con una donna.
— Ah, tanto meglio! Donna giovane?
— Non tanto più giovane; vestita di bianco, coi capelli bruni e gli occhi neri.
— Niente altro?
— . … Sì, — disse, esitando, Alimena.
— Che cosa? —
Il conte Roberto Alimena squadrò da capo a piedi il detective Dick Leslie, quasi che non volesse dirgli tutto. Costui ebbe un lieve aggrottamento di ciglia e soggiunse, con voce fredda:
— Vostra Signoria deve dirmi tutto. Se non ha fiducia in me è inutile adoperarmi.
— Io ho fiducia. … ma non sono perfettamente certo di questo particolare.
— Pure, debbo saperlo.
— Ebbene, questa donna ha una mano di meno.
— Ah! — disse il detective, con un lampo negli occhi.
— Credo. … credo!
— Sta benissimo. È un signore, costui?
— Non so.
— È italiano?
— Non so.
— Inglese?
— Non so.
— Cattolico?
— Ebreo, credo.
— Questione di amore, di denaro?
— Non so dirvi. È un mio nemico mortale. O lui o io dobbiamo morire.
— Ma per questione di donna?
— Per quella mano tagliata.
— Un delitto?
— Forse.
— Vostra Grazia ha quella mano, è vero?
— Sì.
— Volete lasciarmela vedere?
— No, — disse subito Roberto Alimena.
— Allora, non ne facciamo niente! — esclamò, subito, Dick Leslie.
— Piuttosto, non facciamone niente! — replicò Roberto, freddissimamente.
— Vostra Signoria ama più la donna di quella mano che non odî il gobbo dagli occhi verdi, — disse l’agente segreto; poi soggiunse dopo un pausa: — Eppure, è assolutamente necessario che io la vegga. … Forse, ho una traccia.
— Una traccia? — disse Roberto e gli balenarono gli occhi.
— Sì. … sì, ma non voglio ancora dire nulla a Vostra Signoria.
— Sta bene, — disse, con un lieve movimento nervoso Roberto Alimena. — Ora vi farò vedere quella mano.
— Vostra Signoria vuole assolutamente trovare questo gobbo?
— Assolutamente.
— Anche se fosse in capo al mondo?
— In capo al mondo.
— È pronto a pagare viaggi, spese, premi?
— Sì, tutto.
— Che limite?
— Sino a venticinquemila lire, se occorre di viaggiare.
— Se no?
— Un compenso a voi: cinquemila lire.
— No, dieci.
— Bene, dieci.
— Io porterò il suo nome, il suo indirizzo, il nome della donna, tutto, per diecimila lire.
— Benissimo. Vi darò duemila lire anticipate. —
Roberto Alimena si assentò per dieci minuti dalla stanza, ove lo aspettava Dick Leslie. Ancora una volta, nella sua camera da letto, egli ebbe una esitazione, prendendo nelle mani il cofano, dov’era chiusa la mano tagliata. Doveva proprio farla vedere al Dick Leslie, a un estraneo infine, a un uomo che si poteva anche vendere al suo nemico. Ma il dubbio non durò che un minuto: chi vuole raggiungere lo scopo, deve adottar tutti i mezzi. Se voleva ritrovare il gobbo dagli occhi verdi, bisognava che facesse qualche sacrifizio. Si mise sotto il braccio il prezioso cassettino e rientrò nella stanza, dove Dick Leslie guardava in aria, come se guardasse i travicelli.
— Ecco, — disse Roberto, schiudendo il cofanetto.
Dick Leslie si chinò sulla bellissima mano tagliata e la osservò con grandissima attenzione, per qualche tempo. Osò perfino di toglierla dal suo letto di velluto e tentò di cavarne gli anelli.
— Che fate? — gridò Roberto fremendo di quel contatto estraneo.
— Niente, osservo, — soggiunse Dick, senza levare gli occhi.
E, difatti, osservò ancora per un pezzo, con gli occhi fissi su quella epidermide rosata, su quelle unghie lucide, su quegli anelli gemmati. Poi, levato il capo, disse a Roberto:
— Come l’avete avuta?
— Per caso.
— Da molto tempo?
— Da sei mesi.
— Chi ve l’ha data?
— Egli l’ha dimenticata.
— Dove?
— In treno. Abbiamo viaggiato insieme.
— Soli?
— Solissimi.
— Siete certo che egli l’abbia dimenticata?
— Ne sono certo, — riprese Alimena. — Ha tentato di riaverla.
— Tentato violentemente?
— Sì.
— Ha voluto uccidervi?
— Varie volte; ci è a metà riuscito.
— Che supponete su questa mano?
— Una infamia, un delitto.
— Sta bene, — disse Dick, dando un ultimo sguardo alla mano tagliata. — A rivederci.
— Quando? — disse con ansietà Roberto.
— Appena saprò qualche cosa. Vostra Grazia non si muove da Londra, è vero?
— No, non mi muoverò. Nel caso partissi, lascerei il mio indirizzo.
— Sarà bene che Vostra Grazia non parta, — disse Dick Leslie, con tono distratto.
— Vale a dire? — domandò Roberto.
— Vale a dire, che il nostro uomo è probabilmente in Londra.
— Voi credete? È dunque il destino che mi mette sulle sue tracce?
— Dite la Provvidenza, — soggiunse Dick Leslie. — Al piacere di rivedere Vostra Grazia.
— Presto, è vero?
— Al più presto. —
Però, passarono tre giorni, senza che Roberto Alimena avesse riveduto Dick Leslie. La sua impazienza e la sua ansietà erano arrivate all’estremo, quando la sera del quarto giorno, rientrando dal Covent-Garden, gli dissero che una persona lo aspettava nella sua stanza. Egli trovò Dick Leslie seduto presso il camino, con aria insolitamente meditativa. Quell’aspetto concentrato, turbò il conte Alimena; egli previde che Dick Leslie avesse fatto un fiasco completo. Ma, se avesse fatto fiasco, perchè sarebbe venuto colà?
— Ebbene? — egli disse, sedendosi dirimpetto al detective che lo guardava quietamente.
— Si va, — rispose costui, semplicemente, ma a bassa voce.
— Cioè?
— Ho ritrovato il nostro uomo.
— Veramente? — gridò Roberto, fremendo di gioia, ma ancora incredulo.
— Ho ragione d’esserne certo.
— Dov’è?
— A Londra.
— Lontano?
— Così, così. Venti minuti di carrozza, — rispose laconicamente Dick Leslie.
— Come si chiama?
— Marcus Henner, — rispose l’agente di polizia, a voce molto bassa.
— Di che paese?
— Oriundo tedesco, ma ebreo.
— È proprio lui? — chiese ancora Roberto.
— Proprio lui, piccolo, gobbo davanti e di dietro, con gli occhi verdi, emaciato, smunto, con una barbetta rada e sudicia, con un cranio, dove ispido e dove pelato.
— È lui, — disse con un profondo sospiro di sollievo Roberto Alimena.
— Che fa?
— È un medico, ma non un medico dei soliti, di quelli che accomodano le braccia rotte e che guardano le lingue sporche. È un medico di malattie nervose, ma è soprattutto un ipnotizzatore. Non guarisce, finge di guarire, cioè convince la gente di esser guarita, — spiegò Dick Leslie. — Il dottor Marcus Henner ha una larga clientela, specialmente femminile, e guadagna quello che vuole.
Egli viene ogni anno a Londra, per due o tre mesi; prende sempre il solito appartamento, e ne sparisce a data fissa, senza avvertire o salutare nessuno.
— Un uomo misterioso? — disse Roberto.
— Misteriosissimo. Girano, intorno alla sua casa, le facce più strane: egli fa la vita più bizzarra e più incomprensibile. Alcuni dicono di aver udito spesso delle grida orribili di donna uscire dalla stanza delle sue consultazioni. Ha dei servitori assolutamente fedeli; ma, ve n’è uno, che può diventargli infedele.
— Lo avete comprato? — disse Roberto.
— Non ve ne sarà bisogno; vi è una ragione, per cui tradirà il suo padrone.
— Quale ragione?
— Egli è devoto estremamente a Marcus Henner; credo che lo ami e lo tema; ma egli adora la sua padrona.
— Vi è dunque una padrona? — domandò, trasalendo Roberto Alimena.
— Sì, — rispose Dick Leslie.
— L’avete vista?
— L’ho intravvista.
— E dove?
— Dietro il merletto di una tenda.
— Ed è giovane ed è bella? — chiese Roberto, ansiosamente.
— L’ho intravvista, vi dico: ho visto degli occhi malinconici.
— Malinconici e fieri, — soggiunse Roberto Alimena, come se parlasse in sogno.
— Non tanto giovane, — riprese Dick Leslie — un po’ sciupata, simile ad una carcerata, o ad una folle.
— E chi è costei? — chiese Roberto Alimena, che non osava far la domanda più importante.
— Dice John che è la moglie di Marcus Henner, o forse sua sorella, o forse nulla. John adora questa donna, ma neppure sa chi sia.
— Neppure il nome? Il nome, vorrei sapere! — esclamò Roberto Alimena.
— Si chiama Maria: la signora Maria.
— Niente altro?
— Solo questo nome. È cristiana, però: anzi, cristiana fervente.
— Allora non gli è moglie! — gridò Roberto, trionfante.
— Amante, forse. … — mormorò Dick Leslie, come se pensasse ad altro.
— È impossibile, con un giudeo?
— Ho ragione di credere che sia anche un giudeo importante; il rabbino maggiore di Londra ci va spesso, sebbene questo Marcus Henner non vada mai nella sinagoga. Dicono, anche, che sia amico di tutti i Rothschild. Certo è che alla sua casa, di giorno, di notte, arrivano continuamente degli ebrei, laceri, stanchi, come se avessero viaggiato a piedi, da paesi lontanissimi. …
— Un capo?
— Sì, un capo di qualche cosa. … non so bene, ancora.
— E lei? E lei? — chiese ancora Roberto.
— Lei? Non so altro. Deve essere una vittima. …
— Sì, sì. Quando vedrete John?
— Questa notte.
— Dove?
— A un’osteria.
— Vengo anche io.
— No, Vostra Grazia.
— Sì, voglio venire.
— Ma con quale scusa?
— Direte che sono un amico vostro.
— Non mi crederà. Non dirà più niente.
— Dick Leslie, io non ci resisto!
— Ma a che non resistete, Vostra Grazia?
— Io voglio sapere se questa donna ha una mano tagliata.
— Forse! — mormorò Leslie.
— Dunque, è così? — gridò Roberto, afferrando il braccio del detective.
— Non è certo, non è certo!
— Quasi certo?
— Quasi.
— Oh datemene la certezza e le diecimila lire sono vostre!
— Sarebbe un troppo scarso servizio, — disse sorridendo l’agente di polizia. — Io dovevo scoprire il nome e l’indirizzo del vostro nemico e l’ho fatto; ma dovevo anche dirvi il suo segreto e non ve lo ho detto ancora.
— Io voglio liberare quella donna. Maria deve sfuggire al contatto di quel mostro. Voi mi aiuterete, Dick Leslie!
— Ciò è molto più grave, signore, — dichiarò il detective.
— Spenderò qualunque somma, — gridò Roberto, giunto al colmo dell’esaltamento.
— Non si tratta di denaro. Darvi delle informazioni, dirvi chi è, e che fa, e che vuole questo Marcus Henner, sì: aiutarvi in un colpo di mano, no. Io non sono che un agente di notizie, — disse Leslie, quietamente.
— Sta bene. Farò da me. Ma questa sera voi dovrete condurmi all’osteria.
— Vostra Signoria? È un’imprudenza.
— E perchè?
— Se John ci tradisse? Se fosse un agente di Henner e non un devoto della signora Maria?
— Voi dicevate il contrario!
— E chi può esser certo di nulla? Questo John è molto commosso dei dolori della signora Maria, della sventura. …
— Dunque, è sventurata? Vedete bene, Dick!
— Egli vorrebbe, forse, liberarla. … — soggiunse Leslie, guardando in viso Alimena.
— Vedete, vedete!
— Ma ha una paura orribile di Marcus Henner! Ci può sfuggire, comprendete!
— Io verrò, questa sera, — soggiunse ostinatamente Roberto Alimena.
— Come vuole Vostra Grazia; ma io non garentisco le conseguenze.
— Che importa! Marcus Henner mi sfugga: io voglio Maria!
— Eh, Vostra Signoria doveva dirmelo, — disse sorridendo Dick Leslie.
— Dunque, mi venite a prendere?
— Sì, verrò.
— A che ora?
— Alle nove e mezzo di sera.
— Come debbo vestirmi?
— Come me. Toglietevi anelli e catene, nessun gioiello: è un’osteria di mala fama. Non portate denaro addosso.
— E se John ne vuole?
— Non ne ha chiesto. Ritengo che vi servirà gratuitamente, per il piacere di salvare la sua signora. Ma sempre se si giunge a dominare la paura che ha di Marcus Henner.
— Ci arriveremo.
— Eh! È un po’ difficile. Con l’ipnotismo non si scherza, mio signore. John è sotto il dominio di una potente suggestione.
— Io credo nella volontà umana.
— A questa sera, Vostra Grazia, giacchè la mezzanotte è già passata.
— Buona notte. —
Roberto Alimena era in uno stato di convulsione nervosa, ma di nervosità gioconda. Gli pareva di aver fatto un passo grandissimo scoprendo il nome e l’indirizzo di Marcus Henner; gli pareva di aver conquistato il mondo, avendo saputo un lembo della vita della povera carcerata. In quelle prime ore di pensieri, egli non dubitò neppure un momento che la signora Maria fosse la donna dalla mano tagliata; e sentì di amarla potentemente, senza conoscerla, avendola vista una sola volta, a Roma, di sera, di sfuggita. Così, egli trascorse la notte; ma, verso la mattina, stanco, esausto, un dubbio profondo lo assalse che tutte quelle cose dettegli da Dick Leslie fossero una frottola. E se il suo nemico non fosse Marcus Henner? Se il detective si fosse ingannato? Se il gobbo gli avesse teso un tranello? Era in questa crudele incertezza, quando la posta della mattina gli portò la lettera di Silvio Amati, respintagli da Parigi.
La lettera diceva così:

«Caro Roberto,

«Non vi ho scritto sin ora, perchè non potevo darvi nessuna precisa notizia sull’affare che tanto v’interessa. Ora posso dirvi questo: l’uomo che ha scoperto il segreto per imbalsamare i cadaveri, si chiama Marcus Henner; è dottore, è ebreo, è gobbo, e ha gli occhi verdi. In questo momento abita a Londra. Vi stringo cordialmente la mano.
«Vostro Silvio Amati.»

Un movimento di trionfo sollevò lo spirito del conte Alimena dinanzi a questo incrociarsi così serrato de’ fili del suo romanzo. Il potente interesse che animava la sua vita e per cui egli aveva arrischiato l’esistenza, e si trovava nel pericolo di un grave processo, pareva fosse giunto al suo culmine; ed egli tremava di commozione, pensando di poter vedere la misteriosa donna dalla mano tagliata, di poterla strappare a Marcus Henner, di dirle che egli l’amava, avendo cominciato per amare quella povera cara mano troncata. Egli era certo, Roberto Alimena, di poter strappare al terribile gobbo la sua preda, come se non avesse avuto delle prove che il gobbo dagli occhi verdi fosse un mostro di intelligenza e d’infamia, un uomo misterioso, oscuro e potente.
Tutto il giorno egli non osò di uscire dal suo Albergo Piccadilly per timore che venisse un contr’ordine di Dick Leslie, per timore che il gobbo dagli occhi verdi, incontrandolo per la via, non si mettesse in sospetto e non tentasse qualcuno de’ suoi orribili tranelli. D’altra parte, il detective, con molta furberia, non aveva detto a Roberto Alimena l’indirizzo di Marcus Henner, temendo che il giovane gentiluomo non commettesse qualche grave imprudenza; e, nell’ansietà di quella felice scoperta, Roberto Alimena aveva dimenticato di chiederglielo.
D’altronde, a che sarebbe uscito di casa, l’Alimena? La sola cosa, che lo aveva attirato a Londra, era il desiderio di scovare Marcus Henner e il suo segreto. Aveva avuto la fortuna, in tre giorni, di andare diritto alla verità, che gli era giunta da due parti, da Dick Leslie e da Silvio Amati, il che gli sembrava un disegno della Provvidenza, che voleva favorirlo nella sua intrapresa.
In quella giornata, egli non fece altro che leggiucchiare, fumare un centinaio di sigarette, bere una quantità di bibite inglesi, fredde e calde, senza mai uscire dalla sua stanza. Egli pranzò nel salotto attiguo alla sua camera, tutto solo, cercando d’interessarsi alla lettura del Times, inutilmente.
Aveva pranzato prestissimo e la serata gli si parava innanzi interminabile.
Chiuse tutte le porte, accese tutti i candelabri, come faceva sempre prima di compiere questo atto di adorazione, e schiuse il cofanetto della mano tagliata.
Quanto era bella! E pensare che tutti quanti, Silvio Amati, Héliane Love, Ranieri Lambertini, tutti gli avevano detto che quella era la mano di una morta e che il suo era un sogno, una follìa, mentre egli solo, tenacemente, con una fede incrollabile, aveva creduto che quella mano fosse di persona ancora viva, ed aveva desiderato di raggiungere quella donna, di conoscerla, di adorarla, di darle la sua vita. Egli era stato un uomo freddo e arido, sino allora; ma sono questi i caratteri glaciali che meglio divampano nella passione.
La lunga contemplazione di quella mano bellissima, in quella solitudine, dette come un risalto alla sua fantastica passione, e non sapendo resistere a questo impeto, si mise a scrivere una lettera a Lei.

«Mia diletta,

«Non vi conosco; non mi conoscete; ma l’anima mia vi ha visto già da tempo, quando nelle sue ore di penosa stanchezza morale ha invocato una donna, la Donna, perchè venisse a soffondere di poesia e di dolcezza una esistenza vacua e bene spesso amara. Non vi conosco; ma, io so chi voi siete. So il vostro nome persino, da ieri: voi vi chiamate Maria, voi portate il nome della più pura tra le vergini, voi portate il nome della più santa tra le donne, che fu mia madre. Credete: quando seppi il vostro nome, ieri, mi parve di averlo inteso già tante volte; nelle ore più care della vita, ne’ sogni della notte, mi era così amorosamente noto questo nome, lo aspettavo tanto, che, quasi, io lo pronunziai contemporaneamente a colui che me lo diceva. Maria! Maria! Dove siete voi? Dove potrò cercarvi? Dove potrò vedervi, inginocchiarmi innanzi a voi, baciare il lembo della vostra veste bianca, e dirvi: «Signora, ecco il vostro servo?» Non eravate voi vestita di bianco, nella sera di febbraio, quando io vi vidi, sotto la luce tremula de’moccoletti, in piazza Venezia, quando vi levaste, nella candida vostra veste, e mi lanciaste un fiore, e mi sorrideste così dolorosamente, guardandomi con gli occhi malinconici e fieri? Maria, Maria! Vi ho seguìta nella notte, correndo affannosamente dietro la vostra vettura, e il vostro caro fantasma sempre più s’allontanava, e un affanno mi stringeva questo cuore che mi portavate via, e vi ho perduta, e tutto mi parve perduto con voi! Ma voi siete qui, in Londra, poco lontana da me, poco lontana dal mio desiderio di dedizione e di adorazione; ma, domani forse, io vi rivedrò, anima mia, mia dolcezza, mia cara donna sconosciuta, bella, infelice, dolente! Oh, quali lunghe storie di dolore io ho letto nei vostri occhi, in quello sguardo, quali torture ineffabili, inflittevi dal mostro che vi serra, vi carcera, vi sottrae all’aria, alla libertà e all’amore! Maria, quanto dovete aver pianto! Che veli di lacrime devono avere appannato i vostri occhi, che amarezze debbono avere inondato le vostre vene e impallidito per sempre il caro volto! Come dovete aver sofferto! Quand’io penso che mentre voi soffrivate, nel tempo trascorso, io, ignaro, lontano, godevo ne’ futili piaceri del lusso, rimprovero a me stesso queste ore vane, e penso che v’ho conosciuto troppo tardi.
«Maria, è troppo tardi? Credete che sia troppo tardi? No, perchè la vita comincia appunto quando comincia l’amore; perchè, se voi sarete mia, se io potrò rapirvi all’orribile mostro che vi tiene, la vostra vita rinascerà, più bella, più forte, novellamente giovane.
«Oh Maria, Maria, voi piangerete sul mio seno tutte le lacrime che non avete ancora piante, e io le rasciugherò lentamente, io bacerò i vostri bei capelli neri, io bacerò i vostri belli occhi neri che così malinconicamente e dolcemente mi hanno guardato, in piazza Venezia, quella sera! Dovessi morirne, vi toglierò a Marcus Henner! Se anche io muoio, avrò almeno ucciso l’atroce gobbo che è il vostro carnefice e voi sarete ridonata alla libertà. Io. … sarò felice di morire per voi. A che serve, questa mia vita! A che è servita, finora? E quale migliore fine che perire per voi, Anima?
«Chi siete, dove siete, che siete? Non so. So che io solo ho creduto alla vostra esistenza, quando tutti mi dicevano che era un sogno, che era una follìa: so che io solo mi sono ostinato a ricercarvi, dappertutto, fidando nel vostro divino fantasma e ritrovandovi viva, infine! Io ho creduto nella vostra ombra, o Maria! Quale innamorato ha presentito, così? Quale amante appassionato ha principiato per amare un’idea, una visione della fantasia, come me, e ha giurato fede a quest’ombra, ha giurato amore a una visione? Chi, se non io? Io sentiva che voi esistevate, Maria. L’ho sentito dal primo momento, in cui ho visto la vostra mano!
«Maria, Maria, quella mano, giunta in mio potere, per un caso tanto strano, capitata sotto i miei occhi, sotto le mie labbra, seguendo un destino tanto bizzarro, quella mano, Maria, io l’adoro, perchè è vostra, perchè è una parte della vostra persona, perchè io fremo di voluttà e di orrore, innanzi ad essa, pensando all’orribile stregone che vi ha mutilata! Dio, Dio, che cosa gli farò mai, io, a questo scellerato, a questo boia, per punirlo del suo efferato delitto, quale tortura inventerò io per farlo soffrire mille volte di più, di quello che voi, povera anima, avete sofferto? L’avrò io nelle mani e potrò io cavargli il sangue goccia per goccia? Quella mano, Maria, quella povera mano cara e morbida, tolta al vostro bel corpo, così barbaramente, tolta per compiere chissà quale atroce disegno, quella povera mano bianca e gemmata, che io copro di baci e di lacrime, quella mano grida vendetta innanzi al Signore! Voi siete credente, io lo so, voi siete piissima, Maria, e io anche credo, da che vi amo; ma voi, certo, non potete perdonare a costui, come Cristo perdonò, perchè Cristo era il Figliuol di Dio, e noi siamo uomini, siamo di carne e di ossa, non possiamo perdonare a coloro che hanno voluto ucciderci. Lo sapete che costui ha tentato di uccidermi? Lo sapete che ha messo alla morte, quasi, il mio migliore amico, Ranieri Lambertini? Suppongo qualche infamia di donne, perchè Ranieri amava una bellissima fanciulla israelita e intanto egli è ancora infermo, ella è sparita, tutto è finito e anche io sono fuggiasco! Fuggiasco! Che importa? Il mio destino, fatalmente, mi ha condotto qui, dove voi siete, guidandomici così direttamente, che mi sembra un miracolo. Io sono fuggiasco, Maria, ma vi ho ritrovata e vi porterò via.
«Verrete con me, è vero? Vi sgomentano, forse, le parole di amore che vi ho dette? Avete disgusto, ribrezzo dell’amore, forse? Siete ferita al cuore, avete qualche ricordo, avete qualche altro amore? Chi lo sa! Non importa. Se volete, io non vi parlerò d’amore. Io vi salverò, solamente. Bisogna che io vi salvi, Maria. Voi soffrite, voi piangete, voi vi disperate, lo so. Forse quest’uomo vi ama di un amore immondo e vi costringe a subire il suo talamo — Dio, come ucciderò io quest’uomo? — e forse voi avete resistito, ma le vostre forze sono esauste, il vostro coraggio è smarrito. Maria, vi salverò; non vi domando nulla, per questo. Forse vi siete votata a Dio. Forse non avete più fede nella vita e nell’amore, e le mie parole vi offendono. Non vi dirò più niente. Verrete meco, lontano. Come vorrete vivere, vivrete. Io non vi molesterò con preghiere e con lamenti, ma vi starò dattorno come un amico, come un servo, fedelmente, taciturno, pago di avervi salvata e di poter vivere con voi. Maria, credete, il mio cuore è tutto devozione per voi. Avete bisogno di fuggire, di essere libera, lontana, protetta da una tenerezza costante e io ve la offro, io non vi chiederò nulla, in cambio. Mi amerete voi, forse, un giorno? Forse, no. Ma io non ve ne parlerò mai. Non vi conosco, non mi conoscete. Ma mi conoscerete. Se sapeste che ero e che sono! Se sapeste che creatura arida, perversa, fredda, odiosa io era! E se vedeste che anima tenera, pia, mistica, devota, purissima ho io adesso, perchè vi amo, perchè la vostra cara mano è venuta sotto le mie labbra! Voi non vi offendete di questi baci, è vero? No, cara, no? Io. … non potrei stare senza baciarla e vi mentirei se vi dicessi che non lo fo. Maria, sarete per me quello che voi vorrete. Non mi abbandonerete mai, ecco tutto. Siete una buona cristiana e non condurrete un’anima alla disperazione. No. No. Lo so bene, che non mi lascerete mai!
«Maria, chi siete, dove siete, che fate, che pensate? Quale è la vostra istoria? Che siete, a questo terribile e brutto mostro di Marcus Henner? Da quanto siete con lui? Che gli avete fatto, perchè egli vi abbia tanto fatto soffrire? Donde venite, dove andate, quale è l’altro vostro nome? Mi direte tutto questo, è vero? Io vi adoro, me lo direte. Fra poco, forse. Sento che è fra poco. Questa notte io mi avvicinerò ancora più a voi e domani, nella notte forse, mio Dio, sarò vicino a voi, Maria, e inginocchiandomi innanzi a una martire, a una santa, bacerò il lembo del vostro vestito, bacerò l’altra vostra mano, con la devozione di un credente.
Maria, sono vostro.
Roberto Alimena»

Egli rilesse ad alta voce quella lettera amorosa e malgrado le follìe passionali che vi aveva accumulate, gli parve fredda e scialba. Fu lì lì per lacerarla: ma si fermò. Folle come era, quella lettera, sarebbe servita al suo scopo se John si fosse deciso a portarla a Maria, nella medesima notte. Non sapeva, ancora, Roberto, come avrebbe salvato quella donna; ma era certo di salvarla.
Aveva appena finito di rileggere questa epistola, quando bussarono alla porta della sua stanza e il detective entrò. Dick Leslie era appena appena riconoscibile in certi panni vecchi sdruciti, macchiati, con una camicia lacera e un cordone di seta nera aggrovigliato al collo, che fungeva da cravatta. Il naso di Dick Leslie era rosso oltremisura, come quello di un beone: e anche la bocca aveva una smorfia di ubbriacone.
— Buona sera a Vostra Grazia, — egli disse, con una voce pastosa e roca.
— Buona sera, Leslie. Siete perfetto, anche nell’orario.
— È Vostra Signoria che è imperfetto. Vuol venire così, in una taverna di Druray Lane?
— È mal frequentata?
— Pessimamente. Tutti ladri, pregiudicati, assassini, avanzi di galera. Se vi vedono così bene vestito, vi aspetteranno in un angolo di via, per togliervi il soprabito.
— Dunque?
— Cambiar vestito: il peggiore; una camicia sciupata. Togliete ogni gioiello, specialmente gli anelli. Le mani saranno sempre bianche e Vostra Signoria sembrerà sempre un lord.
— Avrò questa roba? — chiese a sè stesso Roberto Alimena, frugando in tutti i cassetti.
Infine, alla meglio, qualche cosa trovò: e innanzi a Dick Leslie che guardava, cambiò di abiti, mise una vecchia giacchetta da caccia, si ammaccò un cappello di feltro sul capo, dandogli un aspetto ignobile, si arrotolò una cravatta sotto una camicia da notte.
— Vostra Signoria ha denaro?
— A Londra?
— No, in albergo.
— Sì, dieci o quindicimila lire. Il resto, dal mio banchiere, Golfus and Absalon.
— Questo denaro bisogna consegnarlo all’albergatore, Vostra Grazia, con una lettera.
— Che lettera?
— Non ricorda Vostra Signoria che giuochiamo una terribile partita? E se John ci tende un tranello? Se ci porta in un agguato?
— È vero, — disse Roberto Alimena, pensoso. — Ma per me, non m’importa.
— Neanche per me, Vostra Signoria. Per me morirò di morte violenta, un giorno o l’altro. Tre o quattro persone mi hanno promesso di uccidermi. Io me ne rido. Dick Leslie è filosofo, milord. Ma una lettera, ci vuole.
— Vale a dire?
— Scrivete in questa lettera che, non vedendovi tornare fra otto giorni, vuol dire che siete prigioniero, o ucciso; e che è Marcus Henner, il dottore gobbo, l’ipnotizzatore ebreo quello che vi tiene o che vi ha assassinato. Darete il suo indirizzo, domandando indagini e vendetta ai due tribunali, italiano e inglese.
— E se consegno questa lettera, l’albergatore non sospetterà, prima, subito?
— No, è inglese, è corretto e preciso. Gli direte: «Tenete questa lettera, se io non ritorno fra otto giorni, l’aprirete perchè contiene istruzioni e l’indirizzo dove dovete spedirmi il denaro.»
— E non sarà preso dalla curiosità?
— No. È inglese.
— Debbo tenere denaro, addosso?
— Venti o trenta marenghi. Ma nascosti nelle scarpe.
— E per John?
— Ripeto, non fa questo per denaro. Egli adora la sua infelice padrona, Maria.
— Dobbiamo essere armati?
— Sì, ma molto segretamente. Vostra Signoria ha delle buone armi?
— Ecco. —
E Roberto Alimena cavò due piccole pistole, fini e tremende: ne diede una a Dick Leslie.
— Graziosissima, — disse costui, mettendosela nella tasca del panciotto.
— Ve la dono, Dick.
— Grazie, milord. E altre armi?
— Questo piccolo pugnale?
— Sì: buono.
— Questo coltellino?
— Uccide: portiamolo.
— Basta?
— Sì, basta: io ho il mio boxe. —
E mostrò quella mezza mano di ferro che è un’arma così formidabile, in Londra, maneggiata dal pugno inglese.
— Bene, — disse Roberto. — E John verrà?
— Ha promesso.
— Manterrà?
— Credo: spero.
— Non ne siete certo?
— Nulla è certo, nel mondo, Vostra Grazia.
— Andiamo, allora?
— Un momento, scriva questa lettera, Vostra Signoria. —
E, difatti, con molta calma, reprimendo i suoi nervi eccitatissimi, Roberto scrisse la lettera nei termini che Dick Leslie gli aveva suggerito. Poi, suonando un campanello, fece venire a sè il segretario dell’albergo.
Costui prese flemmaticamente il denaro che gli consegnò il conte Alimena e gli dette una ricevuta; poi, intascò la lettera chiusa e se ne andò, muto, salutando.
— A che ora è il convegno?
— Alle undici e mezzo. È lontano, però.
— Prenderemo un legno?
— Sì, ma a un certo punto lo lasceremo. Non bisogna mìca giungere in carrozza, a una taverna di Druray Lane.
— Comprendo. Andiamo, Dick.
— Un momento. Vostra Grazia mi promette di esser padrone di sè stesso!
— Sì.
— Di tacere?
— Sì.
— Qualunque cosa ascolti?
— Qualunque.
— Qualunque cosa accada?
— Qualunque; prometto, in parola di onore.
— Bene, andiamo. —
Suonavano le undici all’orologio dell’Albergo Piccadilly, quando il conte Roberto Alimena escì insieme col detective Dick Leslie. Appena fuori di casa, l’agente prese familiarmente a braccetto il giovane gentiluomo italiano e cominciò a parlargli concitatamente. Cammina vano un po’ a sghembo, come se già fossero ubbriachi: e si sorridevano stupidamente, coppia di oziosi beoni, di cui è continuo il passaggio nelle vie di Londra. Poco lontano da Piccadilly, Dick Leslie fischiò un cab, e nella piccola vettura chiusa andarono, taciturni, pensosi, presi dalle preoccupazioni dell’audace impresa che tentavano. Per qualche tempo la vettura passò per vie larghe, fulgidamente illuminate, piene ancora di gente, malgrado l’ora avanzata; poi rotolò sordamente sopra un ponte e penetrò in vie più anguste, più buie e più solitarie. A un tratto, Dick Leslie che aveva seguitato a fumare la sua pipetta corta di radice, cavandone grandi sbuffi di fumo, tirò il cordone legato al braccio del cocchiere e il cab si fermò improvvisamente.
— Ci siamo? — chiese Roberto, ansiosamente, ma a bassa voce.
— Non ancora: adesso. —
Il detective pagò il cocchiere e rimase fermo a vedere il cab che si allontanava; quando il rumore delle ruote si disperse nella lontananza, allora Dick Leslie riprese il braccio di Roberto Alimena e s’internò con lui in una via lunga, deserta, scarsamente illuminata. Camminarono abbastanza, in silenzio; Roberto, sentendosi così prossimo a una soluzione del suo grande affare, era inquieto, nervoso e mordeva il suo sigaro. Svoltarono, di nuovo, per quattro o cinque straduzze e si trovarono sulla riva del Tamigi, lungo un doch, deserto. I lampioni a gas, abbastanza radi, vi mettevano una luce fioca e vagolante al piacere del vento che si era levato, impetuoso. Tutte le botteghe del lungo dock erano chiuse: solo, qua e là, qualcuna era socchiusa e ne usciva un filo di luce.
— Ci siamo? — chiese ancora Roberto, che fremeva.
— Ora, — rispose pazientemente Dick Leslie.
Una lanterna a vetri rossi ondeggiava sospesa a un uncino, davanti a una porta a cristalli, velata di tendine di lana rossa.
— Ecco l’osteria della Bella Editta, — disse il detective, fermandosi.
Roberto, prima di entrare, dette uno sguardo alla via, lungo il fiume. Era singolarmente tetra; e il rombo delle limacciose acque del Tamigi, rombo sordo e lugubre, ne accresceva la tetraggine. Non passava un’anima.
— Qui ci possono ammazzare e seppellire in cinque minuti, — disse Roberto accennando al fiume.
— Evidentemente, — mormorò l’agente — ma non ci faremo uccidere che all’ultima estremità. —
Ciò dicendo, mise la mano al lucchetto della porta ed entrò dentro, seguìto immediatamente da Roberto Alimena. L’osteria della Bella Editta era formata da un lungo e basso stanzone, a vòlta, ad archi successivi, massicci, che parea si abbassassero sui frequentatori, come gli archi di una cripta. A dritta e a manca, vi erano delle tavole coperte d’incerato nero e delle panche di legno, a spalliera, per gli avventori. Il banco era nel fondo, sotto un paio di lumi più vivi; e di arco in arco i lumi fiochi s’inseguivano appena diradando il velo di fumo, la nebbia umida e calda che regnava in quell’ambiente. La taverna aveva l’aspetto di un sotterraneo e il fumo delle pipe, gli aliti e non so quale bruma venuta dal fiume, ne rendevano più strano e più pauroso l’aspetto. Qua e là dei brutti ceffi erano seduti innanzi a un bicchierone di bevanda, birra, liquore, o miscela bizzarra di tutti i colori; e si udiva sacramentare, ogni tanto, in inglese, con voce gutturale. In fondo, al banco, vi era un uomo calvo, dalla faccia affilata di faina e da un ventre enorme: un malato d’idropisia, come se l’acqua e la nebbia del fiume gli avessero gonfiata la pancia. Nessuna traccia della Bella Editta; un cameriere, magro, pallido, coi capelli rossi, portava le bibite agli avventori, sfilando in silenzio lungo quel budello nero che era l’osteria.
L’entrata dei due nuovi avventori fece voltare il capo a quattro o cinque di quelle brutte facce, con una curiosità ebete; alcuni guardarono a lungo, obliquamente, come se analizzassero lo stato dei due. Ma Dick Leslie non si turbò e ordinò subito due wiskey fortemente drogati e caldi, al garzone.
— Verrà? — disse ancora Roberto Alimena che aveva gli occhi fissi sulla porta.
— Ha promesso, — rispose evasivamente il detective, ricaricando la sua pipa.
Tacquero. Roberto Alimena teneva gli occhi bassi e pensava. Leslie seguitava a fumare. A un tratto, di fuori, si udì un fischio stridulo e breve. Dick Leslie trasalì, ma non disse verbo.
— Che è? — domandò Roberto che anche aveva avuto un fremito.
L’agente gli fece cenno di tacere. Un po’ più vicino, il fischio si ripetè, più stridente. Allora, due avventori della Bella Editta si levarono da tavola, dove stavano bevendo della birra e gittarono del danaro sul tavolino: erano due volti di ladri e di assassini, mal vestiti, avvolti in certe cravatte rossastre, con le mani in tasca e con la pipetta in bocca. Uscirono lentamente, guardandosi intorno, con certe occhiate di sbieco.
La porta si richiuse dietro loro; e un minuto di profondo silenzio regnò nell’osteria, un silenzio tragico.
— Va a succedere una disgrazia, — osservò quietamente Dick Leslie.
— Sì? Qui vicino?
— Chissà! —
Tacquero di nuovo. Le undici e mezzo erano passate.
— John non si vede, — disse Roberto Alimena che era sulle spine.
Ma non aveva finito di dire questo, che la porta dalle tendine rosse, che metteva dei riflessi sanguigni nella via, si schiuse e John, il servo di Marcus Henner, entrò.
— È lui, — disse a fior di labbro Dick Leslie.
Il servo di Marcus Henner entrò lentamente, con le mani nelle tasche del pastrano, fumando la sua pipetta corta, come tutti gli avventori della taverna della Bella Editta; e scambiò qua e là qualche saluto con coloro che bevevano. Anche, salutò Dick Leslie, ma non si accostò a lui e andò a sedersi a un tavolino, tutto solo.
Battendo con la pipetta sul piano di legno, chiamò il garzone e si fece portare un cock-tail, bevanda forte e tutta inglese.
— Perchè non è venuto da noi? — domandò a bassa voce Roberto Alimena.
— Abbiate pazienza. Non precipitate gli avvenimenti. Non bisogna aver l’aria di corrergli dietro.
— Sta bene, ma non ne posso più.
— Tutto succede a chi sa frenarsi.
— Pensate che quell’uomo ha nelle mani la mia felicità! — mormorò Roberto, come se parlasse a sè stesso.
Dick Leslie e Roberto Alimena tacquero, fumando. Mentre guardavano le nuvole di fumo che s’innalzavano verso la vòlta bassa della taverna, ecco di nuovo, di lontano, questa volta, si udì il fischio stridente e breve. Poi, un passo rapidissimo trascorse fuori l’osteria, seguìto da un altro, anche più rapido.
— Che sarà? — disse Roberto.
— L’affare è fatto, — rispose il detective, senza muover ciglio.
— Cioè?
— Un uomo è morto.
— Un uomo?
— O una donna, chi sa!
— Un assassinio?
— Già.
— Domani si troverà il cadavere?
— Oh no! Il Tamigi è così profondo!
— E voi, che siete della polizia, non vi occupate di ciò, non cercate d’impedire, di scoprire?
— Non ho ordini, — disse Dick Leslie, freddamente. — E quando non ho ordini, non me ne importa niente. Se domani mi ordinassero di scoprire i malfattori di questa notte, saprei dove prenderli, ecco.
— Tardi: ad assassinio compiuto.
— Che fare? Muore tanta gente, a Londra!
— Che orribile paese!
— Oh, atroce, — disse tranquillamente Dick, ricaricando la sua pipa.
Ma in questo, John che aveva finito di bere il suo cock-tail, si alzò dal suo posto e venne a salutare Dick Leslie, restando in piedi accanto al tavolino dei due. Roberto Alimena toccò il suo cappello, niente altro; e stette immoto, guardando la vòlta, con le mani in tasca, come se nulla di ciò che dicevano Dick e John lo potesse interessare.
— Siete venuto tardi, amico, — disse Dick, con una perfetta indifferenza, riaccendendo la sua pipa.
— Si lavora molto, da noi, — rispose John, il servo, con accento enigmatico.
— Anche la sera?
— Anche la notte.
— Cattivo servizio: non ci resterei, io, — borbottò Dick, fumando come una locomotiva.
— Però, verso quest’ora io mi rendo libero, sempre, — osservò John, prendendo posto accanto a Dick sul banco.
— Ah sì? Ma il vostro padrone continua a lavorare?
— Sì. Veglia spesso, di notte.
— Scrive, legge?
— Riceve gente, anche, — disse John, a voce bassa.
— Ah!
— È un uomo potente e grande, Marcus Henner, — soggiunse il servo, sogguardando Roberto Alimena, come se lo avesse compreso in tempo.
— Oh! Oh! non sarà mica questa gran cosa che dite! — osservò ironicamente Dick. — Chi lo conosce? Chi sa niente di lui?
— È grande, è grande, credetelo, — disse con voce misteriosa e trepida il servo, che era sempre sotto l’influenza del suo padrone.
— Ricco? Glorioso? Felice?
— Ricco, credo: glorioso, fra la gente della sua razza; felice. … non credo!
— Vedete bene che Marcus Henner non è poi il generale Wellington.
— Egli ha un immenso potere sulle anime: le comanda, le domina, le vince, — continuò a dire John, piano, come se narrasse una storia bizzarra.
— Già, è un ipnotizzatore.
— Non so, non so! So che egli piega le volontà, cambia il corso delle idee, assopisce dei dolori e dà delle gioie. …
— False, — disse, a un tratto, Roberto Alimena.
— False, che importa? — rispose subito John, volgendosi al nuovo interlocutore.
— L’ipnotismo è basato sull’inganno, — rispose con freddezza Alimena, frenandosi dinanzi a una occhiata di Dick Leslie.
— Sarà; ma è un santo inganno. Giorni sono, vedete, è venuta una povera tisica, mia amica; egli non voleva visitarla: era in un cattivo momento. Però, tanto l’ho pregato, che ha consentito a riceverla. L’ha addormentata e le ha imposto di credersi guarita. Ebbene, la poveretta è andata via felice, felice!
— Inganno, inganno, — ripetè Roberto, a bassa voce.
— E poi, — sogghignò Dick Leslie — non sempre il padron vostro adopererà a buono scopo il suo potere. … —
John abbassò gli occhi e non rispose.
— Avete detto che egli non è felice? — chiese Roberto, volendo ricominciare il discorso.
— No, no.
— Perchè?
— Ama una donna che non lo ama, — disse John, guardando negli occhi il suo interlocutore.
— La vostra padrona? — chiese Dick, imponendo con uno sguardo a Roberto di tacere.
— Sì.
— È sua moglie?
— Non so; pare di no, — disse John, tutto pensoso e preoccupato.
— È la sua amante?
— Non lo so.
— Come, non lo sapete? — chiese Roberto, impazientito.
— Come volete che lo sappia?
— Eppure, vivete in casa!
— La casa è così strana!
— Non fanno vita comune? — disse Roberto, che tremava.
— Ella lo scaccia sempre.
— Sempre?
— Salvo quando egli tenta d’ipnotizzarla.
— Tenta? Non gli riesce? — chiese Roberto Alimena che, oramai, non celava più il suo interesse.
— Il mio padrone tenta di addormentarla.
— Ella s’addormenta?
— Per poco, per pochissimo.
— Arriva a suggestionarla? — domandò il giovane conte Alimena che era diventato mortalmente pallido.
— In parte, — disse John, a occhi bassi.
— Spiegatevi meglio, mio caro, — intervenne Dick Leslie, che aveva visto lo stato di agitazione suprema in cui si trovava il gentiluomo italiano.
— Come volete che mi spieghi? La mia povera signora Maria è una creatura infelicissima e quello che accade a lei, è un romanzo!
— Un romanzo! — esclamò Roberto, con gli occhi in quelli di John.
— Una storia così lunga, così triste, così tetra! — mormorò il servo, che aveva, adesso, una vera emozione nella voce.
— Narratela!
— Non posso, — disse John, a capo chino.
— Perchè non potete? — incalzò il conte Alimena.
— Perchè tradisco il mio padrone.
— Non è egli il tormento della vostra padrona?
— Sì, è vero.
— Non è lui che la tiene carcerata?
— Sì, sì.
— Non è lui che cerca di vincere la volontà, con mezzi strani? Non è lui che la rende così infelice?
— Sì, sì, sì.
— Non amate voi, signor John, più la vostra padrona che il vostro padrone?
— Oh, io venero quella misera creatura!
— E odiate lui, è vero?
— Non l’odio.
— Lo temete?
— Un poco.
— Perchè lo temete? Che può farvi?
— Egli è capace di tutto, — mormorò John, con voce trepida.
— Non saprà mai nulla.
— Egli sa tutto.
— Noi vinceremo questo infame, egli morrà, — disse Roberto Alimena, con rabbia che non poteva più reprimere.
— Marcus Henner non morirà mai, — disse John con voce misteriosa.
— Oh!
— Egli possiede l’elixir di lunga vita.
— È un impostore, oltre che un farabutto.
— Io ho paura di lui, — disse John, a voce bassa, con accento cupo.
— Ma volete salva lei? La volete salvare? — insistette Roberto Alimena, comprendendo che quello era il mezzo per agire sul servo.
— Vorrei. … credete che lo vorrei. … con tutto il cuore. … ma mi sembra impossibile.
— Perchè impossibile?
— Marcus Henner è troppo forte, è troppo possente, non arriveremo a deludere la sua vigilanza.
— Se ci aiutate, ci giungeremo.
— Morremo tutti.
— Non importa! — esclamò Roberto, con voce soffocata.
— Io non ho voglia di morire, signore, — disse John.
— Vedrete, che la salveremo e che niuno morrà, — ripetè Roberto che cercava di suggestionare il servo, con la sua voce, col suo ardore.
— Se anche ci riuscisse, Marcus Henner ci raggiungerà: egli ottiene tutto quello che vuole.
— Ma non l’amore di Maria! — disse Roberto Alimena, a denti stretti.
— Che ne sapete, voi, signore?
— Me lo avete detto: lo spero! — egli dichiarò.
— Ma chi siete voi, signore? — chiese John scosso fra la fiducia e il sospetto.
— Un nemico di Marcus Henner, — disse limpidamente Roberto Alimena.
— Perchè lo odiate?
— Perchè, senza ragione, mi ha fatto il massimo male.
— È una lotta, fra voi?
— Lotta terribile; ma io vincerò.
— Marcus Henner è il più forte tra gli uomini, — disse John, con sfiducia triste.
— Vi è Dio, che ci aiuta, — disse Roberto.
— La signora ha tanto pregato Iddio!
— Ma prega assai? — chiese Alimena, severamente.
— Sì; quasi tutto il giorno e con un fervore profondo.
— Marcus Henner è ebreo, è vero?
— Sì.
— Ella lo detesta per ciò?
— Lo detesta.
— Egli l’ama?
— L’adora, signore.
— E la tortura così?
— Che fare? La signora Maria non vuole amarlo: e lui si vendica.
— Infame, infame! Non ama ella un altro? — chiese Roberto, tremando.
— No. Non credo. Non so, signore, — disse John.
— Non nomina mai nessuno?
— Mai.
— Non ha avuto un innamorato, un marito, un amante?
— Chi sa. Suppongo. …
— Che supponete?
— Che abbia avuto marito.
— Non ne siete certo?
— No. Sono certo di una sola cosa.
— E di che?
— Che ella abbia una figlia?
— Una figlia? Dove? Come?
— Non saprei. Ella ha una figlia.
— Piccola?
— No, grande.
— Come, grande?
— Venti anni.
— La signora è, dunque, vecchia?
— No, signore.
— Quanti anni avrà?
— Trentasei, credo.
— Oh, è giovine, giovine ancora! — disse Roberto Alimena, rinfrancato. — Come può avere una figliuola di venti anni? E dove è, essa?
— È lontana, divisa da lei. Forse Marcus Henner le ha divise. Per questo la signora piange sempre.
— E il nome di questa figlia?
— Rachele.
— Rachele! Dove ho io inteso questo nome? — chiese, fra sè, Roberto.
— Che cosa dite, signore? — chiese John, che oramai si lasciava trasportare dall’ambiente di romanzo, in cui viveva.
— Nulla, — soggiunse Roberto — ditemi ancora di Maria. Ella parla spesso di questa figlia? Le scrive? Ne riceve lettere?
— No, signore. Ella non sa più dove sia da quindici anni. Lewis ed io crediamo che il dottor Marcus Henner abbia rapito la signora Maria, impedendole di vedere mai il marito e la figlia, facendo credere a costoro forse che ella è morta, giurando alla signora Maria, che la sua figliuola è sparita, qualche volta, e qualche volta dicendole di volerla raggiungere. Infine, il dottore ha ucciso il cuore materno della signora Maria.
— Chi è questo Lewis? — chiese Roberto.
— È il maggiordomo, — rispose John — è l’uomo di fiducia di Marcus Henner, è il suo alter ego.
— Naturalmente sarà l’aguzzino di Maria, — disse Roberto.
— No, signore. Anch’egli l’ama, come tutti noi l’amiamo. Quante volte Marcus Henner gli dà degli ordini contro la signora Maria, e Lewis non li eseguisce! Per esempio: la signora Maria scrive continuamente a questa sua figlia. La poveretta non sa dove dirigerle queste lettere, oppure continua piamente a scriverle, e le conserva. Marcus Henner non ha mai potuto sapere dove sieno riposte queste lettere. Eppure, certo, Lewis lo sa!
— Bisogna salvare Maria, — esclamò Roberto, con fermezza.
— Due volte essa ha tentato di fuggire, — riprese John. — Lewis, certo, era suo complice; ma il piano era mal fatto. La signora non aveva denaro. E poi, da quindici anni che non vede nessuno, ha perduto così ogni idea del mondo, che non saprebbe fare un passo essa sola!
— Io la proteggerò, e la difenderò, — disse Roberto. — Ma, senza il vostro aiuto, John, nulla si potrà fare, — e gli rivolse uno sguardo, tra supplichevole e tenero.
— Che cosa ne volete fare della signora Maria? — domandò John, che già cedeva, tanto era il desiderio di liberare quell’infelicissima.
— Io voglio scarcerarla; sottrarla per sempre a Marcus Henner; ricongiungerla con sua figlia.
— Voi amate la signora Maria, signore?
— Io l’amo.
— Ma non la conoscete?
— No, non la conosco, ma l’ho vista.
— Dove?
— A Roma, una sera di carnevale.
— Ella vi conosce?
— Non mi conosce. Ma voi le darete questa lettera, — disse Roberto, cavandola audacemente di tasca.
— È una lettera d’amore, è vero? — domandò John, con un lieve sorriso.
— Sì e no. La signora Maria deve sapere che ella ha un amico, deciso a tutto, pure di salvarla, un amico che vuole spendere la sua salute, il suo denaro, la sua vita, pure di toglierla a Marcus Henner.
— Egli ci ucciderà tutti, — disse con un brivido di terrore John.
— Sentite, John, — interloquì ad un tratto Dick Leslie, che aveva taciuto sino allora. — Voi non morrete, e non morirà nessuno di noi, se saprete fare. In quale ora la signora Maria è sola?
— Nella notte, — disse John, con un sorriso espressivo.
— Vale a dire? — chiese Dick Leslie, mentre Roberto ascoltava, con la massima ansietà.
— Vale a dire che la signora Maria non ha mai voluto occupare la splendida camera nuziale che Marcus Henner le aveva preparato, e che è trasportata dovunque si va coi suoi mobili di sposa, che ella non ha mai voluto adoperare. Questa camera, il salotto, la stanza da toilette sono sempre deserte. La signora Maria abita una stanzetta nuda, dove non c’è che un piccolo letto di ferro e qualche altro raro mobile. Colà essa si chiude, ogni sera. Ogni sera, Marcus Henner va a salutarla, le parla a traverso la porta, tenta di entrare. Ella gli risponde male, o non gli risponde. Durante la giornata, Marcus Henner arriva talvolta a vedere la signora Maria, ma di sera, mai. È nella notte, che la signora Maria è libera.
— Noi la porteremo via di notte, — disse Dick, che evidentemente aveva fatto il suo piano, comprendendo che Roberto Alimena ne era incapace.
— Mi pare impossibile, — soggiunse John, che combatteva ancora debolmente.
— Come è chiuso il vostro portone?
— Con un chiavistello a segreto.
— Che segreto?
— Una parola che Marcus Henner cambia ogni giorno.
— Non avete voi detto che Henner riceve persone la notte?
— Sì, spesso.
— Chi va ad aprir loro il portone?
— Lewis.
— Allora Lewis deve conoscere la parola quotidiana.
— Certamente, — rispose John, messo alle strette.
— Ce la dirà?
— Forse. Si può tentare.
— Lo tenterete?
— Lo tenterò. Lewis sarà ucciso da Marcus Henner, se costui comprende la sua complicità, — disse John.
— No. Basterà fargli credere che la signora Maria sia fuggita all’alba, quando il portone fosse stato già aperto regolarmente.
— Tanto io che Lewis dovremo lasciare il servizio di Marcus Henner, — disse John, dando uno sguardo a Roberto Alimena.
— Sono disposto a fare qualunque sacrifizio, per voi, — disse, subito, il giovane conte.
— Io non sono interessato, — disse John, a occhi bassi, scuotendo lentamente la cenere della sua pipetta. — Vorrei sottrarre la signora Maria alla vita orribile che fa. Sono certo che voi la renderete felice; non vi conosco, ma vi credo un galantuomo; in fondo, Henner è un mascalzone.
— È un infame, — soggiunse Roberto.
— Sì, ma appunto per questo, è terribile. Io non solo perdo il servizio, ma arrischio la vita.
— Ditemi, subito, che volete?
— Vorrei imbarcarmi, il giorno stesso del fatto, per l’America.
— Con la vostra famiglia?
— Non ho nessuno. Per questo vengo qui, ogni sera. Vorrei il viaggio e una sommetta per tentare la fortuna. … laggiù.
— Vi darò cinquemila lire e il viaggio. Vi basta?
— Mi basta. E se il colpo non riesce?
— Ve le darò egualmente, — rispose subito Roberto.
— No, — interruppe Dick Leslie. — Darete a John il viaggio e duemila lire, se il colpo non riesce. Così, egli avrà maggior interesse, perchè riesca.
— È vero, — disse John, annuendo col capo. — Quell’Henner, che diavolo! È il diavolo in persona.
— Non così brutto come pare! — disse Dick Leslie, con un lieve sorriso.
— E Lewis? Lewis? — chiese Roberto che vedeva ancora molti punti oscuri, in quella intrapresa.
— Io gli parlerò, — disse John — e domani sera vi farò sapere le sue intenzioni. Ritengo che vi aiuterà. Egli adora la signora Maria.
— Lo porteremo via, con noi, — disse Roberto.
— Vedrete voi. Io vado in America.
— Or dunque, concretiamo questo piano, — disse Dick Leslie. — Si fa tardi e qui vorranno chiudere.
— Sarà meglio andarsene fuori, — disse Roberto, che voleva conchiudere rapidamente.
Difatti, uscirono. La via lungo il fiume era diventata anche più tetra, perchè dei lampioni erano stati smorzati. I tre interlocutori camminarono in silenzio, per qualche tempo, guardandosi attorno con sospetto. Ma non fecero nessun cattivo incontro. Evidentemente, il fiume aveva avuta la sua preda, quella notte, in quel quartiere. Quando furono in una via più vicina al centro, più rischiarata, i tre si fermarono a un cantone. Nessuno passava. Pure, parlavano a voce bassissima.
— Dunque? — disse John.
— Parlate voi, — disse Dick Leslie a Roberto Alimena. — Poi, dirò io.
— Voi porterete questa lettera alla signora Maria, — disse Roberto, con voce tremante.
— Sì.
— Le direte che è un amico, un sincero amico, che gliela manda.
— Va bene.
— Che se è veramente inorridita della esistenza che mena con Marcus Henner, sia pronta a fuggire, da un momento all’altro.
— Benissimo.
— Ottenete la sua promessa.
— Questa è certa.
— Ottenetela. Ditele che voglio congiungerla a sua figlia.
— Le dirò che sapete dove è.
— Non lo so: ma lo saprò. Diteglielo pure. Ho scovato Marcus Henner, troverò bene Rachele, la figliuola di Maria.
— Benissimo. Se ella fa difficoltà?
— Le vincerete!
— È una donna pia. La vostra lettera di amore la sgomenterà.
— No. È scritta con rispetto.
— Comprendo. Che altro?
— Parlate voi, Dick, — mormorò Roberto che, liquidata la faccenda della lettera, parea non comprendesse più nulla.
— Accomodate tutto con questo Lewis, — disse Dick. — Avete detto che fu complice degli altri due tentativi di fuga di Maria.
— Ne sono sicuro.
— Credete che si rifiuterà, ora?
— Non lo credo.
— Credete che possa denunziare tutto il piano a Marcus Henner?
— Non credo. Però, ci vuole molta prudenza.
— Volete condurre, domani sera, da noi, Lewis?
— Sì: dove?
— Alla Bella Editta? — chiese Roberto Alimena, sogguardando Dick Leslie.
— No, — disse costui, pensando.
— Al mio albergo?
— Neanche, — interruppe Dick, con uno sguardo furibondo a Roberto. — Gli alberghi sono pericolosi.
— E dove, allora?
— Qui, — disse Leslie.
— Nella strada?
— Sì: è la più sicura.
— Sta bene: alle undici, — disse John. — Lewis deve ritornare presto a casa. Henner ha bisogno di lui nella notte.
— Alle undici, va bene, — disse Roberto.
— Però, siate cauto. Non parlategli male di Marcus Henner: non ditegli che l’odiate. Egli lo ama.
— Resterà con lui, allora?
— Sì: suppongo che ci aiuterà segretamente.
— Tanto meglio, allora, — disse Dick. — Bisognerà corrompere qualcuno?
— No. Non è necessario.
— Bisognerà chiedervi una parola di onore, John?
— Non credo, — disse lui, semplicemente. — Faccio questo, per il bene della signora. Nè vi chiederei denaro, se non dovessi fuggire all’ira di Marcus Henner.
— Va bene, siete un galantuomo, — disse Roberto, con voce commossa.
— È certo che Lewis non ci tradirà? — chiese Dick Leslie, che era sempre pieno di dubbi.
— È anche un galantuomo.
— Non diceste che era l’alter ego di Henner?
— Sì: colui lo domina. Ha finito per imporsi a lui. Lewis lo ammira ed eseguisce tutti i suoi orni. Ma ama di più la signora Maria.
— Allora, John, buona notte.
— Buona notte, signore: buona notte, Dick. — I tre uomini si separarono.
Quando Dick Leslie e Roberto Alimena rimasero soli, si guardarono in viso, nell’ombra: il giovane conte italiano aveva un paio di occhi stralunati, pieni di una gioia inesprimibile.
— Ebbene, Vostra Grazia?
— Ebbene, Dick?
— Siete contento?
— Felice, felice!
— Aspettate un poco, signore, prima di esser felice.
— Io nulla temo!
— Sta bene. Ma bisogna essere prudente. Andiamo verso l’albergo, Vostra Grazia, perchè bisogna che c’intendiamo bene. —
Camminarono presto, in silenzio. Roberto Alimena aveva il passo elastico della giovinezza felice, e gittava in aria sbuffi di fumo dalla sua pipa inglese. Anche Dick Leslie camminava rapidamente, con le mani in tasca, a capo basso, come se maturasse un piano. E non dissero più nessuna parola, sino a che non si trovarono nella stanza dell’Albergo Piccadilly, calda e bene rischiarata. Erano le due della notte. Roberto si gittò su una poltrona e si nascose il volto tra le mani. Era convulso.
— Un po’ di calma, signore, — disse Dick Leslie, sedendosi anche lui.
— Parlate, Dick.
— Che intenzione avete, di fronte alla signora Maria?
— Portarla via.
— In che modo?
— Partendo!
— È una parola, signore. Due ore dopo che la signora Maria sarà fuori di casa, Marcus Henner si sarà accorto della sua fuga e metterà Londra sottosopra.
— Non è mica il principe di Galles, costui!
— Naturalmente, ma è un uomo forte e possente; vi darà del filo da torcere.
— Partiremo immediatamente.
— Per dove?
— Per Parigi.
— Non approvo.
— Perchè?
— Perchè Marcus Henner farà sorvegliare tutte le partenze di Douvres e di Folkestone, in questi giorni.
— Restare in Londra?
— Dove?
— Qui, all’albergo.
— Avete dato tutti i vostri nomi?
— Naturalmente. Ma vi sono tanti alberghi, in Londra!
— Questo è frequentato specialmente dagli italiani. Marcus Henner vi ritroverà nella medesima giornata.
— Ricoverarci all’ambasciata italiana?
— Voi siete suddito italiano e vi proteggeranno. Ma la signora Maria, non sapete di dove sia.
— Che importa? È con me.
— Ma non è nè vostra madre, nè vostra sorella, nè vostra moglie.
— È vero. Che fare, Dick?
— Sto pensando.
— Pensate, pensate, mio caro! —
Vi fu un intervallo di silenzio. Roberto stava a capo chino, con le mani congiunte sulle ginocchia, assaporando la sua felicità, che neanche le diffidenze di Dick Leslie venivano a turbare.
— Ho pensato, — disse Leslie.
— Bravo!
— Vi sono due mezzi.
— Dite il migliore.
— No, il peggiore prima. Dovreste trovare, ma stamane istesso, un yacht pronto a partire da un momento all’altro.
— Non si può trovare?
— Sì: si trova, con denaro. Ma, per quanto sia, delle formalità ci vorranno. Dovrete dare i vostri nomi, il yacht li dovrà dichiarare alla Capitaneria del Porto.
— Daremo dei falsi nomi.
— Si può, ma è molto pericoloso. D’altronde, i yacht sono lenti e se non trovano vento, fanno cattivo viaggio. Avete bisogno di fare presto.
— È vero, è vero! Ma dove ci porterebbe questo yacht?
— In un porto d’Inghilterra, assai lontano da Londra. Colà, dopo esservi rimasti ventiquattr’ore, potete prendere un piroscafo e andarvene in Italia, in Francia, in Ispagna, in Oriente, dove vorrete.
— Dove essa vorrà, — disse Roberto, con voce tremante.
— Già. Ma lontano assai. Questo è il mezzo peggiore, giacchè Marcus Henner può trovare traccia di questo yacht, in qualche modo, trovare la sua destinazione e andare ad aspettarvi colà.
— Tralasciamo, allora?
— No: bisogna averlo, questo mezzo.
— Dite il secondo.
— Il secondo è di avere una carrozza di posta, con tre cavalli, a vostra disposizione. Senza fermarvi in Londra, nè qui a Piccadilly, nè altrove, partire per l’interno dell’Inghilterra, viaggiando sempre in carrozza, pernottando in piccoli paesi, facendo delle fermate improvvise e fuori itinerario, cambiando direzione tre o quattro volte e raggiungendo, infine, Newport, Liverpool, donde partirete per dove vi piace.
— Ma è un mezzo lentissimo.
— Già; ma sicurissimo. Se entrate in un battello, se ne può sapere la rotta e conoscere i vostri connotati, benissimo; se partite con un treno, è lo stesso, perchè cento persone possono ripetere di avervi visto partire e per dove. Ma in carrozza! Migliaia di carrozze escono dalle porte di Londra, ogni giorno, e nessuno se ne accorge. In una vostra carrozza, non date conto a nessuno.
— E si trovano cavalli, dappertutto?
— Dappertutto.
— Pronti?
— Prontissimi. Telegraferete, a nome del vostro postiglione, di posta in posta.
— Benissimo.
— Darete dei nomi falsi, di albergo in albergo.
— Naturalmente.
— E sarete pronto a deviare, a tornare indietro, da dovunque.
— Si sa bene. Ma sarà un viaggio che stancherà molto Maria?
— No, perchè vi riposerete in ogni fermata. Avrete il tempo di conoscervi meglio.
— È vero, Dick, avete trovato il modo più sicuro e più poetico di fuggir via.
— Come nei romanzi, Vostra Grazia.
— Ma voi mi aiuterete in tutto questo, non è vero, Dick?
— Vostra Signoria mi ha già trascinato troppo oltre; in fondo, io non sono che un agente d’informazioni.
— Ma vedete, è una causa santa.
— Lo so: ma io non sono un hidalgo.
— Via, Dick, se voi mi lasciate, che farò? Non troverò nè il yacht, nè la carrozza, nè nulla. Non posso mica dirigermi all’ambasciatore, per una cosa simile.
— È vero, mylord; ma la cosa è sempre grave.
— Dick, non mi abbandonate!
— Non vi abbandonerò, signore, — disse a un tratto il detective, come se si decidesse.
— Oh, meno male, meno male!
— Allora, mylord, m’incarico io di trovarvi i due mezzi di trasporto; ma Vostra Grazia deve promettermi di non escire dall’albergo, di non fare un passo, di non tentare nulla, senza mio consiglio, senza mio intervento.
— Temete di me?
— Temo che voi, signore, conoscendo l’indirizzo di Marcus Henner, in Broadway, non andiate a passeggiare sotto le finestre della vostra bella.
— Non lo farò, — disse Roberto Alimena, arrossendo, poichè ci aveva già pensato.
— Io voglio che me lo promettiate.
— Lo prometto.
— Gl’innamorati sono della mala gente, — disse con un sorriso Dick Leslie.
— Ma che farò io, qui, tutto il giorno? Morirò di noia e d’impazienza!
— Io verrò a vedervi o vi scriverò, senz’altro.
— Pensate che io starò sulle spine, Dick!
— Scrivete alla signora Maria!
— Sì, le scriverò un volume. Scriverò anche in Italia, ma la giornata sarà lunga.
— Avrete da fare. Preparate i vostri bagagli; non molti, però. Procuratevi un piccolo corredo per donna, giacchè la povera carcerata scapperà via come si trova.
— Potrò fare questo senza uscire?
— Si sa! Manderete a chiamare i fornitori in casa; verranno. Vi divertirete.
— E poi?
— Poi, ritirerete il vostro denaro dal banchiere, la lettera dall’albergatore, dicendo che partite da un momento all’altro per Parigi.
— Benissimo. E poi?
— Aspetterete. Voi siete l’uomo che aspetta. E ora, buona notte. Io sono stanco e voi pure.
— Sentite, Dick, — disse Roberto, dopo un minuto di esitazione.
— Che vi è?
— Avete voi chiesto, quella cosa, a John?
— Che cosa?
— Sapete bene. …
— Non so.
— La mano tagliata, quella che vi ho fatto vedere.
— Che dovevo chiedere?
— Se la signora Maria avesse una mano di meno.
— No: non ho chiesto, — disse Dick, tutto pensoso.
— E perchè?
— Ho dimenticato.
— Eppure, era una cosa molto importante, Dick.
— Credete, signore?
— Come? Non vi pare importante?
— Eh! così. A voi premeva molto?
— Sì, Dick. Moltissimo.
— E allora, perchè non avete domandato voi?
— Io, Dick?
— Già, voi, signore.
— A John?
— A John.
— Non ho osato, Dick, ve lo confesso.
— Non avete osato! E perchè?
— Perchè temevo troppo la risposta!
— La temevate?
— Dick, sì. E se quella mano non fosse sua?
— Ebbene, che accadrebbe?
— Accadrebbe il crollo di tutto il mio romanzo.
— Cioè?
— Io ho amato Maria in quella mano, giurando a me stesso di ritrovare la donna cui apparteneva quella mano; io ho ricoperta di baci quella mano, Dick, come cosa viva. Quella mano è sua, o io ho sognato e il risveglio sarebbe terribile. —
Dick Leslie guardò questo Roberto Alimena, come se avesse innanzi un pazzo.
— Perchè mi guardate così, Dick?
— Perchè tutto ciò mi sembra molto stravagante.
— Stravagante!
— Già.
— Ma sapete voi qualche cosa?
— Io? Come potrei saperlo!
— Ditemi la verità, Dick.
— Vostra Grazia, la verità è che non so nulla.
— Nulla! Proprio nulla?
— Proprio.
— Ma che supponete?
— La mia supposizione non conta.
— Sì, sì, conta, Dick.
— Volete proprio saperlo?
— Sì, lo pretendo.
— Ebbene, io sono certo che quella mano appartiene alla signora Maria!
— Certo?
— Certissimo.
— Per vostra convinzione?
— Per mia convinzione.
— Grazie, Dick. Anch’io credo così.
— Buona notte, signore.
— Buona notte, Dick. —
E in un impeto di gioia e di riconoscenza, Roberto Alimena strinse la mano all’agente di polizia. Costui sorrise e partì. Suonavano le tre, di quella notte d’inverno. Incapace di dormire, Roberto si fece del tè e si mise a fumare; e sognò a occhi aperti tutto il resto della notte.

. . . . . . . . . . . . . . .

Roberto Alimena si svegliò tardi, dopo essersi addormentato, verso l’alba, di un sonno prima nervosissimo, poi pesante e plumbeo. Egli, risvegliandosi, quasi quasi non si raccapezzava; poi, quando si ricordò tutto, balzò dal letto, come se una forte voce interna lo avesse scosso. Era quella la giornata in cui si sarebbe decisa la sorte di Maria, la sua, quella di Marcus Henner. Quella? E se Maria non si affidava a lui? Se Lewis, il maggiordomo, non voleva aiutarli? Se Marcus, già sospettoso, già diffidente, scopriva qualche cosa?
— Morirò, ma salverò Maria! — era questo il ritornello che fremeva nell’anima del giovane gentiluomo italiano.
Il cameriere dell’albergo entrò e gli portò la posta. Erano lettere dall’Italia che gli venivano respinte da Parigi, dove erano restate ferme un paio di giorni. Era una lettera del suo vecchio servo fedele, da Milano, che gli diceva aver avuto la casa un’aggressione di ladri, i quali avevano rovistato dappertutto e, forse perchè disturbati da qualche rumore avevano finito per non portare via nulla. L’aggressione era accaduta in una momentanea assenza del vecchio servo e di sua moglie.
— È Marcus Henner che cerca la mano di Maria, — disse fra sè Roberto che, oramai, intendeva tutte le infamie dell’orribile gobbo.
Un’altra lettera, un po’ più lunga, era dell’avvocato di Roberto Alimena, un grande avvocato napoletano, molto famoso per le sue brillanti difese e che egli aveva scelto per suo difensore, nell’accusa di omicidio che pesava su lui. L’avvocato, Mario Miranda, gli dava notizie buone e cattive del processo: la contessa Clara Loredana insisteva fieramente e freddamente nell’accusa, ma la deposizione di Ranieri Lambertini, completamente scolpante il conte Alimena, era di una grande importanza; anche il resto del discarico si poteva dire esauriente. Ma, ad ogni modo, il processo si sarebbe dovuto fare, e l’interessante era che Roberto Alimena non fosse rinviato alla Corte di Assise, perchè, allora, si sarebbe dovuto costituire in carcere.
E l’avvocato Mario Miranda insisteva perchè si facesse un contro-processo, perchè si cercasse chi era l’assassino, il vero assassino!
— Non me ne importa niente, — pensò fra sè Roberto Alimena, arrivato a questo punto della lettera del suo avvocato.
Mario Miranda continuava, dicendo che, in fin dei fini, si poteva tentare di mettere a dormire il processo, poichè nessuno pareva facesse soverchie premure per farlo andare avanti. A ogni modo, rimanesse all’estero, Roberto Alimena, non si muovesse da Parigi, da Londra e, magari, andasse più lontano ancora.
— Se Maria vuole, ce ne andremo in America, — pensò Alimena.
Ma pensò anche, che se la misteriosa donna per cui egli ardeva di un amore tanto fantastico avesse voluto ritornare in Italia, egli ci sarebbe ritornato subito, anche a rischio di farsi arrestare.
Il pacco delle lettere d’Italia ne conteneva anche un’altra, lunga e affettuosa, di Ranieri Lambertini, che gli scriveva da Perugia, da un suo castello dove si era ritirato a passare il tempo della sua convalescenza. Egli narrava tutta la sua tristezza al suo amico, giacchè egli aveva perduto la sua donna, la sua cara fanciulla adorata, la sua diletta. E, ad ogni tre o quattro righe, scoppiava il grido di dolore dell’anima innamorata:
— Rachele, Rachele, io debbo ritrovare Rachele! —
Un lampo di luce rischiarò il cervello confuso di Roberto Alimena: quel nome di Rachele fu il filo conduttore di quella scossa elettrica. Rachele! Rachele! Non era, forse, quello il nome che ella invocava nelle sue lunghe ore di solitudine e di dolore, non era forse quello a cui ella dirigeva quelle lunghe lettere che non giungevano mai al loro indirizzo? Rachele, la figlia di Maria! E così si spiegava la duplice persecuzione di Marcus Henner a lui e a Ranieri Lambertini, così si spiegava come essi lo avessero per comune nemico, così si spiegava tutto! Ma dove era Rachele? Fuggita, perduta, morta? Dove? Dove? Ranieri Lambertini la cercava: e, forse, persino Marcus Henner, il terribile, la cercava! Dove? Morta, Rachele, forse?
In questo assorbimento di pensieri, in cui la sua anima faceva i più grandi passi verso la verità, in cui il segreto del gobbo dagli occhi verdi gli cominciava a esser palese, Roberto Alimena compì tutte le azioni consigliategli da Dick Leslie, con esattezza matematica, liquidò il suo denaro, pagò il suo conto, preparò il suo bagaglio e vi unì quello femminile, tutto ciò che può essere necessario a una donna, in viaggio: della roba fine ed elegante, che egli scelse con cura speciale, come può fare un innamorato. Verso le tre pomeridiane, mentre egli si metteva a scrivere in Italia, per ingannare il tempo, ricevette il seguente biglietto scritto a lapis, da Dick Leslie:

«Il yacht-steam col nome Gladys è a vostra disposizione, da questo momento, nel piccolo porto Saint-Jacques, presso il molo dello stesso nome, ad oriente di Broadway; lo riconoscerete alla sua carena bianca e verde e perchè il capitano è piccolo, tarchiato, fulvo di capelli. Gli direte: Maria. Vi risponderà: Rachele. E non vi chiederà altro. Salperete dopo mezz’ora, avendo, da oggi, accesi i fuochi per partire. Il Gladys può portarvi subito a New York, a Liverpool: ma vi consiglierei di fare una crociera stravagante, per ingannare il vostro nemico. Camminate con lentezza ed a zigzag, magari andatevene a Whight, per pochi giorni; è un paese d’innamorati, e Marcus Henner non vi cercherà mai colà. Imparate a memoria questa lettera e laceratela. Vi scriverò più tardi. Allright!
Dick.»
Egli avrebbe voluto uscire immediatamente, Roberto Alimena, per accertarsi del posto dove il yacht avrebbe aspettato la coppia de’ fuggenti, per vedere questo benedetto battello, dove avrebbe potuto imbarcarsi con Maria, subito che questa poveretta fosse uscita dalla fatale casa di Broadway. Ma l’idea che Dick Leslie gli avrebbe scritta un’altra lettera, lo trattenne in casa.
Veramente, quel giro di ore così lento gli parve insopportabile, sempre più, come la sera si avvicinava, simile al viaggiatore impaziente, che maledice soprattutto l’ultim’ora del suo viaggio, tanto più che le sue speranze venivano man mano diminuendo e tutto il suo edificio ideale crollava. E se Maria non avesse consentito a fuggire? Se si fosse offesa di quella inaspettata, impensata lettera d’amore, venuta a disturbare il fervido misticismo del suo spirito? Se Maria non avesse creduto alla sua promessa di farle ritrovare la figliuola, supponendovi dentro un tranello? E se ella, suggestionata, ipnotizzata da Marcus Henner, non fosse più padrona della propria volontà? Che ne sapeva lui? Tutto era mistero, intorno a quella bianca e nebulosa figura di donna, tutto si avvolgeva nell’ombra in quella casa dove dominava il cattivo genio che si chiamava Marcus Henner. E se costui, così implacabile carceriere, che da quindici anni teneva serrata questa donna, senza lasciarla fuggire, senza lasciarsela rapire, avendo sventato i due complotti; se costui fosse già in sospetto di qualche cosa? Se John fosse un traditore? Se fosse un traditore Lewis, il maggiordomo? Se tutti tradissero, anche Dick Leslie? La solitudine, la sua vivace immaginazione, l’esaltazione del suo spirito, tutto creava in lui un pessimismo esagerato; e venne un momento in cui credette disperata l’impresa a cui si era accinto. Ma, mentre attraversava questa ora di abbattimento, fu bussato alla porta: e il cameriere entrò, portando una carta sopra un vassoio. Roberto Alimena la prese convulsamente, credendo si trattasse del secondo biglietto che Dick Leslie aveva annunciato; ma non era un biglietto, era invece un telegramma chiuso in una busta da lettera, e che il suo albergatore da Parigi gli respingeva puntualmente. Il telegramma risaliva a due giorni prima, era datato da Napoli, era firmato da Ranieri Lambertini, e conteneva queste parole:

«Conte Roberto Alimena
Parigi, Grand Hôtel.

Ho ritrovato Rachele! A qualunque costo, scongiuroti ritornare Italia, venire Napoli immediatamente. Faccio appello tuo amor fraterno. Telegrafami Napoli Grand Hôtel. Massima ansietà!
Ranieri Lambertini.»

Questo telegramma immerse Roberto Alimena in uno stupore profondo. Quella fanciulla che pareva perduta, per sempre, per l’amico suo, malata, infelice, chiusa in un chiostro, morta, forse, era stata ritrovata. Certo, non poteva vivere senza lei! E questa fanciulla portava il nome di Rachele, proprio quello che la poverissima carcerata di Marcus Henner pronunziava sempre, invocando la figliuola da cui era divisa da quindici anni! E se fosse la stessa persona? Se la Rachele di Ranieri Lambertini fosse la Rachele di Maria? Non avevagli sempre parlato, Ranieri, che il suo amore fosse perseguitato da un uomo, da un potere occulto, come quello che perseguitava Roberto Alimena dal giorno in cui aveva trovato nel treno di Roma la mano tagliata? Non erano restati d’accordo, colpiti dall’evidenza dei fatti, che doveva essere il medesimo nome? Non avevano corso gli stessi pericoli insieme? Non aveva tentato, Marcus Henner, di farli cadere nei medesimi trabocchetti, e infine uno era riuscito, giacchè Ranieri Lambertini era stato mortalmente ferito e Roberto Alimena accusato di essere l’assassino? Un grandissimo tumulto era nato, adesso, nello spirito del giovane gentiluomo, e mille pensieri, mille decisioni facevano chiasso nella sua testa: tre o quattro volte cominciò dei lunghi telegrammi, diretti al conte Lambertini al Grand Hôtel di Napoli, volendogli spiegare tutto, che era dietro le tracce di Marcus Henner, alla vigilia della loro vendetta, che aveva ritrovata la madre di Rachele, che, forse, la notte seguente avrebbero potuto fuggire insieme e trasportarsi a Napoli, se non immediatamente, almeno al più presto. Ma lacerò, man mano tutti quei telegrammi che gli parvero imprudenti e che Ranieri non avrebbe potuto intendere. E se Rachele non fosse figliuola di Maria? Se Maria fosse una pazza qualunque? Se fosse una semplice malata che Marcus Henner aveva intrapreso di curare? Tutto era possibile in mezzo a quel buio, a quel mistero, tutto pieno di perigli, di paure. Roberto istesso, che la mattina era così innamorato e baldanzoso, adesso era tutto sconvolto e dubbioso; la stessa cosa grave che Ranieri gli aveva telegrafato da Napoli, era giunta per iscombussolare maggiormente i suoi nervi. Però, una qualche risposta a Ranieri egli la doveva dare, tanto più che il telegramma era in ritardo di due giorni, ed allora dopo molta elaborazione, giacchè il suo cervello era stanco, scrisse questo telegramma:
«Conte Ranieri Lambertini
Grand Hôtel, Napoli. Italia.

Sono qui, telegramma giunsemi ritardo. Notizia sorprendimi assai, ma ne gioisco, non posso dirti se parto subito, mia decisione dipende fatto grave, impossibile dirti altro telegraficamente. Aspetto altro dispaccio, stanotte. Conta mio cuore fraterno. Abbraccioti.
Roberto.»

E lo spedì al telegrafo. Non è a dire che subito non si pentisse di quello che aveva fatto. L’incubo sotto cui viveva, da quel tempo, il conte Roberto Alimena, gli faceva vedere trasformati in complici di Marcus Henner persino i camerieri dell’Albergo Piccadilly e gli impiegati telegrafici di Londra. Ma era andato adesso. E poi, la prudenza dev’essere giustamente mescolata all’audacia, in queste imprese così fantastiche.
Il secondo biglietto di Dick Leslie arrivò al conte Roberto Alimena verso le otto di sera, quando il giovane gentiluomo lombardo era ancora tutto preoccupato del telegramma ricevuto da Ranieri Lambertini e preoccupato soprattutto della risposta, che egli aveva dovuto fargli. Il detective scriveva così ad Alimena:

«Caro signore, dalle otto di questa sera, una carrozza a due cavalli chiusa, aspetterà all’angolo di Chester Road, sino alle otto di domani mattina. Il cocchiere si chiama Tom; basterà che saliate nella carrozza, dicendogli il motto di passo: Rachele. Egli vi risponderà: Maria.
Questa carrozza vi condurrà direttamente a Brighton, dove troverete altri due cavalli, all’Albergo della Posta; l’albergatore è avvertito. Di là proseguirete per la via che meglio vi piacerà, sino a una prossima stazione ferroviaria, consigliandovi a scegliere un piccolo paese, dove nessuno possa pensare che voi possiate fermarvici. Scegliete a caso nell’orario delle ferrovie, che vi accludo. Vi accludo anche un piano di Broadway, con le sue vie adiacenti e con la spiaggia, dove potrete trovare il yacht se volete partire per mare, con la via Chester Road se volete partire per terra. Il puntino rosso segna in Chester Road, il posto dove si trova la carrozza che vi aspetterà, per condurvi a Brighton; il puntino azzurro, sulla stessa carta segna il posto dell’ancoraggio dello yacht.
Prego di studiare lungamente il piano topografico, che vi accludo, ed il relativo orario, giacchè tutto può dipendere da ciò, tanto più che questo studio calmerà singolarmente i vostri nervi, che debbono essere a quest’ora molto esaltati.
Del resto, verrò da voi verso le undici, perchè sapete che a quell’ora abbiamo il convegno con John e Lewis. A rivederci presto.
Dick Leslie.»

Questo studio difatti ebbe il potere di placare i nervi del conte Alimena, e magari anche di deprimerli un poco. L’impresa, che andava a tentare, gli pareva adesso, così bizzarra e così fantastica, che la vedeva allontanarsi nelle nuvole dell’impossibile. Oramai il dado era tratto: fra due ore, egli avrebbe sentito dalla bocca de’ servi di Marcus Henner, la risoluzione di un problema singolarmente grave in cui egli avrebbe potuto giocare da un minuto all’altro la sua esistenza. Come mai era possibile che lui, Roberto Alimena, il gentiluomo più spensierato e più scettico che vivesse nella società più aristocratica italiana si fosse imbarcato in un romanzo così tetro, e così caliginoso, egli che neppure non leggeva più romanzi? Pensava che il più piccolo dettaglio poteva far mancare la soluzione di questo romanzo, e procurargli la morte, nella notte istessa! Però, in questo raffreddamento della sua esaltazione, egli trovò la forza di subire quietamente tutte le conseguenze dell’intrigo, in cui si era posto così imprudentemente. Co’ nervi calmi, con lo spirito omai tranquillo, egli pensò:
— L’ho voluto, così sia. —
E come se il terribile impiccio in cui si trovava non lo riguardasse più, egli si fissò bene in mente il piano topografico e l’orario speditogli da Dick Leslie; scrisse tre lettere brevi, una a Ranieri Lambertini a Napoli al Grand Hôtel, una al suo notaio ed uomo d’affari a Milano, e una terza al segretario dell’ambasciata italiana a Londra. Tutte e tre le lettere erano quelle di un uomo che va alla morte: la prima a Ranieri Lambertini, gli diceva che egli era vittima di Marcus Henner, che aveva incontrato la morte per salvare Maria, la madre di Rachele e che gli legava la sua vendetta. La seconda, al suo notaio, conteneva un breve testamento in favore di molte opere pie e di alcuni suoi cugini, i soli parenti che gli restassero. La terza, all’ambasciata italiana, dichiarava che essendosi posto in un grave intrigo, egli ci lasciava la vita, e additava Marcus Henner come il suo uccisore.
Queste tre lettere, egli le mise nel cassetto della sua scrivania, e lo lasciò aperto. Si sentì, dopo averle scritte, gelido e risoluto. In fondo gli mancava qualunque entusiasmo: ma aveva, in cambio, una volontà ferma di compire l’opera sua, da che vi si era posto.
Aveva troppo sognato e fantasticato in quei due giorni perchè non si fosse in lui inaridita la vena de’sogni. Si guardò bene attorno, e vide che le raccomandazioni di Dick Leslie erano state tutte eseguite con precisione.
Egli aveva riunito il piccolo corredo da donna, per Maria, aveva chiuso le sue valigie, aveva ritirato il suo denaro dal banchiere, ed avrebbe pagato il conto all’albergo.
Tutta la sua posizione era liquidata! e con la cera di un uomo contento di sè, ma non lieto, egli si sdraiò sopra una poltrona, e si mise a fumare una sigaretta nella più profonda indifferenza. Suonavano le dieci e tre quarti, quando fu bussato alla porta della stanza e Dick Leslie entrò. L’agente di polizia squadrò prima Roberto Alimena ed ebbe un piccolo moto di meraviglia che represse subito.
— Tutto è pronto? — disse il detective.
— Sì, — rispose freddamente Roberto Alimena.
— Andiamo allora?
— Andiamo, — disse gelidamente Roberto Alimena.
E insieme partirono in silenzio, per la terribile avventura che li aspettava.