VI. Il segreto di Marcus Henner

La fine di marzo empiva di fiori i colli napoletani, quando, in un mattino già tiepido, il cameriere dell’albergo bussò alla porta di Ranieri Lambertini, e gli annunziò che un signore in sala di lettura chiedeva di parlargli.
— Chi è questo signore? — domandò il conte, che, dal giorno in cui era stato mortalmente ferito, era sempre diffidente.
— Non ha voluto dirmi il suo nome.
— Glielo avete chiesto?
— Sì, Eccellenza.
— E non ha voluto dirvelo?
— Ha detto: il mio nome non direbbe nulla al conte Ranieri Lambertini, è inutile che io gli mandi la carta da visita.
— E allora gli direte che io non posso riceverlo. —
Il cameriere sparve per poco, ma, dopo qualche minuto, ritornò, dichiarando:
— Quel signore insiste per esser ricevuto.
— Gli avete detto che, non conoscendolo, non posso riceverlo?
— Sì. Ha soggiunto: ditegli che vengo da parte del conte Roberto Alimena.
— Ah! — fece Ranieri, diventando pensoso; poi, riprese, rivolgendosi al cameriere, che aspettava immobile: — Che uomo è costui?
— Decentemente vestito, Eccellenza, quasi con eleganza.
— Di che età?
— Di mezza età.
— Italiano?
— No, Eccellenza, inglese.
— Inglese? ne siete certo?
— Certissimo, Eccellenza: ne abbiamo qui troppa pratica.
— Sta bene: domandategli se ha per me un biglietto di presentazione. —
Di nuovo il cameriere uscì e ritornò con una busta, dentro cui Ranieri Lambertini trovò questo semplice biglietto:
«Caro Ranieri,
L’uomo che ti porterà questo biglietto, si chiama Riccardo Leslie, o meglio Dick Leslie. Egli è apportatore per te di notizie importantissime, ed ha fatto appositamente questo viaggio, per ritrovarti. Ti deve anche consegnare dei documenti da mia parte. Ricevilo, come se ricevessi me.
Roberto Alimena.»
— Va bene, — disse il conte Ranieri Lambertini. — Dite a questo signore, che lo raggiungo subito in sala di lettura. —
Però, prima di uscire dalla sua stanza, Ranieri Lambertini cercò altre lettere di Roberto Alimena, per paragonare la calligrafia; era identica. Malgrado questa novella prova contro i suoi sospetti, il Lambertini prese una piccola rivoltella, fine come un gioiello, e se la mise in tasca. Poi, uscì dalla stanza.
Il detective Dick Leslie lo aspettava nella vasta sala di lettura del Grand Hôtel, fumando una sigaretta. In quel momento, nella sala, non vi era nessuno, l’agente di polizia aveva sempre la sua aria giovialona di inglese, dotato del massimo buon umore britannico, ma gli occhi avevano quel lampo di malizia che lo indicava come un personaggio non comune.
Il conte Ranieri Lambertini gli si avvicinò molto corretto, ma senza nessuna cordialità, e lo salutò. Poi, sedendosi ed accennandogli una poltrona a dondolo, gli disse;
— Scusate, o signore, se ho fatto delle difficoltà per ricevervi. Non amo, in generale, le persone nuove.
— Avete ragione, — rispose, anche freddamente, Dick Leslie — ma io esitava a consegnare il biglietto del conte Alimena a un cameriere d’albergo. Anche io sono sospettoso.
— Volete, ora, dirmi di che si tratta? — domandò Ranieri Lambertini, senza uscire dal suo riserbo.
— Qui, signore, non posso.
— Non vi è nessuno.
— Non importa; qui non parlerò.
— Si tratta veramente di cose gravissime?
— Sì, o signore, di cose gravissime.
— La vita di Roberto Alimena non è in pericolo? — chiese Ranieri che, per la sua insistente diffidenza, non voleva chiudersi in una stanza con questo sconosciuto.
Non poteva egli avere estorto il biglietto al povero Roberto?
— Non posso dirvi nulla, signore, — disse Dick Leslie, inchinandosi freddamente.
— Andiamo, allora, — mormorò Ranieri che si decise a un tratto.
Se costui era un assassino mandato da Marcus Henner, egli avrebbe venduto caramente la sua vita. Non voleva morire, ancora. La malattia di Rachele Cabib, in monastero, attraversava adesso un periodo di miglioramento, mentre era stata violentissima, e la convalescenza si annunziava vicina, tanta era stata la forza della gioventù di Rachele, contro la febbre cerebrale. Intanto, non si parlava, per ora, di monacazione: e Ranieri Lambertini viveva così, con una tenue ma costante speranza. Non voleva morire: ed entrando nella sua stanza, ne lasciò la porta socchiusa.
— Piacciavi chiudere, ve ne prego, signore, — replicò Dick che pareva quasi facesse apposta a insospettire il conte.
— Ecco, — disse costui, serrando la porta con la chiave e mettendosi la chiave in tasca.
— Benissimo, signor conte. Veggo che non mi credete più un malfattore. Eppure, vi avevo portato una lettera del vostro amico! — soggiunse, con un lieve sorriso ironico, il detective.
— La prudenza non è mai troppa, — mormorò tra i denti Ranieri.
— È vero. Mi permettete di parlare?
— Ve lo chiedo, anzi.
— Sapete che il signor conte Roberto Alimena era venuto a Londra con una segreta intenzione?
— Lo so: Alimena è il mio migliore amico.
— Egli voleva ritrovare la donna dalla mano tagliata, quella bella mano capitatagli così misteriosamente in possesso.
— Lo so.
— Non fidando in sè stesso, egli si diresse a un suo amico dell’ambasciata, e costui lo condusse dal direttore della polizia.
— Ah! — fece Ranieri, squadrando Leslie.
— Il direttore della polizia gli indicò il solo uomo capace di rintracciare la donna dalla mano tagliata, l’agente di polizia destinato agli affari privati, cioè alle grandi ricerche di famiglia, eredità, testamenti, figli naturali, un agente di polizia di prim’ordine, che ha già fatto una fortuna in questi servizi.
— Ah! — ripetè Ranieri, sempre guardando il suo interlocutore.
— Per fortuna, in quel momento, l’uomo era libero e si mise tutto quanto a disposizione del conte Alimena.
— Chi era costui?
— Io, signore.
— Voi? Voi siete agente di polizia?
— Indegnamente, signore. La polizia è una gran cosa, e l’uomo è un essere limitato.
— Un detective, è vero? Così si dice?
— Così, appunto. Io sono il detective Dick Leslie, senza il quale il conte Roberto Alimena non avrebbe ritrovato, nè la donna dalla mano tagliata, nè il dottor Marcus Henner.
— Egli ha trovato Marcus Henner? Il nostro nemico? Il nostro assassino? L’infame che mi ha tolto Rachele Cabib? — gridò Ranieri.
— Sì, o signore.
— Voi lo avete trovato?
— Io, io solo.
— Voi siete un nostro benefattore!
— Non mi è costato molto, questo, — disse con un sorriso modesto e bonario l’agente di polizia, contento che Ranieri Lambertini avesse smesso la sua diffidenza.
— Ebbene?
— Quello che mi è più costato, è il ritrovare la donna dalla mano tagliata.
— Era con Marcus Henner, è vero?
— Sì.
— Lo avevo indovinato! Ma, ditemi tutto, raccontatemi tutto.
— Io non posso dirvi tutto, — rispose Leslie Dick, crollando il capo.
— Non sapete?
— So. Tutto è accaduto, fortunatamente e sciaguratamente, sotto i miei occhi.
— Sciaguratamente? Come? Ma è vivo, Roberto?
— Sì; ma forse avrebbe preferito morire, lui.
— Non intendo!
— Le nostre avventure sono state liete e tristi, signore. Vuol dire che così era destinato. Io non amo la Turchia, nè i turchi, signore, ma sono di accordo con loro per il fatalismo.
— Oh! signor Leslie, ditemi tutto.
— L’istoria sarebbe troppo lunga, e io non ve la saprei raccontare. Vi ho portato, invece, queste carte.
— Scritte da chi?
— Da tre persone.
— Da tre?
— Dal conte Roberto Alimena, da Marcus Henner e da Maria Cabib.
— Maria Cabib? Maria Cabib? Chi è costei? — gridò Ranieri Lambertini, alzandosi.
— La madre di Rachele Cabib, — disse quietamente Dick Leslie.
— La madre? Roberto ha ritrovato la madre della mia Rachele? Non mi ha telegrafato? Non mi ha scritto?
— Vi ha scritto, come vi ho detto.
— Date, — disse Ranieri.
— Debbo io consegnarvelo subito?
— Subitissimo.
— Vostra Signoria è disposta ad apprendere le cose più strane e più dolorose?
— Sono disposto, — disse Ranieri, turbato ed esaltato.
— Cose che muteranno anche la vostra vita, signore?
— La mia vita?
— Sì.
— Sono disposto. Sono un uomo.
— Guarito, è vero?
— Guarito, forte.
— Ebbene. Ecco. —
E Dick Leslie cavò da una tasca interna, un portafoglio così grosso che gli gonfiava il petto, e dal portafoglio tre plichi suggellati di nero, molto voluminosi, tutti e tre.
— Di nero, di nero? ma Roberto è morto? — chiese di nuovo affannosamente Ranieri.
— No, signore, vive. —
E gli consegnò nelle mani i tre plichi
Guardando le tre lettere, Ranieri Lambertini ebbe ancora un lungo minuto d’incertezza: gli parve di trovarsi innanzi alla soluzione ultima della sua vita. E, fissando in volto, ansiosamente, Dick Leslie, vide che il volto bonario e ridente era diventato serio e pensoso. Non osando decidersi da sè, gli disse:
— Quale delle tre lettere, credete che io debba leggere prima?
— La terza, diretta a Rachele Cabib, voi non potete aprirla: la seconda, quella di Marcus Henner, serve per completare quella del conte Roberto Alimena. È questa che dovete leggere per la prima.
— Sta bene. —
Difatti, Ranieri lacerò nervosamente la busta su cui si allineava la scrittura fine ed elegante di Alimena, la busta conteneva un manipolo di fogli leggieri di quella carta velina che adoperano gl’inglesi quando vogliono scrivere molto. I foglietti erano fittamente coperti di caratteri che Ranieri avrebbe voluto divorare con lo sguardo, mentre un tremolìo nervoso seguitava a scuoterlo tutto. Ecco la lettera di Roberto Alimena:

«Cowes, isola di Wight, 25 marzo.

Mio amico,
Mentre vi scrivo, il grande piroscafo Dundee ancora posa qui innanzi, nel porto. Domani, a questa medesima ora, il Dundee imbarcherà il conte Roberto Alimena e lo porterà in America, non in quel Sud America dove s’incontrano troppi italiani, ma nel Nord America, dove se ne incontrano pochi. Io fuggo la mia patria e l’Europa: non vi ritornerò che fra vari anni e forse mai più. Forse non ci rivedremo più, amico mio! Nel breve tempo della nostra amicizia, io ho appreso ad amarvi come un fratello, e, singolarmente, il nostro destino si è legato insieme, tanto che la gente ha potuto credermi il vostro assassino! Amico mio, sapete che questo non è vero, lo sapete e lo avete detto; sapete anche che vi voglio bene, che ve ne vorrò dovunque io vada, e fino all’ultimo giorno della mia vita. Morirò io presto! Lo spero. Sarei incapace di suicidarmi, perchè mi sembra una cosa sciocca e vile; ma anelo al momento in cui il Signore mi richiamerà a sè. In questo anno di vita ho talmente sofferto e talmente goduto, anche, che mi pare di avere vissuto almeno cento anni. Non volendo uccidermi, fuggo il mio paese, fuggo l’Europa, per non vedere più nessuno che mi ricordi la mia vita anteriore, per non sapere più nulla. Forse, non ci rivedremo mai più.
Ma io debbo a voi, amico, il racconto esatto di quello che mi è accaduto, in questo ultimo periodo, cioè in tutta la mia dimora in Inghilterra; ve lo debbo, non solo come ad un amico, ma perchè tutto questo chiarirà il fosco nostro passato e vi darà sicurezza e baldanza per l’avvenire. Ahimè! tutto ciò che ancora può rendervi felice, per me è finito, così.
Questo racconto, mio caro Ranieri, servirà anche a fissare il mio spirito, a calmarlo un poco, a dargli un po’ di pace. Credete, non sono un nevrotico, nè un essere che si pasce di amori fantastici, che corre dietro alle larve, come a qualcuno sarà piaciuto d’indicarmi. Lo scopo che io sognavo, l’ho raggiunto, e la donna che io amava, esisteva, Ranieri, ed era così bella e così degna di essere amata!
Ma è meglio narrare. Vi rammentate che io mi ero messo in viaggio, per cercare la donna dalla mano tagliata e, cercando lei, cercavo il suo persecutore, il suo carnefice che era anche il nostro carnefice. Ventura volle che, appena fossi giunto in Londra, io trovassi come aiuto e come sussidio, questo buon Riccardo Leslie, il detective geniale, l’uomo onesto e intelligente che vi porta queste lettere, l’unico amico che io abbia trovato qui. Debbo a lui la risoluzione del più grande affare della mia vita, e se tutto è finito tragicamente, non è sua colpa. Così era destinato. È la consolazione dei disperati questo motto, e io sono un disperato.
Fin dalla prima visita di Dick Leslie, io compresi che ero sulla buona traccia e che costui mi avrebbe portato sino alla donna dalla mano tagliata ed a Marcus Henner. L’impresa era ardua, ma l’ingegno e il coraggio di questo inglese non mi hanno abbandonato mai un momento. Sapemmo che questo Marcus Henner, un ebreo, un medico ipnotizzatore, viveva in una casa di Charing-Coves, esercitando pubblicamente la sua professione, ma conducendo, dall’altra parte, un’esistenza misteriosa e oscurissima; sapemmo che egli deteneva in casa una donna, quasi come una prigioniera; sapemmo che egli teneva notturnamente conciliaboli con gente sconosciuta e che su tutta la sua vita si distendeva una grande ombra. In breve, dovetti convincermi che la donna era quella che noi vedemmo con lui, a Roma; la stessa di Londra; seppi che si chiamava Maria, che non era più giovane e che aveva una figliuola.
L’interessante, per me, era di sapere se costei era la donna dalla mano tagliata! Ma non mi riescì di conoscerlo: più tardi, solo molto tardi, seppi la verità su questo. Quale orribile mistero, amico mio, e che istoria atroce e raccapricciante! Ma io faccio troppe disgressioni, forse? Che volete, non mi riesce di raccontare l’istoria nuda e semplice, troppo della mia vita ci sta dentro! Io tenterò, in seguito, di non divagare; ma se lo farò, voi me lo perdonerete, è vero? Se sapeste quello che io soffro in questo momento e come guardo, con occhi velati di pianto, il Dundee che mi porterà in America!
Carissimo Ranieri, io non mi sono fatto nessuna illusione sulla riuscita dell’impresa che ero venuto a compiere a Londra; ma dopo aver conosciuto ed aver parlato con Dick Leslie, fui tanto incoraggiato dalla sua sveltezza, dal suo talento, dal suo coraggio, che mi arrischiai nella più singolare avventura della mia vita, senza esitare. E posso dire che debbo a lui il mese più dolce, più soave e più terribile della mia vita. Ma non precipitiamo gli avvenimenti.
«Contemporaneamente al mio arrivo qui, una lettera del professore Silvio Amati mi giungeva, dicendomi che l’inventore di un liquido per conservare i corpi come se fossero vivi, era un dottore ebreo e tedesco, un tale Marcus Henner, che era anche un ipnotizzatore, e che, in quel momento, si trovava a Londra. Questo fu il primo indizio, giacchè dalla bellissima mano, che ha così dominato il mio destino da un anno a questa parte, il mio amico Silvio Amati aveva estratto una goccia di liquido, e l’aveva analizzato, riconoscendo i principî di un preparato sconosciuto, ma di cui aveva inteso parlare qualche volta. Così si veniva ad accertare che quella mano apparteneva a Marcus Henner, e che, trovando lui, avrei ritrovato la donna dalla mano tagliata, o almeno le tracce di lei.
Come vedi, era la mia sorte che mi aveva condotto direttamente a Londra, proprio nel paese dove il mostro si trovava allora, ed anche a poca distanza dal mio Albergo Piccadilly, in Charing Cross. Il secondo indizio mi fu dato da Dick Leslie, il quale mi dichiarò anche l’indirizzo di Marcus Henner, e mi disse quel che ti ho già detto, cioè che presso lui era ricettata misteriosamente una donna che egli non lasciava vedere a nessuno.
Ti confesserò, che la mia fiducia in Dick Leslie fu così immediata, che io non potetti nascondergli il prezioso deposito che tenevo presso me, cioè la mano tagliata. Ma, purtroppo, egli che sapeva tante cose, non seppe dirmi se la donna che abitava come una carcerata in casa di Marcus Henner, avesse o no una mano tagliata!
Basta. Nel giorno seguente, alle prime indagini fatte da Dick Leslie, costui venne a dirmi delle notizie assai precise ed assai importanti, vale a dire che la donna che era presso Marcus Henner, si chiamava Maria; che aveva trentotto anni; che era una cristiana, piissima e fervente; che non pareva moglie nè amante di Marcus Henner; che aveva una figlia lontana; che viveva colà come reclusa; e due o tre volte aveva tentato evadere senza che la sua fuga le fosse riuscita. Il più interessante di tutto era questo, che un servo, John, molto fedele a Marcus Henner, ma impietosito dello stato della povera prigioniera, avrebbe volentieri prestato mano all’evasione. Vidi la sera questo servo, in una taverna di ladri: ma che non avrei fatto per avere Maria e per punire Marcus Henner? Egli mi confermò tutto quello che mi aveva detto Dick Leslie, ma mi disse anche che senza l’aiuto di Lewis, il maggiordomo ed il factotum di Marcus Henner, era impossibile pensare ad una fuga di Maria, la prigioniera. Però, anche questo Lewis era singolarmente affezionato alla infelicissima donna e disposto a salvarla da una schiavitù, in cui quella poveretta consumava gli ultimi anni della sua giovinezza. D’altronde, la cosa era molto difficile, molto grave, perchè quell’uomo dominava tutti quanti col potere che a quella gente volgare pareva supremo e tenebroso.
Però, il servo John mi promise che avrei veduto la sera susseguente il maggiordomo Lewis in istrada, in un convegno sicuro, dove Marcus Henner, sempre sospettoso e sempre diffidente, non avrebbe potuto sorprenderci. Nella giornata, sentendo che qualche cosa di molto grave e forse di tragico mi si preparava, io aveva preso tutte le mie disposizioni, come se dovessi morire, e ti avevo anche scritto una lettera, che ho poi distrutta, perchè era inutile. Dick Leslie neppure mi aveva nascosto che noi combattevamo una estrema battaglia, in cui potevamo benissimo perdere anche la vita, giacchè avevamo un avversario che non scherzava. Infine, io aveva fatto i miei preparativi, come se fossi in punto di morte. Puoi immaginarti che cosa fosse la mia giornata, chiuso in un albergo, aspettando l’ora delle undici, in cui il Lewis sarebbe venuto all’appuntamento. Credo di non aver mai passata una giornata più inquieta, più agitata e più sconvolgente di quella. Il Dick Leslie aveva preparato, nel caso che una fuga fosse stata possibile, una carrozza di posta, in una viuzza poco lontana da Charing Cross; e nelle acque del Tamigi un yacht ci aspettava, nel caso noi avessimo voluto prendere la via del mare, il che poteva essere più utile della via di terra. Anche lo yacht era ancorato presso un ponte, non lontanissimo dalla casa dello scellerato dottore, affinchè se Maria fosse potuta fuggire, non avesse dovuto fare molta strada, per salire in carrozza o per imbarcarsi. Tutto ciò costava del denaro, ma a me importava ben poco, giacchè avevo liquidato una forte somma di contanti; e a che mi sarebbe servita la mia ricchezza se non avessi speso tutto quel che si doveva per raggiungere il mio scopo?
Però, quando furono venute le undici della sera, il maggiordomo Lewis mancò all’appuntamento. Noi lo aspettammo, cioè Dick Leslie ed io, fino a mezzanotte, andando su e giù in una strada deserta, in una notte freddissima di Londra, mentre io avvampavo d’impazienza e d’ira; egli non venne.
Ma, alle dodici e mezza, quando non avevamo più nessuna speranza di vedere nessuno, e anzi temevamo un qualche agguato, giunse John, il servo, il quale ci dichiarò che, per quanto avesse pregato l’alter ego di Marcus Henner, egli non aveva voluto venire al convegno, perchè temeva troppo del suo padrone. Ci soggiunse, però, che il Lewis era fermamente intenzionato di favorire la fuga della signora Maria, purchè gli fosse garentita una certa impunità e gli fosse anche assicurata una certa somma, che gli permettesse di passare in America, insieme a John, per evitare la collera tremenda di Marcus Henner. Sulle prime, questo risultato mi parve sospetto e continuai a temere un tranello da parte di quell’uomo terribile che ha potuto mettere voi in fine di vita e condurre me sullo sgabello dei rei; ma il Leslie fu più fiducioso di me.
Mi disse di promettere formalmente la somma richiesta e di affidarmi ai due servi.
Per precauzione, nè io, nè Dick Leslie avevamo detto il mio indirizzo di Piccadilly a John, il servo di Marcus Henner; e ce ne andammo via, molto malinconicamente, giacchè, malgrado la fiducia di Leslie, io era desolato della mancanza di Lewis, che mi pareva tenere la chiave di quella situazione. Vi assicuro, amico mio, che, in quella notte, io caddi in un abbattimento profondo e temetti che mai più, mai più, io avrei potuto liberare Maria, la schiava, e punire quell’atroce Marcus Henner.
Però, nel mattino seguente, venne Leslie ad avvertirmi che una circostanza favorevole si dava per noi: cioè che Marcus Henner doveva partire per un viaggio, breve, sì, ma sempre di tre o quattro giorni, per Dublino. Era chiamato colà, pare, misteriosamente, da una gran signora molto malata e che ricorreva alla sua scienza ipnotica, non trovando più alcun refrigerio ai suoi mali nelle medicine ordinarie. Si trattava di una forte somma da guadagnare, e sebbene l’Henner apparisse sempre molto ricco, spendendo e spandendo doviziosamente, senza che si conoscesse bene l’origine delle sue ricchezze, pure egli non disprezzava simili guadagni. Aveva avvertito del suo viaggio solamente il Lewis; ma non ne aveva fissato il giorno. Doveva, però, essere molto prossimo, giacchè la gran signora irlandese soffriva molto, e faceva fare telegrammi per chiamare a sè il miracoloso Marcus Henner.
Dunque, il mostro sarebbe partito. La questione terribile era questa: avrebbe o non avrebbe condotto seco, nel viaggio, Maria? Lewis mi mandava a dire e John aveva confermato a Dick Leslie che Marcus Henner, qualunque viaggio facesse, menava sempre seco Maria. Tutto stava a far fare una resistenza forte, da parte della infelice prigioniera, a questo viaggio: dicevano i due servi che Marcus Henner, infine, amava la sua prigioniera e che essendone continuatamente trattato male, era giubilante quando poteva fare qualche cosa che le piacesse. Egli credeva così di potersela accattivare! Ma avrebbe ella voluto pregare Marcus Henner di lasciarla a Londra? E Marcus Henner, così pauroso di perderla, così sospettoso, non avrebbe immaginato qualche cosa a questa domanda? Lewis mi faceva dire per mezzo di John e di Dick Leslie, che io avessi scritto una seconda lettera alla prigioniera, scongiurandola a usare la sua maggiore influenza sullo scellerato gobbo perchè egli la lasciasse a Londra, in quel breve periodo; ed ella sarebbe fuggita nella notte istessa in cui Marcus Henner fosse partito per Dublino! Scrissi questa lettera, in preda a una agitazione terribile. Pensate, amico mio, che io non conoscevo Maria; che ella non mi conosceva; e che avevo avuto persino l’imprudenza di scriverle una prima folle lettera d’amore! Scrissi. La pregai, in ginocchio, in nome di sua figlia, in nome della sua salvazione, d’ingannare Marcus Henner, l’uomo che la teneva prigioniera da quindici anni!
Passarono così, caro Ranieri, tre mortali giorni, in cui non ebbi risposta alle mie lettere, in cui non seppi nulla e in cui persino la fenomenale pazienza di Dick Leslie mi parve alquanto scossa. Però John si faceva vedere dal detective ogni giorno e gli aveva detto che il ritardo del viaggio di Marcus era causato da convegni notturni che aveva dovuto avere con ebrei che venivano, nientemeno, che dalla Russia e dalla Persia! Ma John aveva anche soggiunto che l’Henner avrebbe potuto partire improvvisamente, come aveva l’abitudine di fare, talvolta; e che bisognava stare in guardia. Anzi, Marcus Henner era triste e collerico, da qualche giorno; delle scene violente erano accadute fra lui e la prigioniera, a proposito di una fanciulla dispersa, abbandonata, e pareva che Maria gli avesse rinfacciato crudemente, per la prima volta, tutte le sue crudeltà, in presenza dei servi. In quanto al risultato delle mie lettere non se ne conosceva nulla. Così, ogni notte, la carrozza di posta andava a collocarsi nella viuzza presso Charing Cross, e io, debbo confessare la verità, vi ho passato tre notti, fremendo d’impazienza, di dubbio, di terrore, di terrore per Maria!
Ma, verso il pomeriggio del quarto giorno, una nuova mi venne a confortare, per metà: Marcus Henner sarebbe partito, con un treno notturno, per Dublino. Però, non si sapeva se la signora Maria sarebbe o no restata in Londra! La signora da due giorni non esciva dalla sua stanza, dicendo di essere malata, e Marcus Henner non aveva potuto vederla che pochi minuti, sulla soglia della porta: ella lo aveva scacciato bruscamente. Però, malgrado questo, quell’uomo innamorato sino al delirio e diffidente come un Otello, avrebbe potuto benissimo, all’ultimo momento, costringerla a partire con lui! I servi, Lewis e John erano esitanti, confusi: io, confusissimo!
Debbo a questo agente di polizia che, per me, si era cangiato in un amico, se ho potuto fare un piano, per quella notte. Stabilimmo, dunque, di appostarci intorno alla casa di Marcus Henner, in modo da poterne sorvegliare l’entrata. Dovevamo vedere se partiva solo o in compagnia: questo era il punto terribile! D’altra parte, John aveva stabilito con Lewis e, dopo, con noi, che nel caso la signora restasse in Londra, si sarebbe fatto un tentativo di fuga, un’ora dopo la partenza di Marcus Henner, per essere certi che egli fosse andato via. Lewis avrebbe accompagnato la signora sino al portone e John fino al posto dove io dovevo stare appiattato; colà gli avrei dato il denaro stabilito di compenso a Lewis ed a lui, e Maria sarebbe venuta via con me. Verso l’imbrunire, un imbrunire tristissimo d’inverno, andammo, con molta precauzione, a scegliere i luoghi dell’appostamento.
Fremente, io voleva vedere da me se Marcus Henner partisse solo, cioè volevo collocarmi poco distante dal portone. Dick Leslie me lo impedì, di autorità.
— No, — dissemi — se lo vedete solo, può riconoscervi dalla gioia che mostrerà la vostra fisonomia e che non potrete celare, come non celerete la vostra persona. Se è in compagnia. … vi verrà voglia di ucciderlo!
— Già, — risposi io.
E gli cedetti il posto di osservazione.
Potete immaginarvi, mio caro Ranieri, se in quelle ore dell’appostamento, intorno alla casa di Marcus Henner, io abbia sentito cento volte soffocarmi dalla commozione. Ero arrivato dunque al punto più critico della mia esistenza, esposto ad un pericolo mortale, e capace di ricevere da Dio una felicità infinita. Io rodeva il freno in quella viuzza, alle spalle di Charing Cross, ma mi ero fatto un dovere di obbedire fedelmente alle istruzioni di Dick Leslie, di cui mi ero trovato sempre benissimo, in tutte le occasioni di quella terribile intrapresa.
Un istante temevo che Marcus Henner, avendo cangiato pensiero, non partisse più; un altro istante, e questo era il dubbio che più mi trafiggeva, che la signora Maria non fosse riuscita a restare in Londra, mentre egli andava a Dublino, e che quel miserabile avesse trascinato seco quella povera anima derelitta. Bastava una semplice circostanza di simil genere, per sbaragliare perfettamente tutto il mio piano, e lunghi fremiti agghiacciavano o infiammavano il mio corpo, ogni volta che uno di questi dubbi mi assaliva.
Udii sonare i rintocchi della mezzanotte a un orologio vicino, e mi parve che segnassero misticamente l’ora del mio destino. Difatti, dieci minuti dopo, vidi avanzarsi verso me una figura bruna, che in quella penombra ebbi pena a riconoscere per Dick Leslie. Credete che fu con la voce soffocata nella strozza che gli dissi:
— Ebbene?
— Partito, — mi rispose laconicamente il detective.
— Solo?
— Solo, — rispose costui, pianissimo.
Una vampa ardente abbruciò le mie vene a quella notizia suprema. Tremavo; presi le mani dell’agente di polizia, come si prendono quelle di un amico, di un salvatore, e gliele strinsi, dicendogli:
— E che si fa ora?
— Si aspetta che Lewis ritorni dalla stazione, per esser certi che Marcus Henner sia partito. —
Insieme ci avviammo verso la piazza, dove sporge la facciata del palazzo di Marcus Henner; visto che il mostro correva in carrozza verso il treno, che lo doveva trasportare a Dublino, noi potevamo sorvegliare la casa un po’ più direttamente.
Tutte le finestre erano serrate ed oscure, il portone era sbarrato, non un segno di vita in quella dimora, da cui doveva essermi rivelato il segreto della mia esistenza, e, mentre guardavo quella facciata tetra e oscura, mi assaliva un’altra incertezza più cocente, cioè che noi attendessimo invano colà, che noi sperassimo invano nella fuga di Maria, la quale, non conoscendomi, non avendo fiducia in me, spaurita dalla mia pazza lettera di amore, si negasse di fuggire, per darsi in mano ad uno sconosciuto. Non poteva ciò essere, forse?
Tutto ad un tratto, dopo molte di queste dolorose riflessioni, noi udimmo di nuovo il rumore di una carrozza, che ritornava verso Charing Cross, ed io sospettando che Marcus Henner avesse perduto il treno, o che avesse avuto qualche sospetto di ciò che si tramava contro lui, ebbi appena il tempo di gettarmi nell’ombra di un vicoletto cieco, perchè l’orribile gobbo non mi vedesse. Lo stesso Dick Leslie si fece da parte. Difatti, la carrozza si fermò dinanzi al portone di Marcus Henner, ma dal cab discese solamente Lewis il maggiordomo, che aveva accompagnato il suo padrone alla stazione. Comprendemmo perfettamente che Henner era partito e ambedue ci avanzammo verso lui, di comune accordo, per richiamarlo alla sua promessa fattaci per mezzo di John. Ma, da un largo cenno che egli ci fece, comprendemmo di doverci di nuovo allontanare poichè egli temeva del cocchiere. Difatti, Lewis aprì il portone con una sua chiave, e la carrozza si perdette sotto la vòlta, mentre i due battenti pesanti si richiudevano. Noi restammo lì, come due statue, guardandoci nel volto, senza nulla dire, ma dopo una mezz’ora la porta si riaperse un poco, e il Lewis insieme con John riapparve sotto il portone.
— Avete voi il denaro? — disse il maggiordomo a Dick Leslie.
— Sì, — rispose costui, mentre io tacevo.
— Ebbene, datelo.
— Non ve lo do, — rispose Dick recisamente.
— E perchè?
— Portatemi prima la donna, e vi pagherò.
— E se non vuole venire?
— Verrà, verrà, — disse Dick Leslie guardandomi di sottecchi.
La porta si richiuse. Io non avevo più forza di dire una parola. Ritenevo la durezza del detective molto pericolosa pei nostri affari, perchè temevo sempre che costoro non si negassero recisamente a tutto; ed io avrei dato la mia fortuna, per vedere in quel momento Maria! Ma egli era molto più prudente e più savio di me, e conosceva soprattutto meglio quegli inglesi.
Sapete voi, amico mio, quanto tempo abbiamo atteso, prima che la donna da me sognata mi apparisse innanzi? Due ore! Faceva un freddo orribile, e quella notte di Londra, con quel gelo, con quel silenzio, con quell’ombra, mi abbatteva. Fermamente pensavo, di fronte a quel ritardo, che ella si rifiutasse di scendere. Per sentire meno freddo e per occupare la nostra impazienza, Dick ed io andavamo in su e in giù, egli fumando la sua buona pipa, ed io mordendo delle sigarette spente.
Erano le tre del mattino; la notte si faceva più rigida, ed io disperavo dell’esito completamente, quando udimmo leggermente stridere il portone, e qualcuno apparire in quel vano. Erano un uomo e una donna. La mia emozione profonda mi inchiodò al suolo, mentre vedevo venire a me lentamente una figura esile di donna, tutta avvolta e chiusa in una pelliccia nera, con un cappuccio rialzato sulla testa. Ella si appoggiava al braccio di Lewis, il maggiordomo, e camminava pianissimo, come se fosse malata e stanca.
Allora, io potei vedere distintamente il volto di colei, che, per quindici anni, era stata la prigioniera di Marcus Henner, e che aveva consumato in quel carcere, accanto a quel mostro di bruttezza e di crudeltà, gli anni migliori della sua vita di donna. Qual volto, Ranieri! Le linee della più perfetta bellezza vi apparivano assottigliate e consunte dalle lacrime e dalla tristezza; i magnifici occhi neri, che dovevano aver avuto il fulgore degli astri, portavano impressi un languore e un dolore inguaribili. Ella era alta, snella, con un viso la cui carnagione rosea era diventata bianchissima ne’ recessi dove Marcus Henner la confinava, o dove ella volentieri si serrava. Tutta la sua fisonomia era così interessante, così attraente, dirò quasi così inebbriante nella sua mestizia, che io, vedendola, pensai: ecco la donna che amerò tutta la vita! Ranieri, vi sono questi fatali presentimenti nell’anima! Ella si avanzò verso me, come ho detto, con passi molli e stanchi, e quando mi fu vicino, mi rivolse uno sguardo così supplichevole, e così ardente, che io sentii struggermi il cuore. Una voce dolce, velata, come infranta dai lunghi singhiozzi, uscì da quelle labbra che avevano il roseo delicato delle pallide rose di inverno:
— È vero, signore, — ella mi disse — che voi volete condurmi via?
— È vero, signora, — le dissi io, devotamente, dimenticando di averle scritto una pazza lettera di amore.
— È vero che voi mi condurrete da mia figlia? — ella mi chiese, mentre la voce le usciva affannosa dal petto.
— Sì, o signora, — le risposi io, sempre più umile e più riverente.
— Andiamo, signore, — ella mi disse senz’altro, mettendo la sua mano nella mia.
Mentre questo piccolo e caratteristico dialogo avveniva, Dick Leslie aveva consegnato a John ed a Lewis le somme a loro promesse, aggiungendovi delle forti gratificazioni, che la mia gratitudine a quei due servi a pena a pena aveva saputo misurare.
Muti, Maria ed io, stavamo accanto nella notte algente, ella lasciando la sua sottile mano nella mia. Oramai, la sua fisonomia appariva più calma e riposata. Ella si sentiva salva, si sentiva sicura.
Disse Dick Leslie a Lewis:
— E voi, che farete, partirete subito?
— Il dottore non tornerà da Dublino, che fra tre giorni. Noi partiremo domani, — disse Lewis.
— Domani? — esclamò Dick Leslie.
— E se egli ritornasse domani mattina, chi vi salverebbe da lui? Credete: lasciate la casa all’alba di domani. —
I due servi si guardarono e dissero qualcosa tra essi, sottovoce. Certo, avevano deciso di fuggire l’indomani mattina, tanto la collera di Henner li sgomentava. Dick Leslie li salutò, essi ci salutarono, mentre Maria tese loro la mano, che Lewis e John baciarono. Maria aveva gli occhi pieni di lagrime, licenziandosi per sempre da quei servi, che erano stati più fedeli alla vittima che al carnefice. Io avidamente guardai questa scena e uno stranissimo sconvolgimento turbò il mio essere nelle sue radici più profonde, quando mi accorsi di questo: Maria, la prigioniera, la vittima di Marcus Henner, aveva ambedue le mani!

. . . . . . . . . . . . . . .

«Riprendo la lettera al punto, in cui l’ho sospesa, senza aggiungervi neppure una parola di commento. Dopo la stranissima scoperta, che io feci in quella notte d’inverno, interrogata Maria, non volle partire con la carrozza di posta, che aspettava in una viuzza poco lontana di Charing Cross. Forse le pareva quello un mezzo troppo lento di fuggire Londra e il suo persecutore, forse la povera carcerata anelava respirare le libere e sane brezze del mare. Quando io le dissi che egualmente un yacht ci aspettava ancorato lungo una delle sponde del Tamigi, ella sorrise per la prima volta da che io l’aveva veduta, e mi disse di volerci andare subito.
Il detective camminava accanto a noi nel più perfetto silenzio, senza turbare la nostra quasi muta compagnia. Ella mi appariva molto stanca, si appoggiava al mio braccio con mollezza ed io profondamente turbato da quel contatto le chiedevo ogni tanto con voce commossa:
— Che avete?
— Nulla, — mi rispondeva subito lei, con la sua voce velata e infranta. — Non ho nulla, sono così felice! —
Non s’incontrava nessuno per le vie di Londra a quell’ora alta della notte d’inverno, e noi seguivamo la nostra via, lentamente, finchè arrivammo a un punto deserto della riva del Tamigi, dove nell’ombra biancheggiava vagamente la chiglia dell’yacht il Dundee che era lì, da tre giorni, coi fuochi accesi, per rapirci via. Dick Leslie cavò un fischietto e ne tirò un fischio roco e lungo, un fischio di ladri, come quello che avevo udito una sera in una taverna di malandrini; subito dallo yacht si rispose con un simile fischio, e una barca si staccò silenziosamente dal Dundee guidata da due rematori. La banca urtò appena contro la spiaggia e si fermò. Vi salimmo con Maria, e con Dick Leslie; costei emise un profondo sospiro di liberazione, mettendo il piede sul battello che doveva condurci via.
Noi, però, non partimmo immediatamente; dovemmo dare il tempo a Dick Leslie di tornare a Piccadilly, per portarmi i miei bagagli, il corredo che avevo comperato a Maria e distruggere le lettere che avevo lasciate all’albergo.
Debbo dire, che l’agente di polizia compì questa missione ultima con tale rapidità, che alle cinque, quando ancora tutte le ombre avvolgevano la vecchia città di Guglielmo il Conquistatore, noi salpavamo silenziosamente a traverso l’oscurità, sotto il freddissimo cielo d’inverno.
Io mi ero separato dal detective molto commosso; costui mi aveva aiutato come un fratello; e sentivo che il denaro datogli non valeva punto gl’immensi servigi che egli mi aveva resi. Costui, partendo, mi disse:
— Allontanatevi molto; fuggite assai lontano. Marcus Henner vi perseguiterà accanitamente; voi avrete in lui un nemico implacabile e potente. Fuggite lontano assai. Io veglierò ancora su lui e vi avvertirò, solo che io sappia dove voi siete. Voi sapete dove trovarmi se avete bisogno di me. — Accanto a me, Maria ascoltava, a occhi bassi, le raccomandazioni di Dick Leslie, e malgrado le ombre della notte, io vidi il suo volto già bianco impallidire mortalmente. La sua mano, che era appoggiata al mio braccio, tremò.
Io mi chinai verso di lei, e le dissi:
— Che avete? Temete di Marcus Henner?
— Sì, — ella mi rispose, con voce soffocata. — Sento che questo carnefice mi ucciderà.
— Io prima ucciderò lui, — le dissi, stringendo il suo braccio, come per difenderla.
Infine, Dick Leslie, dopo che ebbe fatto mettere i bagagli nelle nostre cabine, si licenziò da noi. Il capitano del Dundee venne a domandarmi se si poteva salpare, e io chiesi questo permesso a Maria. Ella me lo accordò subito, con un sorriso di gioia, e lo yacht descrisse una larga curva sul Tamigi, discendendone rapidamente il corso.
Quando l’alba d’inverno spuntava, noi stavamo per entrare nell’oceano, e Maria dormiva o almeno riposava nella sua cabina, dove io l’aveva lasciata, desiderando anzitutto che ella riposasse dalle emozioni di quella notte.
Vi dirò io che cosa avvenne consecutivamente fra noi due? Vi narrerò come la povera e cara donna si commovesse ogni giorno di più dinanzi ad un uomo, che aveva arrischiato la sua vita e la sua fortuna, per salvarla?
Vi dirò, che in quei trenta giorni che vivemmo insieme, ella conobbe che cosa possa essere la devozione di un cuore innamorato? Mentre lo yacht attraversava rapidamente l’Oceano, ed il tempo in sui primi giorni fu bello, noi potemmo conoscerci e le nostre anime fecero un cammino assai più rapido della macchina, che ci conduceva attraverso le verdi acque.
Ella, infine, era una donna ancora giovane, e quindici anni di carcere, di solitudine, di esaltazione, non eran giunti a fiaccare la sua salute, nè a consumare la sua beltà. Ella mi pareva bellissima. Tutto il mistero, che avvolgeva la sua esistenza e che troverete narrato nella lettera di Marcus Henner e in quella che essa scrisse a sua figlia Rachele Cabib, mi fu da lei narrato, nelle lunghe sere, quando noi, approdati nel piccolo porto di Scheveningen, vi riparammo contro le furie invernali dell’Oceano. Ah, Ranieri, ella mi ha amato, con un ultimo e pallido amore crepuscolare, ma così pieno di dolcezza e di languore, così fatto di ultimi impeti verso una maggiore gioia, che tanto tempo le era stata contesa, un amore così fatto di malinconica voluttà, di rimpianto, di rammarico per la bella giovinezza perduta, che giammai, se ancora molti anni debbono pesare sul mio capo, giammai io ne potrò dimenticare un sol momento di dolorosa e profonda ebbrezza! Quella donna, Ranieri, era al crepuscolo della sua vita d’amore; ma volle darsi a questo estremo fatto sentimentale, giacchè per quindici anni ella era vissuta sotto l’incubo dell’amore di un mostro. Per quindici anni, ella aveva lottato contro l’amore di costui, nel sogno e nella vita; perchè questa frase piena di ombra vi sia spiegata, leggete la lettera, ove Marcus Henner confessa il suo segreto. Ella aveva detto no, per quindici anni, e l’uomo che era abituato a piegare sotto la forza della suggestione le anime più indomite, non era giunto a vincere la frale volontà di una povera donna, che aveva per solo rifugio la preghiera. Ma, infine, era donna, era bella; a venticinque anni era stata rapita al lusso e ai piaceri di una grande esistenza, aveva perduto suo marito e sua figlia.
L’uomo che ella amava, un cavaliere ungherese, Jean Straube, era morto ucciso da Marcus Henner, ed ella non sapeva neppure dove ne fosse la tomba; questa donna mi ha amato per ribellione alla vita passata, per gratitudine, per vivere ancora un poco, per avere ancora una qualche felicità, anche fuggevole, e perchè io l’amavo. D’altronde, per quindici anni, ella, che segretamente si era fatta cristiana, aveva pregato il Signore per lunghe ore, piangendo, inginocchiata e aveva condotta una esistenza di cenobio. Sola, con me, che l’aveva salvata, che l’adoravo, un ultimo germoglio di giovinezza era fiorito sul tronco già quasi inaridito di quella esistenza. E, se due che hanno attraversato de’ pericoli e delle sofferenze, che hanno sopportato delle prove durissime, che han visto il fondo amaro delle cose, se due come noi possono avere una felicità perfetta, noi l’abbiamo avuta.
I grandi amori, Ranieri, non si raccontano: essi non sono che una lunga e monotona scena, che farebbe sorridere o ridere, chiunque non sia innamorato: d’altronde un senso di profondo pudore mi trattiene dal narrare quali furono le supreme ebrezze di un povero essere battuto dalla vita, e tormentato dalla passione di un uomo infame.
Vidi quella donna ringiovanire, la vidi diventare più bella, più affascinante, e non l’ho vista che io, io solo, e solo io saprò quello che essa ha sentito con una intensità febbrile, con un abbandono folle. Non lo dirò: mi parrebbe di violare un segreto non mio; quei trenta giorni di amore, Ranieri, valsero una lunga vita, tanto le nostre esistenze vi raggiunsero la più alta temperatura sentimentale. Voi, che amate, sapete tutto, ed io non posso dirvi altro.
Fu verso il ventesimo giorno dopo la nostra fuga, che noi ricevemmo un lungo telegramma cifrato di Dick Leslie il quale ci avvertiva che il furente Marcus Henner, dopo aver fatto le ricerche in tutti i tre Stati del Regno Unito, aveva lasciato Londra per mare, dirigendosi forse dove noi eravamo. Dick Leslie riteneva che egli avesse ritrovato le nostre tracce, e siccome Marcus Henner aveva lasciata la casa di Charing Cross, egli ci consigliava, anzichè di partire per più lontano paese, dove probabilmente il gobbo dagli occhi verdi ci avrebbe raggiunti, ci consigliava di rientrare in Inghilterra. Io nascosi questo telegramma a Maria, giacchè ogni volta che le si parlava di Marcus Henner, ella rabbrividiva e aveva dei presagi di morte.
Il consiglio di rientrare in Inghilterra mi parve alquanto strano, ma appunto per la sua stranezza, mi piacque. Era evidente che Marcus Henner, dopo averci ricercato inutilmente in Londra sarebbe andato in Francia e in Italia come era facile supporre fosse il nostro itinerario. Telegrafai a Dick Leslie se poteva trovarmi una villa, una casa isolata, in un posto recondito, dove sarei andato a nascondermi con Maria, sino a che il tremendo gobbo si sviasse dai suoi sospetti, si allontanasse molto, morisse, non so bene. Ed egli, il buon detective mi segnalò l’isola di Wight, e propriamente Cowes; egli stesso s’incaricò di trovarmi una villa, in quel paese assolutamente estivo, dove, d’inverno, non vien mai nessuno.
Il nostro spostamento spiacque a Maria; malgrado la nordica tristezza di Scheveningen, ella si compiaceva di quell’ambiente, e i fragori notturni, dei temporali non facevano impressione sui suoi poveri nervi malati, oramai in via di guarigione.
Ella avrebbe voluto restare a Scheveningen, ogni cangiamento la tormentava. Ella sospettò anche.
— Quell’uomo ha trovato le nostre tracce, è vero, Roberto? — mi disse tremando di nuovo.
— No, anima mia. Rassicurati. È il medico che dice essere insalubre questa spiaggia.
— Restiamo, Roberto! —
Oh, in altre circostanze un desiderio di Maria sarebbe stato per me una legge! Io adoravo quella cara fragile creatura, non più giovane, ma così bella di una estrema bellezza e così dolce di una profonda dolcezza; e se ella mi avesse detto di morire, io lo avrei fatto senza esitare, a trent’anni. Ma troppo temevo, per lei, le rinnovate persecuzioni di Marcus Henner, e i suoi agguati; troppo sentivo il bisogno di essere solo e libero con lei per dirle di sì, in quello che volevo. Se fossimo restati a Scheveningen! … Ma il destino nostro ci spingeva a Cowes, nell’isola di Wight, e io, usando della influenza che avevo immensa sopra Maria la convinsi che dovevamo partire.
Andammo. Nessuna faccia sospetta mi parve che ci notasse, che ci seguisse nel viaggio; io usai molte precauzioni, e noi giungemmo a Cowes, senza essere molestati. La villa che ci aveva trovato Dick Leslie, era veramente un nido di amore, avendo di fronte il mare, e sorgendo in un boschetto di piante verdi e di fiori. Nulla era più solitario e anche più ridente, malgrado che ancora l’inverno vestisse di grigio l’Inghilterra. Ella battè le mani di gioia, come una bimba, quando noi c’installammo in quel cottage. In quei primi giorni che ella vi restò, con me, mi parve ringiovanita, rosea, non avendo altra cura che quella di veder pronunziato il suo divorzio con Mosè Cabib, per potersi unire cristianamente a me; non pensando che alla sua figlia lontana, che io fermamente le avevo promesso di ritrovare; e dopo Dio ella credeva in me! Chi avrebbe mai potuto supporre…. ma io non voglio precipitare i terribili avvenimenti.
Come vi ho detto, mio caro Ranieri, il nostro cottage aveva la sua facciata sul mare e sebbene fossimo un po’ lungi da Cowes e dalla sua famosa banchina, con un buon cannocchiale io guardava in quel piccolo ed elegante porto, che è il ritrovo di tutti i yacht del mondo, dal giugno al settembre. Ma salvo tre che erano lì disarmati, guardati da un paio di marinai, nessun altro battello si veniva ad amarrare presso il lungo pier: e se Marcus Henner non giungeva a Cowes di lì, da dove avrebbe potuto giungere?
Io, lo comprendete, non ero punto tranquillo. Sono stato sempre coraggioso, così, naturalmente, non ho mai temuto la morte, perchè sono stato e sono fatalista, a tale proposito. Ma avevo, presso a me, un essere carissimo, la sola persona che io avessi amata altamente e profondamente, nella vita; questo caro essere era minacciato, sempre, dal suo carnefice; e queste minacce, anche, erano molto oscure.
Quando noi amiamo, amico mio, e voi lo sapete, noi siamo molto deboli e molto forti insieme, giacchè nulla ci potrebbe strappare alla creatura amata e tutto sembra che ci debba strappare! Per me, nulla mi sarebbe importato e avrei sfidato qualunque pericolo, ma per la mia diletta Maria, Ranieri, io aveva paura! Per questo esercitavo una continua sorveglianza sui nostri servi e su quanti — pochi — ci accostavano, per questo io sorvegliava il porto di Cowes, sempre che Maria non mi guardava; ma nulla, mai nulla di sospetto mi si faceva notare, intorno. Che avesse, Marcus Henner, perduto per sempre le nostre tracce? Che si fosse consolato della fuga di Maria?
Così, ogni tanto, io mi rassicurava e godeva le ore più belle di felicità, con la mia Maria, senza che nessun pensiero venisse a molestarmi. Ma, una notte, accadde qualche cosa di bizzarro e di doloroso. Potevano essere le due del mattino e Maria dormiva quietissimamente accanto a me; io, che non dormivo, la guardavo respirare mitemente, come una bimba e mi sentivo struggere di tenerezza. La lampada velata gettava delle ombre dolci su quel nobile e fine volto e io adorava quella cara donna. Pure, a un tratto, mi parve che un sospiro escisse dal suo petto. Credetti di essermi ingannato; ma ella si mise a gemere sottovoce, nel sonno, mentre io impallidivo di dolore. Non osavo svegliarla, mentre vedevo che ella era sotto un incubo; Maria, continuava a lagnarsi, come una bimba. Le divenne affannoso il respiro; si agitò convulsamente nel letto e infine, dato un lungo grido di terrore, si levò a sedere, con gli occhi sbarrati guardando nell’ombra!
— Maria, Maria, che hai? — chiesi io, stringendola fra le braccia.
— Vergine Maria, Vergine Maria, aiutami tu, assistimi tu! — continuava a gridare lei, con le mani nei capelli, come se non si accorgesse di me.
— Ma che hai, Maria, Maria, sono qui io, non ti sgomentare, è un sogno, forse, che ti sgomenta?
— Che sogno? — diss’ella — sogno? Roberto tu sei qui, è vero? Io non ho sognato. Io l’ho visto!
— Chi?
— Lui, Marcus Henner!
— Calmati, anima mia, hai sognato?
— No, Roberto, no, egli è qui, lo sento, mi vuole, mi chiama, mi prenderà!
— No, Maria, no! siamo soli, tutto è silenzio, la casa è sbarrata, sei nelle mie braccia! —
Invano con tutte le carezze più tenere tentai di rassicurare quella poveretta, che era sempre sotto l’incubo del suo sogno. Ella mi guardava con gli occhi stralunati, come se non mi vedesse, ripetendomi delle parole di orrore contro Marcus Henner, ripetendomi che egli era lì, in casa o attorno alla casa, con un’insistenza quasi frenetica. Francamente, mi sentii sconvolto, i sogni sono sogni, ma l’animo sensibile di Maria raffinato nel dolore, ma la sua intuizione era più acuta da uno stato di veggenza nel sogno magnetico, dove tante volte Marcus Henner l’aveva immersa, il suo cuore profetico, tutto mi faceva dubitare che qualche cosa di vero vi potesse essere nella visione di Maria. Avrei voluto girare nella casa, per fare un’ispezione minuziosa, se vi fosse nascosto qualcuno, o se le porte fossero mal chiuse; avrei voluto fare un giro nel giardino, ma Maria mi teneva stretto abbracciato, e io non osava di muovermi, giacchè se mi fossi allontanato, ella sarebbe morta di terrore.
Più tardi, tentai di fissare un poco il sogno di quella poveretta, ed ella confusamente mi narrò, che, a un tratto, aveva visto Marcus Henner ritto vicino al letto, con un ghigno orribile sulla bruttissima faccia, e che l’aveva minacciata di morte, quando ella s’era levata sul letto, gridando, aveva veduto Marcus Henner allontanarsi rapidamente, sotto al balcone, e sparire come un fantasma dietro ai cristalli. Maria raccontava questo con tale evidenza, che io non potetti fare a meno di rabbrividire dallo sgomento.
Com’ella si fu un poco tranquillizzata, io mi levai istintivamente e andai verso il balcone, che la sua mano bianca mi aveva indicato come quello della sparizione di Marcus Henner. Questo balcone dava sul mare e, malgrado la profondità della notte, io potei veder bene, che sul mare non vi era traccia di nessuna barca, di nessun battello. Era un sogno, infine; ma le creature delicate come Maria possiedono una seconda vista dello spirito, che s’impone a’ più increduli.
Come venne l’alba, ella finì per addormentarsi, tenendo la mia mano, ma sussultando ogni tanto nel sonno lieve. Io non potetti dormire più. A giorno chiaro, io la lasciai e discesi al pianterreno e nel giardino del nostro cottage, senza potervi veder nulla di anormale. Lontano, lungo la banchina di Cowes, erano sempre i tre yachts al disarmo, nessuna traccia di altra imbarcazione. Malgrado il riposo preso verso l’alba e la mia presenza, Maria si svegliò agitatissima. Per un capriccio gentile, dove la paura non entrava che per metà, tutto quel giorno ella non volle uscire dalla nostra camera; dovetti intrecciarle io i bei capelli neri, dove mi piaceva d’immergere le mani e il volto, giacchè ella non volle saperne di farsi pettinare dalla cameriera. E, tutta la giornata, Maria non volle staccarsi un sol minuto da me, non se ne staccò materialmente parlando, come se temesse ogni minuto di perdermi.
Credete, Ranieri: tutti i minuti di quel giorno mi sono impressi nell’anima e valgono per me come quelli più alti della mia esistenza. In punto di morte, se io morrò giovane, mi ricorderò solamente di quanto accadde in quella giornata, e se dovessi vivere fino alla vecchiaia più caduca, quelli sarebbero i soli ricordi sopravvissuti alla nebbia del passato. Ella, in quel giorno, più che innamorata della vita e dell’amore, che io rappresentava per lei, versò nel mio cuore tesori inesauribili di tenerezza; ella fu languida ed appassionata, carezzevole e ardente, gioconda come una bambina e triste come solo lei poteva esser triste; vi dico, non volle uscire da quella camera. Ella aveva conservato l’abitudine di certe sue vesti bianche fluenti, che l’avvolgevano castamente e che intanto lasciavano tutta la libertà alla sua persona. Così, coi suoi bei capelli neri raccolti nelle lunghe trecce, e il bel volto ovale, dalla carnagione ambrata, ella aveva l’aspetto più inebbriante per un amante. Se ella mi ha amato supremamente in quel giorno, io l’ho amata anche così, e segretamente quasi mi gratulavo del sogno pauroso che mi aveva procurato quella crisi di felicità. Quando venne la sera, Maria volle far preparare il pranzo in quella istessa stanza, e per la prima volta, ella bevette un intiero bicchiere di vino del Reno, senza allungarlo con l’acqua. Mi parve che volesse stordirsi: difatti, ogni tanto trasaliva, come se qualcuno la chiamasse, e prendeva la mia mano, stringendola fortemente. Io non le dicevo nulla, perchè mi pareva che con le ombre della notte ritornassero in lei tutti gli spaventi che Marcus Henner le aveva ispirati; qualche volta impallidiva improvvisamente e restava con l’orecchio teso a raccogliere un rumore impercettibile di lontano. In lei, mi pareva rinascessero le tracce di quel fugace, ma ripetuto dominio, che con l’ipnotismo, Marcus Henner aveva esercitato su lei a fondo. Maria non aveva mai saputo spiegarmi e non poteva spiegarmi il mistero della sua doppia vita, ed io, per non tormentare la sua coscienza di cristiana, non aveva cessato troppo di approfondirla. Quando fu sbarazzata e tolta la mensa, ella volle che mi sedessi accanto a lei, e poggiò la testa sul mio petto, e restò così un’ora, senza parlare, con gli occhi aperti, nel più profondo silenzio. Che ora d’infinita dolcezza fu quella, Ranieri!
Nessuna più violenta crisi d’amore valse quel contatto tenero, quel riposo ad occhi aperti, quel silenzio pieno di pensieri d’amore. Io, sentendo che un’ora divina era sospesa sui nostri cuori, non dissi nulla, ed ella due volte che ero per chiamarla per nome amorosamente, come solevo fare, mi fece segno di tacere. Ella, più tardi, mosse le labbra per un certo tempo.
Pregava. Io non sono un ateo, sono un indifferente; ma, ogni volta che vedevo pregare Maria, una subita e segreta commozione mi vinceva, e avrei voluto anche io congiungere le mani, come quando ero un bimbo, e dire le orazioni che elevano l’anima a Dio. Quella sera, per un suo gusto, ella aveva voluto che la stanza fosse illuminata in tutti i suoi cantucci, e, talvolta, si guardava attorno con occhio sospetto; più tardi, mi domandò di leggerle qualche cosa, de’versi di Göethe, dei versi ignoti ai più, e che parlavano serenamente d’oltre tomba.
Fu mentre durava la mia lettura che ella ebbe un sussulto più forte e impallidì mortalmente: più bianca della veste bianca! Le chiesi che cosa avesse, ancora, affettuosamente; ma ella mi guardò trasognata, passandosi una mano sulla fronte, e non mi rispose. Io continuai la mia lettura, sogguardandola, ogni tanto, impensierito seriamente per la sua salute. Neppure un minuto avrei potuto sospettare di quello che avveniva, a me intorno: non lo avrebbe supposto la fantasia più esaltata! Due o tre volte, mentre io leggeva, tenendo la sua mano nella mia — così leggevamo, la sera, sempre, in una soavissima intimità intellettuale — sentii come un brivido gelido attraversare quella pelle morbida e calma. Ma non le chiesi più nulla, stimavo che ella fosse in un profondo disturbo nervoso, rimastole dal sogno della notte scorsa, e che l’unico rimedio sarebbe stato cercare d’indurre in lei la calma, pianamente, senza che ella istessa se ne accorgesse.
Ma, presto, dovetti interrompere la lettura, attirato dal singolare aspetto della mia Maria. Ella era in preda ad un’agitazione bizzarra che cresceva man mano e che s’impadroniva totalmente di lei. Dei moti convulsi le attraversavano le braccia, le mani, ed ella le stirava, come presa da una convulsione. Era la prima volta che questo male la assaliva e io non sapeva bene che aiuto darle; presi la boccetta dei sali, le feci odorare dell’aceto, le tenni le mani, ma non ottenni nessun risultato. Un ignoto male pareva le torcesse, man mano, i nervi: si vedeva che ella combatteva contro esso, violentemente, che tentava reagire, ma che il male era più forte di lei. Teneva gli occhi socchiusi e le dita piegate quasi conficcate, con le unghie, nel palmo della mano; ma quando io la chiamavo, spesso, ella riapriva gli occhi, mi fissava con uno sguardo d’infinito amore e d’infinito dolore, due volte tese le braccia e mi strinse al petto, così strettamente, che parea volesse soffocarmi. Credete, che, ogni minuto, la mia confusione cresceva. Che fare, per calmarla? Era tardi e, certo, tutti dormivano in Cowes; d’altronde, accanto a lei, sul divano, io non osava di muovermi, per suonare il campanello, temendo che ella rotolasse per terra. Per momenti, ella parea si calmasse: il respiro diventava meno affannoso, gli occhi si chiudevano, le mani e le braccia ricadevano mollemente ed ella aveva l’aria di addormentarsi.
Ma, a un tratto, una grande scossa la faceva sobbalzare; ella dava in un gemito straziante e la sua convulsione ricominciava. Potetti, in un intervallo, suonare il campanello e alla cameriera che era accorsa, dar l’ordine di far vestire il servo, che già dormiva, e di mandarlo a Cowes per riportare con sè un medico, o morto o vivo. Il male di Maria mi sembrava eccedere quello di una convulsione ordinaria. Ella aveva un morbo misterioso che l’affliggeva. Adesso, mi sentivo crescere nell’animo la disperazione, giacchè ella non mi rispondeva più, non mi sentiva più, mentre io le baciavo il bel volto bianco e i bei capelli neri. Chi me la toglieva, così? Chi me la metteva in quello stato? E che era, dunque, questo ignoto e terribile male, per cui ella aveva perduto persino la sensibilità?
Lentamente, però, i brividi che si erano allungati per tutto il suo corpo, si chetarono; le scosse nervose si vennero facendo meno forti, meno violente; tutti quei stiramenti che ne contorcevano il corpo, si vennero dileguando. Io la teneva fra le braccia e sentii, a poco a poco, mancare la volontà nervosa nelle sue membra e abbandonarsi al sonno. Sonno? Singolare sonno! Adesso ella riposava, col capo appoggiato al mio petto, col busto nelle mie braccia e il resto della persona abbandonato sul divano; ma quel sonno, veramente, non pareva il sonno semplice e schietto di una persona sana, ma un deliquio. Il polso di lei batteva debolmente sotto le mie dita; due o tre volte che io m’inchinai sul suo cuore, ivi lo udii battere molto fiocamente. Il respiro che le usciva dalle labbra schiuse era appena percettibile, e sebbene ella avesse sempre un respiro molto lieve, quello della sera fatale mi stupì e mi sgomentò. Anche la temperatura delle mani non era tiepida, come sempre: le mani erano un po’ fredde e, sollevate, ricadevano abbandonate, come morte. Io non aveva il coraggio neppure di chiamarla per nome, giacchè potevo ingannarmi sul suo stato e non volevo turbare il suo sonno se ella dormiva. Ma il suo, non pareva sonno, pareva un torpore, un letargo, pareva la morte!
Entrò la cameriera — un’ora era passata — per dirmi che il servitore era ritornato da Cowes e che fra poco sarebbe giunto il medico, il quale era dietro a vestirsi, poichè era già coricato. Feci comprendere a quella donna, senza parlarle, che se veniva il dottore, lo facesse attendere in salone e che, intanto la signora andava meglio.
— Dorme, — disse la cameriera, dopo averla guardata.
Ed uscì.
Dormire? Era un sonno così poco naturale, quello, che io tentai, due o tre volte, di farle odorare dei sali, perchè si scuotesse. Ma quel potente odore, ella non lo sentì. Nulla la trasse da quel torpore profondo. Solo, a un certo momento — l’ora della notte era molto avanzata — accadde un fenomeno così impensato e così triste! Mentre il letargo le teneva chiusi gli occhi ed ella non dava segno di vita, cominciò a piangere.
Sì. A piangere. Di sotto le palpebre abbassate, fra le lunghe ciglia nere, le lagrime sgorgavano, calde, su quel volto freddo e scendevano lungo le guance, disfacendosi sul collo, sulle mani, piovendo sulla veste bianca. Era un pianto muto e senza singhiozzi, ma pianto lungo, largo, copioso, sgorgante da una sorgente che pareva non dovesse inaridirsi mai!
Un pianto così silenzioso e disperato, che io non vi resistetti, che cominciai a baciarla sugli occhi, sulle guance, bevendo le sue lacrime, cercando asciugarle con i miei baci, cercando di riscaldare quel volto freddo e quasi esanime. Disperato, ora, non pensando più al suo sonno, al suo riposo, io la stringeva fortemente fra le braccia, la chiamavo, le parlavo, la scongiuravo di udirmi, di rispondermi.
Ella non si mosse, non sollevò le palpebre, non si colorì, non si riscaldò: rimase come morta, nel suo torpore.
Allora in quella notte lunga e lugubre d’inverno, in quella casa lontana e solitaria, in quel paese deserto, diviso dal mio per centinaia di miglia di mare e di terra, con quella donna fra le braccia, che agonizzava in quello strano ed angoscioso malore, io fui preso da una folle paura. Sentii imperlarsi di un sudore ghiaccio le radici dei miei capelli e conobbi l’irrigidimento di chi teme fortemente un pericolo ignoto. Sì, attorno a me vi doveva essere qualche cosa di ostile, di terribile che minacciava con una minaccia imminente. Per questo Maria era caduta in convulsioni presentendo questo pericolo ignoto; per questo ella si era dibattuta, per questo ella piangeva. Ma perchè non mi rispondeva; l’amor mio? Non mi sentiva più? Vi era dunque qualche cosa che mi poteva togliere Maria? Chi? Dove? Come? Mi sentivo così solo, così inerme, così indifeso, così perduto che, ve l’ho detto, per la prima e l’ultima volta nella mia vita, ho tremato.
Però, l’aspetto sempre mutevole di Maria mi attrasse e mi distrasse. Lentamente, le lacrime si erano venute asciugando, sul suo volto. Di sotto le sue frangiate palpebre solo qualche stilla, ancora, cadeva sulla guancia; ma il pallore del sorriso si era fatto livido. Vidi che la bocca le si schiudeva come se respirasse molto penosamente o come se volesse parlare. Ma non disse nulla. Sentii che le sue membra, abbandonate nelle mie braccia, riprendevano il vigore della volontà, parve che si volesse alzare; lo tentò due volte, e si rigettò indietro, quasi perdesse di nuovo le forze o lottasse contro qualcuno, esterrefatto. Finalmente, si sciolse dalle mie braccia e si alzò a sedere, sul divano. La bocca schiusa tremava. Tremava? Ella parlava così piano che nessuno avrebbe potuto udirla mai; un soffio soltanto le agitava le labbra. Io solo che l’amavo, potevo intendere questo; erano parole quelle che muovevano così lievemente la sua bocca. E guardandola fisamente fisamente, chinato verso lei, tendendo tutta la mia attenzione, per capire, potetti udire o immaginare udire:
Eccomi. … eccomi. … —
A chi lo diceva? A chi? Chi la chiamava? Chi l’aspettava? Dove voleva andare? Ed io? Ed io? Perchè ella non mi rispondeva? Perchè non udiva più nè la mia voce, nè i miei baci? Eccomi! A chi lo diceva? E a me perchè non rispondeva?
Adesso ella puntava le due mani sul divano, per alzarsi. La sollevai ritta in piedi, con quella sua veste bianca, con gli occhi chiusi, col volto livido, colle mani abbandonate lungo la persona, ella mi parve uno spettro. Vacillava. La sorressi. Ella si volse verso il balcone, camminando con tanta lentezza che pareva facesse un passo avanti e un altro indietro. Giunta in mezzo alla stanza, si sciolse dal mio braccio che la sosteneva e, per la prima volta, da due ore e mezzo che ella era caduta in quel singolare stato, ella mi fece un cenno di allontanarmi da lei. Era, veramente, un cenno vago, largo, ma diceva questo:
— Allontanati. —
Non mi allontanai. Ero angosciatissimo, tentai di prenderle una mano. Mi sfuggì. E il cenno si ripetè, più preciso, più insistente:
— Allontanati. —
Obbedii. La vidi attraversare l’altra metà della stanza da letto, col medesimo passo incerto e lentissimo, radendo appena il tappeto, come un fantasma. E si fermò, nel vano del balcone. Erano chiusi i cristalli, ma le imposte erano aperte. Ella aveva sempre voluto così, perchè le piaceva contemplare il mare; e ho detto che le nostre finestre, da quella parte, erano quasi a picco sul mare, salvo una piccola banchina di terrapieno che radeva tutta la nostra facciata. Prima, ella appoggiò la fronte ai cristalli, come se la contemplazione del mare l’attirasse; l’avevo vista tante volte assopirsi così, nelle nostre buone giornate! Poi, parve che questo non le bastasse. Con un moto macchinale, ella stese la mano alla spagnoletta del balcone e aperse i cristalli. Mi parve udire un sospiro uscire dal suo petto oppresso; forse aveva avuto un grande bisogno di respirare l’aria libera del mare. Queste oppressioni, spesso, l’abbattevano. Fuori, dal vano del balcone, la notte era profondamente oscura, ma calma. Un vento caldo, sciroccale soffiava, dopo la pioggia del giorno. In quel vano oscuro, ella si disegnava tutta bianca; mi parve che avesse appoggiato le mani sulla ringhiera del balcone. Io restava ancora in mezzo alla stanza, per obbedirle; così mi aveva ordinato Maria. Poi, a un tratto, quella macchia bianca sparve nel buio. Maria, d’un salto si era buttata giù, udii anche il tonfo molle sulla terra.
Per un sol minuto secondo dubitai della mia ragione. Un minuto secondo! Ma appunto come un pazzo, corsi al balcone e vidi di sotto, una macchia bianca per terra. Se non mi gettai giù, anche io, è perchè, in un lampo di ragione, pensai che ella potesse essere ancora viva. Passai come un fulmine a traverso la casa, gridando, chiamando soccorso e schiudendo la porta terrena della villa; seguìto dalla cameriera, dal servo, dal medico che, appunto in quel momento, aveva bussato alla porta del giardino, uscii sulla piccola banchina che si allungava per la facciata della casa, sul mare. Trovammo Maria sotto al balcone, esanime. Si era fracassata il cranio, era morta. Un lago di sangue bagnava i suoi bei capelli neri sciolti e insozzava la sua veste bianca. Era morta.
Non avevo messo più di due minuti per attraversare la casa e il giardino; la mia corsa pazza valse questo: mi valse il corpo di Maria. Giacchè, mentre noi ci affannavamo intorno a quel povero cadavere ed io urlavo dalla disperazione, come un animale ferito a morte, udimmo uno squillante scoppio di risa, dal mare. Malgrado l’ombra, si vedeva una barca grande, peschereccia, che si allontanava a forza di remi e un piccolo uomo a poppa, in piedi. I miei occhi bene lo distinsero. Era Marcus Henner. Doveva gettarmi a mare a nuoto, raggiungerlo, dilaniarlo, è vero, l’assassino di Maria? Ma quella salma, quella cara salma, tutto quello che mi restava di lei dovevo abbandonarla? Ancora due volte, sempre più in lontananza, si udì quel riso atroce: così urla la iena, quando si è saziata, così urla di soddisfazione. Poi la barca disparve, lontano.
Ranieri, ho voluto asciugare io stesso quei bei capelli neri macchiati di sangue, quei capelli che tante volte e quella sera istessa avevo baciati e in cui avevo nascosto la mia faccia; ho lavato e vestito io il corpo della mia amante, del mio amore, e l’ho disteso sopra un letto di fiori, ho io riempito di fiori e di ceri la stanza dove ci siamo tanto amati e ho pianto, ho vegliato la mia morta, io solo. La disperazione di una morte così crudele non può avere altro sollievo che queste cure funebri; se non avessi fatto questo, sento che sarei impazzito, sento che mi sarei ucciso. Uccidermi? Vi ho pensato una notte intiera, accanto a quel cadavere, accanto al mistero di quella morte così tragica, così straziante. Avevo io diritto e volontà di vivere, quando l’unico essere che mi aveva amato, che io aveva amato, era morto? Potevo io vivere? Una notte intiera, accanto al corpo gelido della mia Maria, io mi sono posto questo problema, e non mi sono interrotto che per baciare quella fronte, quelle guance, quelle labbra. Quanto l’ho baciata, Ranieri! Dicono che sia un peccato mortale baciare i morti, con la passione amorosa con cui si baciavano da vivi: e, secondo la fede, anche Maria era morta in peccato mortale. Oh! povero, povero angiolo mio diletto!
Ma ella, anche, aveva sofferto tanto! Ella aveva tanto pianto, nella vita! Ella aveva tanto pregato e fatto penitenza! Marcus Henner l’aveva così tormentata, quella infelicissima, che ella aveva fatto quindici anni di purgatorio in terra. E, d’altronde, ho sempre creduto che Iddio fosse misericordioso ai peccati dell’amore, che si espiano sulla terra, tanto che anche la Margherita, di Faust, la infanticida, sale in cielo per la misericordia di Dio. La mia Maria era così dolce, così amorosa, così veramente buona! È vero, ella era morta suicida. Suicida! Aveva proprio voluto uccidersi? ella così felice, ella che mi amava, ella che avrebbe voluto ringiovanire per amarmi di più e meglio? Suicidarsi? Era un suicidio, quello, o un assassinio? Non aveva ella forse obbedito a un ordine? Non aveva forse, qualcuno, infranto la sua volontà? Non era contro un potere ignoto che ella aveva combattuto tre ore, in quella notte — ella che non voleva morire — ed era, poi stata vinta? non mi rimase che comporre la salma della mia amata nelle tre casse, di piombo, di legno e di velluto, e seppellirla nel piccolo fiorito cimitero di Cowes, e pregare sulla sua tomba la pace del Signore e piangere su quella tomba le mie ultime ardenti lacrime; sì, così. Ma compiuto tutto quello che la mia adorazione mi consigliava, per onorare il ricordo della bene amata, io avevo da compiere un alto ufficio, imprescindibile ufficio di vendetta. Io dovevo togliere dal mondo Marcus Henner; per le mie mani questo mostro doveva perire. Non già in duello, giacchè il duello è fatto per i gentiluomini ed egli era un assassino; non già ucciderlo in un agguato come egli aveva fatto per la mia diletta Maria, perchè questa è un’azione da vigliacco; ma ucciderlo alla luce del sole, con le mie mani, lungamente, lentamente, vederlo soffrire, godere delle sue sofferenze, ridere delle sue sofferenze, schiaffeggiarlo, agonizzante, e sputargli in volto, agonizzante! Giurai sulla testa innocente della mia povera Maria, che avrei eseguito da me, al più presto o più tardi questa vendetta che avrei cercato quest’uomo dappertutto, che l’avrei trovato dovunque egli fosse, che lo avrei ucciso, come avevo detto.
Giurai che, dopo aver baciato la sacra terra che copriva il corpo della mia Maria, sarei partito da Cowes, come il pellegrino della vendetta e che avrei dato il mio tempo, la mia salute, il mio denaro per la vendetta di quell’infame assassinio. Ripetei tre volte questo giuramento, innanzi alla salma dell’assassinata e mi consacrai alla morte di Marcus Henner.
Così, fatto questo terribile giuramento, soddisfatta la esaltazione dell’ira con quella sacrosanta promessa, io potei abbandonarmi, per tre giorni, al mio dolore, e piangere tutte le mie lacrime su quella morta. Non volli che nessuno l’accostasse; la deposi io stesso nella bara, la baciai mille volte, Ranieri, prima di fare scorrere il coperchio di piombo nelle scanalature. Dopo un’ora, folle, frenetico, riaprii la cassa, volli rivederla ancora una volta; ella non era disfatta, ella si manteneva serena nella pace augusta della morte. Poi, io, col servo, con due altri uomini, la portai sino al carro e vi andai dietro e non la lasciai mai, mai, sino a che non fosse chiusa nella tomba, fino a che non avessi visto piantare attorno alla tomba, fiori senza fine, fiori belli come ne ha l’Inghilterra.
Ma un ricordo di lei mi rimase: una delle sue lunghe trecce che, tante volte, per uno scherzo amoroso, ella aveva legato attorno al mio collo, dichiarandomi suo prigioniero. Io ne tagliai quella treccia che era una parte del mio tesoro e con essa dormii la notte dopo il seppellimento. Dormii? No: ero come un pazzo, chiamandola ancora, la mia Maria, sollevandomi sul letto piangendo, gridando, in una tale convulsione di dolore, bagnando quei poveri bei capelli neri colle mie lacrime, mordendo quei capelli, soffocando il mio strazio.
Però, io ho anche un altro ricordo di Maria Ranieri: e voi non potete immaginare che sia.
Carissimo Ranieri, io ho anche conservato un altro prezioso ricordo materiale di lei, vale a dire l’oggetto strano e affascinante che valse ad accendere nel mio cuore, dopo avere esaltata la mia fantasia, una passione mortale. Ed è, vale a dire, quella mano tagliata, adorna di gioielli e miracolosamente conservata come se fosse viva, la mano che io trovai nella carrozza di prima classe, donde era disceso Marcus Henner. Quella mano troncata alla metà dell’avambraccio era proprio di Maria.
Non vi stupite. Vi avevo detto che nella notte dolce e fatale in cui Maria era fuggita dal suo carcere, quando io cioè, la vidi personalmente per la prima volta, ella mi parve che avesse ambedue le mani; e in quel momento, malgrado che la mia fantasia provasse una forte delusione, io sentii che amavo Maria come che sia, e qualunque donna ella fosse. Certo, molto aveva operato il sogno, per innamorarmi; ma in quel momento la realtà fu più forte di qualunque visione ed io dimenticai tutte le mie fantasticherie dinanzi alla dolce donna, che veniva a me portata dall’amore e dal dolore. Fu più tardi, che io seppi il segreto di quella mano tagliata. Quella mano era la sua! io non ve ne dirò, caro Ranieri, il come, nè il perchè, la mia lettera è già troppo lunga. Sono stanco. L’avervi raccontato il modo, come è morta Maria, se ha soddisfatto il mio dolore, dandogli sfogo, ha esausto le mie forze. Credete, amico carissimo, che io sono come un albero fulminato, ancora resiste il tronco fermo nella terra, a radici fortissime; ma tutti i fiori ne sono caduti, ma tutte le foglie ne sono inaridite, e giammai più la primavera ridarà il rigoglio al tronco toccato dal fulmine. D’altronde, nella confessione di Marcus Henner, che vi unisco, strana e lugubre confessione, voi saprete anche col suo segreto, il segreto della mano tagliata.
E voi conoscerete un’altra cosa ancora dalla confessione di Marcus Henner, conoscerete perchè io, che avevo giurato di consacrare la mia vita, per vendicare Maria, e per uccidere Marcus Henner, conoscerete perchè io non l’ho ucciso. Dopo che voi avrete letto ciò che quel mostro ha scritto, intenderete come la mia vita oramai manchi di qualunque ragione di essere.
Io ho visto perire davanti ai miei occhi, senza potermivi opporre, la persona che ho amato nel mondo, e che più mi ha amato. Tutta la mia breve istoria d’amore è stata così intensa che mi pare in quei trenta giorni di aver vissuto cento anni, e mi sembra di essere un vecchio cadente, desideroso solo della pace della tomba. Maria è morta, uscendo dalle mie braccia, calda ancora dei miei baci, e io non ho potuto impedirlo, io sono stato un cattivo amante.
Per punirmi, il Signore, mi ha tolto la consolazione di poter uccidere colui che l’ha uccisa. Che cosa farò io? Non lo so. Rimarrò qui, sino a che avrò l’ossessione di questa tomba, e credo che questa ossessione non finirà che con la mia vita.
Una sola cosa potrebbe distaccarmi da queste aiuole, ove crescono i crisantemi, fiori di morte, ed è il desiderio di conoscere, di vedere Rachele Cabib, la donna che voi amate e che avete ritrovata, la figliuola di Maria. Voi felice, mio caro, che non avete vissuto invano, che avete amato a tempo sinceramente, con passione, e che nello istesso modo siete stato amato; ma, felice, soprattutto, perchè essa è viva accanto a voi, perchè voi potrete farla vostra, perchè tutto l’avvenire vi si schiude davanti, senza sfiducie e senza paure. Così, io vi prego di darmi vostre notizie a Cowes nell’isola di Wight dove io passo l’esistenza, fra la stanza, ove vissi con Maria, e la sua ultima stanza nel cimitero.
Ditemi tutto di voi: ditemi le vostre felicità e non pensate di scrivere a un disperato. Se mai, una nave dovesse salpare da Cowes per l’Italia, sarebbe solo per portarmi costà, per baciare la mano alla donna vostra per portarle il saluto di sua madre morta. Maria non era più giovane e la vostra donna è giovanissima; ma io ho troppo amato Maria, per non venerare la creatura che ella amava e a cui rivolgeva tutte le sue tenerezze. Verrò, forse, un giorno, non so quando, non so come. Dio mi ha talmente colpito, che io non conosco più la mia strada, e probabilmente nessuna strada mi rimane più da percorrere, salvo quella di attendere che la morte venga a me, per liberarmi.
Io penserò a voi spesso, senza invidia, e con dolcezza; tante volte la povera Maria mi aveva parlato della sua figliuola adorata, a cui Marcus Henner così crudelmente l’aveva strappata. Quante volte ella ha benedetto nelle preghiere della sera quella figlia lontana, e che non doveva più rivedere! La lettera diretta a Rachele, che io vi mando insieme a questa mia e alla confessione di Marcus Henner, dice tutto l’amore che quella madre sventurata portava alla sua figliuola. Io penso con dolore grande, indescrivibile, che cosa avrebbe potuto essere di felice la vita di noi quattro, così prima battuti dal destino, ed infine riuniti in dolce vincolo di parentela! Ma tutto è finito! Non più giovane ma immatura alla morte, quando ancor era adorata come una forma di bellezza e di virtù, Maria dorme nel piccolo cimitero di Cowes, e il brillante gentiluomo, che si chiamava il conte Roberto Alimena, l’uomo caro alle donne, a’ giuochi, agli svaghi, l’uomo scettico, incapace di sentire amore o dolore, non è che un pallido fantasma, vagante in una stanza ancora impregnata d’un profumo di donna, vagante intorno a una tomba giacente, pallido fantasma che niuna lusinga della vita potrà mai più consolare. La notte in cui io schiusi davanti ai miei occhi stupefatti il piccolo forziere, ove era chiusa la mano tagliata, sentii il misterioso avvertimento del destino, e compresi confusamente che la mia sorte era scritta. Ora, tutto è finito! Non ho più nulla da fare nel mondo, non potendo neanche uccidere Marcus Henner, e non posso uccidermi, perchè in una sera d’amore così promisi a lei.
E ora, carissimo Ranieri, vi mando un tenero addio. Perchè non scrivo io, un arrivederci, e preferisco mandarvi la parola ultima, l’estrema parola di distacco? Perchè, ve l’ho detto, non so quello che accadrà di me: non so se vivrò o se morrò; domani, non so se perirò qui o in qualche lontanissimo paese del mondo. Addio! Possa il Signore benedire voi e la vostra Rachele che era la figliuola della mia Maria!
Roberto Alimena.»

I più strani sentimenti avevano agitato il cuore di Ranieri Lambertini, durante la lettura della lettera; ma sovrastava a tutto lo stupore. Quello che aveva letto era così bizzarro e così folle, tanto inaspettato e tanto sorprendente, che egli aveva più volte interrotto la lettura, per interrogare con lo sguardo Dick Leslie, che aveva sempre risposto sì, col capo, a quella muta dimanda. Confuso e meravigliato, dopo aver finito, Ranieri chiese a Dick:
— Voi venite direttamente dall’isola di Wight?
— Sì, conte.
— Egli ha molto sofferto?
— Enormemente.
— Credete che si possa consolare? — e lo guardava, con una certa ansietà.
— Non credo, — rispose fermamente e con una certa tristezza il detective.
— Si ucciderà, dite?
— Non so. Ha promesso a lei, di non uccidersi, ma….
— Ma?
— Fa una vita che lo condurrà al suicidio.
— Sempre al cimitero?
— O in quella stanza, donde ella si è buttata giù: egli vi passa le lunghe ore.
— Vi dorme?
— Non vi dorme: vi passa la notte, gemendo, gridando, chiamando Maria.
— Dio mio! — disse Ranieri sgomentato.
— È così.
— Ma la poveretta, perchè si è buttata giù? Voleva morire?
— No, non voleva morire. È lui che ha voluto.
— Chi?
— Marcus Henner.
— Come?
— Da lungo tempo, egli aveva dominato, nel sonno ipnotico, la infelice Maria.
— Ebbene?
— In quel sonno, egli la comandava.
— Ed ella obbediva?
— Pare.
— Che orribile mistero!
— Veramente orribile.
— E come credete sia avvenuto questo delitto?
— Non si possono fare che supposizioni. …
— Poveretta! Ebbene?
— Deve averla ipnotizzata a distanza. … — disse vagamente Leslie.
— Non è possibile!
— Egli girava intorno alla casa da due giorni.
— Non è possibile.
— Si è poi saputo che ha passato due notti in barca, sotto le finestre.
— E di là. … voi credete?
— Non credo. … suppongo.
— È una follìa il pensarlo.
— Eppure, è così. Avete letto la descrizione delle ultime ore di Maria?
— Sì.
— Vi è stata una lotta, fra lei e una volontà ignota.
— Comprendo.
— Ed ella è stata vinta!
— È impossibile, impossibile, — soggiunse Ranieri Lambertini, col volto fra le mani.
Per qualche tempo egli rimase così, assorto in riflessioni profonde. Le due lettere, cioè gli altri due manoscritti, quello di Marcus Henner e quello di Maria Cabib, restavano sul tavolino, presso lui.
— La mia Rachele ha perduta sua madre! — esclamò levandosi a un tratto.
— Prima di rivederla.
— Che crudele destino! E questo assassino, perchè Roberto non lo ha ucciso?
— Lo vedrete, — disse, misteriosamente l’agente di polizia.
— Dove?
— Nella confessione di Marcus Henner.
— Questa?
— Sì.
— Come l’ha avuta nelle mani Roberto?
— Nel modo più singolare.
— Dite!
— L’ha trovata.
— Dove?
— Sulla tomba di Maria.
— Sulla tomba?
— Sì.
— Quando?
— Dieci giorni fa.
— E chi l’aveva messa, colà?
— Chi lo sa?
— Marcus Henner istesso?
— Forse.
— Egli si aggirava, là intorno?
— Pare, o lui, o un altro.
— E che dice, questa confessione?
— Leggetela, leggetela.
— Non posso negarvi che sono molto turbato e molto triste, — mormorò Ranieri. — Io stesso sono assai infelice, in questo momento.
— Infelice? Con la vostra Rachele?
— Rachele non è mia, — disse tetramente Ranieri. — Marcus Henner l’ha costretta a entrare in convento.
— Ma ne uscirà!
— Chi sa!
— Se vi ama. …
— Quel mostro l’ha convinta del mio disamore, ed ella non m’ama.
— Vi riamerà! — disse Leslie, con sicurezza.
— Credete?
— Sì.
— Che cosa ve lo fa credere?
— Vedrete, vedrete. Il miracolo si farà.
— Ma come?
— Leggete le due lettere!
— Se contengono altri dolori, preferisco aspettare, — disse Ranieri.
— No, ve lo assicuro. —
Eppure, Ranieri Lambertini esitava ancora, prima di schiudere il secondo plico, quello dove si conteneva la confessione di Marcus Henner. Tutto quello che gli aveva scritto il conte Roberto Alimena, gli turbinava nell’animo e non arrivava a sedare il tumulto del suo spirito. Flemmaticamente, dopo avergliene chiesto permesso, Dick Leslie aveva acceso la sua pipetta inglese e ne cacciava larghi nugoli di fumo. Ranieri Lambertini, come per sottrarsi alla ossessione di quelle due altre lettere, si era alzato ed aveva fatto tre o quattro volte il giro della camera, come un leone. Poi, ritornando presso il detective, di nuovo gli aveva dimandato:
— Credete che Roberto Alimena si uccida?
— Lo credo quasi certamente, — disse l’agente di polizia, sospendendo di fumare e fissando i suoi occhi azzurri e limpidi nel volto di Lambertini.
— E perchè lo avete lasciato?
— Ora, non lo farà.
— E dopo? Dopo?
— Sarà quel che Dio vorrà, — mormorò il detective, mordendo la cannuccia della sua pipa.
— Voi ritornerete, subito, in Inghilterra?
— Subito: come voi mi darete una risposta.
— Andrete a Cowes?
— Naturalmente.
— Ci rimarrete?
— Non posso, — disse Dick Leslie.
— Perchè? Vorreste abbandonare Roberto, così?
— Abbandonarlo? Mio signore, io l’ho servito, ma non gli sono nè amico nè fratello.
— Mi parla di voi come un salvatore.
— È molto buono. … gl’italiani sono molto entusiasti . … egli mi ha pagato. … — borbottò Leslie, che voleva nascondere una certa commozione.
— Dice che i vostri servigi non avean prezzo. E volete lasciarlo?
— Io debbo guadagnare la mia vita, signore, e non posso custodire qualcuno che, forse, non vorrà saperne di me.
— Oh, Roberto non deve morire! — esclamò Ranieri Lambertini, con accento desolato.
— Perchè non lo raggiungete voi, a Cowes? Perchè non lo portate con voi? Perchè non lo sottraete a quell’ambiente dove egli si consuma di dolore?
— Io voglio farlo. Io lo farò, — disse Ranieri Lambertini.
— E quando?
— Il giorno che Rachele Cabib sarà mia, io partirò per l’Inghilterra.
— E quando?
— Ahimè! — disse Ranieri Lambertini. — Quel mostro mi ha, forse, tolto per sempre Rachele! Ma io lo troverò e lo ucciderò.
— Chi?
— Marcus Henner!
— Ah! — disse Leslie, con un enigmatico sorriso.
— Quello che Roberto non ha potuto fare, non so perchè, lo farò io, ve lo giuro!
— Leggete prima la sua confessione, — soggiunse l’agente di polizia, con uno sguardo suggestivo.
— Chi sa quale cumulo di inganni, di menzogne, di doppiezze è in questo scritto.
— Se non avete letto!
— Leggerò, leggerò. Tanto vi preme che io sappia i segreti di questo infame?
— Mi stupisce che questi segreti non interessino potentemente voi! —
E il detective coprì Ranieri Lambertini di uno sguardo così magnetico che, macchinalmente, costui stese la mano per prendere il manoscritto sul tavolino.
— Dove fu trovato? Ma lo avete detto? — domandò ancora una volta, quasi fosse confuso.
— Sì, l’ho detto. Sulla tomba di Maria Cabib.
— Chi l’ha trovato?
— Un custode del cimitero.
— E costui lo ha dato a Roberto?
— Sì; costui lo ha conservato e quando Roberto è andato per la solita visita quotidiana, al camposanto, glielo ha dato.
— E non fu visto chi lo deponesse colà?
— No.
— A quale ora?
— Pare, nella notte. Il manoscritto era molle di rugiada mattinale, malgrado il suo involucro di pergamena.
— È strano, è strano!
— Marcus Henner deve aver approdato di notte, a Cowes, come nella notte del delitto. Il cimitero è poco lontano dalla riva. Avrà scavalcato il muro del camposanto che non è alto.
— Di notte?
— Di notte. Egli non temeva nulla, — disse Dick Leslie.
— Credete che ora tema qualcuno? — domandò Ranieri, senza intendere bene.
— Eh! Chi sa!
— Roberto ha letto questa lettera?
— Sì.
— Ed ha pensato di mandarmela?
— Sì.
— E perchè?
— Ma leggetela, in nome di Dio! — gridò l’agente di polizia, a cui era scappata la pazienza.
— Avete ragione, — mormorò lentamente Ranieri Lambertini. — Il mio spirito è molto fiacco in questo momento e non vorrei rabbrividire di orrore, ancora una volta.
— Rabbrividirete, — disse Dick.
— Voi conoscete il contenuto di questa confessione?
— Sì: è atroce!
— E allora, ditemelo.
— No, signore; ho istruzioni di chiedervi la lettura di tale manoscritto e non di narrarvelo.
— Sta bene, — disse freddamente Ranieri Lambertini, riprendendo i suoi spiriti dispersi.
Il manoscritto di Marcus Henner, quello che conteneva il segreto di costui, era chiuso in una busta di carta-tela, con un suggello grande, nero, su cui erano impresse le armi di Alimena. Dentro, il manoscritto era formato di grandi fogli di carta inglese, minutamente coperti da una piccola calligrafia, in inchiostro così rosso che pareva sangue. Non era una lettera, non era indirizzata a nessuno.
L’ampio primo foglio portava, in cima, certi caratteri strani, appartenenti a qualche lingua ignorata, come il Caldaico e il Siriaco:

«In nome del Dio nostro, del
Dio di Mosè e di Abramo, in
nome di quel Dio che si chiama
Jehovah e che è UNICO

E la confessione, dopo questa invocazione, cominciava così:

«Ho commesso un orribile delitto. Ho ucciso una donna debole, inerte e indifesa. Io solo l’ho uccisa. E il mio delitto si è compiuto in una maniera tanto atroce, che, al solo pensarvi, i capelli si rizzano sul mio capo seminudo, e l’agghiacciato sudore del rimorso ne bagna le radici.
Questo non è il mio primo delitto, ma è certamente il più grande, il più infame, e malgrado il potere e la bontà di Dio, malgrado che io abbia servito sempre fedelmente il Signore d’Israele, non credo di poter trovare perdono dinanzi al suo trono di gloria. Sono quindici giorni che ho ucciso Maria Cabib, e non ho mai più potuto dormire; io, come Macbeth, ho ucciso il sonno. Da quindici giorni, appena cade la notte, un’allucinazione spaventosa mi coglie, e io vedo innanzi a me, attorno a me, sempre accanto a me, Maria col cranio sfracellato, con una lunga riga di sangue, che le cala lungo i capelli neri disciolti e le insozza il bianco vestito; io la vedo agitare innanzi a me minacciosamente il suo moncherino sanguinoso, simile a quel giorno di follìa, in cui, avendola immersa nel sonno ipnotico, esercitai contro lei che mi odiava e contro me che l’adoravo, la crudeltà di tagliare il più bel braccio ch’io avessi visto al mondo. Da quindici giorni, io temo la notte come la mia maggiore nemica, io non posso veder cadere le ombre notturne, senza esser preso da una ossessione che mi fa tremare le vene e i polsi. Come farò a vivere con questo notturno fantasma, che mi perseguita co’suoi occhi ardenti e desolati, col suo braccio mozzato, con la sua unica mano deprecante al mio capo esecrato; come vivrò io con quest’ombra, che mi tortura più di quanto Maria mi torturasse viva col suo disprezzo? E come potrò vivere, dopo aver ucciso Maria, la mia regina e il mio idolo? Ho deciso, dunque, di morire! Se io non mi uccidessi, questo fantasma con le sue mani di ombra mi condurrebbe immancabilmente alla follìa ed alla morte. Non è in un manicomio, come un volgare lipemaniaco, che deve morire Marcus Henner, il grande scienziato, l’uomo che ha rapito a Dio il segreto di dominare la volontà umana, il più glorioso figliuolo d’Israele, dopo Mosè. Che un castigamatti debba somministrarmi la doccia e serrarmi le membra nella camiciuola di forza, è una fine troppo umiliante e che fa ribrezzo al mio smisurato orgoglio. Meglio perire subito, di mia elezione, dando la mia vita a colei che ho uccisa, dandogliela in olocausto del più imperdonabile delitto che mai uomo potesse commettere: l’uccisione della persona che più amava.
Io mi ucciderò alla fine di questa confessione. Sentendo che nella vita esistono gioie e dolori, che mille volte ne aumentano il prezzo, io ho sempre disprezzato il suicida: colui che rinunzia all’esistenza prima del termine fatale assegnatogli dal Signore, è stato per me sempre un buffone o un vile. Ora, io mi ricredo. Da lungo tempo il sorriso è sparito dalla mia vita, e forse non vi apparve mai, se può chiamarsi sorriso il ghigno superbo di un uomo, che tentò di elevarsi audacemente sino al cielo. Io non ho riso mai e non fui mai ridicolo; io, non essendo un buffone, sono dunque un vile, forse.
Il sentimento tremendo che mi coglie quando le tenebre si addensano sulla terra, e lo spettro di Maria mi appare e non mi lascia mai, sino a che il gallo canti al chiarore dell’alba, questo sentimento che sconvolge i miei sensi e disperde i miei spiriti, è la paura forse? Non lo so. So che io, che ho resistito alle crisi estreme dell’esistenza, che ho anatomizzato senza tremare i cadaveri distesi sul marmo della sala mortuaria, so che ho inteso senza tremare il grido delle vittime, che dovevan perire per assicurare alla scienza un suo segreto: io che ho avuto ogni sorta di coraggio, in ogni sorta di pericoli. Ma, vedete, le ombre sono più forti della realtà; e io ho forse paura di un fantasma e per questo fantasma io muoio.
Quando questo manoscritto, che io depongo in una notte tempestosa d’inverno sulla tomba di Maria Cabib, in una notte simile a quella nella quale io commisi il più imperdonabile misfatto, quando questo manoscritto sarà nelle mani dei miei nemici, ultimi nemici, conte Ranieri Lambertini e conte Roberto Alimena, l’anima di Marcus Henner sarà già da un pezzo davanti all’eterno suo Giudice, per mia elezione, ed in olocausto all’assassinio di Maria. Scrivo questo, non per giustificarmi, perchè non riconosco altro magistrato sulla mia coscienza che il Dio d’Israele, ma lo scrivo perchè si conosca che cosa fu il mio segreto e quale fu la causa della mia morte. Dovrei, forse, sparire, come il fumo nell’aria dileguarmi, ma non so quale acre desiderio di volgere e di rivolgere il pugnale che m’ha trafitto nella mia piaga, mi tiene e mi vince. Oramai i due gentiluomini che mi hanno preso — l’uno il cuore di Maria e l’altro il cuore di Rachele — non possono cogliermi più. Io mi metto al sicuro d’ogni loro vendetta, votandomi alla morte, quando appena ho toccato la maturità dei miei anni, quando il mio talento e la mia scienza sono nel loro pieno sviluppo, quando la mia fortuna era per giungere all’apice.
Ma gli uomini che hanno un grande ideale debbono vivere casti e senza amore.
Sparisce con me una delle energie più violente e più atte a scoprire verità, a creare e a regolare i fatti della vita, una delle volontà più efficaci e più proterve.
Muore con me una forza che mai più riapparirà nel mondo: sparisce una leva possente, sulla quale un mirabile edificio di pensiero e di scienza si poteva levare; muore un uomo che conosceva i segreti, che asserviscono l’uomo all’uomo. E tutto questo perchè due occhi dolenti e affascinanti m’han guardato un giorno, e perchè io chiesi invano a questi occhi uno sguardo di amore, perchè una bocca porpurea m’è apparsa, e io domandai a questa bocca dei sorrisi, delle parole, dei baci, che mai mi furono accordati. Io ho tradito la Scienza per la Donna, e la Donna mi ha perduto.
Io ho ucciso Maria, questa innocente, questa poveretta, che io adorava: io ho perduto Rachele, la figliuola di Maria, che bella come sua madre, come sua madre ha respinto ferocemente il mio amore, e, poichè nulla più mi resta di queste due donne, poichè io non potrei essere amato, più mai, poichè mai più io potrò amare una donna, nel mondo, perisco, così. Altra, altra, era la mia missione sulla terra, anzi che quella di asservirmi a un cuore freddo e sdegnoso di donna; io era chiamato ad altri e supremi destini. Quella sovranità che non possiede più il popolo di Israele, io avrei potuto restaurarla, col mio potere e coi soccorsi dei grandi milionari ebrei: io avrei potuto mettermi a capo del mio popolo! Ma, ecco, l’uomo ha voluto amare; e il Re ha perduto la corona.
La corona e la vita. Debbo morire. Sparita Maria, sparita Rachele, che debbo io più fare sulla terra? Sono gobbo, calvo, brutto, sporco: faccio paura agli uomini, ribrezzo alle donne. Quando ne ho voluta una, non l’ho potuta avere che nel sonno ipnotico: è una cosa orribile, ma è così. Queste infelici, quando erano sveglie, mi guardavano disgustate e sgomente; se io avessi preso loro una mano, l’avrebbero ritratta con orrore, e ogni volta che ho tentata una seduzione, ne ho avuto le beffe e le amarezze, in cambio. Però, quando io comandava di dormire, esse dormivano; e dormivano nella mia stanza da studio, dove erano sole con me, dove nessun altra volontà che la mia poteva agire su loro, dove nessuno le sottraeva a me; allora, morendo di rabbia, di crepacuore, io comandava a una di esse, a quella che, in un giorno critico mi capitava innanzi, comandava di amarmi per un’ora, e la suggestione ipnotica mi dava quella donna, e io la possedeva, piangendo d’ira, maledicendo la mia vita e la mia fortuna. Morirò, morirò, perchè la mia esistenza è finita nella sera che io ho uccisa Maria.
Come posso vivere? Sentite. La mia istoria è quella di un immenso orgoglio e di un immenso dolore. Io sono tedesco, per mio padre, e russo, per mia madre. Sono nato a Berlino, ma non vi sono restato che poco tempo, giacchè mio padre e mia madre hanno sempre fatta una vita randagia e disordinata. Ambedue israeliti, mio padre era medico e mia madre ritenuta come una cultrice della magìa. Pallida, esangue, magra, con certi occhi ardenti come carbonchi, io me la ricordo sempre, col viso curvo sopra certe sue miscele, bollenti in una piccola caldaia di argento, curva sopra certi suoi grossi libri, scritti in lingue sconosciute a me fanciullo. Mio padre la rispettava e la temeva: spesso si chiudevano in una stanza, insieme, e io udiva degli strani canti uscire di là dentro e delle bizzarre esclamazioni esser pronunziate dalla voce alterata di mia madre. Non avevo paura, io, no; ma una curiosità terribile agitava la mia curiosità di fanciullo; e mentre la professione di mio padre mi attirava molto, le misteriose occupazioni di mia madre mi affascinavano. Eravamo poveri, è vero, ma, spesso, insolitamente, correva denaro in casa. Personaggi sconosciuti venivano da noi, nella notte, e conferivano con mia madre. Io mi alzava dal mio lettuccio e, seminudo, scalzo, andavo a origliare. Talvolta essa parlava o cantava; strani profumi d’incensi, di mirre, venivano dalla stanza. Io sonnecchiava, a quella porta; i profumi mi stordivano. Mia madre mi trovava colà, mi prendeva nelle braccia, mi toccava la fronte ardente con le sue mani fredde. Lentamente, mentre mio padre m’iniziava agli studi pratici di medicina e io seguiva gli studi scientifici, in età ancora giovanissima, con una precocità straordinaria, mia madre m’iniziava allo studio delle scienze occulte; e, presto, io, appassionatissimo, fui il suo miglior sussidio in queste esercitazioni del potere umano. Da dodici a venti anni, io sono passato a traverso la vita, senza vederla, studiando sui libri e sulle erbe, interrogando tutte le sorgenti dell’esistenza, conoscendo i segreti della scienza e della magìa, imparando tutti i misteri del magnetismo e dell’ipnotismo. Presto, a ventidue anni, io era più forte, più sapiente di mio padre e di mia madre presi insieme: eravamo sempre poveri, ma la mia superbia non aveva confine.
Di già la fama della mia sapienza si era diffusa nella popolazione ebrea e cominciavano a venire a consultarmi, i più poveri, i più infelici; e io li curava per nulla, alcuni guarendoli fittiziamente, sotto il potere dell’ipnotismo. La mia reputazione cresceva, ma non la mia fortuna; del resto, ero brutto e gobbo, anche giovane. Ciò, allora, non mi affliggeva molto, giacchè la scienza e il potere formavano il mio duplice ideale. Volevo essere ricco e grande; dopo, io pensava, sarei stato amato, adorato.
Mia madre, che vedeva in me, non solo il figlio, ma il successore, non solo il sapiente, ma il dominatore dei popoli, me lo diceva sempre. Del resto, ella mi consigliava a essere casto, fino a che avessi avuto denaro e gloria: dopo, ella mi diceva, che avrei avuto a mia disposizione le donne più belle e più passionali. Difatti, per vari anni non pensai alle femmine; ero egoista, volevo accumulare una fortuna e prendere un posto altissimo nella società israelita.
E, difatti, usando di quell’arme sicura e implacabile dell’ipnotismo, che ci dà nelle mani le persone e le loro volontà, le anime e i loro segreti, io arrivai ad esercitare un dominio straordinario su quelli che mi circondavano e su quelli, più lontani ancora, che venivano a me. Ma specialmente sui cristiani, io ho esercitato tutta la mia forza d’ipnotista e tutti i segreti della magìa di mia madre. Ah, come li ho odiati bene questi cristiani e come li ho polverizzati, tutti quelli che sono capitati sotto la mia volontà! Come ho spezzato i loro cuori e rovinato le loro esistenze, senza che essi potessero intendere tutta la mia vendetta! Era una vendetta annosa, quella che esercitavo contro loro, giacchè io era, in fondo, un uomo pio e adoravo il Dio di Abramo e di Mosè; era la vendetta del nostro tempio crollato, della nostra fede precipitata, della nostra nazione dispersa, della nostra fortuna distrutta: la vendetta contro i cristiani, contro queste belve dall’aspetto mite che ci perseguitano da secoli, che non ci danno tregua e che sono, adesso, nelle nostre mani, perchè siamo i più ricchi, i più furbi, i più forti, i più audaci.
Ognuno di noi conserva nel cuore questo spirito di vendetta, contro i cristiani, ma non tutti possono esprimerlo e non tutti possono svilupparlo. Lo dichiaro; sempre che ho potuto avvilire, vituperare, rovinare un cristiano, io l’ho fatto con ferocia e con entusiasmo. Dio di Abramo e di Mosè, tu devi essere contento di me!
Ma la Germania, dove noi per uno strano caso risiedevamo da più anni, mentre per molto tempo eravamo andati vagabondi, la Germania mi parve un campo troppo ristretto per la mia immensa ambizione. Fervevano allora i primi moti nihilisti, e dalle conflagrazioni politiche, come dall’esaltazione delle anime, non poteva che trarre vantaggio la mia fortuna. Deliberai di lasciare Berlino e di portarmi in Russia, dove il campo sarebbe stato vasto in una società così convulsa e così bizzarra. I russi sono molto mistici, quasi tutti credono allo spiritismo, e l’ipnotismo li seduce più di qualunque altro popolo. D’altronde, la Russia è piena di ebrei, e io avrei trovato un ampio mondo, dove sviluppare tutta la mia attività e tutti i miei desiderî di gloria.
Ahi, non avessi mai lasciato il mio paese natìo! Fu dal giorno in cui lasciai la terra tedesca e misi il piede sul vulcanico suolo russo, che cominciarono tutte le mie sventure, giacchè io sono stato il più sventurato tra gli uomini.
Ho avuto denaro, potenza, e gloria; sono stato ritenuto dai miei confratelli ebrei come discendente in linea retta da Mosè, come un loro capo, quasi come un loro re. Ho sbaragliato i miei nemici, vinto i miei detrattori, strappato alla scienza molti dei suoi segreti; e tutto questo mi è accaduto in Russia, il paese della intelligenza e del sogno, il paese della forza e dell’allucinazione. Ma è anche in Russia, che io ho conosciuto Maria Cabib, e che tutto il mio destino ha detto colà la sua parola decisiva. Se oggi, ricco, forte, potente, senza legami, senza vincoli, non vecchio, io preferisco di scendere nella tomba nella forma più atroce, è perchè io, in un giorno d’inverno, ho visto apparire la dolce e voluttuosa ebrea avvolta nella sua pelliccia e pensosa sotto il suo berretto di velluto.
Io preferii, andando in Russia, di vivere sei mesi a Pietroburgo e sei mesi a Mosca, dove batte il cuore della vecchia Russia; e dalle due metropoli facevo continuamente delle escursioni a Kazan, a Kiew, a Odessa, e in regioni anche più lontane, per cercare tutti i miei fratelli ebrei, e per curare con l’ipnotismo le grandi signore nevrotiche, e i gentiluomini chiusi nei loro castelli perduti tra la neve. Io non temeva nè la polizia moscovita, nè i nihilisti, nè il freddo; e viaggiavo continuamente da un capo all’altro della Russia, tanto che alla fine non vi fu ebreo russo che non mi conoscesse, e non vi fu principessa che non mi chiamasse nelle sue crisi nervose. Fu in quel tempo, che il nome di Marcus Henner cominciò ad essere annoverato tra quelli degli scienziati europei, e ch’io potei far dimenticare a’ cristiani dotti la mia turpe origine semita. Io guadagnava molto denaro, ma ne spendevo anche molto, per aiutare i miei fratelli poveri, acquistando così una popolarità segreta e profonda che mi ha aiutato in tutti i miei disegni.
Fu allora anche che sposai una giovane galiziana che viveva a Pietroburgo, che io non amavo punto, e che mia madre volle per forza farmi sposare. Clara Meyer era bella, orfana e povera: aveva un carattere dolce e tenero, un temperamento timido e sensibile e una salute gracile di fiore delicato. Io le faceva, come a tutte quante le donne, ribrezzo e paura; ma poichè era abbandonata nel mondo, poichè si vedeva perduta in una lotta impari con le cose e con gli uomini, ella superò per un istante le sue ripugnanze e le sue paure, e mi sposò in preda a una malinconia mortale. Mia madre aveva voluto questo matrimonio, perchè nella sua preveggenza materna, temeva l’influenza del femminile su me e voleva sottrarmi alle seduzioni muliebri, mercè il matrimonio e forse i figli.
Ma questa unione conservò un carattere di suprema tristezza; Clara Henner, mia moglie, non potè mai superare completamente la repulsione che io le ispirava e di nuovo ebbe paura di me, come di un mostro nel fisico e nel morale.
Io, comprendendo questo ed essendo orgoglioso all’estremo, fui con Clara Henner marito freddissimo e disdegnoso. La lasciavo sola per lunghi intervalli; non dormivo nè nel suo letto, nè nella sua stanza; le tenevo nascosta la mia fortuna e non l’avevo iniziata a nessuno dei segreti della mia vita. Più volte la ipnotizzai, per strappare a lei delle parole d’amore e dei consensi che giammai, nello stato di veglia, ella mi avrebbe concesso; ma la sua salute era così fragile, che uscendo dagli accessi ipnotici, ella cadeva in preda a forti palpitazioni di cuore, ed io le faceva orrore più che mai. Penso che ella fosse infelicissima con me, tanto più che io la sospettava di seguire celatamente le pratiche della religione cristiana e per questo la tormentavo con le mie domande e la perseguitavo con le mie beffe. Ella temeva di tutto, di mia madre che le si mostrava dura e sprezzante, di mio padre che negli ultimi anni aveva preso l’abitudine di avvinazzarsi, di me soprattutto che conducevo una vita misteriosa e complicata, piena di strane cose e di pratiche singolari. Quante volte ho visto il pallore della paura su quel viso delicato e mi sono divertito barbaramente ad eccitarlo coi miei discorsi feroci e cinici! In breve, Clara Henner diventò nella mia casa una cenerentola sempre tremante e che segretamente odiava il suo marito e padrone. Ella non ebbe mai figliuoli, e questo le fu sempre amaramente rimproverato da mia madre e qualche volta anche da me. La mia ambizione mi dava il desiderio di avere un erede ed un successore.
Ma Clara Henner non è nella mia vita travagliata e combattuta che un pallido incidente di cui la mia grande anima non si è nè commossa, nè occupata. Più tardi, ella ha avuto la forza di fuggire lontano da me, ed io non ho fatto nulla per riprenderla, sebbene conoscessi la sua strada. Ho lasciato che ella andasse a morire in pace dove meglio le piaceva, senza voler disturbare la sua morte, come avevo disturbata la sua vita.
Io credo che, a quest’ora, Clara Henner sia morta. Ho sempre sospettato che la sua anima tenera si fosse piagata al cristianesimo, e ciò ha reso, nei tempi lontani, più profondo l’abisso che ci divideva. So, difatti, che, più tardi, ella era entrata in un convento e che vi era giunta inferma gravemente, di una malattia di cuore contratta sino dalla giovinezza, malattia aumentata dalla triste e angosciosa vita durata accanto a me. Certo, io ho formato l’infelicità di quella donna e ne ho affrettata la fine. Ma perchè ella si è trovata sul mio passaggio? Perchè ella è entrata nella mia orbita fatale? In questa vita bisogna o avere il cuore di bronzo o spezzarsi. Ella si è spezzata; era, in fondo, una debole femminetta, indegna di dividere la sorte di un dominatore come me.
Certo ella non mi ha mai amato di amore; ma la forte, la immensa passione che scoppiò nel mio animo, quando incontrai Maria Cabib, aumentò la tristezza mortale di Clara Henner e le tolse l’ultimo raggio di felicità di cui quell’anima diseredata avrebbe potuto godere, cioè la pace. Clara Henner non fu mai gelosa di me, perchè non mi amò mai; ma da quando Maria Cabib ebbe tutto il mio cuore e arse i miei sensi, ella perdette anche la mia pietà. Fui crudele, scellerato, con lei: lo confesso e non me ne pento, giacchè io ho molto sofferto e ogni rimorso è spento nel mio arido cuore, ogni rimorso che non sia quello della uccisione di Maria!
Quando ho conosciuto Maria Cabib, io aveva trentacinque anni; ella non ne aveva ventitrè. Ma i miei trentacinque anni, brutto, gobbo, spelato come ero, valevano per cinquanta; mentre i ventitrè anni di quella donna era per lei la giovinezza splendida e irresistibile. Quanto era bella! Non ho mai visto un volto così puro di linee, così perfetto di colore. Non ho mai incontrato una persona così formosa e intanto così snella e così elegante; non ho mai visto, in una fisonomia muliebre, la fierezza e la dolcezza riunite insieme, in un’armonia così sovrana. Più fiera che dolce, forse, allora; giacchè la coscienza della sua irresistibile beltà e gli omaggi di tutti coloro che l’adoravano, empivano quell’anima di orgoglio. Dopo, quell’anima si è piegata sotto la mano del destino — non sotto la mia, ahimè! — e si è fatta dolce e tenera, non per me, mai! Ma il suo orgoglio è stato supremo: più grande persino del mio, che ero un conquistatore di popoli e un dominatore di volontà.
Maria Cabib era la moglie di un vecchio ebreo, che aveva almeno trent’anni più di lei; ella aveva una sola figliuoletta, una bimba di quattro o cinque anni che le rassomigliava stranamente. Essi vivevano a Mosca da molti anni, ma non erano russi, erano ebrei di Germania. Ella si chiamava Miriam, ma aveva trasformato il suo nome, in quello della madre di Gesù, per un suo capriccio.
Mi accorsi più tardi, molto più tardi, che ella non aveva obbedito a un capriccio, assumendo quella forma nazzarena del nome. Troppo tardi!
I Cabib vivevano agiatamente, poichè Mosè negoziava di pietre preziose, specialmente di torchesi e di smeraldi; si diceva anzi che, il Mosè fosse molto ricco e nascondesse i suoi denari, per paura di furto o di persecuzione. Maria amava il lusso e i piaceri, ma il marito non cedeva che con riluttanza ai desiderî di sua moglie. Ella avrebbe voluto sfoggiare, ma Mosè la tratteneva sempre sulla via della prodigalità, e ciò era cagione spesso di malumori fra loro. Più di una volta, lo seppi dopo, Maria Cabib aveva minacciato suo marito di fuggirsene via, portando seco la piccola Rachele che egli adorava. Amava egli sua moglie? No. Amava molto il danaro, ecco. Sua moglie ne spendeva troppo, e ciò lo torturava. Era egli geloso di Maria? Chi sa! Certo era che Maria era circondata di corteggiatori ed egli non la sorvegliava o non aveva l’aria di sorvegliarla. D’altronde, Maria trattava questi corteggiatori con grande superbia e con grande disdegno; nessuno aveva saputo ispirarle niente. Solo, un giovane studente tedesco, nel suo paese Jean Straube, era accolto meno male da lei; ma era cristiano e non dava quindi sospetto. Una ebrea può essere fedifraga al marito, non lo è mai con un uomo di un’altra religione. Questo io pensavo, allora. Presto dovetti accorgermi che. … è troppo odioso il dirlo, ora, e la penna mi cade dalle mani.
Io ho conosciuto Maria Cabib, in una funzione religiosa della sinagoga di Mosca; ella era fra le donne in prima fila, e quando i miei occhi la scorsero per la prima volta, io sentii quel calore bruciante nel petto, che è presago delle grandi commozioni dei sensi e dello spirito. Mai una donna mi aveva fatto una simile impressione, e io ero stato con esse molto altiero, sentendo il loro ribrezzo e la loro paura. Per tutto il tempo della solennità religiosa io non cessai di guardarla. Ella non pregava. I suoi occhi distratti e assorbiti in un superbo pensiero, ora si chinavano a terra, restando immoti, ora si levavano al cielo. Era vestita sfarzosamente e carica di gioielli, le sue mani bianche, meravigliose, nude, scintillavano di anelli, i suoi polsi, sottili e rotondi, erano carichi di braccialetti. Pensai che per baciare quella mano, per mordere quel polso, io avrei data la mia scienza e la mia vita; e mi bruciò tale fiamma della sua persona che io pensai subito di essere un sacrilego. Ero pio, ancora, cioè mi vedevo così vicino al Signore d’Israele, da non dovere e non poter peccare nel suo tempio. Ma fui subito punito, giacchè la bellissima donna non mi gettò neppure uno sguardo, giacchè ella si unì a suo marito, uscendo dalla sinagoga, e non si voltò neanche a salutare colui che la vedeva passare tremando di emozione. Io conosceva Mosè Cabib e lo aveva salutato. Egli mi rispose, non lei; mi avvicinai, ella affrettò il passo e sparve insieme a Mosè, lasciandomi sdegnato e desolato. Da quel giorno sono cominciate le mie sofferenze per Maria Cabib, e furono più o meno amare, più o meno strazianti; ma non finiranno mai e non finiranno che quando avrò chiuso questo fascio di carte e chiusa per sempre questa mia vita. Quello fu il simbolo di ciò che sarebbe stata la mia lunga ed inane passione per questa donna, di cui dovevamo morire lei ed io.
Il giorno seguente a quello in cui avevo incontrato Maria Cabib nella vecchia sinagoga della vecchia capitale russa, io cercai di rivedere quella donna che in una sola ora aveva portato via la mia anima e che doveva per sempre dominare i miei sensi. Ero, come ho già narrato, in buone relazioni con Mosè Cabib, e costui anzi aveva una palese suggezione di me. Andai a cercarlo alla Borsa e cercai di farmi condurre a casa sua. Ma lo trovai singolarmente freddo su questo rapporto, giacchè gli ebrei non amano di mostrare molto le loro donne anche ai loro correligionari. Compresi che gravi ostacoli mi dividevano dalla bellissima donna che avevo sentito di amare nel primo terribile momento in cui l’avevo veduta, e che oramai tutte le mie forze sarebbero state rivolte a vincere queste enormi difficoltà. Oramai la mia ambizione smisurata aveva una ragione di essere, e se io ero brutto, laido, deforme, avrei saputo essere così ricco e glorioso, da sedurre qualunque restìo cuore femminile. D’altronde Maria Cabib mi parve una donna orgogliosa, e da codeste superbe creature vi è tutto da aspettare, il massimo dolore e il massimo piacere.
Già la mia potenza magnetica, che in altri paesi meno fantastici e meno esaltati della Russia avrebbe avuto minore successo, aveva raccolto intorno a me la più grande società moscovita, ed io viaggiavo continuamente fra Mosca e Pietroburgo, fra Kiew e Odessa, fra Karan e Varsavia. Segrete consultazioni mi chiamavano spesso nella notte, e io avevo nelle mani molte grandi anime e molti grandi cuori, maschili e femminili. Malgrado che l’accesso presso Maria Cabib mi fosse negato, io era certo di penetrare sino a lei e di sedurre il suo animo ritroso. Già, lentamente, con un lavoro quotidiano e continuo, io aveva vinto l’animo di Mosè Cabib. In fondo, quest’uomo era estremamente mistico nel suo animo di ebreo calcolatore. Egli era un singolare miscuglio di banchiere e di sognatore, un uomo che non temeva gli uomini, ma che temeva i fantasmi, un uomo che avrebbe spogliato suo fratello, ma a cui l’ipnotismo dava un terrore strano, mentre esercitava su lui un gran fascino. Due o tre volte, in casi complicati e bizzarri di isteria, di seconda vista, di suggestione, io avevo voluto che Mosè assistesse ai miei esperimenti e lo aveva visto esterrefatto e tremante levare gli occhi su me, come sopra una possente miracolosa immagine. In quell’essere ignorante, malgrado la sua furberia, io sentiva di poter agire sicuramente e vittoriosamente, io sentiva di potermi impadronire di lui, per poter essere padrone successivamente della donna che egli troppo indegnamente possedeva.
Certo, la passione ardeva in me già possente e senza alcun pascolo, salvo delle più lontane speranze. Non mi era dato di vedere la bellissima donna che rarissimamente, in qualche spettacolo pubblico, dove suo marito la conduceva a malincuore, e dov’ella appariva sfarzosamente vestita, carica di gioielli, altiera e taciturna, non degnando neanche di rivolgere i suoi fieri e superbi occhi su me, o sogguardandomi con tale glaciale indifferenza, da darmi un brivido di terrore. Io, però, ebbi la forza di non fare nessun passo falso; non tentai neppure di penetrare in casa, prima di possedere per intiero l’animo di Mosè Cabib. Io voleva togliergli la moglie e, per far questo, bisognava che Mosè Cabib diventasse il mio più vile schiavo e che egli stesso mi lasciasse libero di portar via la femmina, che era la sua sposa e che era la madre della sua figliuolina.
In questo frattempo, io seppi frenare il mio cieco ardore che mi abbruciava ogni qual volta m’era dato d’incontrare la creatura squisita. Che ho sofferto, mio Dio, in quel periodo!
Ma, almeno, avevo una sublime speranza di essere amato un giorno da Maria; speravo certamente di far mia quella orgogliosa anima e di possedere quel bellissimo corpo. Questa speranza mi sosteneva nei lunghissimi giorni, in cui io serrava intorno a Mosè Cabib una rete così fitta, da cui egli non si sarebbe mai potuto distrigare.
Per consolarmi, però, di questo oscuro e tetro lavoro di talpa, io mi faceva raccontare minutamente tutta l’esistenza di Maria, sino ai particolari più intimi. In questi racconti che mi dicevano cose spesso troppo intime, io sentivo raddoppiare il mio cieco ardore e la mia fiamma trovava un alimento che mi faceva fremere di passione.
Ho detto, che ella forse amava un tale Jean Straube, un tedesco che da studente era diventato professore di filosofia, e che s’era fatto mandare a Mosca per seguire la donna che egli aveva amata da fanciullo. Esercitai per la prima volta il mio potere su Mosè Cabib, suggestionandolo a mandar via di casa questo visitatore sospetto, a cui la donna teneva troppo e di cui Mosè non aveva nessuna diffidenza. Per la prima volta, anche, mi posi indirettamente in urto con Maria, giacchè ella resistette rudemente, prima ai consigli, poi agli ordini di suo marito. Ella dovette comprendere che sopra Mosè Cabib agiva una volontà più forte del suo fascino, e che una potenza misteriosa veniva a turbare i suoi amori, presunti amori, con Jean Straube. Finalmente, usando tutti i miei mezzi, indussi Mosè Cabib a scacciare di casa l’importuno rivale e ottenni una vittoria cruenta.
Maria non perdonò a suo marito questo fatto, e per punire lui, e forse me, anzi sicuramente me, si chiuse in casa e non volle più uscire, per vari mesi. Io non la vidi più. Però, con le mie indagini, poichè avevo a mia disposizione tutta una polizia segreta, potei sapere che ella era in corrispondenza quotidiana col giovane tedesco. Mi fu dato, ogni tanto, d’intercettare qualche lettera. Ella scriveva a questo miserabile lettere piene di trasporto e che indicavano in lui il suo amante, da vari anni.
Ho conservato queste lettere che formarono allora la mia più grande tortura e che ancora oggi, prima di morire, ho rilette per rivoltare nella piaga un coltello, che l’ha inacerbita e avvelenata. Da qualcuna di queste lettere mi risultò, allora, che segretamente Maria Cabib vedeva questo Jean Straube, ma solo più tardi, molto più tardi, seppi il come e il dove.
Da quel momento, la morte di Jean Straube fu da me segretamente decisa. Non avevo mai ucciso, sino allora: non già che mi rattenessero la paura o il rimorso. Disprezzavo e disprezzo la vita umana: ma a qualunque mio comando io aveva visto piegare innanzi a me tutte le volontà e non avevo avuto bisogno di uccidere.
Furente di gelosia contro quello sciocco studente tedesco la cui sola qualità era di essere giovane — era anche molto, molto bello, simile a un Lohengrin della leggenda — e di rappresentare per Maria Cabib il primo amore, giurai a me stesso che se diversamente non avessi potuto infrangere questo nodo di amore, avrei ucciso senz’altro il mio fortunato rivale. Dirò appresso come compii questo delitto e come esso non fu inutile, sebbene mi alienasse ancora di più l’anima ritrosa di Maria.
Intanto, io aveva preso un dominio assoluto sopra Mosè Cabib e mi ero messo alla testa di tutti gli israeliti russi, polacchi, galiziani. Alla mia casa, in Mosca, di giorno e di notte, per non dare sospetto alle autorità, costoro accorrevano da tutte le parti a prendere ordini, a portare notizie, a domandare soccorsi, a depositare denaro, a organizzare quel sistema di sviluppo economico e morale, quel sistema di difesa palese e di segreta offesa, di cui ha tanto bisogno il popolo ebreo, dovunque si trovi. L’ipnotismo, la suggestione, tutte queste forme perfezionate del magnetismo, del potere che ha un sol uomo sugli altri uomini, mi davano un’aureola misteriosa, mistica, che raddoppiava lo sgomento e il rispetto che si aveva di me; tanto che io sembrava, agli umili, una emanazione diretta di Jehovah. Tutto mi andava a seconda, salvo l’asprezza, l’orgoglio, il mutismo con cui mi trattava Maria: contegno che, ahimè, dopo quindici anni di convivenza non si è mai mutato. Avevo ottenuto da Mosè Cabib di essere introdotto in casa e ci andavo sempre; ma centinaia di volte, Maria, per non vedermi, si chiudeva nella sua camera, carcerata volontaria, e non vi erano preghiere, scongiuri di nessuno che avrebbero potuto deciderla a uscire. Ella mi odiava; di più, io le faceva schifo. Una volta che restammo soli e che le presi, tremando, una mano, ella rabbrividì, urlò, pallida di ribrezzo come se avesse toccato la pelle di un serpente: fuggì via. Per quindici giorni, non la vidi.
La mia furberia grande era stata di convincere Mosè Cabib che sua moglie, la sua Maria, era un soggetto ipnotico perfettissimo e che avremmo potuto trarre da lei i più alti segreti mistici e terreni. L’uomo era avido assai, e io gli aveva fatto intendere che per mezzo delle rivelazioni fatte nel sonno ipnotico, noi avremmo potuto sapere dove si nascondessero i maggiori tesori della terra, nelle casse e nelle miniere, nei forzieri dei ricchi e nei sotterranei antichi, dove gli ori e le gemme sono stati sepolti, da centinaia di anni. Man mano io era venuto persuadendo Mosè, che Maria ci poteva fare ricchi come dei re, se solamente avesse voluto lasciarsi ipnotizzare. Io vedeva gli occhi di quell’uomo luccicare di cupidigia, quando gli ripetevo questi discorsi che lo esaltavano; e sentivo che egli mi avrebbe dato in mano Maria, quando lo avessi voluto. Lo indussi a ricevermi di notte, in casa sua, il che non avrebbe fatto per nessuno; ma solo una notte mi fu possibile vedere Maria, e la trovai sempre identica, fredda, sdegnosa, muta. Ma quanto era bella in quella espressione, e come io mi sentiva ardere di passione, a ogni suo atto di disdegno, sentendo di amarla mille volte di più! Quando ella si accorse che mi era permesso di andare, anche di notte, in casa sua, si chiuse sempre in camera, con la chiave e col catenaccio. Restavo solo, con Mosè, a divorare la mia rabbia e la mia gelosia.
L’orrore che io le faceva, ella lo aveva comunicato alla sua figliuolina. La piccola Rachele non aveva che cinque anni e già mi fuggiva, già mi guardava con ribrezzo, già non lasciava che neanche le toccassi l’orlo della gonna. La piccolina era bellissima, come sua madre, e le viveva sempre accanto, attaccata alle sue vesti, adorando la sua giovane madre, trattando con freddezza e rudemente tutti, persino suo padre. Mi venni convincendo che Rachele doveva essere figliuola di Jean Straube, giacchè solo così si poteva spiegare il geloso amore di cui la circondava Maria e il contegno non filiale che la bimba teneva con suo padre. Presi a odiare questa fanciulletta, e giurai che l’avrei divisa da sua madre, per sempre. Così feci, ma quale terribile punizione ebbi di questo altro mio peccato!
Intanto, visto che gli affari di Mosè Cabib andavano male, io cominciai a dargli denaro, ora con una scusa, ora con un’altra: lo indussi a largheggiare con sua moglie e a tentare di lanciarla nei piaceri, per cercare di stordirla e per condurla ai nostri fini. Egli mi obbedì; Maria si prestò prima riluttante a questi svaghi, a questi modi liberi di vivere; ma, la sua natura orgogliosa prendendo il disopra, ella si abbandonò al lusso e alla gioia di vivere. Circondata, ammirata, corteggiata, io ebbi il malinconico e solitario piacere di poter essere l’origine dei suoi trionfi. A casa di Mosè si teneva corte bandita, e io arrivai alla follìa di comperare un castello e di offrirlo per dimora alla donna che amavo. Vi furono feste, balli, cacce, rappresentazioni teatrali. Mosè Cabib era accusato di gittare la sua misteriosa fortuna per la finestra, mentre era io che gli forniva il denaro per queste pazzie. Maria non ne sapeva nulla. Sono certo che, se lo avesse saputo, avrebbe rifiutato tutto, tanto mi detestava. Io spendeva delle migliaia di rubli per una donna e consumavo anche denari non miei, mentre non giungevo neppure a stringerle la mano. Che importa! Maria era la mia pazzia e sentivo, da allora, che sarei vissuto e morto per essa. Ora, a quindici anni di distanza, non avendo mai cessato di amarla, avendola solo tradita per sua figlia Rachele, perchè era sua figlia e perchè le rassomigliava, io compio la mia decisione di allora; giammai, giammai, nè la madre, nè la figliuola, sono state mie; e Maria Cabib è stata quindici anni nella mia casa, mia prigioniera! Non debbo io morire, poichè ella è morta, poichè Rachele è anche perduta per me? Non debbo io morire, poichè Maria ha avuto un altro amante, un uomo che non conosceva, a cui si è data improvvisamente, a cui ha appartenuto un mese, mentre io agonizzava di collera e di gelosia? Morrò, ora.
Dissi in un altro foglio di questa confessione, che avevo persuaso Mosè Cabib che Maria sua moglie, nello stato di sogno magnetico, poteva raggiungere la massima veggenza, e porci sulle tracce di molti tesori nascosti sotto la terra. Ma si sarebbe mai ella fatta addormentare? La vita dispendiosa ed elegante, che oramai ella faceva co’miei denari, l’aveva resa più orgogliosa e più intrattabile. Pure, in una notte, con la complicità di Mosè Cabib, io potei fare il primo tentativo. Alle due dopo mezzanotte penetrai in casa di Mosè, avendomi lui aperta la porta, e, tremando di gioia e di sgomento, entrai nella camera di Maria, dove non ero mai giunto. Ella dormiva. Quanto era bella! In quel momento, tutta la mia volontà cadde, e sentii che non sarei stato capace di tenerla sotto l’influsso magnetico. Ella al rumore si svegliò spaurita, e levandosi sul letto gridò a suo marito di cacciarmi via. Ella era così sdegnosa, così disprezzante, che tutta la mia ira e la mia gelosia repressa scoppiarono. Ripresi d’un tratto quella terribile volontà, che ha visto piegare innanzi a sè le energie più vivaci e più ardenti, le anime più temprate all’azione.
Guardai negli occhi fisamente per vari minuti la donna sdegnosa, e mentre una orribile lotta le si rivelava sulla faccia, gli occhi si smarrivano conquistati dal mio influsso. Fu, lo ripeto, una battaglia lunga fra la mia volontà e la sua; ella si dibatteva contro l’ipnotismo, si torceva come in convulsioni, volendo assolutamente respingere il mio potere, sentendo che in quel sonno sarebbe stata la sua perdita. Ma cedeva, intanto, linea per linea, cadendo nel torpore ipnotico, mentre io emanava tale forza da sentirmi diventato un leone di suggestione.
I miei occhi, le mie mani che stringevano le sue tempia, tenevano concentrata la mia vita in una forma centuplicata; e quando Maria Cabib fu perfettamente addormentata, io caddi estenuato sopra una sedia e giacqui come morto.
Ma l’orrore di quello che avevo fatto non mi fu palese, che più tardi, quando vidi che Maria era caduta in uno stato di assoluta catalessi.
Ella rimase tutta la notte immersa nel sonno ipnotico, e nessuna mia parola, nessun mio sforzo arrivarono a trarla da quel torpore che somigliava tal quale al sonno della morte.
Il marito si era dato alla disperazione, perchè credeva che gli avessi uccisa sua moglie, e tutte le mie parole non giungevano a rassicurarlo; conoscevo molti mezzi sanitari per ridestare gli ipnotizzati, ma nella mattinata seguente io li adoperai tutti, senza nessun risultato. Il terribile fu quando la piccola Rachele venne ad abbracciare sua madre, come al solito, e, non avendola potuta risvegliare coi suoi baci, si mise a gridare che sua madre era morta e che io l’aveva uccisa.
Per tre giorni e tre notti, io tentai invano di restituire alla vita normale quel corpo vinto da un sonno di piombo, e non riuscii che a constatare tutta l’insufficienza della mia volontà! Mosè Cabib non faceva che disperarsi e piangere, la bimba urlava a traverso la casa, ed io mi vidi spinto alla disperazione.
Io era certo di non trovar mezzo per farla rinvenire. E se fosse rimasta così fino alla fine dei suoi giorni? Di catalessi si può vivere lungamente, ma era proprio una catalessi quella? Per tre giorni, la vita continuò ad essere anormale, sotto quel sonno ipnotico, ma al quarto giorno mi parve che Maria avesse il viso consunto e più pallido, e che il polso si venisse affievolendo. Mi è impossibile descrivervi il mio spasimo.
Avevo da me stesso perduto una donna che adoravo, ed ella mi moriva innanzi, senza che io potessi soccorrerla. Non volevo e non potevo invocare altri aiuti, perchè temevo che qualunque altro medico avrebbe scoperto la ragione di quel sonno così simile alla morte e avrebbe denunciato il marito e me, per tentato omicidio. D’altronde, le forze della dormiente si andavano sempre più affievolendosi e io temeva che mi morisse innanzi, a un tratto, senza neppure svegliarsi, senza dare l’ultimo bacio a sua figlia. Allora, concepii un piano infernale, giacchè a nessun modo avrei voluto lasciar morire Maria in quella casa e abbandonarne il cadavere nelle mani dei becchini. Nella quarta notte, sempre tenendo fra le mani il polso di Maria, chiamai Mosè Cabib che piangeva, ai piedi del letto, e gli dissi che, forse, Maria era morta o che sarebbe morta fra poco; che, per la smania di voler diventar ricchi come Cresi, noi avevamo commesso un delitto e che alla polizia russa non sarebbe parso vero di carcerarci, tanto ci teneva in sospetto, perchè ebrei e perchè viventi una vita misteriosa. Gli soggiunsi che bisognava nascondere la prova del nostro delitto, cioè il corpo di Maria, e portarlo via, lontano; a questo avrei pensato io, fuggendo la notte istessa da Mosca, in vettura, sino a un lontano castello dove potevo far perdere le mie tracce; egli stesso doveva fuggire, con Rachele, tanto che non si potessero più trovare tracce dell’esser suo; io solo avrei saputo dove egli fosse. Gli davo denaro, molto denaro!
Sulle prime, si oppose fortemente. Quell’uomo amava sua moglie e non voleva abbandonarla nè morta, nè viva; del resto, la morte non era accertata. Quanto dovetti combattere con lui! Lo minacciai, lo pregai, piansi, innanzi a lui: non mi sono mai tanto umiliato davanti a un essere vivente, come a Mosè Cabib. Ma morta, morente, viva, io non gli avrei più lasciata Maria, mai; ed egli comprese che avrei preferito denunziare me e lui, anzi che lasciargli quel corpo esanime. Le minacce mie lo turbarono assai, ma molto più lo convinse la promessa che io gli avrei restituito Maria, se ella fosse sopravvissuta a quella crisi terribile: glielo promisi sulla testa di Jehovah e sentii in quel momento di essere uno spergiuro e un sacrilego. Ma che non avrei fatto, pur di non lasciarmi rapire quel caro, quel prezioso deposito?
Fu nella quinta notte che, a traverso la neve che fioccava, io potei compire il mio bizzarro e appassionato disegno. Due carrozze aspettavano alla porta di casa Cabib, a notte alta; in una entrò Mosè Cabib tenendo nelle braccia la povera Rachele addormentata e ancora singhiozzante nel sonno; vi entrò dopo aver mille volte baciata e abbracciata la fredda faccia di sua moglie. Ella non era ancora morta, ma la vita languiva tanto, in lei, che pareva un sogno.
Io pensai che sarebbe morta in viaggio, attraversando quella gelida vastità della campagna russa; ma portai via quel corpo stretto nelle mie braccia, come avrei portato le Tavole della Legge, di Mosè profeta.
Io gli aveva giurato sul nome stesso di Dio di avvertirlo, dovunque mi trovassi, della sorte riserbata alla povera donna, che noi avevamo messo in fin di vita.
Ma nell’animo mio ero bene deciso a non dirgli mai più nulla intorno a Maria. Per avere quel corpo, avevo sciupato una fortuna, avevo commesso un delitto, e avevo compromesso la mia libertà e la mia vita; anche se ella fosse morta, non l’avrei lasciata giammai. Come vi ho detto, Mosè Cabib era partito in carrozza alla volta della frontiera austriaca, mentre io mi dirigeva con quel carico verso la Polonia; per un giorno intiero camminammo in carrozza, a traverso dei deserti di neve, senza che potessi accorgermi d’essere inseguito. Avevo composto con le mie mani un potentissimo cordiale, di cui io solo conoscevo il segreto, e che avrebbe ridato la vita all’essere più sfinito; e ogni cinque o sei ore ne versavo un cucchiaio nella bocca della esanime Maria. Per qualche ora, il polso le si rinforzava un poco, e un leggiero colorito roseo le si diffondeva sulle guance; ma era una fiamma fittizia, che poco dopo s’illanguidiva quasi fino a spegnersi.
Al secondo giorno mi parve che una troika corresse precipitosamente dietro la nostra carrozza di posta; ma tirata da un sol cavallo, lontano come un punto nero nello spazio bianco, non aveva speranza di raggiungerci. Però quella corsa furiosa dietro noi mi insospettì. Chi poteva inseguirci? Non Mosè Cabib, il quale, rispettoso della mia volontà e soprattutto vinto dalla paura, aveva preso la strada verso Vienna; non la polizia russa, perchè allora mi avrebbero inseguito dei gendarmi a cavallo, e non una semplice troika, dove probabilmente non si trovava che un solo uomo. Ad ogni modo, feci affrettare la corsa dei miei tre cavalli, e presto potemmo perdere di vista quel punto nero. Ma rimasi inquieto. Invece di passare la notte in un villaggio, ove trovavasi il cambio dei cavalli ed un albergo, dove avrei potuto mettere al riparo dal freddo e dal disagio la povera catalettica, volli ripartire nella notte istessa, malgrado il parere contrario dell’albergatore e de’ postiglioni, temendo di essere sorpreso nella notte in quell’albergo da qualche ospite spiacevole. Partimmo in mezzo al lento fioccare della neve, illuminati da una luna scialba, che appariva e spariva tra le nubi; i rari alberi disseccati mettevano delle ombre nere e paurose sul bianco lenzuolo della neve; e noi correvamo sempre così furiosamente, che a un certo punto, in un urto contro il macigno che attraversava la via, l’asse della carrozza andò in pezzi e uno dei cavalli cadde morto.
Eravamo in un posto assolutamente deserto: non ombra d’abitazione, non un lume, nulla, salvo che tutto intorno il tetro fantasma della neve che ci avvolgeva. I postiglioni ed io bestemmiavamo come dannati, essi cercando di riparare alla meglio la rottura dell’asse, ma dichiarando che non avrebbero potuto andare innanzi con due soli cavalli. Eravamo lì da mezz’ora, soli nella notte profonda, ed io digrignavo i denti dalla collera contro Dio e contro gli uomini, quando un rumore lontano mi riscosse: era il galoppo di un cavallo. Pensai subito, che qualcheduno sarebbe venuto al nostro soccorso, ma nell’istesso momento mi rammentai di quella troika, di quella velocissima carrozza che durante la giornata pareva ci avesse seguìto con tanta ostinazione. Però, sperai che fosse più un aiuto che una persecuzione; qualunque fosse stato l’uomo che guidava quella carrozza, gli avrei pagato a peso di oro il suo cavallo, per attaccarlo insieme ai miei, e l’asse per riattare il mio.
Il galoppo si affrettava. Noi sbarravamo la via, e io aveva già detto ai miei postiglioni che speravo un soccorso da colui che si avvicinava, pensando tra me che glielo avrei anche strappato a forza.
Difatti, la troika apparve in fondo alla via, correndo su noi a galoppo sfrenato. Io era disceso dalla carrozza, e le andai incontro. Ero armato di due revolvers e di un pugnale, che non mi lascia mai, e la cui semplice puntura uccide in un minuto. Mi fermai in mezzo alla via, solo, sbarrando la strada alla leggiera carrozza.
L’uomo che la guidava era avvolto nelle pellicce, e un berretto era abbassato sugli occhi; parve che volesse passare sul mio corpo, ma io mi gittai al morso del cavallo, e con una forza straordinaria lo trattenni.
— Chiunque tu sia, — gli gridai — soccorrici! Dammi il tuo cavallo e la tua carrozza ed io ti darò tutto quello che vuoi! —
L’uomo saltò dalla troika, gittò il suo berretto sulla neve, e mi gridò:
— Vengo a chiederti Maria, vile rapitore di donne!
— Essa è qui, — gridai con un riso beffardo. — Ma tu non l’avrai, Jean Straube. —
E, in quell’ora, cento metri lontano dalla mia carrozza, cominciò una lotta terribile fra me e l’amante di Maria. Ci eravamo afferrati così violentemente, che nessuno di noi due aveva potuto porre mano alle armi. Ci stringevamo per soffocarci, ci sbranavamo, ci mordevamo rotolando insieme sulla neve, e se egli era più giovane e più forte di me, io era animato da tale disperazione, che gli tenevo testa.
Cercavo in tutti i modi di poter prendere il mio pugnale, giacchè in fine sentivo che quell’uomo vigoroso avrebbe preso il sopravvento. Difatti, mentre avevo quasi l’aria di cedere alle sue strette, liberai una mano, e mentre egli mi metteva il ginocchio sul petto per strangolarmi, io lo punsi al collo col mio pugnale.
Jean Straube morì immediatamente: sentii le sue mani rallentarsi e gelarsi attorno al mio collo. Il suo corpo cadde di piombo a terra, ed io, levatomi dalla sua stretta mortale, riposi l’arme terribile e, preso pel morso il cavallo, lo condussi presso la mia carrozza. I postiglioni mi guardarono sgomenti, ma nulla mi dissero: la lotta era stata breve e lontana. Essi compresero, che io, per amore o per forza, aveva strappato il cavallo e la carrozza al viaggiatore.
Ma, quale fu il mio stupore, quando rientrando in carrozza, trovai Maria sollevata sui cuscini, con gli occhi aperti e stralunati, che mi sputò in faccia questa parola:
— Assassino! —
Ma, mentre io mi slanciavo verso lei e le prendevo le mani fra il furore e la gioia, ella ricadde pesantemente sul fondo della carrozza e ripiombò in uno sfinimento mortale. Noi potemmo accomodare la nostra carrozza, rompendo la troika del mio rivale ucciso, e ripigliammo la via di Varsavia col suo cavallo. Il corpo di Jean Straube rimase a traverso la via sulla neve, in pasto ai lupi, che abbondano nella gelida Russia.
Noi entrammo a Varsavia, senza ingombro, e vi restammo quindici giorni, senza che io fossi disturbato da nessuno. In quel tempo, la catalessi di Maria crebbe; oramai, ella non viveva che come una statua di cera, bianca, smorta, con le mani lungo la persona, coi capelli neri, fluenti in due trecce, e gli occhi, le cui palpebre erano diventate violacee, chiusi ermeticamente. Ma ciò che appariva terribile sul suo volto, era una espressione di raccapriccio costante, che aveva dovuto rimanerle da quel minuto di lucido intervallo, in cui mi aveva visto assassinare Jean Straube.
Disperato di avere innanzi a me un cadavere, che pure era vivente, osai di chiamare a consulto le illustrazioni mediche di Varsavia. Io nascosi loro che Maria era caduta in quel letargo da che io aveva commesso la imprudenza di addormentarla nel sonno ipnotico; ma uno di loro lo comprese e, rimasto solo con me, mi disse questa verità tremenda; che io aveva cagionato quella strana infermità e che avrei portato il rimorso di quella povera donna; che un solo rimedio poteva trarre per sempre la infelice dal letargo in cui era caduta, ed era un fortissimo dolore fisico di qualunque genere esso fosse; uno spasimo inenarrabile infine. Io inorridii a questa idea e partii da Varsavia il giorno dopo, recandomi a Parigi.
Il viaggio, con quella donna catalettica, mi fu difficoltosissimo; io indussi mille sospetti, e corsi continuamente mille pericoli. Dovetti a forza di denari, di astuzie, di audacie, superarli. Quando fui a Parigi, tentai di nuovo la facoltà medica, la quale mi dichiarò Maria inguaribile, salvo che una fortissima emozione la destasse per sempre da quel sonno fatale. Di più, un medico ipnotizzatore come me completò i consigli del medico di Varsavia, dicendomi che per ridestare Maria bisognava esporla ad un’operazione chirurgica che le procurasse un dolore dei più tremendi! Credetemi, o voi che mi leggete e che mi siete nemici, che io esitai due mesi prima di commettere quella che a tutti sembrerà una nefandezza, ma che solo l’idea della morte di questa donna, che io adorava, mi condusse a commettere.
Nella notte atroce che dedicai a questa opera terribile, io ho visto imbiancare gli ultimi capelli che rimanevano sul mio cranio deforme, e non ho mai provato nella mia vita uno schianto simile, come quando, in compagnia del primo chirurgo di Francia e del suo assistente, io vidi sotto i miei occhi recidere il braccio sinistro di Maria.
Come son qui scrivendo, ero in quella notte, e sono vivo ancora; ma, al grido di belva, colpita mortalmente, che uscì dal petto della mia povera vittima, si unì un grido straziante, il mio.
Io conosceva un segreto mirabile, per preparare i corpi e per lasciar loro un’apparenza geniale di vita; anzi questo segreto era stata una delle origini della mia fortuna come medico. Ero certo di poter conservare quella povera mano tagliata, ma quando ebbi dinanzi a me il moncherino sanguinante della bellissima donna, quando vidi quel corpo così orrendamente mutilato torcersi dal dolore e udii da quella bocca adorabile e adorata uscire delle parole di maledizione, quando vidi quegli occhi bellissimi così carichi di un odio immortale, io pensai se non sarebbe stato meglio non infliggere quello sfregio e quella tortura a Maria Cabib, se non sarebbe stato meglio lasciare immersa la catalettica nel suo sonno invincibile, donde sarebbe passata senz’accorgersene alla morte: ma ero pazzo d’amore, e la pazzia di amore negli esseri come me, sventurati ed orgogliosi, assume quasi sempre l’aspetto della crudeltà più bieca.
Io aveva per sempre deturpato il corpo di Maria ed avevo per sempre alienato da me la sua anima.
Ella guarì di ambedue i suoi mali, poichè il dolore indicibile del braccio tagliato aveva per sempre fugato la catalessia, e guarì anche di quel tremendo taglio, poichè era giovine, sana, ed i migliori chirurghi vegliarono questa donna che rappresentava il segreto maggiore della mia vita.
Nella notte, piangendo come un fanciullo, io imbalsamai quella mano e quel braccio che sotto ai miei ordini e sotto ai miei occhi erano stati distaccati da quel corpo. Io mi arrestava nelle mie operazioni, per baciare quelle dita fredde, per coprirle delle mie rade e brucianti lagrime; io compii un miracolo dell’arte sanitaria dando a quella mano tagliata l’aspetto migliore della vita; io caricai di gemme quelle dita e quel polso delicato e rotondo; io macerai nei profumi quelle pelle delicata e deposi in uno scrigno di velluto quel prezioso tesoro che non mi lasciò mai più e che io portava meco nei miei viaggi quando doveva per forza allontanarmi da Maria.
Quand’ella dormiva sola nella stanza, dove la sua imperiosa volontà di donna mai vinta, mai domata, mi impediva di entrare, io passavo la notte nel mio studio, tenendo sotto i miei occhi quella mano tagliata e guardandola come se fosse la reliquia più cara, l’origine della mia forza e della mia vita.
Dal giorno malaugurato, in cui io smarrii in un vagone di prima classe la mano tagliata sulla linea di Napoli e di Roma, io sentii che eravamo perduti, e che Maria, Alimena ed io saremmo periti per quella mano perduta.
Ma fra me e la donna a cui avevo tolto tutto, il marito, la figlia, le ricchezze, la vita sociale, l’amante, ed in ultimo di cui io aveva per sempre sfregiata la beltà, si stabilirono delle relazioni così bizzarre, così singolari e così tormentatrici, per me e per lei, che io non so come noi abbiamo potuto resistere quindici anni senza morire. Io la tenevo prigioniera, è vero; ma ella era una prigioniera così orgogliosa, così fiera, che sprezzava e dominava il suo carceriere; ella sapeva tutto e mi rinfacciava tutto. Ella mi aveva visto uccidere Jean Straube e, sempre che lo poteva, mi gettava sul viso la parola di assassino: era in mio potere e spesso la collera mi accecava, ma quando arrivavo fino a lei per vincerla con lo sgomento o con la violenza, essa possedeva in sè tale forza di disprezzo, ed esercitava su me tale fascino, che io mi arretravo scoraggiato ed avvilito. Mille volte avrei potuto possedere quella donna, che era il desiderio bruciante del mio sangue, ma una folle speranza mi teneva di indurla ad amarmi con l’amore ostinato, con la solitudine, con l’abbaglio del potere e della ricchezza, con la promessa di farle rivedere la sua figliuola.
Io ho sperato che il tempo, che la mia servitù amorosa, che l’aver io commesso quanto un uomo può commettere di male o di bene per avere una donna, spietrassero quel cuore senza tenerezza e lo inducessero almeno alla indulgenza ed alla carità. Tutto fu vano, tutto.
Bisogna dire che io, invaso dall’amore, tentavo ogni giorno di esprimerle questa mia passione con le parole più ardenti. Mi sentivo brutto, deforme, laido, e leggevo tutte queste dolorose verità negli occhi di Maria; ma avevo una fede immensa nelle potenze induttive di una grande passione.
L’ho detto; contavo sul tempo e sulla solitudine; ebbene, mai una volta che io fossi uscito dalla stanza di quella fierissima donna senza portar via uno sgarbo e un maltrattamento. Ella si rideva di me e delle mie minacce; ella mi disprezzava e mi odiava nel medesimo tempo, ma il disprezzo era più forte dell’odio; ella aveva un tal modo di scacciarmi da sè, quand’io me le avvicinavo troppo, che mi faceva rabbrividire di dolore, ma che mi allontanava. Chiunque leggerà queste ultime carte riderà di me; quand’io dirò che quella donna, tenendola in casa mia, sottratta agli occhi di tutti, sola, di cui nessuno avrebbe inteso neanche il grido di morte, rideranno tutti, sapendo che io non l’ho posseduta!
Ma chi ha amato veramente ed ha sentito l’infelicità del ridicolo, la peggiore di tutte, abbassarsi sul suo capo, potrà comprendermi e non ridere. Questo eterno sasso di Sisifo che era il disprezzo di Maria mi è continuamente ricaduto sul petto, ogni giorno, per quindici anni, ed ha estenuate in me tutte le sorgenti della vita. Io sono stato sempre più ricco e sempre più potente, legioni intiere d’israeliti hanno dipeso da un solo mio cenno, ed io, si può dire, sono stato il loro re occulto e misterioso, capace di mobilizzarne un esercito anche per la soddisfazione di un mio capriccio. A Londra, a Parigi, a New York, dovunque io sono stato, la più nobile clientela ha frequentato la mia casa d’ipnotizzatore, ed io ho veduto ai miei piedi le più belle donne di Europa. Ma che importa tutto questo? La sola persona, a cui io teneva, mi ingiuriava se io le parlava d’amore. Ostentatamente si dava alle preghiere cristiane per farmi irritare, sapendo che io odiavo tutta la razza cristiana e le sue ipocrisie. Ella diventava più bella, più pensosa, più mistica ogni giorno, e la sua anima mi sfuggiva sempre più, diventando più pura e più elevata. L’antica donna, amante dei piaceri e del lusso, periva lentamente in lei, e il suo spirito si librava in plaghe, dove mi sfuggiva completamente.
Io tentai verso il quarto o quinto anno della nostra dimora insieme, un mezzo disperato. Ancora una volta, malgrado la terribile prima prova che ne avevo fatto io immersi Maria Cabib nel sonno ipnotico. Lo feci con una trepidazione grande, addormentandola solo leggermente, ed un’altra irrisione del destino toccò alla mia volontà. Quando più alta ruggiva la collera della prigioniera contro me, io la suggestionava e la facevo cadere nel sonno ipnotico. Ma era solo un lieve torpore, che le calmava i nervi, ma non ne vinceva la volontà.
Maria, sì, mi rispondeva quietamente, ubbidiva sino a un certo punto alle mie suggestioni e qualche volta, con uno sforzo singolare, io arrivavo a farle dire, per mio suggerimento e sotto il dominio della mia volontà, che ella mi amava. Ma, appena nel sonno ipnotico, io le toccava la mano, appena le dicevo di stringere la mia, ecco, ella si ribellava anche nel sonno e mi sfuggiva lasciandomi disperato, piangente ed esausto.
Mentre avevo piegato sotto la mia, le volontà più tenaci e domato i nervi più vibranti, quella misera donna mutilata, carcerata, in mio potere, non sentiva i miei ordini, che per darmi una fugace, derisoria illusione di bene, che per infliggermi il dolore di vedere inutile anche la mia scienza e la mia influenza.
Io ho cambiato paese, clima, ambiente, ho provato a lasciar sola Maria per molto tempo, ho provato a non abbandonarla mai un minuto, ho tentato la persuasione e la forza, mi sono gittato ai suoi piedi ed ho tentato di uccidermi: a nulla è servito! Nella vita ella mi si è ribellata sempre e, nel sonno ipnotico, ella è stata un essere passivo, muto, sino a quando non le ho chiesto qualche prova d’amore.
Cento volte ho pensato di restituirla a suo marito ed a sua figlia, visto che era inutile trattenere carcerata una donna, com’io teneva lei, ma nell’ultimo momento non ho osato dividermi da lei. Un ultimo dolore narrerò qui, ed avrò finita l’iliade di un uomo che ebbe tutto nella vita di quanto fa felice gli altri uomini, e a cui mancò tutto, perchè mancò l’amore.
Io avevo conservato delle relazioni di lettere con Mosè Cabib, a cui avevo scritto che Maria era morta in Germania e che io l’aveva sepolta nel piccolo cimitero di Dusseldorf. Egli, io credo, non prestò mai fede totalmente alla mia bugia, ma per rispetto a me non ebbe mai l’aria di dubitarne. Gli mandavo continuamente del denaro, giacchè egli era caduto in grande miseria e faceva l’antiquario a Roma, e continuamente ricevevo notizie della piccola Rachele, che cresceva in beltà ed in grazia, ma cresceva anche in superbia, come superba era stata sua madre.
Quando rividi quella fanciulla, ella aveva sedici anni, ed era così rassomigliante a sua madre, così bella, così florida, che io fui preso da un folle ed inane desiderio di avere la figlia, poichè non avevo avuto la madre. Inane desiderio!
Avevo quasi cinquant’anni ed ella ne aveva sedici; ero diventato più brutto e più storto di prima, facevo ribrezzo a me stesso ed ebbi la folle idea di poter cogliere quel fiore di grazia e di beltà, non a me destinato: e, così, fatalmente, per queste due infelici passioni, io procurai l’infelicità di due donne che più avevo amate nella vita, diventando per esse sempre più un oggetto di odio e di orrore.
Tentai di uccidere il conte Ranieri Lambertini, che mi toglieva Rachele, come di perdere il conte Roberto Alimena, che mi aveva tolto la mano di Maria e che tentava di togliermi la sua persona; ma il destino si burlò di me, perchè io non giunsi che a ferire mortalmente il primo, e il secondo raggiunse me e mi tolse Maria.
Sapete come ho uccisa quella donna? Io ho tentato sopra lei un mezzo estremo, quello della suggestione a distanza, che qualche volta mi era riuscito con qualche altra persona. Quando ritornai nella mia casa di Londra da Dublino e la trovai vuota, Maria fuggita, fuggiti i miei servi, io decisi di ucciderla e di uccidermi. Passò un mese prima che io conoscessi dove il conte Alimena aveva condotto seco Maria, ed in quel mese io ho sofferto tutte le torture più atroci della gelosia, giacchè aveva compreso che Maria si era data al suo rapitore. Ella era ancora bella ed Alimena era giovane ardente e innamorato. Ogni minuto di quei trenta giorni mi è colato sul cranio, come una goccia di piombo fuso, e m’ha devastato l’anima. Quand’io seppi che ella era nell’isola di Wight, mi recai colà, determinato ad ucciderla, in qualunque modo, penetrando in casa, corrompendo un servo, forzando una porta come un ladro, come un assassino. Per due notti, rimasi in barca, sulle acque, sotto la casa di Maria e di Roberto, e per due notti tentai la suggestione a distanza.
Figuratevi che doveva essere il mio spirito, in quelle due notti; non sapevo se la mia volontà, di lontano, avrebbe potuto mai soggiogare quella di Maria; dovevo nascondermi e nello stesso tempo fare tale sforzo di volontà per uccidere la sola donna che avevo amata. Era un’impresa pazza, disperata, che tentavo solo perchè mi sentivo, anche io, giunto alla fine della mia vita. Proprio, come un pazzo, ho errato per due giorni intorno alla villa di Cowes, come il jaguaro che restringe i suoi giri intorno alla sua preda; e nella notte scendevo nella barca; sul mare oscuro e irato, giacchè eravamo in pieno inverno, fissando i miei occhi ardenti e folli sulla finestra illuminata, quella della loro stanza. La sola idea che quei due si baciassero ancora, dietro quella parete, mi rendeva frenetico e non so chi mi ha impedito di forzare la porta di quella villa, di penetrare in quella camera e di ucciderli uno nelle braccia dell’altra! Non potendo avere la vendetta del leone, avrei avuta quella del rettile. Ella sarebbe venuta alla finestra: e io avrei comandato a lei di buttarsi giù: ella si sarebbe buttata.
Fu nella seconda serata, in barca, che io giunsi al colmo della esasperazione. Non vedevo nulla, non sapevo nulla, non credevo più alla mia suggestione; e, malgrado tutto, la mia volontà aveva tanta forza, in quel momento, che io mi sentivo spezzare il cranio. Ah, che grido di trionfo, io dovetti soffocare nel mio petto, quando vidi un’ombra bianca apparire dietro i cristalli e fermarsi, colà, e guardare nel vuoto. Era Maria. Era lei. Veniva alla mia chiamata. Non aveva mai voluto obbedirmi, nel sonno ipnotico, quando io le avevo comandato di amarmi; adesso ella obbediva, quando io le comandava di morire. …
Commisi il delitto. Commisi questo delitto così infame che nessun Dio, nessun uomo potrà mai perdonarmi. Ho ucciso a tradimento, col più nero tradimento, una creatura inerme che l’uomo da lei amato non poteva difendere, ho ucciso una creatura innocente. Sì: ella era innocente e io l’ho carcerata per quindici anni; le ho tolto suo marito e sua figlia; le ho ucciso il suo amante; le ho levato la libertà e anche la bellezza, giacchè si deve essere bella per qualcuno, per essere bella. Per quindici anni le ho imposto la compagnia di un essere deforme, brutto, laido, quale io mi sono: e pretendevo che mi amasse; e le ho inflitte lunghe torture morali e fisiche; e le ho tagliato il braccio, deturpandola. Dopo, l’ho uccisa; mi sono valso di un’arme inafferrabile, senz’aver paura della giustizia, poichè quello era un suicidio e non un omicidio; l’ho uccisa come si strangola un bambino nell’ombra. Sono un assassino, il più atroce degli assassini, giacchè questa donna non mi aveva fatto alcun male.
Ora, dal minuto tremendo in cui io ho visto il corpo di Maria cadere dalla finestra, per mio comando, e ho inteso battere quel cranio sul selciato, innanzi alla villa, mi si è spezzato qualche cosa, nel petto. Avrei voluto, almeno, portare via quel corpo esanime, come quindici anni prima, ero fuggito da Mosca, rapendo la donna immersa nel torpore profondo; ma allora, allora, io sperava di vederla rivivere, io la portava meco, io sperava tutto, persino l’impossibile, persino di essere amato! Ora il cadavere non l’ebbi. Egli discese; egli raccolse quel povero corpo infranto e lo depose sul letto dei loro amori; egli compose quelle membra, baciò quei capelli neri meravigliosi, rete e catena di amore; egli coprì di fiori quella cara salma. Ah, egli ha udito il mio orribile scoppio di risa, dal mare, quand’io lo vidi gittarsi su quella morta! Ma egli non sa che quel riso mi infranse il petto.
Muoio, fra un’ora. L’ultimo dei miei servi fedeli porterà questo manoscritto nel piccolo cimitero di Cowes, sulla tomba di Maria Cabib che io amai e che io uccisi. Voglio che il mio segreto si conosca. È la mia espiazione; in queste carte è la confessione di tutta la mia disfatta, giacchè io ho amato quella donna e non ne sono stato amato, giacchè se io l’ho uccisa, adesso, per lei mi uccido. Ricchezze, potere, gloria nella scienza, nessuna più di queste chimere mi tiene. Sono un vinto, sono un misero, sono la più miserabile creatura del mondo, l’ultimo verme della terra. Non mi piangerà nessuno e molti mi malediranno. Non m’importa. Abbastanza, da me mi odio e mi disprezzo.
Muoio, fra un’ora. Pungerò la mia vena al collo e vedrò scorrere tutto il mio sangue: è un modo di morire che mi piace, giacchè è questo sangue bruciante di passione che mi ha portato alla morte, questo sangue dove ardeva la fiamma di un uomo giovane e bello, mentre io era un mostro di bruttezza. E voi, Ranieri Lambertini, Rachele Cabib, Mosè Cabib, Roberto Alimena, siate contenti, siate felici tutti, giacchè il vostro odiato e temuto nemico, il vostro persecutore implacabile, il terribile Marcus Henner, morirà svenato, fra un’ora, vendicherà tutti voi. Ma per lei, io vi perseguitava e vi odiava, per lei io voleva la vostra morte, per lei io ho fatto quello che ho fatto, per lei io muoio, giacchè nessuno di voi avrebbe potuto colpirmi, mai, e quella innocente mi ha colpito, morendo.
Ah, potesse il mio cadavere andare sotterra, con lei, nella stessa bara! Potessi io, dopo morto, ridurmi in polvere, accanto a lei, nella terra nera! Non mi è dato! Sino all’ultimo giorno del mondo, viva, morta, Maria Cabib non sarà stata mia, giammai, giammai.
Marcus Henner.»

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La lettura di quel lungo manoscritto era durata abbastanza, e Ranieri Lambertini compiendola aveva il volto tramutato come colui che abbia già risoluto il problema della sua vita. Levò gli occhi in faccia a Dick Leslie, e gli disse con voce fioca:
— E poi? Si è egli veramente ucciso?
— Sì, o signore. Come lo ha detto, si è ucciso.
— Si è svenato?
— Lo hanno trovato solo, chiuso nella sua casa di Broadway, da cui aveva licenziato fin l’ultimo servo; egli giaceva in un lago di sangue. Questo suicidio non fece chiasso che per un giorno a Londra. Troppa gente vi si uccide o vi è uccisa, perchè il pubblico se ne preoccupi troppo.
— Marcus Henner è dunque morto? — esclamò Ranieri, come se parlasse a sè stesso.
— Sì, e con lui è sparita ogni traccia della sua vita. Egli ha bruciato, prima di morire, tutta la sua corrispondenza, molti manoscritti, molti registri, e così nulla si è potuto conoscere dal pubblico di questa singolare e miserabile esistenza. Egli ha però, — soggiunse Dick Leslie — lasciato un testamento; tutti i suoi beni che sono immensi, vanno agli ebrei poveri della Palestina.
— A Roberto dunque è sfuggita la sua vendetta? — chiese, come trasognato, Ranieri Lambertini.
— Sì, gli è sfuggita; ed è per questo, che io temo per lui, — disse a bassa voce il detective.
— Voi dovete raggiungerlo, — gli disse subito Ranieri — raggiungerlo e tenerlo d’occhio.
— Così farò, — rispose tranquillamente l’agente di polizia. — Questa sera stessa io partirò per Londra e per Cowes: io spero di strappare a quel cimitero, a quella tomba, l’amante disperato.
— Compite quest’opera caritatevole, — disse con voce commossa il conte Ranieri Lambertini. — Io non posso partire, io debbo aspettare qui la mia sentenza. —
Intanto, Dick Leslie si era levato, ma non se ne andò. Pareva che avesse un’ultima cosa da dire; e difatti mentre Ranieri Lambertini lo guardava con occhi smarriti, gli soggiunse:
— Io vi ho portato una terza lettera.
— È vero! — rispose il conte. — È di Maria Cabib, diretta a sua figlia Rachele. Sapete voi, caro Leslie, che contenga questa lettera?
— Io lo ignoro, signor conte. Ebbi solo istruzioni di consegnarvela, e null’altro. Ora, io non so che vi è scritto dentro, ma posso darvi un sol consiglio: mandatela subito alla signorina Rachele, nel convento ov’ella si trova.
— Credete che questa lettera possa mutare il mio destino? — chiese ansiosamente Lambertini.
— Lo ripeto, non lo so. Mandate la lettera, mandatela presto. —
Così, i due che probabilmente non si dovevano più rivedere nella vita, si lasciarono in quelle ore pomeridiane, poichè metà della giornata era trascorsa nella lunga lettura. Ancora una volta, Ranieri Lambertini raccomandò a Dick Leslie di vegliare sopra la salute di Roberto Alimena, e ne ottenne una seconda promessa, seria come la prima, giacchè gl’inglesi non sono abituati a promettere invano.
L’agente di polizia, dopo essersi licenziato da Ranieri Lambertini, non prese neppure il tempo di fare una passeggiata per Napoli, che egli non conosceva, e dopo aver mangiato e dormito, ripartì col treno di Roma della sera.
Poichè l’ora era tarda, Ranieri Lambertini non potè inviare la lettera della povera Maria Cabib a sua figlia, che l’indomani, nè Rosa che aveva fatto quella commissione, potè avere la consolazione di vedere la novizia suora Grazia.
Passarono così otto giorni, in cui Ranieri Lambertini che aveva messo per le parole di Dick Leslie molta speranza in quella misteriosa lettera suggellata, scritta da una morta a sua figlia, a poco a poco sentì smarrirsi tutta la sua fiducia, e si sentì ripiombare sotto il peso di una fatalità implacabile. Era dunque stato inutile lo scellerato assassinio di Maria Cabib, e il terribile suicidio di Marcus Henner: l’infame gobbo dominava anche dalla tomba i cuori dei superstiti, e come aveva distrutto l’esistenza della povera madre di Rachele, aveva minato e distrutto l’esistenza della figliuola.
Invano il conte Lambertini aveva mandato sette od otto volte Rosa al convento delle sepolte vive: giammai costei aveva potuto vedere Rachele. Oramai, quando ella ritornava di lassù, si gittava scoraggiata sopra una sedia e non rispondeva neppure più alle domande affannate di Lambertini.
Costui, nelle lunghe ore d’inutile attesa, in quella stanza di albergo, dove viveva sempre più solingo, leggeva e rileggeva le due lettere di Roberto Alimena, e di Marcus Henner, e contro quel morto lo teneva un’ira così truce, che nessuna corrente di pietà arrivava a temperare.
Tutto il dramma di Marcus Henner, che aveva vissuto come Prometeo col fegato divorato da un’aquila, non gli ispirava che ribrezzo ed ira. L’amore potente e sventurato che aveva fatto di quel grande ebreo un micidiale, gli faceva orrore; e anche dopo la morte, il deforme dottore da’ freddi occhi verdi, col suo cofanetto ove giaceva la mano tagliata ed ingemmata di Maria Cabib, gli metteva addosso la collera impotente di chi ha perduto la sua vendetta.
E così, nella morte come nella vita, il grande ipnotizzatore, l’uomo che aveva piegato innanzi a sè tutte le volontà salvo una, e che aveva posseduto tutto nella vita, salvo l’amore di una donna, non arrivava ad ispirare pietà, neanche con la grandezza della sua espiazione.
Fu in capo a nove giorni, in un momento in cui l’anima di Ranieri Lambertini aveva percorso tutti i giri della tragica cupezza, e rimirava dinanzi a sè una sola soluzione, la morte, fu in quel nono giorno, che egli udì bussare alla sua porta.
Senza levarsi dalla poltrona, in cui giaceva abbattuto, egli disse di entrare a colui che aveva picchiato. Chi aveva picchiato entrò, e si fermò sulla soglia.
Era Rachele Cabib, più bella, più giovane, con gli occhi lucenti di amore fra le lacrime; ella tese le due mani a Ranieri Lambertini, e gli disse:
— Mia madre mi ha scritto di venire a te, di amarti fedelmente, sino alla morte. Eccomi! —

FINE