X.

In aprile decise di andare a passare alcuni giorni nella sua casa colonica della Serra.
Di nuovo si sentiva sfinita, fiaccata come da una lunga malattia. A volte, pensando alla sua avventura, aveva ancora l’impressione che tutto fosse stato un sogno: poi l’orgoglio, l’amore, il rimpianto, l’umiliazione di essersi illusa come una fanciulla di quindici anni, la facevano balzare e arrossire.
Aveva domandato scusa alla serva, pregandola di non andarsene, poi s’era pentita: un desiderio intenso di solitudine la spingeva a chiudersi per giornate intere nella sua camera, a cercare gli angoli più tranquilli della casa: o andava di qua e di là, sfuggendo a se stessa, senza riuscirvi mai. Saliva nella soffitta e dopo aver staccato un grappolo d’uva sedeva sul lettuccio della serva. Aveva sete ma non poteva bere; aveva sonno e non poteva dormire. Il vento di primavera che portava il canto del cuculo e l’odore del grano nascente, passava da un finestrino all’altro, scuotendo le tele dei ragni negli angoli e i giunchi vuoti dei grappoli d’uva pendenti dalle travi. Ella rabbrividiva. Le sembrava di aver le gambe pesanti, come da ragazzetta quando l’avevano costretta a calzare le scarpe alte nuove, e desiderava andare a piedi nudi, ritornare scalza, ritornare bambina. Poi sorrideva di se stessa, con rancore, deridendosi. Infine chinava la testa e s’incantava a guardare gli acini di uva che faceva scorrere come nacchere da una palma all’altra delle mani dimagrite.
Ricordava ostinatamente la notte di Natale, Simone col cappuccio orlato di neve; ma le sembrava una cosa lontana, uno dei racconti di Fidela nelle notti della sua infanzia. Le sembrava… Tutto le sembrava lontano, eppure tutto le stava dentro, chiaro, fermo. Le sembrava di dimenticare e non dimenticava un attimo solo: le sembrava di non aspettare più e ogni passo le faceva battere il cuore. Diceva a se stessa che Simone era come tutti gli altri uomini, che promettono per non mantenere; e che non valeva la pena di soffrire per lui; e di nuovo balzava sdegnata e fuggiva di qua e di là ricordando i progetti eroici di lui, l’offerta che le aveva fatto di aprirsi il petto per offrirle il cuore.
Invece egli non ritornava per paura.
Ma lei voleva essere una vera donna: vivere per guarire il suo male, vivere per vincersi.

Ritornò dunque nella sua casa colonica, per respirare un po’ d’aria buona e rifarsi in salute. Eccola di nuovo seduta sotto la quercia della radura: nulla è mutato intorno e anche lei è di nuovo, come l’anno passato, un po’ curva e pallida, un poco invecchiata.
La primavera tutta verde, senza fiori, pura e austera, quasi sacra, si stendeva nella tanca. L’erba eguale, brillante, nei prati vasti che parevano laghi, fra un gruppo e l’altro di rocce, tra un fitto e l’altro di bosco, ondulava come acqua e rifletteva l’azzurro del cielo, l’ombra delle nuvole.
E su dai monti verdi e azzurri dell’orizzonte le nuvole di primavera spuntavano di continuo come germogli; sbocciavano, s’aprivano, si sfogliavano; volavano via come petali grandi di rosa spinti e sciupati dal vento.
Un silenzio indicibile rendeva più intensa la dolcezza del paesaggio; e se un toro muggiva o i cani abbaiavano parevano voci lontane di mostri, ripetute con meraviglia dall’eco; e tutte le cose intorno ascoltavano sorprese che oltre il lieve mormorio degli alberi al vento altre voci esistessero.
Marianna si sentiva come disfare nel silenzio, nei ricordi: aveva l’impressione che non sarebbe più tornata alla sua prigione di Nuoro: e questo, per il momento, le bastava.
Il padre la guardava di sfuggita, di lontano: sapeva che Simone non s’era più lasciato vedere e che tutto sembrava finito. Ma non se ne rallegrava; il viso di Marianna non gli piaceva: eccola lì taciturna, all’ombra tremula dell’albero scosso dal vento, pallida e triste tra il rifiorire della terra in mezzo a tanto suo inutile bene. La primavera non torna per lei; anzi pare che tutti i germogli di vita sieno bruciati entro di lei. Zio Berte scuote la testa, guarda di qua e di là, misurando con gli occhi la vastità dei beni di sua figlia, poi torna a guardare lei, diafana e piegata come una canna sotto la quercia. E la vita è breve, e quando si muore non è permesso di portare via dentro il pugno neppure un filo d’erba, neppure un granellino di terra.
Ma vedendo gli occhi di Marianna volgersi lenti verso di lui, quasi a dirgli che la sua pietà è oramai inutile, egli si ritrae nella cucina e comincia a infuocare le pietre per la giuncata. Un po’ con le mani insensibili, un po’ con una grossa pinza di ferro volgeva e rivolgeva le pietre sulle brage, cuocendole come pane di bronzo, e parlava loro sottovoce, ammiccando per raccomandare loro il segreto.
«Del resto il Signore ci ha messo in petto un cuore così come voi, duro, freddo; ma poi arriva un momento che si cuoce come voi. E se lei non vuole altro uomo? Sì, quando l’uomo e la donna sono nudi, come il Signore li ha fatti, che importa il resto? Siamo tutti eguali davanti a Dio: ed egli ci volta e rivolta come faccio io adesso con voi, pietre mie.»
Cominciò a prenderne una e la buttò dentro il secchio ove il latte biancheggiava placido con qualche bollicina galleggiante; e il latte parve svegliarsi di soprassalto e balzare in un’onda schiumante: così ad ogni pietra, finché fu tutto in ebollizione, rotto, coagulato, ingiallito. Gli schizzi arrivavano fino al gattino che sonnecchiava accanto al fuoco e sentendosi bagnare il pelo scuoteva solo un orecchio: ma uno schizzo gli andò proprio dentro l’orecchio: allora si alzò; incurvò la schiena e guardò che cosa succedeva. Doveva succedere qualche cosa di straordinario perché il padrone aveva abbandonato il secchio della giuncata e con le pinze in mano era corso alla porta a guardare. Il gattino profittò dell’occasione per saltare sull’orlo della secchia e allungare il muso sul latte fumante; ma come vedesse un cane in fondo al recipiente cominciò a sbuffare e a battersi la zampina sul muso. S’era scottato; rimbalzò a terra e andò accanto al padrone, ma il padrone, che pure lo amava, lo respinse col piede.
Si vedeva un uomo attraversare il prato, dirigendosi verso Marianna, un uomo piccolo, vestito come un cacciatore, con un berretto di pelo calato bene sulla fronte. Era uno straniero e zio Berte non ricordava di averlo mai veduto; eppure gli sembrava di riconoscerlo, e se ne turbava.
Anche Marianna guardava l’uomo che si avanzava lasciando una scia argentea sull’erba del prato; e i suoi occhi dapprima pieni di sorpresa scintillarono di gioia, poi ritornarono dolci illuminando con la loro luce dorata di lampada il viso pallido intorno al quale ella si tirò un poco i lembi del fazzoletto.
Il cuore le batteva forte, e di nuovo le pareva di sentire il passo di Simone. Come aveva fatto a non sentirlo più? Le sembrava di svegliarsi d’un tratto, di aver dormito per mesi e mesi in un luogo freddo e scuro, in una grotta, fra cattivi sogni. Ma mentre lei dormiva Simone non cessava di camminare cercandola, e bastava adesso il rumore dei suoi passi per rompere l’incantesimo.
L’uomo intanto s’era avvicinato; attraversava la radura e invece di dirigersi alla casa si accostava dritto a lei salutandola con cenni della testa. Pareva sorridesse, ma guardandolo meglio, quando le fu davanti, Marianna vide che era serio e triste.
«Ave Maria», egli salutò, mentre i cani sotto l’albero abbaiavano con insistenza. «Sei Marianna Sirca?»
«Sono.» Ella si alzò. Era più alta di lui e lo dominava col suo sguardo ansioso.
Anche lui la guardava negli occhi; e prima che si dicessero una parola s’intesero come si conoscessero da anni.
«Marianna, sai chi mi manda?»
«Lo so.»
«Mi riconosci dunque?»
«E come non ti riconosco? E tu non hai riconosciuto me?»
«Vero è! Ebbene, posso parlarti?»
«Hai buone nuove da darmi?»
«Se tu non hai cambiato pensiero le nuove sono buone.»
«Grazie a Dio!», ella disse; e si guardò attorno sospirando. Le pareva d’essere uscita da una buca e che d’improvviso lo spazio si allargasse intorno a lei.
Ma il padre s’era mosso dalla porta e s’avvicinava incerto, quasi timido.
Ella gli andò incontro, presentandogli l’ospite: «È il compagno di Simone, è Costantino Moro».
«Benvenuto tu sii», salutò il padre; ed ella fu colpita dalla voce benevola di lui.
Entrarono nella cucina. Costantino sedette accanto al focolare, dopo aver appoggiato alla parete il suo fucile, ma poiché il gattino andava a rasparne il calcio, si alzò e appese l’arma al piuolo accanto al finestrino. Conosceva il luogo come vi fosse stato altre volte, tanto bene Simone glielo aveva descritto: sì, era una casa come di città, non un piccolo ovile da poveri pastori in guerra tutto l’anno con gli uomini e gli elementi; una vera casa ove tutto spirava benessere, pace, sicurezza. La porta era doppia, la finestra col vetro, il focolare come quello delle cucine dei ricchi proprietari, con sopra pendente ad altezza d’uomo l’ingraticolato di legno per affumicare il formaggio.
Doveva essere bello nelle sere d’inverno stendersi sulle stuoie davanti al fuoco di tronchi, e ascoltare la voce della foresta in colloqui selvaggi col vento.
Egli si tolse il berretto, se lo rimise e sospirò. Ricordava la sua casa ben riparata, la madre sola, laggiù, desolata fra tanto bene; e gli pareva che gli occhi di zio Berte si rassomigliassero a quelli di lei. Marianna gli si era seduta davanti, composta ma col viso proteso pallido d’ansia repressa; egli però non sapeva come riferirle la sua ambasciata; gli sembrava che la presenza di zio Berte li rendesse di nuovo estranei e nemici.
Marianna disse:
«Padre, sedetevi».
Zio Berte obbedì; sedette per terra e domandò a Costantino, ammiccando lievemente per significargli che poteva pure parlare liberamente:
«E come va che ti trovi da queste parti?».
«Vengo da Nuoro. Ho per otto giorni il foglio di libertà perché ho servito da testimonio in un processo di gente del mio paese. Ebbene, sono venuto a cercarvi a Nuoro, ma la vostra serva mi disse che eravate qui.»
«Tu sei venuto a cercarmi a Nuoro?»
«Veramente…», disse Costantino imbarazzato, «cercavo Marianna».
«Sì», aggiunse lei rivolta con un po’ d’impazienza al padre, «lo ha mandato Simone.»
Un’ombra passò allora sul viso di Costantino. Se Marianna parlava così, erano dunque d’intesa, lei ed il padre; ed egli aveva sperato fino a quel momento che nelle vicende del compagno ci fosse molta illusione, molta fantasia.
«Sì… dunque…», ricominciò, poi tacque e abbassò la testa come per ricordarsi meglio; infine tornò a guardare Marianna per chiederle con gli occhi se poteva parlare liberamente; e tosto si accorse che anche il viso di lei s’era oscurato. «Dunque…», riprese con coraggio, cercando di pensare bene le parole prima di pronunziarle, «sapete chi sono. Si vede che lui vi ha parlato di me! Sì, siamo come fratelli, da tre anni… perché l’uomo, vedete, per quanto selvatico sia, ha sempre bisogno di compagnia; non avendo altro si contenta del cane… E io quest’autunno scorso sono stato malato; se lui, Simone, non mi aiutava, di me non si sarebbero trovate neppure le ossa da dar loro sepoltura. Ma poi non è questo…» proseguì, sempre più pensieroso e serio eppure sempre più impacciato, con l’impressione che il suo preambolo non ingannasse i suoi ascoltatori «è che l’uomo deve aiutare l’uomo. Così io, a mia volta, nel mio piccolo, quando Simone mi racconta certe cose, gli parlo col cuore aperto, e se ha torto glielo dico francamente; e a volte egli davvero racconta certe cose che pare si burli di chi lo ascolta…»
Seguì un momento di silenzio penoso. Egli continuava a guardare per terra e Marianna, pallidissima, frenava a stento la sua commozione.
«Costantino», disse finalmente, «tu puoi pure riferire quanto egli ti ha incaricato di dirmi. Mio padre è informato di tutto.»
«Allora, ecco come stanno le cose. Egli mi diceva: “Sono fidanzato; mi devo sposare!”. Io, dunque, credevo si burlasse di me. Ma poi lo vedevo sempre pensieroso. E cominciai a credergli. A Natale cacciò un cinghialetto e mi disse: “Lo porto a lei, alla donna, come regalo per la festa”. Così venne a Nuoro; al ritorno mi disse: “Costantino, ci sposiamo davvero; poi io mi costituisco in carcere e sconto quello che c’è da scontare”. Fino qui sapete le cose; adesso vi dirò il resto. Egli diceva: “Bisogna cercare il prete che ci sposi, perché quelli di Nuoro non vogliono saperne”. E così siamo andati da un prete, non importa dire quale. Pareva si andasse per gioco, ma di tanto in tanto Simone si faceva scuro in viso come un moribondo. È stato questo gennaio scorso; c’era una grande nevicata; passando per la pianura, di notte, pareva di essere in mare; non si sapeva da qual parte volgersi. Come nostro Signore volle arrivammo. Il prete ci accolse bene, Dio lo rimeriti; anche nel sentire chi eravamo ci accolse bene, ma quando seppe cosa volevamo si mise a ridere. “A Pasqua, a Pasqua”, diceva scherzando, “allora, se la sposa m’invita, andrò nel suo ovile e laggiù farò quanto vorrete. Basta che non mi ricattiate.” È un prete allegro, dovete sapere. Alle insistenze di Simone, rispondeva: “Se hai fretta di legarti, ebbene, puoi legarti alla donna con un giunco”. Ma batti e ribatti finalmente promise di venire qui in primavera, per sposarvi. Così restammo intesi. E Simone s’incamminò da te, Marianna, per farti sapere ogni cosa; ma prima di arrivare in paese trovò una delle sue sorelle, vestita da uomo, che lo aspettava per avvertirlo che la tua casa era circondata di spie. Intendi, Marianna, le sorelle di Simone lo aspettavano a turno, vestite da uomo, nel posto ove sapevano che egli doveva passare per tornare in paese. Sono ragazze coraggiose. Egli tornò indietro, aspettando tempi migliori; e non andò neppure a vedere sua madre malata, e non ti fece saper nulla per non metterti in paura…»
Marianna sorrise; i suoi occhi scintillarono di orgoglio feroce.
«Egli non ha diritto a credere che io abbia paura.»
«Lasciami finire. Egli sperava di giorno in giorno di venire da te, e per mandarti i suoi saluti non si fidava neppure delle sorelle. Allora, essendo arrivata questa buona occasione di venire io per il processo, si stabilì che i saluti te li avrei portati io.»
«Grazie: per questo solo ti sei disturbato? Ma qui… ma qui…», ella riprese; e non terminò perché Costantino disse abbassando la voce:
«Anche la tua tanca è circondata di spie».
Marianna trasalì e guardò suo padre; poi ricominciò a sorridere con sarcasmo.
«Padre, qui bisogna far vedere che siamo anche noi gente di coraggio: ebbene, andate subito a vedere dove sono nascoste le spie: andate, su, e dite loro che perdono il loro tempo invano.»
Il padre guardava, e gli pareva che un principio di pazzia la agitasse: non riusciva a capir bene, ma aveva l’impressione ch’ella lo mandasse fuori per poter meglio parlare con Costantino; e senza aprire bocca si alzò e uscì, mentre il bandito lo seguiva con gli occhi corrugando le sopracciglia, offeso.
«Perché l’hai mandato via, Marianna? Egli poteva e doveva anzi ascoltare quanto mi resta a dire.»
«Aspetta: ritornerà subito, vedrai. Intanto sono io che devo dirti una cosa senza che mio padre mi senta: egli non deve essere responsabile di quello che io dico! Ebbene, ecco, è inutile che tu continui; ho bell’e capito tutto. Simone non vuole più avere a che fare con me; s’è pentito, s’è vergognato. Perché? Chi lo ha distolto e mutato? Io non voglio saperlo. Solo, t’incarico anch’io di dirgli da parte mia una sola parola. Ti prego di dirgli, da parte mia, che è un vile.»
Costantino si portò una mano alla testa, come se qualche cosa lo avesse colpito; e arrossì, poi ridiventò subito pallido e riabbassò la testa reclinandola un poco a sinistra col gesto di rassegnazione che gli era abituale. Il cuore però gli balzava di sdegno. Se Marianna fosse stata un uomo e lo avesse percosso, non lo avrebbe offeso tanto come lo offendeva così, con una sola parola, donna debole e disperata; in fondo però le dava ragione, e tentando di placarla sentiva di placare anche la propria coscienza. «Marianna», cominciò; poi per un momento stette incerto: come raccontare bene tutto? Come raccontare bene, in modo ch’ella, oramai smagata, credesse, le smanie di Simone, nei primi tempi, i suoi impeti di collera, seguiti da periodi di tenerezza durante i quali i due compagni nascosti nel loro rifugio circondato dal furore del vento o dalla placida desolazione delle nevi, passavano il tempo cantando una gara estemporanea nei cui versi primitivi la figura di lei, di Marianna, passava e ripassava luminosa e lontana come la luna fra la rete delle nubi invernali? E come raccontarle il resto? Il mutamento di Simone, l’ansia in cui egli viveva?
«Mille volte s’incamminò per venire da te; ma tornava indietro per non crearti un pericolo. E nella rabbia feriva col suo coltello i tronchi degli alberi, mormorando parole di maledizione contro tutto e tutti. Poi si calmava dicendo: “tanto, lei è sicura di me e mi aspetterà anche mille e mille anni…”. Marianna, cosa avevi fatto tu di un uomo? Lo avevi ridotto come un fanciullo. Egli pronunziava il tuo nome anche dormendo: e ancora lo pronunzia, ancora è come un fanciullo. Abbi coscienza, Marianna: dà retta a me. Tu devi seguire la tua via e lui la sua. Non capisci ch’egli verrebbe condannato? Ed egli non vuol legare la sua sorte alla tua. Ma vuole che tu lo perdoni.»
Parlava a bassa voce, e sebbene sentisse finalmente rotto l’incantesimo che aveva unito Simone a Marianna, la gelosia si mischiava ancora alle sue parole di pace, come una vena amara. Quando disse “egli vuole che tu lo perdoni” si chinò davanti a lei come implorando perdono anche per sé. Ma ella sentiva ch’egli le nascondeva in parte la verità; ed era tornata rigida, implacabile.
«Marianna! Devo andarmene: non farmi ripartire così, come un nemico. Che cosa devo riferirgli?»
«Io non ho che una parola. Una ne avevo detta a lui, e una ne dissi a te».
«E io non gliela riferirò! Voglio prima parlare con tuo padre; eccolo che ritorna.»
«Tu non dirai nulla a mio padre, se sei uomo! Sei venuto a parlare con me, non con lui.»
Allora Costantino si alzò e fece per riprendere il suo fucile.
Zio Berte rientrava dopo essere stato giù verso la fontana nel fitto degli alberi in fondo al prato. Aveva sentito il bisogno di consultare le cose attorno, la fontana, le piante, i cespugli, la solitudine amica della sua anima semplice: e aveva toccato i tronchi dei soveri domandando loro consiglio come a dei sapienti solitari. Parlava ad alta voce.
«Può darsi che ci siano le spie. Tutto può darsi. Quello che non capisco è il malumore di Marianna; o, meglio, sì, lo capisco bene. Come non dovrebbe essere di malumore, lei? Che cattivo incanto è il suo! Diffida di tutti, diffida anche di me: per questo mi ha mandato via… Ah!», sospirò; e gli venne sulle labbra il nome di Dio ma non lo pronunziò.
Non era mai stato un uomo molto religioso; erano passati anni interi senza che mettesse piede in chiesa; e non era neppure superstizioso, sebbene semplice di cuore; e benché lontano dagli uomini e dalle cose del mondo, si sentiva sempre attaccato a questi uomini e a queste cose come la foglia della cima dell’albero alla più nascosta radice dell’albero stesso. Aveva però coscienza di aver mandato via di casa sua figlia, la sua unica figlia, per vanità, per amore, sia pur indiretto, dei beni del mondo, e sentiva che bisognava scontare fino in fondo il suo errore.
E andò a bere alla fontana, benché non avesse sete: s’inginocchiò, vide il suo viso riflesso dall’acqua bruna, limpida, come in un grande occhio che aveva per pupilla il primo riflesso della luna.
«Berte Sirca, Berte Sirca», disse alla sua immagine, «fa quello che la coscienza ti detta. Aiuta tua figlia.»
Tornò a passi lenti, pensieroso, verso la casa. Vide Costantino che si disponeva a ripartire; già aveva staccato il fucile dal piuolo e si calcava il berretto sulla fronte.
«Tu non te ne andrai», gli disse, «non ci farai questo torto: Marianna adesso accenderà il fuoco e preparerà la cena. Vieni a vedere il suo bene.»
Costantino esitò un momento, poi rimise il fucile e seguì l’ospite fino alla radura: si vedeva il servo, grande, tranquillo, spingere al ritorno le vacche che attraversavano il prato lente sazie col pelo inargentato dal riflesso della luna.
Sì, Marianna era bella, fiera e ricca: Simone poteva ben sacrificarle anche la sua libertà e passare anni ed anni, in carcere per lei. Costantino guardava e gli pareva di esser lui, adesso, sotto l’impero d’una malìa; non solo non dava più torto al compagno, ma sentiva un confuso desiderio che tutto s’aggiustasse; e cedeva all’invito di Zio Berte con la speranza che da zio Berte partisse la parola di pace.
Zio Berte infatti s’indugiava pensieroso, a mani giunte, come adorando le vacche e le giovenche che gli passavano davanti solenni in processione. Quando tutte furono dentro la mandria, si volse e mormorò:
«Puoi rassicurare il tuo compagno, ti giuro in mia coscienza che qui intorno nella tanca non ci sono spie».