Prefazione

Giovanni Solimine

L’assegnazione del premio Nobel per l’economia 2009 a Elinor Ostrom – studiosa che propone una gestione comunitaria dei beni collettivi globali, come l’atmosfera, il clima o l’acqua, ma anche le infrastrutture e i servizi di pubblica utilità e, tra questi, il sistema della comunicazione culturale e scientifica – ha contribuito a catalizzare l’attenzione su questa impostazione e a diffondere l’idea che la conoscenza è un bene comune ‘non rivale’, nel senso che il suo utilizzo da parte di un soggetto non impedisce ad altri di utilizzarla e non limita i benefici disponibili per gli altri. Viceversa, più sono le persone che condividono la conoscenza, più la comunità ne trae vantaggio.[1]

In questa prospettiva possiamo guardare oggi al tentativo di offrire a tutti pari opportunità nell’accesso alla conoscenza. Questa esigenza si coniuga con una modalità di approccio alla cultura – forse la più congeniale alle dinamiche della società attuale, la società della rete – che privilegia la circolazione delle conoscenze per via orizzontale più che verticale. Anche la trasmissione del sapere prodotto all’interno delle istituzioni scientifiche non segue più le forme canoniche. Per secoli il ruolo dei diversi attori di questo processo era restato sostanzialmente immutato: agli studiosi spettava il compito di fare ricerca e di presentare i risultati delle loro elaborazioni originali attraverso saggi e articoli, che venivano valutati dagli editori che accettavano di stamparli; le biblioteche selezionavano e organizzavano in funzione dell’uso queste pubblicazioni; altri studiosi, consultandole, ne traevano spunto per un ulteriore avanzamento delle conoscenze. Autori, editori, bibliotecari e utenti delle biblioteche intervenivano, quindi, nei diversi segmenti di un processo continuo di evoluzione scientifica. Lo stesso si può dire della catena distributiva, che assicurava la circolazione delle pubblicazioni e delle idee che esse contenevano.

I circuiti tradizionali sono entrati in crisi e, a volte, è lo stesso concetto di autore che sembra essere messo in discussione da una prassi della ricerca e della produzione scientifica sempre più corale, favorita anche dalle modalità del lavoro in rete. Una conseguenza di questa trasformazione è che le pubblicazioni hanno perso, in molti casi e in particolare per alcune discipline, il loro aspetto di risultati consolidati della ricerca e appaiono sempre più come flash su un processo in continuo divenire, preziosi se non si vuole essere relegati ai margini della comunità scientifica. Per far conoscere con immediatezza i risultati ai quali si è pervenuti, e al tempo stesso per poter dimostrare in questo modo di averli raggiunti per primi, in molti campi del sapere le riviste sono divenute il principale strumento di comunicazione, sostituendosi alle monografie: una preventiva valutazione degli articoli proposti, effettuata da esperti qualificati (peer review) certifica la qualità e l’originalità dei contributi.

Per questi motivi, si assiste contemporaneamente a due fenomeni. Da un lato la lievitazione dei costi di abbonamento alle riviste scientifiche, che impedisce in molti casi agli istituti di ricerca di acquisire le pubblicazioni che sono il frutto degli studi che essi stessi hanno finanziato; dall’altro la tendenza degli autori a privilegiare altre forme di produzione, distribuzione e accesso dei risultati della ricerca, come quella di depositare i loro lavori in archivi elettronici allestiti dalle università e dagli enti di ricerca.

Va evitata la frattura fra la funzione di content provider e quella di service provider. Nasce anche da questa preoccupazione il nuovo modello di disseminazione della conoscenza che possiamo identificare nel ‘movimento’ che tende a rendere liberamente accessibili attraverso la rete le pubblicazioni che sono frutto di ricerche finanziate con danaro pubblico. Il movimento dell’accesso aperto è al tempo stesso un prodotto dall’evoluzione tecnologica e una reazione del mondo della ricerca alla lievitazione dei costi delle pubblicazioni scientifiche, causata dall’arroganza e dall’avidità di alcuni editori che godono di una posizione dominante a livello internazionale. Ma se ci fermassimo a questa motivazione difensiva ignoreremmo un aspetto non meno importante: l’acquisizione di una maggiore consapevolezza del proprio ruolo da parte dei ricercatori, degli istituti e delle biblioteche, che intendono assumere un ruolo strategico nella diffusione della conoscenza, dando vita a un ecosistema favorevole alla circolazione delle idee e alla tutela della conoscenza come bene comune.

L’abbattimento delle barriere commerciali nella circolazione delle idee e dei saperi scientifici e la possibilità per la collettività di riutilizzare senza ulteriori costi ciò che viene prodotto dalle istituzioni pubbliche di ricerca sono i fondamenti su cui si basa la Dichiarazione di Budapest del 2002, che ha innescato il movimento dell’open access.

I princìpi e gli strumenti in cui si incarna questo movimento sono ben illustrati da Ernest Abadal nel volumetto che avete tra le mani, nel quale vengono anche descritti i benefici che il mondo della ricerca ne può ricavare, chiariti gli equivoci e sfatati i luoghi comuni che spesso capita di ascoltare a questo proposito, indicate le prospettive che una politica dell’accesso aperto dovrebbe perseguire.

L’ambiente digitale non costituisce soltanto uno strumento per fare in modo nuovo e migliore ciò che si faceva già, ma diviene il presupposto per una radicale trasformazione delle modalità di circolazione del sapere, connaturata al mezzo che viene utilizzato. «Non si tratta solo di un cambiamento di supporto (Internet invece delle tradizionali riviste scientifiche, su carta e con abbonamento); semmai la Rete viene presentata come il nuovo paradigma che consente di ridefinire modi e mezzi di diffusione e che garantisce una visibilità dei risultati scientifici altrimenti inimmaginabile. Infine, proprio Internet rende possibile l’accesso gratuito e totalmente libero, senza rinunciare alla validazione di qualità».[2]

Ci sembra questo un grosso passo per potersi avvicinare a quella forma di condivisione che rende praticabile un’idea partecipata della cultura, come risultato delle relazioni e non soltanto come patrimonio da trasmettere. In una congiuntura che sembra orientata allo sfruttamento commerciale dell’informazione e alla privatizzazione delle fonti e dei canali di trasmissione delle conoscenze, e che si caratterizza per l’affermazione di nuovi modelli editoriali e di logiche economiche d’integrazione verticale e di concentrazione in ristretti ‘oligopoli del sapere’, il sistema pubblico ha il dovere di fare il possibile per favorire la piena utilizzazione dei risultati della ricerca. Nel nostro Paese, purtroppo, malgrado gran degli atenei abbia firmato la Dichiarazione di Messina del 2004, con la quale si incoraggiano i ricercatori a pubblicare in archivi istituzionali aperti, in molti casi questa adesione, anche a causa dell’assenza di un più deciso impulso a livello nazionale che la sostenesse, è rimasta una semplice affermazione di principio, cui non hanno fatto seguito policy di ateneo e iniziative volte a garantire una reale disponibilità degli elaborati derivanti dalle ricerche che le università finanziano; anche la pubblicazione di riviste scientifiche peer-reviewed ad accesso aperto cresce a ritmo ancora troppo lento.

Una più decisa iniziativa in questa direzione – come quella piuttosto stringente che è stata varata di recente in Germania e che era stata tentata anche in Italia nell’estate del 2013 con un decreto governativo, poi svuotato dal Parlamento in sede di conversione in legge –, che forse non andrebbe lasciata alle singole università ma che dovrebbe essere stimolata e incentivata dal centro, avrebbe effetti benefici da molti punti di vista: si contribuirebbe alla costituzione dell’anagrafe della ricerca, da tempo proposta ma mai effettivamente realizzata, con la possibilità di conoscere più facilmente quali gruppi di ricerca sono all’opera e su quali obiettivi; si potrebbero avere informazioni sui risultati, anche intermedi, che potrebbero essere più agevolmente valutati; si farebbero circolare in tempi più rapidi ed in modo più trasparente informazioni rilevanti anche per le applicazioni industriali, migliorando la competitività del nostro sistema produttivo; si incentiverebbe la pratica degli spin-off, dando una ricaduta aziendale a progetti e idee provenienti dalla ricerca tecnologica universitaria. Un altro beneficio potrebbe riguardare l’allentamento di una competizione spesso esasperata e di una pressione sui ricercatori a pubblicare solo con case editrici e riviste accreditate, che promettono un elevato impatto dei papers scientifici.

Auguriamoci che la pubblicazione della traduzione italiana del lavoro di Ernest Abadal sia un contributo per andare in questa direzione.



  1. Si veda in particolare La conoscenza come bene comune. Dalla teoria alla pratica, a cura di Charlotte Hess e Elinor Ostrom, Milano, Bruno Mondadori, 2009.
  2. Paola Castellucci, Dichiarazione di Budapest per l’accesso aperto. Testo e commento, «Nuovi annali della Scuola Speciale per Archivisti e Bibliotecari», 24 (2010), p. 131-158: p. 136.