3 Il rapporto Human Rights Watch sui diritti umani in Palestina

a cura di Ugo Giannangeli

Mi è stato chiesto di parlare della violazione dei diritti umani in Palestina. Utilizzerò in gran parte come fonte il rapporto di Human Rights Watch del 2010. Il rapporto si occupa dei Territori Palestinesi Occupati (TPO), in particolare dell’area C, quella che gli accordi di Oslo hanno assegnato all’esclusivo controllo di Israele.

I diritti umani sono quei diritti fondamentali della persona codificati soprattutto nell’immediato dopoguerra. In quegli anni vi è stata una ricca produzione normativa tendente ad evitare che la tragedia appena conclusa potesse ripetersi: lo Statuto delle Nazioni Unite è del 1946, la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo è del 1948, le Convenzioni di Ginevra sono del 1949, per citare le fonti più note.

Si sancisce, tra l’altro, il diritto alla vita, alla integrità fisica, alla sicurezza personale, alla libertà, all’uguaglianza, alla tutela della proprietà e, sul piano giudiziario, ad un equo processo e alla presunzione di innocenza.

È di quegli anni, come sappiamo, anche la nostra Costituzione che tutti questi diritti, insieme ad altri, ha recepito ed introdotto.

Al 1948 risale però anche la nascita dello Stato di Israele che di tutti questi diritti ha fatto e tuttora fa strame. Israele nasce già controcorrente: uno Stato coloniale in piena epoca di decolonizzazione. Dalla sua nascita (a dire il vero, già da prima, dagli anni ’20) il disegno sionista porta avanti un progetto di distruzione ed espulsione del popolo palestinese per la realizzazione di uno Stato confessionale per soli ebrei, in spregio, peraltro, alla Dichiarazione di Fondazione dello Stato di Israele che predica tutt’altro.

La violazione dei diritti umani da parte di Israele è una pratica costante, lucida e preordinata per il compimento dell’opera iniziata con la Nakba, di cui è la prosecuzione con altri metodi. La violazione dei più elementari diritti è lo strumento necessario per ottenere l’eliminazione fisica dei palestinesi, quando ad essere violato è il diritto alla vita o alla integrità fisica, oppure per ottenere la loro espulsione dal territorio o dal contesto sociale quando ad essere violati sono tutti gli altri diritti attraverso deportazioni, prigionie senza termine e capi di accusa, arresti arbitrari, processi farsa, distruzione di case, campi ed olivi, privazione di reddito e risorse, un complesso sistema di norme discriminatorie e quant’altro.

In una parola, lo scopo è rendere invivibile la terra di Palestina per i suoi antichi abitanti non ebrei. Si può legittimamente parlare di deportazione anche in questo caso perché una sentenza del tribunale penale internazionale de L’Aja ha statuito, trattando della ex Iugoslavia, che si ha deportazione forzata non solo quando fisicamente si trasportano persone da un luogo a un altro, ma anche quando si rende invivibile il loro territorio e impossibile la permanenza. Israele, comunque, non si fa mancare neppure deportazioni nel senso corrente del termine, si veda quanto sta facendo con i beduini del Negev.

La violenza praticata è di duplice natura. Una ad alta intensità, quando le condizioni geopolitiche lo consentono (si pensi ai 1.400 uccisi durante Piombo fuso nel 2008/2009 o anche ai 200 uccisi in pochi giorni nel novembre 2012, di cui pochi si ricordano).

Un’altra è a bassa intensità, meno appariscente, centellinata nel quotidiano. Eppure è altrettanto impressionante, ma organi di “informazione” tutti “embedded” la nascondono o ne sminuiscono la gravità.

Su questo tipo di violenza si sofferma il rapporto di HRW del 2010. Sia chiaro: non è che l’ultimo di una serie di rapporti su Israele. Per ricordare i più clamorosi: quello del 2003 di Jean Ziegler all’ONU che denunciava una carestia vera e propria provocata da Israele; quello del 2009 sulla violenza dei coloni, per non dire del noto rapporto Goldstone sui crimini di guerra e contro l’umanità commessi da Israele durante Piombo fuso: uso del fosforo bianco, di armi non convenzionali e in via di sperimentazione, uccisione di civili inermi, di bambini, di soccorritori…

Rapporti tutti caduti nel vuoto; lo stesso rapporto Goldstone, benché fatto proprio dalla UE e dal Consiglio dei diritti umani dell’ONU, non è giunto al Consiglio di Sicurezza, ove, comunque, sarebbe stato bloccato, come di consuetudine, dal veto USA. E poi ci chiediamo il perché della perdita di credibilità dell’ONU e del ritorno in auge della NATO (vedi Libia) o dell’ex Stato coloniale in prima persona (vedi Francia in Mali)!

Passiamo ad analizzare alcune situazioni su cui si sofferma il rapporto.

Distingue 4 settori: edilizia, movimento, acqua, confisca di terra.

Sull’edilizia: il rapporto evidenzia come l’obiettivo di Israele sia duplice, da un lato bloccare la crescita dei villaggi palestinesi quando addirittura non ridurli attraverso le demolizioni; dall’altro incrementare l’espansione delle colonie.

A fronte di un permesso di costruzione concesso ai palestinesi (magari per un piccolo ampliamento della abitazione) vengono emessi ed eseguiti 73 ordini di demolizione. Nel 2009 sono state demoliti 25 edifici scolastici lasciando senza sede 6.000 studenti (l’attacco all’istruzione è una costante della politica israeliana almeno dalla prima intifada in poi per abbattere l’altissimo livello di istruzione dei palestinesi). Vengono anche creati parchi naturali, poligoni di tiro, zone militari: tutte aree interdette ai palestinesi (né si pensi a una vocazione ecologica di Israele se solo ricordiamo le centinaia di migliaia di olivi sradicati o bruciati). L’accanimento di Israele contro gli olivi palestinesi meriterebbe una lunga disamina. Oggi basti dire che la pianta dell’olivo ha, oltre a una evidente importanza economica, anche un alto valore simbolico perché è una pianta millenaria, citata sia nella Bibbia sia nel Corano. Rappresenta il radicamento del popolo palestinese sul proprio territorio e così come il palestinese dopo quasi un secolo ancora resiste alla occupazione, così l’olivo bruciato o tagliato rinasce dalla terra. Per questo è necessario sradicarlo. Sul movimento: su questo diritto si scatena la fantasia degli israeliani. Pensiamo al muro che quando sarà concluso misurerà 760 KM., quasi il doppio della Green Line, il confine del 1949 tra Israele e la Cisgiordania. Il suo percorso ondivago è una evidente dimostrazione della sua vera funzione che non è quella di proteggere, ma quella di annettere ulteriore territorio palestinese. Gli stessi israeliani usano la parola ebraica “Hafrada” per il muro, e cioè “separazione” e non difesa o protezione. Pensiamo anche alle By pass roads, cioè alle strade inibite ai palestinesi, complessivamente una rete di circa 700 Km. O anche ai check points, cioè ai posti di controllo che in realtà svolgono ben altra funzione. Nei TPO erano 505 nel 2010, alcuni con personale militare, altri senza. A questi sono da aggiungere quelli “volanti”, cioè barriere create al momento. Il check point ha una sola vera funzione: privare di vita il palestinese, rubargli anche il tempo, rendergli tutto precario, umiliarlo. Il palestinese non può programmare la propria giornata. Non sa la mattina se riuscirà a raggiungere il lavoro, la scuola, un amico ammalato, il mercato… Il tutto nella più assoluta arbitrarietà del soldato ventenne di leva che decide, in assenza di norme e regole, a capriccio. Il rapporto cita, tra gli altri, il caso di un contadino non fatto passare perché aveva con sé farina e carne “eccedente l’uso personale”!!!

Sull’acqua: l’Israeliano consuma 4,3 volte più acqua del Palestinese. I palestinesi sono costretti ad acquistare acqua pagandola cara ad Israele e pagando anche il trasporto con le autobotti. Gli Israeliani deviano le tubature sotterranee palestinesi per accaparrarsi l’acqua e scavano pozzi più profondi di quelli palestinesi, per cui se i pozzi pescano nella stessa falda il pozzo palestinese si prosciuga.

Sulla confisca di terre: su questo tema il rapporto denuncia le “trappole” legislative-giudiziarie. Se, ad esempio, un terreno è incolto per tre anni, viene acquisito dallo Stato e diventa Terra di Stato o dell’Agenzia ebraica. Molti proprietari si sono allontanati per ragioni belliche (Nakba, guerra del 1967) e non volontariamente, ma la legge “sui proprietari assenti” non ammette deroghe o giustificazioni. Lo stesso accade se il proprietario palestinese non è in grado di dimostrare la proprietà. Si tenga presente che molte proprietà risalgono magari all’epoca della dominazione ottomana e i relativi documenti, quando esistono, non sono ritenuti idonei da Israele.

Il rapporto ricorda un dato che io voglio segnalarvi perché significativo della ipocrisia del meccanismo statale israeliano. Poiché Israele si accredita e viene accreditato come “l’unica democrazia del Medio Oriente”, deve fingere di avere meccanismi di garanzia e di tutela nel rispetto della tripartizione dei poteri dello Stato (giudiziario, legislativo, esecutivo). Nel caso della confisca della terra, è prevista la possibilità di impugnare il provvedimento di confisca alla Autorità giudiziaria entro 45 giorni dalla notifica. Peccato che l’atto non venga notificato! Ci si accorge della confisca svegliandosi all’alba con il rumore della ruspa che sta distruggendo recinzioni e quant’altro. In Israele la tripartizione dei poteri esiste solo sulla carta; nella realtà più ancora che quello esecutivo è il potere militare a dominare e condizionare tutte le scelte. Si pensi alle sentenze della Corte di Giustizia israeliana (come quella sulla illegittimità di un tratto di muro nel 2004) rimaste ineseguite. Le sentenze vengono rispettate solo quando coincidono con le scelte militari e politiche (ad esempio, la sentenza sul ritiro dei coloni da Gaza nel 2005).

Il rapporto si sofferma anche su altre violazioni di diritti umani. Ad esempio, in tema di lavoro, denunciando che ai lavoratori palestinesi vengono applicate le trattenute previdenziali e assistenziali senza che poi possano in realtà beneficiare di pensione o assistenza. In tema di rapporti familiari, particolarmente odiosa è la legge che impedisce il ricongiungimento familiare tra coniugi residenti l’uno in Israele, l’altro nei Territori occupati.

Un capitolo a parte è dedicato ai coloni. Costoro godono di privilegi non solo ovviamente rispetto ai palestinesi, anche quelli di cittadinanza israeliana (discriminati già rispetto ai cittadini di religione ebraica non residenti nelle colonie), ma anche rispetto agli altri ebrei israeliani residenti in Israele. Lo Stato giunge a pagare l’80% dell’affitto, le case nelle colonie costano poco e si beneficia di mutui agevolati, gli insegnanti guadagnano il 20% in più rispetto a quelli in Israele, i coloni beneficiano di punteggi di priorità per le borse di studio, godono di esenzioni fiscali… Soprattutto rispetto alle colonie si scatena il “collaborazionismo mondiale”, prevalentemente da parte statunitense: negli USA è infatti possibile scaricare dalle tasse quanto corrisposto a favore delle colonie. Viene da sorridere amaramente se si pensa che le colonie sono illegittime per il diritto internazionale.

Il rapporto HRW porta esempi concreti. Ne voglio citare due. Il contrasto palestinesi/coloni è ben rappresentato dall’immagine notturna di Al Dhib, un villaggio vicino a Betlemme, e di Sde Bar, la colonia che non dista più di 350 metri. Di notte Sde Bar sembra un Luna Park, tanto è ricca di luci e movimento. Al Dhib è privo di luce, di scuola, di strade e non per la povertà degli abitanti, ma perché Israele ha negato la possibilità di costruire la scuola, di collegarsi alla strada principale, di asfaltare le strade e di collegarsi alla rete elettrica che passa vicina. Quando una ONG internazionale ha regalato dei pannelli fotovoltaici, Israele ne ha impedito la collocazione! Quale nesso ci sia tra tutto questo e le addotte ragioni di sicurezza è facile immaginare.

Ed ancora: a Yarroun, vicino Nablus, ci sono 50 ettari di oliveto. Israele ha concesso ai proprietari un solo giorno per la raccolta delle olive e due giorni per la potatura! È evidente come facilmente l’oliveto diventerà terra incolta e sarà confiscata. Oppure sarà più brutalmente sradicato o bruciato.

Tante altre sarebbero le cose da dire, ad esempio sui prigionieri, sulla pratica della tortura, sui processi farsa, ma il tempo a disposizione è esaurito. Un’ultima spiegazione. Il rapporto già nel titolo parla di Apartheid, odiosa parola che gli ebrei ben conoscono per avere subito il relativo trattamento sulla propria pelle nei ghetti. La parola si riferisce sia alla frammentazione territoriale dei Territori Occupati, sia alla normativa e alla pratica discriminatoria nei confronti dei palestinesi. Questo termine si usa ormai regolarmente per sintetizzare la politica israeliana. Nel maggio 2009 l’Human Sciences Research Council of South Africa ha pubblicato i risultati di una approfondita ricerca intesa ad analizzare se la condotta di Israele possa rientrare nelle definizioni di colonialismo e apartheid fornite dalla legislazione internazionale. Lo studio, durato 15 mesi, è stato svolto da un team composto da esperti di diritto internazionale provenienti da Sud Africa, Gran Bretagna, Israele e Cisgiordania. Ha concluso che le pratiche di Israele violano la proibizione del colonialismo che la comunità internazionale ha sancito negli anni ’60 durante il periodo di decolonizzazione di Africa ed Asia. Queste pratiche violano anche le norme contro l’apartheid di cui alla Convenzione internazionale sulla soppressione e punizione del crimine di apartheid e sono molto simili alla politica a suo tempo praticata in Sud Africa contro i neri confinati nei Bantustan.

Posso solo aggiungere che il progetto di esclusività di Israele come Stato per soli ebrei rappresenta un unicum nel pur vasto ed odioso panorama colonialista. Neppure i coloni europei in Nord America avevano un programma preordinato e pianificato di sterminio degli indigeni, anche se i massacri prima e la reclusione nelle riserve dopo ne hanno comportato la scomparsa. Il padre fondatore del sionismo, T. Hertzl, definiva Israele “l’avamposto di civilizzazione contro i barbari”. Oggi Israele è invece solo un avamposto politico/militare dell’Occidente in Medio Oriente nell’accezione peggiore del termine, così da costituire un fattore destabilizzante dell’area.

È assordante il silenzio attorno alla sorte del popolo palestinese. Oggi dobbiamo essere grati ad ANPI Seprio se, nel suo piccolo, ci ha consentito di romperlo.