8 La levità di “Mimma”

Venerdì 03 Aprile 2009

a cura di Tommaso Di Francesco

Due originali iniziative per ricordare Marina Rossanda, che ci ha lasciato nel dicembre del 2006. L’istituzione di un «Fondo» intitolato a suo nome di scritti, interventi, leggi, iniziative, con introduzioni e memorie a cura di Eleonora Lattanzi e Linda Santilli pubblicato tra i materiali dell’Archivio femminista Rosa Luxemburg (Rifondazione comunista) e dell’Associazione Parola di donna, che è stato presentato a Roma a Palazzo Mattei la scorsa settimana, anche con una introduzione del «fondo immagini» che ha suscitato nell’affollata assemblea degli intervenuti una forte emozione. E, in contemporanea, un libro di testimonianze, racconti di vita e di lavoro Marina (Mimma) Rossanda, a cura di Elisabetta Lasagna. Due iniziative (per info gruppoarchivio@gmail.com) che hanno il merito di attualizzare l’impegno e il percorso di vita di «Mimma», le sue esperienze indimenticabili e «piene», tantopiù in questa stagione di vuoto a sinistra. 
Un tragitto il suo tutt’altro che facile. Subito, sin dall’infanzia quando – ricorda Rossana Rossanda – una malattia trasformò la sua complessione di «bellissima bambina grassottella in un’esile ragazzina» dal corpo anzitempo indebolito. Poi con la decisione di diventare medico, specializzato in anestesia, con un lungo studio sulle tecniche di rianimazione nei pazienti in coma per lesioni cerebrali che la porteranno, negli anni Settanta, a contribuire all’apertura del Servizio di Neurochirurgia all’ospedale Niguarda di Milano – i reparti di neurorianimazione e di neuroradiologia saranno i primi d’Italia, da allora centri di eccellenza per la cura dei traumi cranici. E sempre attiva politicamente a indagare i limiti specifici della medicina e della figura del medico, ad approfondire il tema della prevenzione, della salute e del benessere, delle strutture sanitarie da trasformare con i nuovi soggetti protagonisti della lotta per la salute. Interna a quel crogiolo creativo che fu Medicina Democratica, sull’ambiente di vita e di lavoro entrambi ridotti a merce, sulla nascita e l’aborto, sulla genetica e bioetica, sulla vecchiaia possibile, sui limiti, ma anche sul valore dei trapianti. «Mimma» che corre in Sicilia e lì si scontra con apparati sanitari reali quanto malavitosi, inguaiandosi con una denuncia per «mendicità abusiva» perché raccoglieva fondi per il Vietnam, e che va a Stoccolma a verificare il welfare più prossimo da confrontare con l’arretratezza italiana. Severa, come quando obbligò un agente di polizia che aveva sparato ad un ragazzo grazie alla Legge Reale, a restare davanti la porta della stanza del ragazzo colpito, di notte e di giorno, perché capisse il danno irreparabile che aveva provocato.
E che per questa sua modalità di «rossa ed esperta» finirà nelle istituzioni – prima come rappresentante del Pci in Senato per due legislature e poi nel Consiglio regionale del Lazio per Rifondazione comunista – dove s’impegna sulla sanità in un’ottica di «servizio» che tiene sempre accanto la verifica più importante e decisiva: quelladentro la realtà, tra le persone, gli umili, gli sconfitti. Da questo punto di vista, l’esperienza probabilmente più importante della vita di Marina «Mimma» Rossanda fu quella palestinese. Una realtà che frequentò nel profondo, non solo incontrando leader nell’esilio come Yasser Arafat, ma i Territori occupati, i campi profughi spesso nei momenti più drammatici. Come nell’estate del 1982 a Beirut occupata dall’esercito israeliano guidato dal generale Sharon, dov’era corsa a portare aiuto sanitario e dove per giorni e giorni opererà nell’unica sala operatoria di un ospedale di fortuna. Lì scrive un prezioso diario che si conclude sotto l’incubo di un orrore che sta per accadere. E accade, quando Marina ormai non è più a Beirut: la strage di Sabra e Chatila. «Strage che – ricorda Rossana Rossanda – la colpì come forse nulla di quel che aveva visto succedere durante la guerra mondiale». Così come non smetteva di disperarsi perché l’esercito israeliano distruggeva tutti i piccoli, preziosi presidi sanitari che costruiva con altri. Nella Palestina occupata, insieme a Marisa Musu, Marina fa un incontro fondamentale: nell’ospedale di Hebron conosce Ghazala (Gazzella) una ragazza di 14 anni in coma perché ferita alla testa da proiettili sparati da coloni ebrei mentre usciva di scuola. «Mimma», in missione per estendere la rete sanitaria di soccorso ai palestinesi che già coinvolgeva Mustafa Barghouti, ne trae spunto per lanciare l’organizzazione «Gazzella», impegnata da quel momento attraverso la pratica dell’adozione a distanza, a curare centinaia di bambine e bambini palestinesi feriti.
Era innamorata della Palestina, della sua cultura, delle profondità di Edward Said. Non si nascondeva le difficoltà, soprattutto vedeva la centralità del ruolo della donna in quella realtà bloccata e infernale dove già si presentavano gli integralismi religiosi e sopravvivevano le strutture patriarcali anche all’interno dei processi di liberazione. Nel saggio che istituisce il «Fondo», Isabella Peretti ricorda lo sguardo illuminante e d’insieme di Marina Rossanda che nel suo Palestina amata e amara, essere donne in Israele, in Cisgiordania in Libano, denuncia le diverse condizioni delle donne in Medio Oriente, ma tutte accomunate dalle conseguenze «dello sradicamento, dell’esodo, degli sforzi di ricostruzione delle comunità sotto la pressione continua della guerra, della repressione e della emigrazione forzata». Comunque per la sorte cara dei palestinesi Mimma anticipava nel 1989: «Purtroppo il processo non è concluso e il lieto fine non è assicurato». Vent’anni dopo, i massacri di due mesi fa a Gaza ci danno la conferma più dolorosa.
Così non è un caso che proprio da un intellettuale palestinese molto legato al suo lavoro sanitario nei Territori occupati come Wasim Dahmash, arrivi la più convincente descrizione di «Mimma»: «Il coraggio che la spingeva a non retrocedere davanti alle situazioni estreme e ad andare dentro il massacro, era fatto non solo di determinazione, ma anche di delicatezza. Quella delicatezza che faceva sì che non si dimenticasse, nel racconto dell’Intifada del 1987-1988, di avere fotografato un uccello che vive soltanto in quella parte del mondo, o di portare da Gerico pianticelle di olivo da regalare all’amico palestinese…». Lei, animale umano, che scrive circondata dai suoi due gatti, Medea e Anacleto. Dolcissima quando scrive ad Adriano Mantovani, il compagno della sua vita, una breve poesia d’auguri di compleanno, rappresentazione di un sogno premonitore che individua il necessario, materiale termine di vita:
 «Ampia torre quadrata, / scala di pietra chiara. / A piedi nudi in abiti leggeri / con te la scendo.
 Addio alla nostra casa. / Dagli archi aperti scende sui gradini / neve sottile. / Protesto, è freddo. /
 Tu sorridi. E tra poco? / So quale freddo attende. / Ma nelle mani unite/ sta una calda certezza. / 
Si aprono gli archi, la torre rovina / e noi scendiamo lievi. / (da Archivio Rifondazione Comunista)