Main Body

6 A proposito di ibridi e centauri

siamo estremisti: ignoriamo le vie intermedie […]. Eppure dovremmo respingere questa nostra innata tendenza alla radicalità, perché essa è fonte di male. Sia lo zero, sia l’uno, ci spingono all’inazione. (Eclissi dei profeti, 1984, AM, OII 855)

 

1. Il titano, il centauro e gli Altri

In una versione molto nota del mito, Prometeo viene liberato grazie al sacrificio del centauro Chirone. Questi, essendo una creatura immortale, è infatti costretto a soffrire per l’eternità a causa di una ferita infertagli da Eracle, il quale chiede a Zeus di accettare che il centauro prenda il posto di Prometeo. Il titano aveva perso la propria immortalità come conseguenza delle pene inflittegli da Zeus ma la riconquista grazie allo scambio con Chirone, il quale può così morire e porre fine alla propria sofferenza (Apollodoro I, vv. 119-20 e II, vv. 83-87).

Per comprendere se il centauro possa effettivamente essere il simbolo migliore della condizione umana per Levi si può cercare di rappresentare i rapporti di questa figura con gli altri personaggi mitici presenti nell’opere di Levi ponendo tutti sulla stessa scena. Si assisterebbe così ad una suggestiva vicenda: Prometeo è relegato ai confini di un mondo che ha contribuito a plasmare, in una condizione di solitudine e impotenza, ed è costretto a confrontarsi con lati di sé che tende a ignorare e con gli altri, con il Golem e Lilít, con cui deve dialogare ascoltando le loro richieste e scendendo a compromessi. Infine giunge Chirone, figura ibrida che incarna molti aspetti delle altre tre e che sceglie di morire per porre fine alla sofferenza di Prometeo. Parafrasando: l’uomo che ha ricevuto i doni prometeici può essere libero di creare e agire nel mondo solamente se riconosce e accetta che la sofferenza è necessariamente parte della vita. Le catene sono vincoli e limitazioni alla propria natura creativa che possono essere spezzate solo da qualcun altro; questa condizione esemplifica il limite di un’esistenza individualista e ci ricorda il dovere morale di agire responsabilmente come ha fatto Chirone, alleviando la sofferenza altrui quando possibile. Su questo punto la morale del Prometeo incatenato di Eschilo e quella di numerosi racconti di finzione di Levi concordano: una libertà senza controllo non è bene e la sorte di Prometeo lo dimostra, in quanto egli «infine fallisce trovandosi nel bisogno, nel dolore e nell’insignificanza» (Cassanmagnago 938), moralmente libero ma schiavo della solitudine a cui lo ha condotto il proprio orgoglio e, dunque, «sempre “trattenuto da grandi catene” (939; cfr. Th., v. 616)».

Nel quadro dell’etica di Levi, dunque, l’orgoglio di Prometeo e la sua solitudine sono valutati negativamente. È bene invece che l’uomo impari a misurarsi con la propria natura multiforme – con i Golem e le Lilít che trova dentro e fuori di sé – e che impari ad accettare che la sofferenza è fondamento della propria condizione esistenziale. In tal senso, Chirone è il miglior simbolo che l’inventio di Levi potesse trovare: maestro delle arti, saggio e giusto, generoso e disposto a convivere con il dolore. Una figura che non è mai univocamente identificabile ed offre un’apertura ad esiti molteplici, immediatamente riconoscibile per tale proprietà, in quanto la incarna come animale ibrido. Ma che il centauro sia il simbolo perfetto della condizione umana è solo un’aspirazione, e un’ipotesi che può guidare l’interpretazione dei racconti.

La prima proposta di analogia fra uomo e centauro avviene nel 1946 o 1957 nel racconto Il sesto giorno (SN, OI 529-47; cfr. supra, cap. 2, par. 4), e nel 1961 il suo valore di simbolo della condizione umana è sancito da Quaestio de centauris (SN, OI 505-16); cronologicamente, dunque, è plausibile ritenere che il centauro sia il simbolo che Levi sceglie per dare fondamento al superamento dell’esperienza concentrazionaria e per consolidare il ruolo della propria attitudine scientifica in rapporto all’attività di letterato:

Nel momento del distacco dall’esclusivo ruolo testimoniale, così da diventare un po’ più scrittore e un po’ più chimico, Levi sembra prepararsi il terreno, mitologizzando i propri presupposti epistemologici, scegliendo il centauro come proprio simbolo araldico, facendo riferimento a quell’universo di proto-scienza che è l’immaginazione mitica, «poesia delle origini», «intuizione panica dell’universo» [La Cosmogonia di Queneau, 1982, AM, OII 769]. (Antonello, “La materia, la mano, l’esperimento” 84)

Ciò nonostante, sembra più difficile accettare il centauro come simbolo definitivo dell’epistemologia e dell’etica di Levi. Infatti, come si è visto nei capitoli precedenti, durante tutta la sua produzione letteraria l’autore si rivolge anche ad altri miti e costruisce altri simboli per esplorare questioni importanti quali il rapporto con l’ambiente, con gli animali, con la tecnica e le relazioni fra individui. Credo quindi che per cogliere al meglio tutte le sfumature dell’etica e della retorica leviana sia più opportuno considerare il centauro come una tra le figure dell’enciclopedia della creazione, uno dei simboli di cui l’autore si serve per esemplificare la complessità della natura umana e delle relazioni con il mondo e con gli altri. Detto ciò, è innegabile che Chirone sia la figura che più si avvicina ad incarnare gli aspetti più importanti dell’etica leviana, ma nessuno dei personaggi che si incontrano nei racconti gli somiglia pienamente; nessuno potrebbe perché Levi non è interessato agli dei e agli eroi, è invece interessato agli uomini comuni e al modo in cui essi si misurano con le proprie capacità, con la propria libertà e con la sofferenza.

Del Prometeo liberato di Eschilo non ci sono rimasti che pochi stralci e, suggestivamente, anche molti dei racconti di Levi possono essere letti come ipotetici frammenti di un’opera il cui intento è di proporre un Prometeo liberato e trasformato che sia più consapevole delle proprie responsabilità e dei propri limiti. Questo individuo ha grandi capacità ma sa riconoscere e rispettare le esigenze degli altri e del mondo che cambia intorno a sé; ricorda che la propria vita è segnata da una sofferenza dovuta al fatto di avere dei limiti, di non comprendere sempre i propri desideri e la propria volontà, e quindi di non avere il diritto di imporre la propria ragione. Il Prometeo liberato di Levi non è il superuomo voluto da Ormuz (Il sesto giorno, 1946, 1957, SN, OI 533), è una creatura multiforme che ha conosciuto la sofferenza dei vincoli posti da un’esistenza corporea e vuole sforzarsi di avere un atteggiamento che gli permetta di cogliere le antinomie della vita. Sull’importanza del centauro come figura che esprime questa volontà è già stato scritto molto, ma per comprendere il suo ruolo nel contesto della proposta etica dell’autore è utile esplorare come avvenga la trasformazione del centauro in simbolo e anche valutare il suo valore in relazione alle altre figure mitiche.

 

2. Quaestio de centauris (1961)

I racconti di Levi presentano un grado di coesione enciclopedica piuttosto elevato e il mito della creazione, affrontato per la prima volta ne Il sesto giorno (1946, SN), viene recuperato in modo esplicito anni più tardi, ricorrendo in particolare alla figura del centauro. Così come avviene ne Il sesto giorno, il racconto delle origini fa emergere la questione della spaccatura paranoica, anzi, in questo caso è proclamata l’esistenza di una vera e propria questione degli ibridi, una Quaestio de centauris1.

La versione cantauresca della creazione proposta in questo racconto riprende le preoccupazioni che tormentano Ormuz, ribadendo quale sia la divisione che ossessiona Levi e affrontandola più in profondità (cfr. supra, cap. 2, par. 4.4). Ciò che emerge da questo secondo incontro con lo stesso tema è una posizione più complessa ed ambigua che, a mio avviso, esprime la volontà di trovare unarmonia tra ragione e passione piuttosto che la frustrazione data dalla mancata accettazione del caos «incastonato nel […] corpo» (Il sesto giorno, 1946, SN, OI 545): la paranoia rimane ma l’atteggiamento cambia. Ormuz è inevitabilmente di parte, in quanto manifestazione di uno solo dei poli del dualismo zoroastriano, e pertanto può etichettare gli istinti sessuali come qualcosa di «sozzo»; inoltre, l’intervento del Dio onnipotente tronca ogni dialogo o riflessione sulla condizione umana. I centauri, invece, sono creature che vivono manifestamente la duplicità in questione e, di conseguenza, il mito della loro origine verte sull’incontro dei due aspetti. Da un lato si ha un mito quasi farsesco, in cui il dualismo che oppone bene e male, ragione e passione, Ormuz e Arimane, si scontra con l’inesorabilità dell’atto divino. Dall’altro, con la quaestio de centauris, a tale racconto subentra un mito tramandato da creature ibride, in cui «le virtù dei genitori si esalt[ano] a vicenda» (Quaestio de centauris, OI 507), piuttosto che essere un «simbolo beffardo» (Il sesto giorno, OI 545).

La posizione autoriale rilevabile nel racconto, tuttavia, è piuttosto complessa: non si dà mai una situazione di equilibrio tra i due poli, né nella vicenda di Trachi, né nelle leggende sui centauri, e nemmeno nell’atteggiamento del narratore. Si nota una continua oscillazione fra un’attitudine razionale, evidente nella volontà di controllare e spiegare tutto, e una fascinazione per la fecondità dell’unione di due alterità. Questa dialettica è riscontrabile in tutti e tre i livelli narrativi menzionati: nel tono utilizzato dal narratore (par. 2.1), nelle azioni di Trachi (par. 2.2) e nel racconto mitico (par. 2.3).

2.1 Il narratore

Il racconto è impostato con un tono scientifico-didascalico nelle prime pagine, in cui sono esposti usi e costumi dei centauri2, e un tono cronachistico nel lungo epilogo, dove si ricostruiscono in rapida sequenza le ultime vicende di Trachi3. Tali modalità discorsive – in cui i fatti sembrano presentati da un punto di vista impersonale – sono decisamente marcate nel racconto creando così un effetto documentaristico. L’esposizione pseudo-scientifica, tuttavia, subisce talvolta delle intensificazioni del pathos. Ad esempio:

questo fango […] non appena il sole lo toccò, si coprì di germogli, da cui scaturirono erbe e piante di ogni genere; ed ancora, ospitò nel suo seno cedevole ed umido le nozze di tutte le specie salvate nell’arca. Fu un tempo mai più ripetuto, di fecondità delirante, furibonda, in cui l’universo intero sentì amore, tanto che per poco non ritornò in caos. (OI 506)

Oppure, tramite la ripetizione anaforica:

tutto germinava, tutto dava frutto. Ogni nozza era feconda […]; né solo ogni nozza, ma ogni contatto, ogni unione anche fugace, anche fra specie diverse, anche fra bestie e pietre, anche fra piante e pietre. (506)

Queste variazioni di stile sono dovute principalmente ad un cambiamento nel tono dell’enunciazione, con il passaggio da una prosa distaccata ad una narrazione che sembra mostrare un coinvolgimento e un appassionarsi al tema del discorso. Tale variazione è riconducibile a due strategie retoriche differenti: potrebbe trattarsi di un’enfatizzazione del tono didascalico, cioè di abbellimenti retorici con cui si vuole rendere più persuasivo l’insegnamento, oppure potrebbe essere un esempio di discorso riportato, in cui il narratore cita implicitamente le parole dell’emozionato Trachi. Entrambe le ipotesi sono valide poiché l’unico indizio testuale è un’avvertenza del narratore – «quanto andrò esponendo è il frutto di quei nostri lunghi colloqui» (505) – che non permette di stabilire il grado di rielaborazione con cui sono presentati quei dialoghi e, di conseguenza, non legittima una decisione a favore dell’una o dell’altra ipotesi.

Ad ogni modo, l’effetto sul lettore è lo stesso in entrambi i casi: la percezione di una variazione dell’enunciazione genera difficoltà nell’interpretazione dell’ethos autoriale che emerge dal racconto. Il lettore si trova di fronte a messaggi ambigui: da un lato si afferma che fu «la seconda creazione la vera creazione», un’epoca «in cui l’universo intero sentì amore» e da cui nacquero «i connubi più felici» (506 e 507), dall’altro si insinua la repressione del divieto biblico per questi atti originari, segnati da uno «spasimo sanguigno e vietato, l’attimo di pienezza umano-ferina in cui furono concepiti» (507, corsivo mio)4.

Nel contesto dell’intero racconto, in cui è dominante un’esposizione impersonale, mi sembra notevole che questo divieto sia espresso in prima persona dal narratore: «questo anch’io credo per fermo (e lo attesta la storia che sto per raccontare), che […] si tramandi in essi […] la cecità rossa dello spasimo sanguigno e vietato» (507, corsivo mio). Nel luogo testuale in cui il narratore si manifesta esplicitamente viene sancita una repressione, un rifiuto morale di quel mito originario che fino a questo punto era stato presentato in modo ambiguo, in parte con tono distaccato e in parte suscitando l’empatia del lettore tramite l’accrescimento del pathos narrativo.

Credo che un racconto in cui si avverta la presenza di messaggi conflittuali come quelli appena rilevati lasci intuire la presenza di una costruzione retorica basata su un meccanismo dialogico nascosto, analogo a quelli che ho già avuto modo di mettere in luce per i racconti sul Golem e su Lilít. L’autore sembra costruire il proprio discorso senza proporre dei valori di riferimento certi e si avverte una tensione dovuta all’alternarsi di elementi contrastanti. Da un lato si incontrano riferimenti – espliciti e impliciti – ai valori dominanti nella società contemporanea, cioè la religione e la razionalità del sapere scientifico; dall’altro vi sono esemplificazioni di atteggiamenti e valori in conflitto coi primi. Nello specifico, nel racconto centauresco sull’origine di tutte le creature, tramite la variazione dell’enunciazione è reso possibile un indebolimento della tradizione religiosa giudaico-cristiana, la quale è momentaneamente dimenticata per lasciare spazio ad una partecipata narrazione delle leggende dei centauri. L’atteggiamento scientifico col quale è impostato il resoconto sui costumi di queste creature ibride, invece, in più di un’occasione ottiene delle deroghe dovute al coinvolgimento emotivo del narratore. Basti ad esempio: «[p]oiché non ho ragione di dubitare su quanto di se stesso Trachi mi narrò, devo dunque invitare gli increduli a considerare che vi sono più cose in cielo ed in terra di quante la nostra filosofia ne abbia sognate» (508).

Vi sono anche altri fenomeni retorici riguardanti l’enunciazione che fanno emergere ambiguità interpretative: oltre a un contrasto nelle parti più descrittive, si nota la comparsa di momenti lirici nell’incipit e nella parte centrale del racconto, in cui il narratore presenta vicende della propria infanzia con Trachi, spesso intervenendo con considerazioni emotive a commento della narrazione: «ho passato con lui molte ore memorabili, ed altre bellissime di estate» (505). Analogamente, viene reso noto il rapporto famigliare in cui era coinvolto il centauro: «una forma di affetto esclusivo e geloso che tutti gli portavamo» (511); e il narratore confessa il proprio stato d’animo nel rievocare quei momenti: «mi pesa scrivere questa storia. È una storia della mia giovinezza, e mi pare, scrivendola, di espellerla da me, e che dopo mi sentirò privo di qualche cosa forte e pura». Anche in questi casi si verifica una variazione del tono dell’enunciazione.

La mia ipotesi è che non vi sia una chiara scelta assiologica per l’uno o per l’altro polo e che, in tal modo, l’ethos percepito dal lettore sia reso decisamente ambiguo. È possibile che Levi esprima qui la propria volontà di superare il dualismo visibile su più livelli ne Il sesto giorno e di lasciare spazio anche all’emotività, agli istinti sessuali e all’irrazionale. Sarebbe questa, dunque, una nuova concezione dell’essere umano, e il centauro è simbolo di tale condizione5.

La questione, ovviamente, si presenta complessa anche così: il fatto di aver individuato un simbolo unificatore non risolve il problema della spaccatura paranoica. Diversamente da Il sesto giorno, dove è la divinità Ormuz a paragonare l’uomo ad un centauro – quindi il conflitto è rilevato da un soggetto terzo – in Quaestio de centauris è un centauro ad essere protagonista, una creatura che vive in prima persona la duplicità in questione, e di cui ci sono riportati i discorsi e raccontate le gesta. Inoltre, viene riferito quello che è il racconto più importante per ogni creatura: la narrazione delle proprie origini, la ricerca delle radici, il mito. Il centauro, dunque, è simbolo, non allegoria o emblema statico della condizione umana: è una forma dinamica che spinge ogni essere umano che incontri tale simbolo a interrogarsi sulla propria esistenza6. La spaccatura non si rimargina, ha semplicemente trovato una sua forma, ed è già una conquista titanica per poter gestire la paranoia.

Per capire a fondo l’importanza di tale simbolo, è opportuno prendere in considerazione proprio gli aspetti che distinguono il nuovo centauro da quello del 1946/1957. Finora, infatti, ho ragionato esclusivamente sulle modalità di enunciazione, senza occuparmi dell’elaborazione centauresca del mitologema della creazione e senza considerare le azioni e i discorsi di Trachi. Prima di entrare nel merito, però, è doveroso chiarire il comportamento del narratore e per farlo c’è un episodio chiave da considerare: nel momento in cui ritiene di aver agito male – poiché seguendo le proprie pulsioni irrazionali ha provocato sofferenza ad un amico – non accetta in coscienza questo aspetto della propria duplice natura. Il risultato è che si sente in colpa per ciò che ha fatto ma si deresponsabilizza, non riconoscendo che la causa delle proprie azioni possa essere in se stesso:

Ho avuto subito coscienza di aver male operato: anzi nell’atto stesso; ed ancor oggi ne porto pena. Eppure so che la mia colpa non è piena, né lo è quella di Teresa. Trachi era fra noi: eravamo immersi nella sua aura, gravitavamo nel suo campo. So questo poiché io stesso ho visto, dove lui passava, schiudersi anzitempo i fiori, ed il loro polline volare nel vento della sua corsa. (513)

La repressione è di tipo esistenziale: il narratore è un individuo che non accetta che gli istinti sessuali siano parte di lui, e pertanto attribuisce la colpa delle proprie azioni ad un’influenza esterna. Il luogo testuale in cui ciò avviene è strategico: il momento di climax, ossia la scena immediatamente precedente all’inarrestabile «scioglimento» della tensione che fa sentire Trachi come «un campo di battaglia» (512). La costruzione narrativa di questa scena chiave è caratterizzata dall’accrescersi della suspense, dovuto alla ripetuta ammissione del narratore della consapevolezza di ciò che sta per succedere:

Io fui, e non altri, chi provocò lo scioglimento. […] Non tradii le confidenze del mio amico: ma feci peggio. […] era un viottolo cieco, io lo sapevo, e sapevo che Teresa lo sapeva. (512-13)

La suspense generata, però, non trova uno scioglimento, perché il narratore omette di raccontare l’evento annunciato e affida all’epilogo cronachistico la funzione di ricostruire tale episodio “catartico”.

Il narratore ammette la propria colpa ma non è in grado di affrontarla, e quindi cerca di evitare le conseguenze di ciò che ha fatto negando di essere responsabile delle proprie azioni. Ma nell’etica di Levi non assumersi le proprie responsabilità è la peggiore delle colpe possibili, tanto più che qui vi è la consapevolezza di quanto fatto: «Ho avuto subito coscienza di aver male operato: anzi nell’atto stesso» (513).

2.2 Trachi

Le considerazioni fatte riguardano il piano dell’enunciazione, ma per comprendere meglio quale sia il conflitto messo in scena e quali le modalità di manifestazione e interazione dei due campi di forze in gioco è opportuno considerare le novità del racconto Quaestio de centuaris rispetto alla precedente comparsa del centauro come analogia della condizione umana.

Uno degli aspetti originali del racconto è la presenza di discorsi e pensieri riportati del centauro protagonista che, nei luoghi testuali in cui sono inseriti, permettono al lettore di avere informazioni su alcuni dettagli della natura dei centauri e di osservare quali conflitti interiori essi vivano. Due sono i tratti interessanti che accompagnano l’utilizzo di tale tecnica narrativa: (i) il lettore vede rappresentata la propria condizione esistenziale tramite un processo di spostamento in cui è un’altra creatura a vivere la scissione e a sforzarsi di comprenderla7; (ii) nelle parole e nei pensieri del centauro compare di frequente il tema della procreazione. Per giustificare la ricorrenza del tema il narratore fornisce una spiegazione legata alla leggenda sull’origine dei centauri: «io credo per fermo (e lo attesta la storia che sto per raccontare) che […] si tramandi in essi […] la cecità rossa dello spasimo sanguigno e vietato, l’attimo di pienezza umano-ferina in cui furono concepiti» (507). In Quaestio de centauris, quando il tema è introdotto tramite discorsi e pensieri riportati, esso assume una funzione ben precisa: esibire apertamente una riflessione sulla condizione esistenziale dei centauri, creature razionali e continenti ma con istinti molto forti e una sensibilità elevatissima. Ad esempio:

Quando partorì la vacca dei De Simone, a duecento metri da noi, affermò di sentirne il riflesso nei propri visceri; lo stesso accadde quando venne a partorire la figlia del mezzadro. Anzi, mi segnalò una notte di primavera che un parto doveva essere in corso; e vi andammo, e vi trovammo una pipistrella, che aveva appena dato alla luce sei mostriciattoli ciechi, e stava porgendo loro il suo minuscolo latte.

Così, mi disse, tutti i centauri son fatti, che sentono per le vene, come un’onda di allegrezza, ogni germinazione, animale, umana o vegetale. (510)

In poche righe vengono citati tre esempi di parto, seguiti da una generalizzazione che include ogni (pro)creazione di esseri viventi. Inoltre, subito dopo, il discorso estende la sensibilità centauresca anche alle condizioni preliminari alla creazione – il desiderio e gli istinti sessuali – le stesse per cui Ormuz esprimeva timore e avversione nel racconto Il sesto giorno (OI 544-45):

Percepiscono anche, a livello dei precordi, e sotto forma di un’ansia e di una tensione tremula, ogni desiderio ed ogni amplesso che avvenga nelle loro vicinanze; perciò, quantunque abitualmente casti, entrano in uno stato di viva inquietudine al tempo degli amori. (OI 510)

L’incontro con la corporeità delle passioni e del desiderio portano Trachi a vivere una «tensione tremula» che lo agita; ed è notevole che, ancora una volta, l’atteggiamento del centauro nei confronti di tale condizione sia presentato tramite la tecnica del discorso riportato, addirittura nella forma con il minor grado di mediazione, il discorso diretto:

La mia ora è giunta, o carissimo: mi sono innamorato. Quella donna è entrata in me, e mi possiede. Desidero vederla e udirla, forse anche toccarla, e non altro; desidero quindi una cosa che non si dà. Mi sono ristretto in un punto: non c’è più altro in me che questo desiderio. Sto mutando, sono mutato, sono diventato un altro. (512)

È suggestivo che le parole di Trachi possano essere interpretate con una corrispondenza quasi perfetta tramite il modello del mito proposto da Philippson, la quale afferma che l’incontro fra divenire e essere – quando «la linea retta del tempo dell’accadere passa per il punto di tempo dell’aion» (Origini e forme del mito greco 11; cfr. supra, cap. 2, par. 2.4) – genera un kósmos symbolikós che può essere compreso solamente tramite il mito. L’essere di Trachi si è ristretto in un punto ed egli non sa gestire il proprio desiderio poiché è qualcosa che necessità di una metamorfosi per essere compreso. Solamente tramutandosi in simbolo il centauro potrà accogliere in sé il desiderio e l’incontrollabile forza vitale che sente, concedendo loro pieno diritto di esistenza.

La metamorfosi sta avvenendo, e infatti la narrazione prosegue riportando la raggiunta consapevolezza del lato passionale della propria natura da parte del centauro:

Anche altre cose mi disse, che trascrivo con esitazione, perché sento che difficilmente saprò cogliere il segno. Che, dalla sera prima, si sentiva diventato «un campo di battaglia»; che comprendeva, come mai aveva compreso, le gesta dei suoi avi impetuosi, Nesso, Folo; che tutta la sua metà umana era gremita di sogni, di fantasie nobili, gentili e vane; avrebbe voluto compiere imprese temerarie, facendo giustizia con la forza del suo braccio; sfondare col suo impeto le foreste più fitte, giungere in corsa ai confini del mondo, scoprire e conquistare nuove terre, ed instaurarvi opere di civiltà feconda. Che tutto questo, in qualche modo a lui stesso oscuro, avrebbe voluto farlo davanti agli occhi di Teresa De Simone: farlo per lei, dedicarlo a lei. (512)

Nonostante il centauro ora comprenda la propria condizione, il paragrafo è introdotto dalle parole del narratore, il quale pone una distanza tra sé e Trachi, ribadendo la propria incapacità di capire ciò che il suo amico sta vivendo. È questo uno strano caso di mise en abyme: lo sforzo ermeneutico del lettore per afferrare il “mistero” della natura dei centauri è riflesso nel tentativo di autocoscienza del centauro stesso, ma ciò avviene attraverso la mediazione di un narratore i cui limiti sono già stati palesati, accentuando così l’ineffabilità della condizione ibrida.

La metamorfosi, però, non è ancora completa, il centauro sente che l’irrazionale che vive in lui è ancora «in qualche modo a lui stesso oscuro», ma ora è in grado di riconoscere l’esistenza di una metà impulsiva, comprende la duplicità della propria condizione e la scissione che caratterizza le creature come lui. La creatura ibrida vuole esprimere questa condizione, vuole che la complessità della propria natura sia visibile agli occhi altrui e venga riconosciuta. Ma questo non può avvenire e Trachi lo sa:

[Disse che] infine, conosceva la vanità dei suoi sogni nell’atto stesso in cui li sognava; e che era questo il contenuto della canzone della notte avanti: una canzone appresa nella sua lontana adolescenza in Colofone, e da lui mai compresa né mai cantata fino ad allora. (512, corsivo mio)

Ecco affermata la spaccatura: la simultanea coesistenza di coscienza e desiderio, di razionale e irrazionale. La metamorfosi del centauro in simbolo è ora completa.

In questo passo è detto anche quale sia lo strumento con cui è possibile esprimere tale condizione: una canzone8. Che sia forse una canzone che narra un mito? Non vi è risposta a questa domanda, ma una canzone che riesca ad esprimere l’unicità della paradossale esistenza dei centauri può ragionevolmente essere considerata un mito, una storia in grado di dire come elementi opposti e inconciliabili possano convivere simultaneamente nella stessa creatura, nello stesso kósmos. Nel racconto è detto che i miti dei centauri sono più razionali di quelli umani, ma qui non vi è qui alcun tentativo di fornire una spiegazione razionale alla metamorfosi di Trachi9. Al contrario, si fa affidamento esclusivamente su di una canzone come unico mezzo per poter dare voce ad un’esperienza altrimenti ineffabile, una canzone «da lui mai compresa né mai cantata fino ad allora», quindi presumibilmente non altrettanto razionale quanto il mito riportato nelle prime pagine del racconto.

Che tipo di creatura è, dunque, il centauro creato da Levi? Quali delle varie possibilità semiotiche offerte da questo simbolo sono accentuate? Nelle parti didascaliche è detto che i centauri si distinguono per la loro «continenza abituale», sono creature dotate di un «provvido istinto» (509) e hanno una tradizione «più razionale di quella biblica» (505):

Questi furono fin dall’inizio una progenie nobile e forte, in cui si conservava il meglio della natura umana e della equina. Erano ad un tempo savi e valorosi, generosi ed arguti, buoni alla caccia ed al canto, alla guerra ed alla osservazione degli astri. (507)

Così li descrive il narratore, in un’esposizione impersonale che esprime ammirazione per delle qualità altrui, ma nel momento in cui cambia il punto di vista, ed è Trachi a parlare, tutto cambia. Colui che vive in prima persona la duplicità della propria esistenza non usa parole di orgoglio per quella condizione idealizzata ed ammirata da altri, al contrario, esprime tutta l’angoscia per i lati oscuri di sé che non può controllare e da cui rischia di essere dominato: «Quella donna è entrata in me, e mi possiede. […] Mi sono ristretto in un punto: non c’è più altro in me che questo desiderio» (512). È una condizione paradossale che può trasformarsi in paranoia per l’impossibilità di essere comunicata ad altri; forse solo il canto (il mito? la letteratura?) può essere un sollievo.

Nella tradizione letteraria i centauri sono caratterizzati in modi differenti, a volte sono creature violente e imprevedibili, altre volte sapienti e miti. In questo racconto, Trachi e tutti i centauri sono generalmente presentati come una stirpe dal temperamento affine a quello del saggio Chirone, piuttosto che dei selvaggi ippocentauri della Tessaglia (Atsma, “Kentauroi Thessalioi”); e anche nel momento di crisi, «dal contegno di Trachi nulla si vide della tempesta che lo agitava» (512). Tuttavia, quando è Trachi stesso a parlare, fra i celebri antenati non è a Chirone che fa riferimento, bensì a Nesso e Folo, famosi l’uno per il proprio desiderio sfrenato, l’altro per la propria ira10.

Nella tradizione greca e nella Commedia di Dante, Chirone è il centauro che è in grado di controllarsi, il maestro a cui viene affidata l’educazione di molti eroi (Achille, Eracle e Asclepio, fra gli altri). Nesso e Folo, invece, nelle leggende greche sono al centro di vicende che li vedono soggiogati ai loro istinti; nella Commedia, tuttavia, acquisiscono uno statuto più ambiguo: per caratterizzarli Dante accenna agli atti di violenza da essi commessi, ma il loro ruolo è di guardiani del primo girone del settimo cerchio, dove sono puniti «qual che per violenza in altrui noccia» (Inferno XII, v. 48). Sono creature impetuose e violente, quindi, ma rappresentano anche la volontà di controllare la violenza. In Quaestio de centauris vi sono almeno altre tre citazioni della Commedia11, pertanto sembra legittimo affermare che Levi abbia tenuto in considerazione il racconto dantesco su Nesso e Folo, conoscendole dunque come figure ambigue.

Nelle leggende greche, i centauri sono protagonisti di episodi di rapimenti e violenze dovuti a cupidigia ma, allo stesso tempo, il più celebre di tutti loro è Chirone, grande esempio di continenza e rispettato maestro di molti eroi valorosi. Nel racconto di Levi, Trachi è una creatura dalla psicologia fortemente umana, partecipe di tutti gli attributi positivi e negativi tradizionalmente associati ai centauri. E il punto cruciale, come ho cercato di mostrare, è che il narratore può comprendere solamente un aspetto di questa complessa personalità: la virtuosità. Così come nell’omissione di raccontare l’incontro sessuale con Teresa è evidente una repressione dei propri desideri, allo stesso modo, nel raccontare l’ardente desiderio e le passioni dei centauri il narratore non fa altro che riportare i pensieri e le parole di Trachi, o si limita ad una ricostruzione cronachistica e distaccata degli abigeati da lui commessi.

Si è visto come il compimento della metamorfosi del centauro in simbolo sia dovuta all’accettazione della coesistenza di due nature, ma questo traguardo non coincide con il raggiungimento di uno stato di pace. Il simbolo è espressione di una tensione continua, e difatti l’intuizione di Trachi è un momento che non può durare perché un qualsiasi elemento esterno – in questo caso il tradimento di un amico – può innescare un processo degenerativo. Sembra dunque impossibile trovare un equilibrio fra le due nature e ciò è sancito anche nell’epilogo, in cui il centauro esibisce uno solo dei due aspetti di sé: è simile al Nesso della tradizione greca, una creatura che non può resistere al desiderio e che non è in grado di controllarsi, al contrario di Chirone o del Nesso dantesco che non teme i bollori del sangue (v. 139). Trachi sembra aver ceduto al desiderio e alla violenza, e l’ultimo gesto che compie sulla scena potrebbe essere nuovamente un’eco di Inferno XII, un cedimento al furore come quello dei dannati nel «bollor vermiglio» (v. 101): «l’uomo e la groppa grigia si erano immersi, scomparendo alla vista» (OI 516): la comprensione della natura ibrida è durata un attimo, l’oscillazione verso l’una o l’altra delle due metà non ci permette di trovare un equilibrio12.

Il centauro, dunque, è a tutti gli effetti simbolo della condizione umana: figura di compromesso in cui si esprime una continua tensione fra cupidigia e continenza, fra desiderio e razionalità. Il simbolo, però, non è qualcosa di statico, non può essere compreso una volta per sempre ma può solo riproporsi «sempre di nuovo» (Franzini, I simboli e l’invisibile), poiché è una forma dinamica (Bildung) che stimola una riflessione continua, che «donne à penser» (Ricoeur). In questo senso, Trachi non può essere un centauro ideale perché Levi, al contrario di Dante, non ha alcun sistema teologico o ideologico assoluto in base al quale costruire una «figura adempiuta» (Auerbach)13: per Levi non c’è un principio unificatore e dunque è impossibile comprendere ed esprimere univocamente la paradossale convivenza delle due nature, ma la tensione verso questo obiettivo è costante.

2.3 Il mito centauresco della creazione

La figura del centauro è evocata in più di un’opera dell’autore ma è il racconto mitico sull’origine che gli permette di condensare in un evento tutte le qualità di questa creatura-simbolo. Levi ama giocare coi miti e crearne di alternativi, facendo convergere tradizioni diverse, e così avviene in Quaestio de centauris:

È notevole che anche queste loro tradizioni facciano capo all’uomo arci-intelligente, ad un Noè inventore e salvatore, che fra loro porta il nome di Cutnofeset. Ma non vi erano centauri nell’arca di Cutnofeset: né vi erano d’altronde “sette paia di ogni specie di animali mondi, ed un paio di ogni specie di animali immondi”. La tradizione centauresca è più razionale di quella biblica, e racconta che furono salvati solo gli archetipi, le specie-chiave: l’uomo, ma non la scimmia; il cavallo, ma non l’asino né l’onagro; il gallo ed il corvo, ma non l’avvoltoio né l’upupa né il girifalco.

Come sono dunque nate queste specie? Subito dopo, dice la leggenda. Quando le acque si ritirarono, la terra rimase coperta di uno strato profondo di fango caldo. Ora questo fango, che albergava nella sua putredine tutti i fermenti di quanto nel diluvio era perito, era straordinariamente fertile: non appena il sole lo toccò, si coprì di germogli, da cui scaturirono erbe e piante di ogni genere; ed ancora, ospitò nel suo seno cedevole ed umido le nozze di tutte le specie salvate nell’arca.

[…] Fu questa seconda creazione la vera creazione; ché, a quanto si tramanda fra i centauri, non si spiegherebbero diversamente certe analogie, certe convergenze da tutti osservate. Perché il delfino è simile ad un pesce, eppure partorisce ed allatta i suoi nati? Perché è figlio di un tonno e di una vacca. Di dove i colori gentili delle farfalle, e la loro abilità al volo? Sono figlie di una mosca e di un fiore. E le testuggini, sono figlie di un rospo e di uno scoglio. […]

E così loro stessi, i centauri: poiché a questa festa delle origini, a questa panspermìa, anche i pochi superstiti della famiglia umana avevano preso parte. Vi aveva preso parte segnatamente Cam, il figlio scostumato: dai cui amori sfrenati con una cavalla di Tessaglia trasse origine la prima generazione di centauri. (OI 505-07)

L’origine della condizione ibrida è raccontata attraverso un mito ibrido, inserendo variazioni e impurità nel mito di Genesi. Accettando che nella retorica leviana si attui uno spostamento freudiano dall’uomo al centauro, a mio avviso si può interpretare il processo di rielaborazione del racconto biblico come un tentativo di recuperare la funzione mitica di una narrazione che col tempo ha perso la sua originaria forza espressiva. Oltre che dall’analisi retorica, questa ipotesi è avvalorata dagli studi di Gershom Scholem, secondo il quale vi è stata una trasformazione nel rapporto della tradizione rabbinica con i testi più antichi del Tanakh, i quali col tempo sono stati considerati sempre più come narrazioni storiche della vita del popolo ebraico in tempi remoti:

La Bibbia associa ancora le mietiture con quei ricordi storici su cui fonda le tre grandi feste di pellegrinaggio. Di questa connessione per la coscienza viva dell’ebreo in esilio [diaspora post 1492] sono rimaste soltanto debolissime tracce, e anzi: la preistoria che viene qui ricordata non è, per coloro che celebrano, preistoria mitica, che si svolge in un’altra dimensione del tempo, come si potrebbe forse credere, è la storia reale del popolo. […] Il pathos del ricordo – sebbene vissuto con un sentimento più intenso e profondo – è tuttavia più sobrio di quello dell’evocazione, e c’è effettivamente qualcosa di stranamente sobrio e aspro, nei riti della memoria con cui l’ebreo si richiama alla coscienza la sua identità insostituibile, storica. Proprio quel ritualismo per eccellenza che è quello dell’ebraismo rabbinico manca dunque dell’elemento estatico, anzi orgiastico, che è insito in tutti i rituali mitici. (Tradizione e nuova creazione nel rito dei cabbalisti 155)

Forse è proprio questo l’aspetto fondamentale della paranoia: il percepire la tradizione che dovrebbe raccontare la propria identità come «qualcosa di stranamente sobrio e aspro» inadeguato ad esprimere la condizione umana. Per un uomo convinto che il mondo che ci circonda sia caos, un «ambiente per necessità florido e putrido insieme, pullulante, confuso, mutevole» (Il sesto giorno, 1946, SN, OI 533), un mito della creazione può essere adeguato solamente se è in grado di includere quell’«elemento estatico, anzi orgiastico, che è insito in tutti i rituali mitici». Ecco dunque che i centauri si offrono all’inventio dell’autore come creature ibride che esibiscono nel proprio corpo una coesistenza irriducibile a qualsiasi discorso controllato. E l’appartenenza di questa figura ad una tradizione che ha ormai perso la sua valenza religiosa, quella greca, permette all’autore di giocare con una grande libertà fantastica ed elaborare un mito adeguato alle proprie necessità espressive.

Levi, quindi, trasforma il mito biblico in una narrazione ibrida con inserti della tradizione greca, ma i riferimenti alle Sacre Scritture sono comunque sostanziosi: vi sono echi di Genesi – i versetti sulla creazione dell’uomo dall’argilla e la leggenda del diluvio – e dal Talmud di Babilonia viene ripreso un dettaglio sul «nero Cam», del quale si dice che abbia fornicato nell’arca nonostante fosse stato proibito. Nella creazione dei centauri, però, non compare alcun dio: chi ha reso possibile la generazione di questa stirpe è un «uomo arci-intelligente, […] un Noè inventore e salvatore» (OI 505). Capacità inventiva ed intelligenza siano inseriti come aspetti fondamentali del mito e come condizione di possibilità della nascita dei centauri: la creatura eletta a simbolo dell’umanità non è stata creata da un atto divino, bensì è il frutto di una (fantastica) evoluzione biologica di «archetipi, le specie-chiave».

La struttura drammatica del racconto sembra corrispondere a quella dei mito poiché è costruita su due elementi antitetici: la vicenda è presentata in una cornice che genera l’aspettativa di uno sviluppo narrativo basato su principi razionali – un essere intelligente inventa e costruisce un’imbarcazione per salvare dal diluvio sette specie archetipe, dalla cui combinazione si generano poi tutte le forme di vita – ma questa sobria causalità lineare è in contrasto con ogni legge biologica, tanto che il mito stesso ricorre ad un principio di amore universale come forza propulsiva e catalizzatrice di ogni combinazione. I due principi opposti che convivono nella storia mitica sono gli stessi compresenti in tutto il racconto e che interagiscono nei processi ermeneutici del lettore, il quale è portato a far convergere razionalità e fantasia. Levi costruisce un mito apparentemente razionale che però ha la funzione di narrare la creazione di creature leggendarie: i centauri, in primo luogo, ma anche «i dragoni […], le chimere e le arpie, […] i minotauri, […] e i giganti» (507). A mio avviso, l’espediente genetico-biologico della combinazione tra specie archetipe non sarebbe altrettanto efficace se non fosse inserito in un contesto ricco di elementi fantastici. Come ne Il servo (1968-70, VF), anche qui scienza e sovrannaturale convergono nel discorso e l’organizzazione retorica fa interagire le due istanze in modo originale, raggiungendo effetti notevoli. E se ne Il sesto giorno (1946, SN) l’uomo è destinato a sentire due poli opposti convivere nel suo corpo, percepito come simbolo beffardo della propria condizione, così anche il centauro

conosce l’antiteticità solo trovandosi in essa; e ciò significa de facto che la conosce immediatamente di volta in volta dal “male”, se vi si trova (poiché secondo l’esperienza e il senso all’uomo può divenire presente il sì nella condizione negativa, ma non il no in quella affermativa) […]. (Buber, Immagini del bene e del male 22)

Detto altrimenti, nella cornice del racconto, in cui dominano valori razionali e socialmente accettati (scienza e religione), la conoscenza dell’antiteticità avviene tramite l’esperienza dell’irrazionale che si rende percepibile nel corpo. La retorica dei miti di Levi, dunque, sembra essere coerente con le riflessioni presenti in altri racconti e saggi: «spesso chi pensa non è sicuro di pensare, il suo pensiero ondeggia fra l’accorgersi e il sognare, gli sfugge di tra le mani, rifiuta di lasciarsi afferrare e configgere sulla carta in forma di parole. Ma invece chi soffre sì, chi soffre non ha dubbi mai, chi soffre è ahimè sicuro sempre, sicuro di soffrire ed ergo di esistere» (Un testamento, 1977, L, OII 147). Ma l’ottimismo degli atti prevale sul pessimismo della ragione: dare «forma di parole» a queste verità è uno degli obiettivi di Levi.

Alla fine di questo percorso sui miti e sui simboli che Levi costruisce credo si possa affermare con certezza che il centauro sia il più forte dei simboli che l’autore potesse trovare. Oltre che per la ricchezza polisemica che deriva dalla tradizione mitica, la pregnanza di questa figura è dovuta anche alla vicenda biografica dell’autore, alla schisi da lui sentita in contesti diversi e tante volte ricordata. Inoltre, la scelta di raccontare un mito centauresco della creazione si rivela straordinariamente efficace perché il simbolo acquista nuovo valore grazie al processo di rimitizzazione. Il mito racconta l’origine del macrocosmo simbolico composto di animali, «erbe e piante di ogni genere» (OI 506), di ogni forma vivente; e tale macrocosmo si riflette nel microcosmo simbolico che sono i centauri.

Detto ciò, tenendo conto della varietà dei significati evocati da Levi tramite i miti di Prometeo, del Golem e di Lilít, può un solo simbolo accogliere in sé la complessità dell’universo semiotico leviano? Il centauro è un microcosmo sufficientemente articolato da poter esemplificare tutte le dimensioni dell’etica proposta da Levi? La mia risposta è: no. Il centauro è un simbolo eccellente ma la portata del discorso etico eccede le possibilità di senso offerte da questa figura. Si è visto come nella ricerca degli strumenti espressivi più idonei ai propri intenti l’autore si rivolga a paradigmi diversi – alla memorialistica, al documentario, al linguaggio giuridico, alla chimica, al mito, al fantastico, alla fantascienza, ecc. Allo stesso modo, nel costruire una proposta etica che ponga l’uomo come soggetto responsabile in un mondo di relazioni eterogenee, riconoscendo la necessità del dialogo come principio organizzatore dei processi di costruzione d’identità e la socialità, Levi evoca come fondamento più di un mitologema e costruisce più di un simbolo. Il centauro, pur con la sua ricchezza simbolica, non può bastare: una sola forma non è sufficiente per soddisfare la molteplicità di funzioni espressive richieste per costruire una nuova umanità e una nuova etica, perché la peculiarità di ogni essere umano «consiste nell’essere incoerente, non uguale a se stesso nel corso del tempo, instabile, erratico, o anche diviso nello stesso istante, spaccato in due o più individualità che non combaciano» (Tradurre Kafka, 1983, RS, OII 941). In un erto senso, Levi «[v]uole promuovere un assetto del mondo che esalti l’individualità e le differenze tra gli elementi, che si componga in un’armonia tra diversità» (Scarpa, “Chiaro/oscuro” 243).

Nel tirare le somme delle osservazioni avanzate in queste pagine vorrei lasciarmi guidare dall’itinerario narrativo proposto in un racconto che, sorprendentemente, ha ricevuto molte poche attenzioni dalla critica. A mio avviso, infatti, Disfilassi (1978, L, OII 93-99) mostra una convergenza di molti aspetti dell’etica leviana e seguirne la trama mi permetterà di ricapitolare gli argomenti principali della mia ipotesi ermeneutica.

 

3. Disfilassi (1978)

Nell’antichità greca il termine kentauros, prima che si attestasse il suo uso esclusivo in riferimento agli ippocentauri, era utilizzato per indicare tutte le creature dalla forma ibrida, metà umani e metà animali (Philppson, Origini e forme del mito greco). Quaestio de centauris fornisce un esempio di un passato mitico in cui centauri di ogni tipo nascevano dall’incontro fecondo fra specie diverse, ma la narrazione si focalizza su una sola di queste forme ibride, quella degli ippocentauri. In Disfilassi, invece, molteplici centauri abitano un «futuro anteriore» che è il risultato emergente dalle interazioni dell’homo technologicus con l’ambiente.

Nella prospettiva di Levi, gli esseri umani sono parte dell’ecosistema e devono sottostare ai processi con cui il sistema tenta di conservarsi. Ciò che rende speciali gli uomini è la capacità di sperare, di guardare al futuro progettando una condizione migliore per sé, per la propria famiglia e per i propri congeneri. E nel mettere in atto i propri progetti dimostrano di avere delle capacità straordinarie: un ingegno estremamente plastico e un’abilità artigiana sofisticatissima con cui possono intervenire in modo anche drastico sulle relazioni dell’ecosistema, modificando in tempi brevi i processi di adattamento e selezione naturale. Sono in grado di mettere a dura prova la legge fondamentale della vita: la conservazione di un’identità in relazione alle mutevoli condizioni dell’ecosistema.

Gli esseri umani hanno a lungo preteso in modo audace e sconsiderato di avere il diritto di imporsi sull’ambiente e sulle creature considerate inferiori, ignorando leggi naturali che sembravano assodate e immutabili; ma all’azione di ogni Prometeo è correlato un insieme di reazioni e mutazioni imprevedibili di tutti gli altri individui che popolano l’ambiente, perché ciascuno tenta di mantenersi in vita e conservare la propria autonomia, i propri valori e la propria cultura. In un ecosistema non vi sono leggi metafisiche che regolano la vita, la vita si autoregola in una rete complessa di connessioni causali che non seguono uno schema lineare e controllabile: una novità introdotta nel sistema «pass[a] dagli escreti alle fognature al mare, dal mare ai pesci e agli uccelli; vol[a] per l’aria, ricad[e] con la pioggia, si infiltr[a] nel latte, nel pane e nel vino» (OII 94-95). L’etica che guida l’uomo dovrebbe pertanto includere la consapevolezza della complessità e imprevedibilità delle nostre azioni e delle eventuali reazioni: «nulla viet[a] […], ma in compenso…» (95). Ma spesso questo viene dimenticato perché la spinta ad agire per cambiare il mondo è fortissima. Il mondo però non è mai assoggettato all’uomo e anche i più audaci prima o poi devono constatare che «la natura è come una coperta corta, che se la tiri da una parte…» (94).

L’insieme delle interazioni innescate dall’intervento umano porta ad un nuovo assetto dinamico del sistema, perché il mondo evolve più in fretta degli umani, tanto che questi, nel tentativo di conservare la propria identità, lo rifiutano perché «li turba, non lo capiscono, lo sentono ostile»: è una «questione […] di difesa» (93). Ma chi perde la capacità di adattarsi all’ambiente è destinato a soccombere, non è possibile pensare di restare attaccati al «mondo della […] giovinezza, così tranquillo, ragionevole e ordinato». Dato che l’attività umana non si arresta mai, è necessario che alla poiesi sia correlata un’antropopoiesi continua. Il colpo più duro per l’individuo, però, è che nell’ecosistema non è la sopravvivenza del singolo ad avere valore, bensì quella della specie. È un bene quindi che ai giovani la sfuggente complessità del presente appaia ricchissima in confronto al passato cristallizzato, «[o]rdinato sì, ma forse un po’ insipido» (94), così che essi siano attratti dal sapore misterioso di ciò che non si conosce e conservino la propria capacità di sperare in un futuro migliore, e la volontà di agire per ottenerlo.

Fortunatamente, il futuro non si costruisce completamente alla cieca: accanto alla componente di imprevedibilità vi è un meccanismo comune a tutti gli organismi evolutivi, ossia il fatto di imparare dal proprio passato. Una pessima tendenza degli esseri umani, però, è quella di pensare di essere il centro dell’universo. Senz’altro l’istinto di conservazione ha un ruolo decisivo in questo atteggiamento egoista, ma ciò non toglie che gli uomini potrebbero usare meglio la propria intelligenza, per non dimenticare troppo in fretta gli errori del passato, ed allargare il proprio sguardo agli altri e all’ambiente – al «fantastico universo di semi, di germi e di fermenti in cui l’uomo vive senza accorgersene» (97) – così da non guardare al futuro con un orizzonte ristretto al proprio interesse personale, una strategia che non dà buoni frutti. Abbracciare il passato e il presente con uno sguardo ecologico può essere un punto di partenza eccellente per progettare e costruire un futuro migliore, ed è per questo che Amelia si domanda sorpresa «[c]ome po[ssono], i giovani d’oggi, conoscere se stessi se non conosc[ono] le proprie radici? Come po[ssono] chiudersi a quello che a lei appar[e] aperto?».

Nel futuro immaginato da Levi, ironicamente, anche dottrine e forme rigide di potere riconoscono a modo loro la validità del principio di conservazione della vita: «la Chiesa Restaurata non scherz[a]: l’anima [è] sacra, e l’anima c’[è] dappertutto», anche in quegli individui «che di umano non [hanno] gran che» (96). Il mondo è «saturo di fecondità innumerevoli, di germi invisibili ed infiniti» (97), le possibilità di crescita e cambiamento sono dunque moltissime, ma Levi insiste sul fatto che non abitiamo un universo caotico e privo di senso. La chiave della vita è la complessità ordinata: «in ogni germe [è] scritto un messaggio pieno di destino, scagliato nella vacuità del cielo e del mare alla ricerca del suo consorte, latore del secondo misterioso messaggio che [dia] senso al primo». L’incontro tra due alterità è la condizione fondamentale per la costruzione di un senso.

Per comunicare il proprio messaggio Levi compone un racconto di finzione, sfruttando il potenziale della creatività per rendere presente all’immaginazione un futuro in cui gli uomini hanno abbandonato una visione antropocentrica (per cause accidentali, ma è così che funziona l’evoluzione) e gli atteggiamenti di superiorità e di dominio ad essa legati. In questo mondo gli esseri umani ascoltano la forza dei propri desideri, riconoscono il fascino di ciò che è diverso ed estraneo14 senza timori pregiudiziali, e sono in grado di dirsi: «Perché non sperare nel meglio?» (99). Dopotutto, «anche insoddisfatto, quel desiderio così vario, così vivo e sottile, li arricchi[sce] e li nobilit[a]» (98) perché è il primo passo verso il dialogo e l’incontro tra nature diverse, come nel caso di Amelia che incontrato un ciliegio «lo abbracciò stretto, e le parve che l’albero le rispondesse con una pioggia di fiori» (99).

Questo «uomo nuovo» non ha solamente due nature già inscritte in sé, è soggetto ad una molteplicità di possibili ibridazioni che danno risultati imprevedibili. Sta alla responsabilità degli individui scegliere di soddisfare o no i propri desideri, ma comunque l’apertura verso l’Altro è sempre qualcosa di positivo, perché aumenta la conoscenza del mondo in cui viviamo. Guardandolo dal presente, questo universo appare «strano, strano e meraviglioso, [perché] la natura sconvolta [ha] ritrovato una sua coerenza. Insieme con la fecondità fra specie diverse era nato il desiderio; talvolta grottesco e assurdo, talvolta impossibile, talvolta felice» (99). E chi vive in un futuro di «possibilità innumerevoli» non può far altro che pensare a quanto «doveva essere ben grigio, ben pieno di noia il buon tempo antico, quando gli uomini erano attratti solo dalle donne, e le donne dagli uomini» (98).

Bisogna accettare che in un sistema complesso le relazioni possibili sono infinite e imprevedibili e che le novità possono essere «mostruose, altre graziose, altre inaspettatamente utili» (99). Ma ciò non toglie che ognuno sia responsabile delle proprie azioni, del modo in cui convive con i propri desideri e di come si comporta con gli altri; perché è vero che siamo creature multiformi e che non possiamo controllare in modo assoluto ciò che siamo, «ma guai ad andare troppo in là con le giustificazioni» (98). La morale è che, «senza dubbio, non bisogna cedere agli impulsi del momento» ma è fondamentale essere «consapevol[i] di desiderare» (99) – come Amelia e Trachi – senza reprimere ciò che si è: creature multiformi.

«Non si è sempre uguali a se stessi» (Tradurre Kafka, 1983, RS, OII 940) e gli esseri umani che si affidano ad un futuro già impostato – se non addirittura pianificato in accordo ad un principio assoluto – possono solo rincorrere un’ideale trasformazione in «angelica farfalla», una prospettiva rigida che porta con sé molti rischi. Levi, invece, suggerisce agli uomini di accettare di vivere in un orizzonte indefinito di cui non possono comprendere la vastità e di conservare una mente aperta al cambiamento. E la finzione letteraria forse può aiutarci ad accettare che la nostra condizione è quella di ogni creatura: al di là della sofferenza e dei mali di cui l’uomo è capace, «[p]erché non sperare nel meglio? Perché non confidare in una nuova selezione millenaria, in un uomo nuovo, rapido e forte come la tigre, longevo come il cedro, prudente come le formiche?» (99).

1Il titolo del racconto è stato modificato per includerlo in Storie naturali (1966): una versione precedente era apparsa nel 1961 sul quotidiano Il Mondo con il titolo Il centauro Trachi (OI 1438). Cfr. «Io credo proprio che il mio destino profondo (il mio pianeta, direbbe don Abbondio) sia l’ibridismo, la spaccatura. Italiano, ma ebreo. Chimico, ma scrittore. Deportato, ma non tanto (o non sempre) disposto al lamento» (1981, CI 186).

2Locuzioni che esemplificano l’uso di questo tono sono: «quanto andrò esponendo»; «è notevole che» (OI 505); «sarebbe da spiegarsi, secondo alcuni»; «a chiunque abbia considerato con qualche attenzione […] non può essere sfuggito che ivi non è mai fatta menzione» (507), ecc. Cfr. «Levi connects Trachi to traditional representations of the man-beast by citing classical and medieval sources, some historical (the Venerable Bede) and others fictitious (Ucalegon of Samos), thereby compounding the levels of the fantastic in the story by using invented sources to support the existence of mythical beings, a “retorica documentaristica” recurrent in fantastic narratives which serves to confirm seemingly miraculous events or characters (Lazzarin 25)» (Beneduce 43).

3Ad esempio: «Il resto della storia fu da noi ricostruito faticosamente, nei giorni che seguirono, su testimonianze e su segni» (513); «quanto fece nella scuderia lo sappiamo da un testimone oculare» (514), ecc.

4Probabilmente il riferimento è al «divieto mosaico dei “kilàim”, i miscugli illeciti» (Un loico indomito, 1980, RR, OII 1473).

5Queste osservazioni avvalorano in un certo senso la tesi di Alberto Cavaglion per cui Levi avrebbe sviluppato una predilezione per la metafora centauresca solamente a partire dagli anni sessanta: è vero che la riflessione sulla condizione ibrida dell’uomo risale ai primi scritti, ma la trasformazione del centauro in simbolo biografico emerge solamente più tardi (“Primo Levi era un centauro?”). Si tenga presente inoltre che la figura del centauro rivela una grande ricchezza per Levi, il quale lo impiega anche come simbolo del popolo ebraico: «Il popolo ebraico è per Levi un centauro, perché eternamente diviso in se stesso, tra l’appartenenza alla religione dei Padri e l’identità del luogo in cui vive [ma] è proprio questa natura centauresca che ha permesso agli ebrei di vivere il doloroso conflitto ricavandone una saggezza» (Belpoliti, Primo Levi 41).

6Una figura molto simile all’angelo di Paul Valery (L’ange”; cfr. anche Petit lettre sur les mythes”). Sul simbolo cfr. Ricoeur e supra, cap. 1, par. 3.

7Sulla possibilità di intendere le tecniche del «lavoro onirico» come figure retoriche, cfr. Orlando (Illuminismo, brocco e retorica freudiana).

8Anche il canto di Salomone è l’unica consolazione per il tormento vissuto da Simpson (cfr. supra, cap. 3, par. 5.6).

9«Le origini dei centauri sono leggendarie; ma le leggende che si tramandano fra loro sono molto diverse da quelle che noi consideriamo classiche. […] La tradizione centauresca è più razionale di quella biblica» (505).

10La menzione dei due celebri centauri è uno dei riferimenti a Inferno XII, in cui si dice di Nesso: «Mal fu la voglia tua sempre sì tosta» (v. 66); e di Folo: «che fu sì pien d’ira» (v. 72). Inoltre, già nel nome del protagonista del racconto leviano vi è un’allusione al centauro Nesso, il quale è un personaggio centrale della tragedia di Sofocle intitolata Le Trachinie, dal nome delle donne del coro, abitanti della città di Trachis, in Tessaglia.

11I versi ripresi in modo più evidente sono: «O cieca cupidigia, e ira folle» (v. 49); «[…] io pensai che l’universo / Sentisse amor, per lo qual è chi creda / Più volte il mondo in Caòs converso» (vv. 41-43); «Noi ci appressammo a quelle fiere snelle» (v. 76).

12Cfr. «il nostro centauro si dilegua in mare: sull’esito della sua fuga disperata nulla di certo si può arguire, ma essa ricorda da vicino la fuga in massa dei lemming verso il mare e l’autodistruzione. Che poi l’uno sia diretto “a levante” mentre gli altri “verso occidente”, questa divergenza non sembra rivestire una grande importanza» (Santagostino 193). A mio avviso, invece, il dirigersi a est, verso la Tessaglia, può essere letto come un tentativo di ritorno al luogo di nascita così da poter recuperare appieno la propria originaria forma ibrida, dato che la permanenza fra gli uomini aveva portato Trachi a ignorare il proprio lato passionale.

13Cfr. la concezione di «simbolo moderno» proposta da Orlando e Eco (supra, cap. 1, par. 3).

14Etimologicamente derivante dal latino extraneus, le occorrenze dell’aggettivo «strano» sono cinque negli ultimi paragrafi del racconto (98-99).