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4 Il Golem

Insomma, esseri costruiti da noi, o in grado di svilupparsi da soli per evoluzione naturale? (1984, D 45)

 

1. Significati e tradizioni: da Adamo ai robot

Prendere in considerazione le relazioni tra i racconti di Levi e la leggenda ebraica del Golem è forse il compito più arduo nel contesto di un’indagine che esplora i rapporti tra la narrativa di finzione dell’autore e i miti. Lo è perché una valutazione soddisfacente dei racconti in cui vi è un’eco notevole della leggenda del Golem richiederebbe di tenere conto di un aspetto della narrativa di Levi che finora non è stato affrontato con sufficiente attenzione: il rapporto con la letteratura di fantascienza. Levi afferma che, al sentire pronunciare tale nome, i letterati italiani «storcono il naso […] non in quantofantama in quantoscienza» (1972, CI 150). Fortunatamente l’atteggiamento degli umanisti non è più così rigido oggi e si possono trovare studi come quelli di Antonello e Porro nei quali è evidenziato ampiamente quanto sia importante la «dimensione inventiva edespressivadella scienza» (Antonello,La materia, la mano, l’esperimento” 94; Porro, “Scienza”). Tuttavia, si avverte la mancanza di un’indagine sull’influenza delle numerose letture di fantascienza, un lavoro che arricchirebbe di molto la comprensione dei racconti di Levi. Uno studio approfondito sull’argomento non è ancora stato fatto, ma è doveroso ricordare che se ne sono occupati Jonathan Usher (“Levi’s Science Fiction and the Humanoid”), Charlotte Ross (Primo Levi’s Narratives of Embodiment), Jonathan Druker (Primo Levi and Humanism after Auschwitz) e, in modo più soddisfacente, Francesco Cassata (Fantascienza?) e Roberta Mori (“Worlds of ‘Un-knowledge’”). Non potendo addentrarmi in un campo di studio così vasto, nel presente capitolo circoscriverò gli aspetti peculiari del mitologema del Golem ed esplorerò come essi vengono elaborati nei racconti.

Che la leggenda ebraica del Golem si presenti come un ponte tra mito e fantascienza è stato sottolineato ampiamente, anche da studi recenti: la peculiare caratteristica della creatura d’argilla del rabbino Yehudah Loew ben Bezalel di Praga ed anche dei moderni androidi, cyborg e robot, è di essere un’entità artificiale senziente (cfr. Henry; Baer; Munier)1. Prima che la figura del Golem entrasse nell’immaginario collettivo tramite il folclore ebraico del XIX secolo e i primi adattamenti letterari e teatrali dell’epoca, i contesti in cui tale mitologema si è viluppato sono quelli della teologia, della mistica e della magia ebraica. Nella Torah il termine «Golem» compare una volta soltanto, nel Salmo 139, mentre nel Talmud e nei Midrashim il vocabolo è utilizzato sia in riferimento ad Adamo, sia nel riportare alcuni episodi di creazione di un uomo da parte di un altro uomo. Inoltre, a partire dal XII secolo il tema è attestato anche in scritti cabalistici nel contesto di esperienze teurgiche o mistiche2. Non potendo verificare che grado di conoscenza Levi avesse di tali opere, mi limiterò qui a rilevare gli aspetti della tradizione scritta e orale che sono consonanti con il suo pensiero, tenendo come parametro di riferimento il racconto Il servo (1968-70, VF, OI 710-17), una rielaborazione della leggenda che ha come protagonista il rabbino Loew di Praga.

1.1 Torah, Talmud e Midrash

Senza dubbio era noto a Levi il Salmo 139: «I tuoi occhi mi hanno visto informe embrione [golem], / nel tuo libro erano tutti scritti / i giorni fissati, e ancora neppure uno esisteva» (Salmi 139:16, Bibbia Concordata 179). Le traduzioni italiane, però, come anche quelle di altre lingue, non sono filologicamente accurate in quanto l’aggettivo «informe» non è fedele né all’esegesi biblica né alla tradizione cabalistica. Moshe Idel, infatti, osserva che fra tutti i testi medievali da lui collazionati solo in un paio di casi «golem» può ragionevolmente essere interpretato come «amorfo» e si chiede dunque perché tale significato sia stato recepito nella tradizione moderna, diffondendosi così ampiamente. La risposta suggerita è la stessa avanzata da Gershom Scholem, ossia che «la filosofia ebraica medievale lo usa come termine ebraico per indicare la materia, la hyle informe» (“La rappresentazione del Golem” 204)3. Storicamente, quindi, la concezione filosofica ha prevalso su quella teologica, la quale vede il Golem come «una creatura pienamente strutturata che è sul punto di ricevere un’anima» (Idel, Il Golem 59). Tuttavia, nella ricezione popolare, e a partire dal XIX secolo anche tra i non ebrei, in molti casi sono stati accolti entrambi i significati, lasciandoli convivere e confondendoli. Nel contesto dell’opera leviana sia l’interpretazione teologica (quasi-Uomo) sia quella filosofica (hyle) sono interessanti: la prima in rapporto ai temi della specificità dell’essere umano e dell’antropopoiesi, la seconda per quanto concerne l’atteggiamento dell’autore nei confronti delle sfide imposte dalla «Materia, la grande antagonista dello Spirito: la Hyle» (Zinco, 1974, SP, OI 767).

Continuando la breve ricognizione nella tradizione ebraica e nelle opere letterarie che potrebbero aver influenzato Levi, sono stati i redattori del Talmud i primi ad accostare le storie della creazione di un uomo artificiale e quelle della genesi del primo uomo, ma è solo nei testi midrashici che il verso del Salmo viene interpretato come riferimento alla creazione di Adamo:

Alla prima ora, l’idea [di Adamo] germinò nell’intendimento [di Dio]. Alla seconda [ora], Egli discusse [della creazione dell’uomo] con gli angeli del servizio. Alla terza, raccolse la polvere. Alla quarta, lo modellò (gibbelo). Alla quinta, formò [le sue membra] (riqqemo). Alla sesta, ne fece un golem (’aśśa’ o golem). Alla settima, gl’insufflò un’anima. All’ottava, lo pose in Paradiso. (Idel, Il Golem 58-9)4

In aggiunta a tale uso del termine, Idel sottolinea che

[t]he earliest Rabbinic occurrence of the term Golem, Mishnah, Kelim, XII, 6, Golemei kelei matakhot, can be translated as the bodies of the tools made of metal. Thus the significance of this phrase will conform to the regular understanding of the term as we have attempted to propose here: the body of a being before it reached its perfection, or sometimes the initial phase of the development of a certain entity, but not the amorphous stage. (Golem 302, nota 10)

I significati incontrati finora sono dunque quattro: (i) embrione, (ii) materia informe, e (iii) entità formata in attesa di perfezionamento, in riferimento a uomini o animali ma anche (iv) in riferimento a materiale inorganico, in particolare argilla e metallo. Per quanto riguarda il significato di «embrione», quella della Bibbia concordata è una delle poche traduzioni italiane che intendono così il termine «Golem»; in molti casi si preferisce tradurre solamente con «informe». Il lavoro filologico di Idel ha però indebolito la tesi di Scholem per la quale «embrione» non sarebbe un significato accettabile, e sembra quindi plausibile che «Golem» si riferisca a «uno stadio avanzato della formazione dell’embrione» (Idel, Il Golem 64)5. Non sappiamo se Levi conoscesse una traduzione del Salmo in cui compare il termine «embrione» o se avesse letto l’articolo di Scholem molto noto all’epoca della pubblicazione (1959) e citato anche da José Luis Borges nel suo poema Golem (1963) e sia stato stimolato ad espandere in un racconto una concezione che gli è sembrata poeticamente interessante, anche se rifiutata dallo studioso di ebraismo. Non sappiamo nemmeno se gli fosse noto il verso Golemei kelei matakhot [corpi di attrezzi metallici], ma ciò non toglie che, come mostrerò più avanti, tali interpretazioni siano calzanti per il Golem che compare nel racconto Il servo, essere composto «d’argilla, di metallo e di vetro» (OI 713), il quale nel momento della sua creazione può essere considerato una forma di vita allo stato embrionale.

A partire dal XIII secolo compare un elemento nuovo nella vicenda del Golem: nel contesto del Chassidismo ashkenazita emerge quello che Idel considera un contributo originale al mito, ossia l’utilizzo dell’alfabeto come componente essenziale dei procedimenti per animare la creatura. La descrizione più estesa di tale operazione si trova in un testo di Eleazar di Worms:

Prenderà della terra vergine in un luogo montagnoso che nessuno ha mai lavorato. Che impasti la polvere con acqua viva e faccia un corpo [golem]. Inizierà a combinare le lettere delle 221 porte, membro dopo membro, e che faccia corrispondere ogni membro con la lettera [adeguata menzionata] nel Sefer yesirah. (Idel, Il Golem 78; cfr. Eleazar di Worms, Commentary on Sefer Yezirah fol. 15D)

Il testo prosegue per una decina di righe specificando come combinare le consonanti con le vocali e come accoppiare i risultati delle permutazioni alfabetiche con le parti corporee del Golem. Anche tale aspetto combinatorio trova spazio nella retorica di Levi in quanto è pertinente per comprendere l’ironia del racconto Il servo (cfr. infra, par. 3.1).

In estrema sintesi, è questo il ruolo attribuito alla vicenda del Golem nella tradizione ebraica fino al XIX secolo. Tuttavia, prima di affrontare i caratteri che la leggenda assume nel periodo della sua massima diffusione europea, rimangono da fare ancora alcune osservazioni:

Nelle versioni classiche – quelle che sono state conservate fino al XIX secolo – non ci sono particolareggiate descrizioni della creatura e non ci si preoccupa del suo universo spirituale interiore. Non c’è alcuna elaborata estetica o psicologia di questa bizzarra creatura, nemmeno nelle versioni tradizionali più tardive. Il golem resta un’idea astratta che serve più a mettere in rilievo altre problematiche che non a costruire un universo golemico di per se stesso. Il golem ha la funzione di dimostrare l’esistenza di un ordine piuttosto che il disordine delle creature straordinarie, come si dà nelle discussioni e nelle descrizioni relative ai mostri nel mondo non ebraico. […] [L]a costituzione interna della creatura è unica. […] È un progetto congiunto dei poteri divini inerenti alle lettere spirituali e al maestro perfetto. Non si tratta né di una parte della natura, né di una malformazione della biologia, come nei casi dei mostri. Si tratta di una eccezione antinaturale, che consiste in un essere provvisorio di cui si è premeditata la comparsa e la scomparsa. (Idel, Il Golem 276-77)

Quattro aspetti sono rilevanti in questo commento: (i) il fatto che la creatura non sia descritta fisicamente e che non vengano forniti dettagli sulle sue facoltà sensoriali e cognitive lascia molta libertà d’espressione all’autore moderno che si cimenta con tale mito; (ii) il Golem è un simbolo del prevalere dell’ordine (divino) sul caos, della forma sull’informe; (iii) è animato dalla combinazione del potere divino con l’abilità del sapiente maestro che gli forma; (iv) ha un’esistenza transitoria, la sua possibilità di sviluppo e la sua distruzione sono note fin dalla sua creazione. Quattro aspetti che, come mostrerò nell’analisi, hanno una grande importanza nella retorica dei racconti di Levi.

Per cogliere a fondo l’originalità della composizione leviana sarà interessante osservare come il mitologema dell’antropoide artificiale sia elaborato e trasformato nei racconti, senza però trascurare il ruolo mediatore della tradizione ebraica più recente, né quello di altre tradizioni che hanno attinto al mito del Golem. Secondo Idel la ricezione della leggenda a partire dall’era moderna ha sfruttato ampiamente la scarsità di dettagli tramandati, portando all’invenzione di vicende e particolari che si sono innestati sul materiale mitico e religioso, spesso stravolgendo molti dei caratteri originari del Golem. Sorprendentemente, il racconto Il servo presenta delle affinità con la tradizione più antica che coinvolgono tutti i significati del termine «Golem» e i tratti messi in evidenza da Idel, ma è soprattutto una riscrittura della leggenda del rabbino Loew di Praga, nata e diffusasi nell’Europa orientale del XIX secolo. Per comprendere meglio le relazioni di questa enciclopedia mitica, dunque, è ora opportuno prendere in considerazione le varianti più ampiamente diffuse della leggenda.

1.2 Dal XIX secolo all’era post-umana

È a partire dal XIX secolo che il mito del Golem comincia a farsi più articolato e i temi che emergono nelle narrazioni di quel periodo si emancipano gradualmente dall’importanza data al momento della creazione dell’antropoide. Soprattutto grazie alla grande diffusione della leggenda del rabbino Loew, il Golem diventa una creatura in grado di compiere imprese di vario tipo e la sua psicologia diventa materia di ipotesi fantasiose6. Nella storia del rabbino Loew la creazione del Golem non è più solamente un atto magico o mistico che riguarda qualche sapiente: pur non tralasciando la procedura necessaria per dare forma e animare la creatura artificiale, l’enfasi è posta maggiormente sulla funzione sociale dell’impresa, la quale viene avviata per dare agli ebrei del ghetto di Praga un difensore che li protegga dagli attacchi antisemiti e dai pogrom. Il XIX è anche il secolo in cui il mitologema varca la soglia delle comunità ebraiche per entrare nell’immaginario condiviso da buona parte d’Europa grazie al racconto Frankenstein di Mary Shelley (1818)7.

Dagli inizi del XX secolo sono stati numerosi i contributi alla diffusione della leggenda in ambienti non ebraici: opere letterarie, teatrali e cinematografiche hanno elaborato e trasformato in vari modi il mitologema del Golem8. Gli autori che si sono confrontati con il tema hanno messo in risalto di volta in volta aspetti diversi, focalizzandosi in vario modo sul rapporto tra Golem e essere umano, sulle analogie tra creazione divina e creazione artificiale, sul ruolo della tecnica nella creazione, sulle facoltà sensoriali e cognitive del Golem, sulle sue gesta, ecc. Due notevoli innovazioni della tradizione si hanno con il romanzo Der Golem (1915) del tedesco Gustav Meyrink, ambientato nella Praga di inizio XX secolo, in cui il Golem è una sorta di materializzazione dello spirito e della coscienza collettiva del ghetto ebraico, e con il romanzo R.U.R. Rossum’s Universal Robots (1921), dello scrittore ceco Karel Čapek, il quale introduce novità di grande importanza nel procedimento di creazione del Golem, le quali a mio avviso risultano fondamentali anche per il racconto Il servo. Čapek è il primo a trasformare il mito inserendolo in un contesto radicalmente diverso, ossia in un mondo in cui si è affermato il passaggio dalle forme di produzione artigianale al sistema industriale capitalista. Nell’era della riproducibilità tecnica la creazione del Golem diventa un processo di produzione seriale in fabbrica. Questo stravolgimento socio-economico è così drastico che ha delle forti ripercussioni sul modo in cui il Golem viene concepito: designato come robot, la sua funzione non è più quella di eroico difensore del ghetto dai nemici degli ebrei: nel romanzo i Golem sono dei lavoratori, un anello che può essere inserito nelle catene di montaggio di molti settori industriali9. La seconda innovazione è che i Golem sono costruiti con materiale organico (un composto chimico che si comporta come il protoplasma) e non con argilla, materiali inorganici o parti di defunti. Čapek, quindi, introduce una spiegazione biologica all’evoluzione del Golem rispetto alle creature della tradizione, ponendo un dato scientifico a fondamento delle facoltà cognitive dell’antropoide artificiale, e fornendo anche un appiglio fisiologico a quella parte della leggenda che vedeva il Golem crescere a dismisura moltiplicando la propria forza.

Da R.U.R. in poi mito e realtà hanno cominciato a convergere sempre di più Levi stesso chiamava «Golem» il proprio computer (Lo scriba, 1984, AM, OII 841-44) e la narrativa di fantascienza è giunta a creare dei miti talmente incisivi e popolari che spesso non si avverte più la necessità di confrontare la moltitudine di storie di cyborg, robot e intelligenze artificiali di vario tipo con il mito ebraico del Golem. Quello della creazione di entità artificiali più o meno sviluppate, dunque, è un tema con un’origine lontana e con una diffusione altrettanto vasta, un tema che è stato impiegato con varie funzioni e che può suscitare effetti diversi.

 

2. La mostruosità perturbante: grottesco e sublime

Sebbene Idel abbia sottolineato la diversità del Golem dai mostri non ebraici, esso è una comunque una creatura mostruosa, monstrum, un prodigio, qualcosa che non dovrebbe esistere eppure si presenta ai nostri sensi nella sua indubitabile corporeità. «La monstruosité est toujours ce qui déroge à la norme communément admise et le monstre désigne un malaise culturel et social suscité par la peur de lanomalie voire même de lanomie» (Munier 237). L’anomalia e l’anomia da cui scaturisce il mostruoso sono molto spesso percepiti in modo negativo, come qualcosa di sospetto e da temere in quanto diverso e inspiegabile; il mostro appare dunque ripugnante, orribile, spaventoso. Tuttavia, vi sono casi in cui la diversità del mostruoso genera un effetto diverso: la meraviglia10. I fenomeni che trascendono i limiti di ciò che è considerato naturale sono oggetto di una valutazione estetica e cognitiva che varia in funzione del contesto di valori (etici, razionali, culturali, estetici, religiosi, ecc.) suggerito dal testo e di quello proprio del lettore. Gli effetti suscitati da un fenomeno mostruoso, quindi, possono essere diversi: in un certo contesto il Golem può destare orrore e paura, in un altro stupore e meraviglia.

Orrore e meraviglia non sono sentimenti legati unicamente all’esperienza del mostruoso, è quindi opportuno precisare in che modo essi possano emergere in questi casi11. In sintesi, è individuabile una configurazione specifica di relazioni tra osservatore e fenomeno che inducono ad identificare una qualche istanza come mostruosa: tale configurazione è caratterizzata dal superamento di un limite estetico-cognitivo che suscita un senso di Unheimlichkeit. Il mostruoso superamento del limite può essere percepito in due forme diverse: può essere una trasgressione sublime oppure una trasgressione grottesca. Sublime e grottesco sono due aspetti fra cui vi è una continua tensione, sempre sulla soglia di sfociare l’uno nell’altro poiché entrambi sono manifestazioni del perturbante:

The sublime surpasses reason toward the abstract. Its characteristic awe is induced by the experience of the uncontainable, illimitable extension of nature and technology’s second nature beyond human powers of comprehension. […] The grotesque surpasses reason toward the concrete. Its characteristic awe, the fascination of the anomalous and chaotic, comes from experiencing combinations of elements that cannot occur, or should not occur, according to the established categories of scientific reason or customary observation. (Csicsery-Ronay, Jr. 79)12

Orrore e meraviglia sono quindi effetti correlati ad un più generale sentimento perturbante, come mostrato dallo schema seguente:

Il Golem sembra essere una creatura di tipo grottesco, una «combinazione di elementi che non può esistere, o non deve esistere»: un agglomerato di materia inorganica che dovrebbe essere immobile eppure è animata, è in grado di intendere degli ordini e, in alcuni casi, parla. Il grottesco «arises with the perception that something is illegitimately in something else. The most mundane of figures, this metaphor of co-presence, in, also harbors the essence of the grotesque, the sense that things that should be kept apart are fused together» (Harpham 11; cfr. Csicsery-Ronay, Jr. 77). Il grottesco emerge da un gap, riscontrabile sia nell’oggetto osservato sia nelle facoltà dell’osservatore: «[i]n the object, it is between the past form of a thing and what it is becoming, its particular evolution. In the perceiver, it is the gap in which consciousness is suspended, unable to discern not only a unified form of the object, but also the broader implications this has for the laws of form in the world in question» (77-8). Il fatto di assistere ad una metamorfosi innaturale è perturbante e grottesco, pone l’osservatore in una condizione di impasse cognitiva. Ad un sentimento di inadeguatezza, però, si accompagna anche un brivido dovuto all’instabilità data dal perturbante: si è incerti se provare meraviglia per questo prodigio della natura, e l’impossibilità di riconoscere la creatura che si ha di fronte induce a temere la sua possibile pericolosità13.

Nel momento in cui si identifica il Golem come creatura grottesca indipendentemente dal fatto che susciti orrore o meraviglia – non è possibile ignorare la tensione verso il secondo polo del perturbante, il sublime. Riprendendo un’immagine incisiva suggerita da Farah Mendlesohn si potrebbe dire che «[t]he sense of [sublime] allowed one to admire the aesthetics of the mushroom cloud; the sense of the grotesque led the writer and reader to consider the fall-out» (4)14. Non è sempre facile distinguere i due sentimenti e ciò che in un contesto o in una data epoca è considerato grottesco può diventare sublime in un contesto o in un’epoca differenti. Nelle tradizioni mistica e magica il Golem monstrum che non rientra tra le creature con cui l’uomo solitamente entra in contatto non è orribile, non può esserlo in quanto animato direttamente dallo spirito divino, e quindi manifestazione della potenza di Dio. Ciò che non rientra nel consueto orizzontenaturale” è spiegabile dalla religione, la quale riporta la mostruosità nei limiti di ciò che è già stato esperito dagli esseri umani in altre occasioni: la potenza di Dio. In contesti religiosi, quindi, si ha un sentimento di meraviglia che nasce dal sublime, dall’essere spettatori di una forza onnipotente.

Nel momento in cui la cultura laica comincia a dare spazio al mitologema del Golem il contesto di riferimento cambia. Nel XIX secolo la comprensione della natura si fa sempre più approfondita e la scienza si afferma come l’autorità che stabilisce i limiti del possibile; di conseguenza, le norme e i valori religiosi non sono più in grado di normalizzare i fenomeni mostruosi15. È così che può sorgere un senso di inquietudine e talvolta di orrore per questa creatura anomala, fatta di materia inorganica e animata. Nei secoli successivi la conoscenza umana nel campo della biologia si estende ulteriormente e a metà del XX, con la comparsa della genetica e della cibernetica, lo scenario cambia ulteriormente:

it becomes natural to think of both the object-world and consciousness in terms of replication, simulation, and recombination of information. […] In such a world the grotesque has little of its previous significance, for the de-definition of form is an accepted aspect of social reality. (Csicsery-Ronay, Jr. 73-4)

Le possibilità della scienza sembrano enormi e quella stessa anomalia formale del Golem che faceva inorridire diventa ora sorgente di meraviglia per ciò che si può ottenere con la competenza tecnica. In un era di cyborg e robot il vecchio Golem di argilla non è più una creatura figlia dell’immaginazione fantastica, si è trasformato nel frutto di una sorprendente applicazione della tecnoscienza.

I racconti di Levi in cui compaiono creature artificiali animate si situano proprio in quest’epoca di espansione della conoscenza in campo genetico e cibernetico-informatico16. Nel caso del racconto Il servo però, in quanto elaborazione di una leggenda, bisogna tenere conto anche del contesto tradizionale legato al mito del Golem, ossia unenciclopedia religiosa che entra nell’orizzonte del racconto insieme agli elementi esplicitamente selezionati e narrati da Levi. Ciò a cui si assiste è il sorgere di una tensione fra il grottesco meraviglioso legato al contesto ebraico e il grottesco meraviglioso legato al contesto scientifico degli anni ’60-’70 del Novecento. Ovvero, una tensione fra due autorità. Conformemente a molte altre scelte retoriche di Levi, l’innesto del grottesco tecnologico sul racconto tradizionale è estremamente misurato ed avviene nella forma di un incontro dialettico attraversato da una sottile ironia, piuttosto che come un drastico intervento robotico sulla cabala.

Ne Il servo, inoltre, non vi è solo un ironico contrasto tra meraviglioso teologico e tecnologico: se così fosse la natura perturbante della creatura mostruosa sarebbe neutralizzata poiché l’attenzione del lettore sarebbe spostata dalla corporeità della creatura, dal suo essere presente e viva, ad una questione di attribuzione di paternità: è Dio o l’uomo ad aver animato il Golem? In entrambi i casi la mostruosità sarebbe ricondotta entro i limiti della fede o della comprensione umana, e quindi non sarebbe perturbante. La creatura, invece, agisce e manifesta capacità inaspettate, e l’effetto del racconto è indubbiamente perturbante. Come è possibile ciò? L’elemento chiave di questo effetto, nel racconto leviano, è quello della formula ottocentesca: la religione non è più pertinente per spiegare l’esistenza della creatura mostruosa e la tecnologia non è ancora in grado di farlo17. È l’evoluzione inaspettata del Golem, il suo sviluppo di facoltà «native» e non programmate, che tiene vivo l’effetto perturbante, in bilico tra repulsione per ciò che èinnaturalee meraviglia del possibile.

Quella appena esposta è plausibilmente la ricezione di un lettore medio nell’Italia degli anni ’70, ignaro degli sviluppi più recenti della scienza e, in alcuni casi nutrito di qualche rara traduzione di fantascienza inglese e americana18. Ma Levi era uno scienziato di professione, abbonato a Scientific American, grande lettore di fantascienza, tanto da accorgersi della iper-specializzazione raggiunta da questo genere letterario: «[o]rmai la letteratura di fantascienza è caccia riservata, scritta da fisici e per fisici» (1984, D 51). Non è del tutto ozioso quindi chiedersi in che modo leggerebbe il racconto Il servo illettore modelloche corrisponde a tali coordinate19. In questa cornice ermeneutica il novum20 del racconto è l’inaspettata evoluzione del Golem, spiegata come l’emergere di facoltà «native», non previste dal suo creatore. In questo modo la meraviglia nata dal grottesco muta in meraviglia di fronte al sublime, fascinazione per le possibilità della tecnologia, in grado di creare un’entità artificiale che evolve autonomamente. In quest’ottica, la tecnoscienza può fare tutto, ma il suo sublime potere non è innocuo, è perturbante: «[it] threatens thought/perception with the infinite expansion of an idea that is so integral, so impossibly unified, that it not only contains, but annihilates all multiplicity within it» (Csicsery-Ronay, Jr. 83).

Uno sguardo avvezzo alla fantascienza non percepisce una componente di orrore dovuta al fatto che un fenomeno è estraneo ai limiti della ragione-scienza, ma è inquietato dal fatto che le leggi e i limiti della scienza siano estesi e proiettati verso un orizzonte che la ragione attuale non può comprendere. C che era familiare – il funzionamento della genetica e dell’informatica tramite cui il Golem è stato creato diventa perturbante perché la ragione ne perde il controllo, pur essendo allo stesso tempo affascinata dalla contemplazione di un universo in cui il proprio potere è ancora più vasto. Se si tiene presente che la fantascienza ha sempre un risvolto etico e politico (cfr. Suvin, Science Fiction and the Novum), non sorprende il fatto che, nei racconti di Levi, la proiezione di questo ipotetico universo iper-razionalizzante sia spesso molto azzardata, o gli effetti negativi di essa estremamente accentuati. I brevi momenti concessi al sublime vengono trasformati in grottesco dalla presenza inevitabile della corporeità, e il perturbante tende maggiormente all’orrore, ma sempre in tensione con la meraviglia. Nel caso de Il servo, il rabbino Ariè contempla la sublime evoluzione spontanea del Golem ma è riportato coi piedi per terra dalla grottesca devastazione materiale che sta avvenendo intorno a lui.

Al di là di questa ipotetica lettura fantascientifica, la domanda implicita nella tensione fra grottesco e sublime riguarda l’atteggiamento dell’uomo di fronte al perturbante: come reagiscono i personaggi umani di Levi all’evoluzione delle macchine? E quali aspetti di tale interrogativo sono messi in risalto nei vari racconti?

L’enciclopedia che si articola intorno al mito del Golem è molto ricca. Considerando l’insieme degli aspetti che ho messo in rilievo finora, quelli che attraggono maggiormente l’attenzione di Levi e che vengono elaborati e trasformati in modo creativo sono: l’emergere di facoltà quasi umane non previste, cioè l’evoluzione del Golem e la sua somiglianza con l’uomo; e l’asservimento ad un’autorità, l’obbedienza acritica ad una regola, principio, ordine. Tutte le creature artificiali incontrate nei racconti presi in esame in questo capitolo evolvono e interagiscono con l’uomo sfruttando le proprie capacità. Ma il servo, la rete telefonica, la poesia e le automobili non vogliono essere sottomessi e la volontà di controllo dell’uomo li spinge verso l’autodistruzione.

La perturbante convergenza fra uomo creature artificiali induce a riflettere su ciò che ci rende umani, e sembra porci di fronte alla limitatezza dell’orizzonte prometeico, poiché anche i Golem sono dotati di un «tenebroso ingegno» (Il servo, 1968-70, VF, OI 714). Inoltre, se queste entità sono in grado di essere creative e di evolvere, chi ci garantisce che non possano essere capaci anche di procreare?21 Dov’è quindi la specificità umana se i confini fra lespeciedell’ecosistema tecno-naturale si fanno sempre più labili? Sembra che questi racconti più che suggerire una risposta vogliano attuare un cambiamento di prospettiva e chiedere: ciò che riteniamo essere proprio dell’uomo può accomunarci alle altre creature? In un’intervista Levi ha affermato che «esiste un legame intimo tra l’opera precedente [Se questo è un uomo] e questo mio ultimo libro [Store naturali]. In entrambe vi è l’uomo ridotto a schiavitù da una cosa, la «cosa nazista» e la «cosa-cosa» cioè la macchina. Sempre il sonno della ragione genera mostri…» (Poli e Calcagno 39). Ma nei racconti golemici non è l’uomo ad essere schiavizzato dalla cosa-cosa, è invece il rapporto di dominio dell’uomo su delle macchine senzienti ad essere problematizzato. Forse in questi casi «[l]a machine est létrangère; cest létrangère en laquelle est enfermé de lhumain, méconnu, matérialisé, asservi mais restant pourtant de lhumain» (Simondon 9; cfr. Munier 236). Le capacità di creazione e autopoiesi22, la volontà di non soffrire, il desiderio di libertà, di superare i vincoli imposti dal corpo, dalla ragione, da qualsiasi autorità che si pretende assoluta: come ci comporteremmo se incontrassimo queste specificazioni umane anche in altre creature? In tutti gli Altri dell’ecosistema in cui viviamo?23

 

3. Il servo (1968-70)

3.1 Ironia, scienza e religione

In una riflessione di oltre dieci anni successiva alla composizione, Levi descrive così il racconto Il servo: «rielaborazione ironica della leggenda del Golem, si immagina che il rabbino Löw di Praga conoscesse i segreti della genetica e dell’informatica, e che quindi il Golem stesso, sua creatura, non fosse altro che un robot» (Itinerario di uno scrittore ebreo, 1982, OII 1223). Sono tre gli elementi che il commento suggerisce di prendere in considerazione: la conoscenza di genetica e informatica, la leggenda ebraica, e la loro relazione ironica. Come ho già accennato, l’ironia sorge dalla competizione tra religione e scienza per decidere quale sia l’autorità maggiore, il principio normativo dell’esistenza, del Golem ma anche di tutte le altre creature. Tale competizione si articola nel racconto in vari modi: in rapporto all’esperienza del lettore essa riguarda il principio a cui ricorrere per normalizzare la mostruosità del Golem, ma vi sono due ulteriori elementi di ironia, (i) uno che vede lattività scientifica e tecnica regolata da norme religiose, e (ii) l’altro che interpreta la religione alla luce delle conoscenze scientifiche.

Il primo caso riguarda la scrupolosità del rabbino Arié nel voler seguire la Legge in ogni occasione, anche in quello che è un lavoro scientificamente e tecnicamente molto delicato, e che quindi richiede di attenersi a procedure rigorose. Le riflessioni del rabbino sono modellate sulle discussioni halakaiche24 e sia i commenti del narratore sia i passaggi di discorso indiretto libero insistono sulla necessità di accordare i propri comportamenti alle norme religiose. Le emozioni del rabbino sono presentate ricorrendo a citazioni bibliche e talmudiche, e per spiegare le coincidenze della vita è chiamata in causa anche la cabala. Inoltre, in tre occasioni viene ricordato che è bene «far siepe alla Legge, e cioè, è prudente interpretare precetti e divieti nel loro senso più vasto, perché un errore dovuto a eccessiva diligenza non porta danno, mentre una trasgressione non si risana più: non esistono espiazioni» (OI 712). L’ironia di Levi, però, non è mai dissacrante, è una componente dell’ebraismo ashkenazita che l’autore apprezza e che probabilmente tenta di emulare in questo racconto: «sotto la scorza seriosa, sento […] un riso che mi piace: è lo stesso riso delle storielle ebree in cui le regole vengono arditamente capovolte, ed è il riso di noimoderniche leggiamo» (Il rito e il riso, 1983, AM, OII 798). A volte questa arguzia viene attribuita al rabbino stesso, la cui «mente [è] avvezza all’interpretazione della Legge e delle narrazioni sacre, la quale è fatta di perché ardui e di risposte concettose e argute» (OI 716)25, ed è proprio all’interpretazione dei testi sacri, non alla scienza, che egli ricorre per spiegarsi il comportamento anomalo del proprio robot.

Il secondo filone ironico riguarda la rielaborazione della Legge e del mito in chiave scientifica. Il paragone più estremo in questa direzione è quello fra il Tetragramma del nome di Dio e il DNA, paragone che viene esteso ad ogni lettera dell’alfabeto ebraico facendo convergere cabala e genetica nella creazione del Golem: «perché ogni lettera della Legge contiene la Legge tutta» e «l’intera Legge di Mosè [] gli era stata trasmessa con ogni lettera del messaggio da cui egli era nato» (716-17). Ariè «calcola» e «trova» nei testi sacri la formula per dare vita alla forma che egli ha forgiato con argilla, metallo e vetro, «figura umana dalla cintola in su» mentre il resto è «un frammento di caos» (713). Sceglie poi accuratamente le qualità dello spirito che vuole che la creatura abbia, ma nel cranio del Golem inserisce anche il Tetragramma, ilsupercodice” genetico da cui ha estratto la formula specifica. In questo modo un elemento teologico che è stato oggetto di riflessioni e speculazione di molti sapienti uomini di fede diventa il fondamento scientifico su cui si gioca uno degli aspetti cruciali del racconto: l’evoluzione del Golem26.

Arié è un cabalista, ama i numeri, le loro combinazioni e la possibilità di trovarvi riflessi i fenomeni naturali, ma nel racconto tale aspetto è presentato in modo ironico. Nel Sefer Yetzirah si dice che tutto è creato da 231 combinazioni delle lettere dell’alfabeto ebraico, e ne Il servo viene menzionata senza alcuna pertinenza logica la simbolica combinazione delle 281 ossa del corpo con il numero del sole. Tale informazione non ha alcun senso per l’impresa di Arié, è un’osservazione ironica di un narratore che simula di volersi attenere ai dati storici della leggenda e quindi inserisce elementi di questa forzandone nuove interpretazioni27.

La scelta di presentare la creazione del Golem come procedura genetico-informatica si riflette su altre componenti del mito: ad esempio, anche gli uomini sono dei Golem, «lo era Adamo, ed anche noi lo siamo. La differenza fra i Golem sta nella precisione e nella completezza delle prescrizioni che sovraintesero al loro costruirsi» (711). Il Golem di Ariè, quindi, è una creatura meno completa dell’uomo, tuttavia ha in tutte le prescrizioni codificate nel Tetragramma-DNA ed è in grado di svilupparsi, di avviare un processo di autopoiesi, diventando quasi fabbro di se stesso. Trasformando il mito, Levi inserisce nel racconto molti dei significati tradizionali associati alla figura del Golem: è in parte informe; è fatto ad immagine del suo creatore28; è un Adamo imperfetto e incompleto; ed è un embrione in attesa di sviluppo. Inoltre, anche le potenzialità semantiche dei secoli più recenti sono evocate, poiché il Golem deve servire il proprio padrone come un robot. Significati della vecchia e nuova tradizione si fondono con interpretazioni originali, e

[p]ur conservando l’impianto narrativo della leggenda talmudica, Levi mette scopertamente in evidenza quegli elementi che si sono dimostrati preveggenti rispetto alle tecnologie odierne, in particolar modo la distinzione fra hardware (l’argilla di cui è costituito materialmente il Golem, che rievoca il corpo dell’uomo nella sua genesi, esso stesso Golem divino) e il software (le 39 pagine di istruzioni algoritmiche), come comportamento automatico, ‘servile’, del dispositivo. (Antonello, “La materia, la mano, l’esperimento” 101)

La lettura di Antonello, come anche le analogie informatiche da me usate, è debitrice delle affermazioni che l’autore ha fatto dieci anni più tardi, ma il funzionamento del Golem può essere spiegato in modo soddisfacente anche da teorie maggiormente diffuse all’epoca della stesura del racconto, ossia dalla cibernetica di Norbert Wiener29. Entrambe le letture, però, non possono limitarsi a constatare un’analogia con le teorie informatiche o cibernetiche, poiché nel racconto non è la poiesi ad essere l’aspetto originale e catalizzatore della vicenda. È invece l’autopoiesi ad essere al centro della questione etica, non più nella forma di antropopoiesi, bensì come abilità riconosciuta ad una creatura non umana. Il Golem è stato concepito come un robot ma le doti che sviluppa non sono fruttodi un insegnamento di un’abile programmazione, non vi è nessuno merito umano in ciò; è il software-Legge comune all’uomo e al Golem ad avere codificate in tutte le opzioni, «la formula e il destino» di ogni creatura30.

Robert Gordon ha insistito sulla difficoltà di distinguere nel racconto tra «quel che è umano e quel che non lo è», «il compito è poco meno che impossibile, poiché tutte le creature su quella scala sono, in un certo senso, dei Golem» (158 e 159). Il racconto distoglie l’attenzione dalle virtù umane per adottare una prospettiva ecologica e giocare ironicamente su quale sia la legge di base dell’ecosistema in cui tutte le creature vivono: è Dio o il DNA? E nel gioco, come spesso accade, è più importante il valore pedagogico e formativo più di ogni possibile vincitore. Ma dato che secondo Levi la «didattica, cioè la cattedra sulla pedana, l’intento dogmatico-programmatico-edificante» (La Cosmogonia di Queneau, 1982, AM, OII 769) è incompatibile con la letteratura, non possiamo accontentarci di tale interpretazione e dobbiamo ammettere che il fine etico del racconto non è nemmeno quello di insegnare a porsi nuove domande che siano più corrette di quelle antropocentriche, o meglio, «può anche capitare che si impari a farle, ma questo è un accidente, un sottoprodotto: il fine principale è il tentativo in sé, il libertinaggio, l’esplorazione» (769).

3.2 La creazione e la creatura

L’intento del rabbino Arié è di creare «un lavoratore, un servo fedele e forte e di non troppo discernimento», «che fosse forte quanto lui era, erede della sua forza, e che fosse di difesa e di aiuto al popolo d’Israele quando i giorni di lui Arié fossero giunti alla fine» (OI 711). Sono dunque due gli aspetti da tenere in considerazione: in questo paragrafo mi occuperò delle (i) capacità e virtù che il rabbino infonde nel Golem, del processo di creazione e della conformità della creatura agli intenti di Arié; (ii) nel paragrafo successivo, invece, prenderò in considerazione le gesta del Golem e il rapporto tra la creatura e il suo padrone.

Il procedimento per costruire un Golem viene presentato come qualcosa di facilmente eseguibile «non è impresa di gran conto, e molti l’hanno tentata» (710) – perché qualsiasi simulacro è considerato un Golem, anche il «Vitello d’Oro». L’abilità manuale, la capacità di modellare la materia, di scontrarsi con essa per darle una forma, viene considerata una competenza diffusa tra gli uomini, non una virtù che Arié possiede in modo peculiare. Analogamente, l’incipit del racconto afferma perentoriamente che «[n]el ghetto, la sapienza e la saggezza sono virtù a buon mercato. Sono talmente diffuse che anche il ciabattino e il facchino le potrebbero vantare, e a appunto non le vantano: quasi non sono neppure più virtù» (710). Le facoltà proprie degli uomini sono messe in secondo piano nel racconto, né la poiesi manuale né la sapienza o la saggezza sono le virtù che permettono ad Arié di creare un Golem straordinario, l’elemento fondamentale è la sua forza: «era forte quanto un uomo può esserlo, nello spirito e nella carne». Non solo forza fisica, però, anche forza di spirito, il coraggio di «inseguir[e] la verità per vie ardite e nuove» (710), come anche i pronipoti del rabbino faranno31: Arié sa fare ciò che molti altri ebrei sanno fare, è in grado di leggere nei libri della Legge, ma in più non teme di sperimentare ciò che il suo ingegno riesce a scoprirvi. Sa leggere anche i segni della Natura32, e sia dal punto di vista religioso sia da quello scientifico il valore di Ariè risiede nella sua temerarietà.

Prima di dare vita alla creatura il rabbino sceglie quali facoltà dello spirito infondergli e, in questa selezione, le virtù negate al Golem sono interessanti quanto quelle concesse. Arié decide di non «donargli il sangue, e col sangue tutte le passioni della bestia e dell’uomo», non gli dona «il Velle, la curiosità di Eva, il desiderio di intraprendere», «non la santa astuzia di Giacobbe, il senno di Salomone, la luce di Isaia, perché non voleva crearsi un rivale» (713). Il Golem non deve «valicare le facoltà umane» (712), non deve essere un secondo Adamo, pertanto gli sono negati la volontà e i doni di Prometeo, ma gli sono date le passioni di alcuni eroi biblici che lo rendano un servo obbediente e coraggioso, e con la collera necessaria per reagire alle ingiustizie. Tra queste, però, compare «finanche un poco della follia di Achab» (713) e la cosa è alquanto sospetta perché Achab è stato un idolatra, un creatore e adoratore di Golem, un re di Israele che ha compiuto cose che hanno irritato «il Signore Dio di Israele, più di tutti i re d’Israele suoi predecessori» (1Re 16:29-33). Perché dunque insinuare nel Golem la possibilità che egli disobbedisca agli ordini del proprio creatore o addirittura crei altri Golem?

Il gesto ricorda l’attitudine di altri personaggi prometeici di Levi Kleber (Versamina, 1965, SN, OI 467-76) o Gilberto (Alcune applicazioni del Mimete, 1964, SN, OI 460-66) – a cui la follia non manca, capaci di cimentarsi irresponsabilmente in imprese i cui esiti sono imprevedibili, «per vedere che effetto fa» (461 e 462). Può essere che Arié senta la stessa curiosità di sperimentare e quindi aggiunga una componente imprevedibile nella formula da lui calcolata. Il carattere prometeico del rabbino è però continuamente dissimulato dalla volontà di autolimitarsi e di essere rispettoso della Legge e, «al momento decisivo, quando si trattò di infondere nel cranio leonino del servo i tre principî del movimento, che sono il Noùs, l’Epithymia e il Thymòs, Arié distrusse le lettere dei primi due, e scrisse su di una pergamena soltanto quelle del terzo» (OI 713). Avrebbe potuto scrivere anche gli altri due principi dell’anima se avesse voluto, quindi non è la ridotta conoscenza a porre dei vincoli all’attività creatrice: i limiti sono imposti dalla Legge, e Ariè si attiene ad essa. La curiosità però è tentatrice e in tre occasioni il rabbino deve ricordare a se stesso che è opportuno «fare siepe alla Legge», cioè interpretarla nel modo più ampio possibile per non rischiare di trasgredirla. Nell’atto di creare un Golem Ariè vuole essere un fedele servitore di Dio ma ha anche degli impulsi prometeici: non infrange i precetti divini, ma dando la follia di Achab al Golem crea indirettamente le condizioni per una trasgressione33.

Nel raccontare i dettagli di come il Golem è animato, Levi sceglie di non attingere alle varie concezioni della mistica ebraica ma si rivolge ad una teoria dell’anima ben più nota, quella di Platone (Repubblica vv. 439a-41e; Fedone 94d). In tale scelta sono ravvisabili due delle motivazioni consuete che orientano le strategie retoriche dell’autore: perseguire il massimo di comunicabilità ricorrendo a topoi conosciuti, e il piacere per le formazioni ibride che fanno incontrare tradizioni e culture diverse. Sicuramente non tutti i lettori coglieranno il riferimento a Platone, ma le probabilità di ottenere un effetto ironico sono maggiori che se l’autore avesse utilizzato delle fonti ebraiche. Secondo la teoria platonica dell’anima, il nous è l’intelletto, l’epithymia gli appetiti, il thymos la passione. Arié vuole creare un servitore in grado di «faticare e combattere» (OI 711) e la scelta di infondere il thymos nel Golem è in accordo con quanto dice Platone, poiché nella tripartizione della società descritta nella Repubblica i guerrieri sono dominati da questa parte dell’anima34. Inoltre, «la collera di Mosé e dei profeti» (713), prima qualità donata al Golem, corrisponde proprio al thymos platonico, che deve però sottostare agli ordini del nous: «alla parte razionale spetta governare, poiché essa è sapiente e possiede la previdenza e la cura su tutta lanima, mentre alla parte ardente spetta essere ubbidiente ed alleata di questa» (Platone, Repubblica v. 441e). La metà ebraica dello spirito del Golem sembra quindi essere in accordo con la metà greca. Anche la «follia di Achab» trova il suo corrispettivo platonico: «[n]on diciamo forse che tutta la parte ardente ha sempre agognato al dominare, al vincere ed al farsi onore?» (v. 581a). La possibilità che la collera e l’ardore del Golem lo spingano a ribellarsi al proprio padrone sono dunque insiti nell’atto di creazione, nonostante l’intento esplicito del rabbino di farsi un servo obbediente.

Tale aspetto indomito della creatività che sfugge alle intenzioni dell’artigiano non è così dissonante come potrebbe sembrare e si confà al personaggio di Arié, il quale nel primo paragrafo del racconto è presentato come un innovatore ardito. Anche il mito ebraico presenta un aspetto analogo: la creazione del Golem è infatti una pratica anomica, cioè al di fuori della norma e soggetta a rischi imprevedibili.

Nell’ebraismo, le pratiche rette dalla Legge [nomiche] costituiscono sempre degli imperativi che non implicano di per sé alcun pericolo. Le prescrizioni halakiche sono concepite come condizioni necessarie per preservare la vita e non comportano alcun rischio. Non è così per le pratiche anomiche. È raro che esse siano state concepite come un imperativo diretto alle masse. Anzi, erano il più delle volte concepite come l’impresa di un individuo eccezionale […]. (Idel, Il Golem 280)35

Si apre dunque un’ambiguità: da un lato, la creazione di un Golem che sia una creatura vivente in grado di auto-organizzarsi – quindi anche la creazione di un essere umano – non è un evento unico ma può essere replicato conoscendo il codice genetico e il linguaggio informatico; dall’altro lato, essa rimane una pratica anomica con una componente eccezionale che non può essere ricondotta a nessuna norma, e difatti sono proprio la follia e l’ardore ad innescare il processo autopoietico del Golem36.

Che tipo di creatura è, dunque, il Golem di Arié? Cosa è in grado di fare e che rapporto ha con il proprio creatore? Il rabbino si aspetta che il Golem si dichiari suo fedele servitore ma, invece, appena destato a vita questi gli domanda: «Perché prospera l’empio?» (OI 714). Di tutte le facoltà e le virtù infusegli dal rabbino, è la «collera dei profeti» a prevalere, un’indignazione di tipo morale per le iniquità degli uomini. La centralità di questo aspetto nelcaratteredel Golem è affermata anche da un successivo commento del narratore: «non era mai triste lieto, ma nel suo petto d’argilla indurita dal fuoco ardeva una collera tesa, quieta e perenne, la stessa che aveva lampeggiato nella domanda che era stato il suo primo atto vitale» (714). Se riconduciamo questa caratteristica alla condizione degli esseri umani ci si accorge che essa non è altro che l’affermazione dell’imperativo morale che secondo Levi ogni uomo dovrebbe seguire: il Golem nasce con il dovere di evitare le sofferenze altrui e si infervora nel vedere che questo dovere è disatteso impunemente dai Golem umani37.

In aggiunta a tale aspetto, il Golem dimostra un’attitudine favorevole per «tutte le imprese che richiedono coraggio e valentia», poiché queste sono virtù che il rabbino gli ha donato, ma le accetta inoltre «con un lampo lieto negli occhi» e «le conduc[e] a termine con un suo tenebroso ingegno». Letizia e ingegnosità sono caratteri acquisiti, Arié non glieli ha infusi il Golem li possedeva inizialmente «non era mai triste lieto» (714) sono aspetti che emergono in occasioni particolari e rendono la creatura artificiale molto simile all’uomo, desiderosa di misurarsi, dare prova di e mostrare il proprio ingegno. Levi non si preoccupa che l’attribuzione del solo thymos renda impossibili alcune delle azioni che effettivamente il Golem compie come per esempio risolvere un caso poliziesco (714-15) tali azioni son parte della leggenda e pertanto hanno diritto di essere accolte nella fiction, un contesto che non teme contraddizioni logiche. Sono questi i primi accenni di quello che è il tema centrale della seconda parte del racconto, in cui viene raggiunto il climax della somiglianza tra Golem e uomo, sia in rapporto alla capacità di costruirsi da sia in merito ad un’esistenza segnata dalla compresenza paradossale di forze in conflitto.

3.3 La logica della servitù

Le specificità dell’essere umano messe in gioco nella prima parte del racconto riguardano la capacità creativa e il dovere morale, nella seconda parte, invece, la narrazione si sviluppa intorno al tema della forma ibrida del Golem e della tensione che lo anima. «Il Golem era un servo che non voleva essere un servo» (716) e «non intraprendeva tutto ciò che Arié gli ordinava: il rabbino se ne accorse presto, e ne fu insieme allegro e inquieto» (714). Per il rabbino il Golem è un robot, un servomeccanismo che egli può dominare con le proprie istruzioni, ma il rapporto tra i due non è così univoco: l’assoluta validità della legge di obbedienza al padrone è messa in discussione da alcuni comportamenti del Golem e per Arié «è un pungolo doloroso scoprire nei nostri figli opinioni e volontà diverse dalle nostre, lontane, incomprensibili» (716).

Sebbene «[n]el cervello pietroso del Golem st[ia] scrittoServirai fedelmente il tuo signore, gli obbedirai come un cadavere» (716)38, egli si ribella: se non gradisce l’ordine ricevuto dal padrone «si infil[a] nel suo giaciglio buio, sput[a] il Nome, e si irrigidi[sce] nella sua inerzia di scoglio» (715). L’obbedienza delservonei confronti del rabbino non è acritica: il Golem rifiuta alcuni ordini, anche se di fronte al proprio padrone risponde ossequiosamente «sarà fatto, o Signore». Quando però l’ingiunzione diventa perentoria e il servo non può nascondersi, allora deve trovare una soluzione diversa per affermare la propria volontà di non eseguire lavori meccanici, e così rifiuta di spaccare la legna con un’ascia, «strumento servile» (716), preferendo usare le proprie mani.

Antonello ha suggerito una possibile interpretazione del finale del racconto ricorrendo ad un concetto di Gregory Bateson, cioè vedendo la pazzia del Golem come una sorta di schismogenesi (Antonello,La materia, la mano, l’esperimento117, nota 37; cfr. Bateson, Verso un’ecologia della mente e Mente e natura). Quella di Bateson è una teoria socio-antropologica che può aiutare a comprendere non solo la follia distruttiva dell’antropoide, bensì anche il tipo di rapporto che si instaura tra il rabbino e il Golem. La schismogenesi non è solo interna al Golem in quanto macchina soggetta a due ordini contrastanti, è anche nella sua costruzione di identità e nei ruoli che ciascuna delle due creature assume nella relazione rabbino-Golem, padrone-servo39. Questo tipo di rapporto è chiamato da Bateson «schismogenesi complementare» poiché è l’interazione tra i comportamenti complementari di autorità e sottomissione a generare la divisione di ruoli tra i due soggetti della relazione, una divisione che porta però ad una tensione che prima o poi diventa intollerabile. «Schismogenesi» è un termine coniato dal greco proprio per indicare tale processo di generazione (genesis) di divisione (schisma). Per il racconto, l’aspetto più interessante della teoria di Bateson è il fatto che «quando la schismogenesi complementare (ad esempio autorità-sottomissione) diventa troppo sgradevole, un po’ di competizione allenta la tensione» (Mente e natura 256). Nel caso dell’ordine di spaccare la legna, per il Golem l’ingiunzione di subordinazione è intollerabile e, dunque, invece di alimentare ulteriormente la tensione dovuta alla schismogenesi complementare, intraprende un comportamento che porta ad una schismogenesi differente, una competizionealla paricon il proprio creatore (schismogenesi simmetrica): getta la scure e utilizza le mani, perché, «nervose ed ossute, Ariè le aveva modellate sulle sue proprie» (OI 713). Il rabbino, infatti, è famoso per la propria forza e «[d]i lui si racconta che difese gli ebrei da un pogrom, senz’armi, ma solo col vigore delle sue grandi mani» (711). È questo il modo che si offre al Golem per dimostrare il proprio valore nonostante il compito servile: chi meglio del rabbino può comprendere la nobiltà dell’utilizzare le proprie mani40?

Spostando il discorso sul comportamento umano, si potrebbe dire che anche Ariè trasgredisce al rapporto di subordinazione e compete con Dio. Dimostrare di essere in grado di fare un Golem è un’azione in cui si esprime la dignità dell’uomo, non solo creatura bensì creatore a sua volta; inoltre, il rabbino si cimenta in tale impresa in modo irregolare, infondendo nella creatura attributi umani indomabili (la follia e la collera). Le azioni e le scelte di Ariè appaiono sospette di emulazione di Dio, perché sono in contrasto con le continue preoccupazioni di rispettare i precetti divini. Il risultato è che le accortezze del rabbino per negare la propria insubordinazione sono velate d’ironia: «Arié non era un bestemmiatore, e non si era proposto di creare un secondo Adamo» (711) ma non si è nemmeno preoccupato troppo di evitare conseguenze indesiderate; se si considera il processo di creazione del Golem nel suo insieme non si può certo dire che egli abbia fatto siepe alla Legge.

Qualunque siano le motivazioni del rabbino, credo che l’effetto complessivo del racconto non sia quello di proporre il Golem come un secondo Adamo, quanto piuttosto quello di mettere in scena in modo emblematico la responsabilità etica insita in ogni relazione, poiché siamo tutti individui la cui esistenza è legata a quella degli altri, esseri umani, piante, animali o ibridi non-organici. Certamente fra l’opera dell’uomo e quella di Dio vi è una differenza che riguarda le facoltà cognitive superiori date alle creature, tuttavia, non credo sia la diversità il tema principale di questo racconto. Il fatto che il Golem sviluppi delle abilità cognitive e decisionali proprie non è direttamente merito dell’uomo, il rabbino non lo aveva previsto è in grado di controllare tale processo, il quale è dovuto alla legge a cui tutti i Golem devono sottostare, quella racchiusa nel Tetragramma-DNA. Come nell’atto di spaccare la legna è più interessante il compromesso trovato dal Golem per essere come il proprio creatore, piuttosto che il mantenimento della divisione dei ruoli, allo stesso modo credo si possa rintracciare un’affinità fra comportamento della macchina e comportamento umano anche nel proseguo del racconto. Il grafico seguente schematizza la rete di relazioni tra Dio, uomo e Golem:

Considerando l’episodio nell’insieme si possono individuare due tipi di conflitto: il primo è tra l’ordine di Ariè e la volontà del Golem di non essere servo, fra un’istanza logica inscritta dentro di lui e un’istanza che emerge autonomamente. Problema che viene risolto spaccando la legna con le mani, una soluzione di compromesso «acuta-arguta» (716) come viene spiegato dal rabbino che dà voce ad un processo “mentale” del Golem41. Il secondo conflitto insorge nel momento in cui il contesto cambia e si attiva un nuovo ordine (il divieto di lavorare il sabato) generando così una contraddizione con l’ordine precedente. In questo caso il Golem non trova una soluzione perché il conflitto è tra due principi logici per lui equivalenti, in quanto provenienti da un’autorità, così “impazzisce” e dimentica anche il compromesso precedente: prende l’ascia e comincia a distruggere tutto. La spiegazione del rabbino ha il tono sapienziale di «una terribile verità: nulla porta più presso alla follia che due ordini fra loro contrastanti» (716).

In termini batesoniani, si presenta una situazione in cui la tensione della schismogenesi complementare è insopportabile perché il Golem si trova ad essere doppiamente servo, dell’uomo e di Dio, e ciò porta alla “fuga” o al collasso del sistema. In tale loop informatico il Golem sembra comportarsi proprio secondo le intenzioni del rabbino, come un servomeccanismo soggetto a regole a cui non può disobbedire: «Norbert Wiener era solito osservare che se si presenta il paradosso di Epimenide a un calcolatore esso risponde sì… no… sì… no… finché non finisce l’inchiostro o l’energia, oppure non trova qualche altro limite insormontabile» (Bateson, Mente e natura 158)42. Nel caso del Golem, un modo per uscire dal paradosso e risolvere la contraddizione vi sarebbe: riconoscere una gerarchia tra gli ordini ricevuti, ossia operare una distinzione meta-logica. Tale gerarchia può essere di tipo assiologico, se si ritiene che la Legge di Dio abbia un valore maggiore degli ordini dati da un uomo e, quindi, questi non possono mai contraddire quella; ma è sufficiente anche solamente una gerarchia fra tipi logici43. In un algoritmo la gerarchia metalogica è garantita dal fatto che le informazioni sono processate dal calcolatore in una sequenza ordinata, così se si vuole considerare l’aspetto cibernetico del Golem: la cronologia con cui le istruzioni sono apprese dovrebbero rendere gli ordini dell’uomo operativi in un sottoinsieme della Legge, ed essi dovrebbero essere ritenuti validi se e solo se non sono in contraddizione con essa. In questo senso si può affermare che il Golem è semplicemente stato programmato male. Pur avendo in sé «l’intera Legge di Mosé» ha un software troppo simile alla mente umana e manifesta un comportamento ad immagine dell’uomo: confonde i tipi logici, generando un’ambiguità irrisolvibile. Gli esseri umani non agiscono sempre in base a distinzioni logiche, sono sempre attenti alle distinzioni metalogiche, e così ha fatto il Golem.

Il Golem affronta il problema che gli si presenta processando le informazioni ricevute attraverso una logica lineare e nel momento in cui non riesce a decidere come comportarsi sembra vivere quella Bateson vede come una minaccia alla pretesa assolutezza della logica: «una frattura nell’apparente coerenza del processo logico della nostra mente ci sembrerebbe una specie di morte» (Bateson, Mente e natura 171). Serve uno sforzo metalogico per superare tale angoscia di morte, il riconoscimento che la logica non può risolvere tutto e che le nostre assiologie non sono sempre basate su di essa. Gli umani, talvolta, ricercano tale gerarchia di valori in differenze di tipo ontologico (“Dio è superiore all’uomo”), altre volte è sufficiente un criterio cronologico (“il più anziano è il più saggio”). Per le macchine, negli anni in cui è stato scritto il racconto, è possibile solo una gerarchia basata sulla struttura “a cascata” dell’algoritmo. L’assenza di un criterio non-logico in base al quale stabilire un’assiologia rende il Golem prigioniero della logica, e il fatto che la logica sia insufficiente per risolvere un conflitto porta al crollo di ogni certezza e, in questo caso, anche all’autodistruzione. La questione etica è sempre presente ma il fuoco dell’attenzione è qui in particolare sui fondamenti e sui criteri delle scelte di comportamento: fare affidamento esclusivamente su un unico principio regolatore può avere conseguenze disastrose. L’etica di Levi non accetta verità assolute e ha bisogno di un’epistemologia adeguata, che possa adattarsi agli inaspettati cambiamenti del contesto in cui si agisce.

3.4 Autopoiesi e libertà

Il servo congiunge tematicamente ed eticamente i racconti che lo precedono e seguono, Il fabbro di se stesso (1968, VF, OI 702-09) e Ammutinamento (1968-70, VF, OI 718-24), creando un ponte fra antropopoiesi ed ecologia. «Un’impresa come quella del rabbino Arié equivale a un atto di auto-creazione, portatore di una terribile ambiguitàorgoglio, ambizione, rischio di fallimento e cecità moralee del peso della responsabilità e della giustizia che ogni atto di creazione (ogni atto) comporta» (Gordon 164). Il rabbino si assume la responsabilità della follia del suo servo e «lod[a] Dio nonostante la rovina della sua casa, perché riconosc[e] che solo sua [è] la colpa non di Dio del Golem» (OI 717). Ma qual è la sua colpa? Aver scritto male il software e, quindi, non aver saputo controllare il proprio servo? Oppure aver trattato il Golem come un essere inferiore, rendendolo un oggetto, e non come una creatura con un’identità e una dignità proprie? La risposta a queste domande traccia la soglia tra una prospettiva antropologica ed una ecologica. È difficile stabilire quale sia la posizione di Levi, ma credo sia interessante riflettere su alcuni indizi testuali.

Arié si assume la responsabilità dei risultati della propria scienza, di tutte le conseguenze delle proprie azioni, ma è anche possibile che stia nascendo in lui una consapevolezza di tipo diverso dovuta al fatto che si rende conto delle qualità native del Golem senza però che essa possa esprimersi adeguatamente, perché ormai è troppo tardi, il sole è tramontato ed è iniziato lo Shabbat. Nel primo caso la prospettiva è ancora completamente umana; nel secondo, invece, vi è un apertura verso il post-umano44. Nell’orizzonte dell’etica leviana si può affermare che il primo tipo di responsabilità è certa45, il secondo tipo è solo un’ipotesi ermeneutica che postula tratti post-umani nelle narrazioni di Primo Levi. Un caso simile di rapporto fra un essere umano e una creatura non umana è raccontato nel saggio Lo scoiattolo (1980, AM, OII 875–77), nel quale non sono l’abilità e l’ingegno dello scoiattolo a destare la compassione di Levi, bensì la sua incapacità e sofferenza (cfr. Benvegnù, “Witnessing Animal Suffering” 93).

Come ho cercato di mostrare, credo che l’evoluzione del Golem un tentativo di autopoiesi non sia un aspetto secondario del racconto e abbia delle implicazioni notevoli sul rapporto rabbino-servo, e quindi indirettamente anche sulla pretesa umana di dominare la natura. La questione è complessa: riguarda la responsabilità nella ricerca scientifica e nell’uso della tecnica, ma anche i rapporti sociali, la legittimità e i limiti del potere, nonché il ruolo dell’essere umano nella biosfera. I racconti propriamente fantascientifici di Levi affrontano questi temi ma un approfondimento di tale aspetto della sua poetica esula dagli scopi del presente lavoro. Basti qui ricordare che per l’autore

[c]redere nella ragione vuol dire credere nella propria ragione, non vuol dire che la ragione governi il mondo e neppure che governi l’uomo. Avere assistito al naufragio della ragione, e qui alludo non solo al nazismo ma al fascismo nostrano, non deve e non può condurre ad una resa. Direi, con Calamandrei, che per la nostra generazione non c’è congedo. Anche la ragione non può andare in vacanza. Per conto mio, ho in sospetto tutte le assenze della ragione (Gagliano e De Rienzo; cfr. Poli e Calcagno 57).

Mi pare che questo commento si addica anche alla vicenda del Golem, sia a proposito dei limiti della ragione sia per il dovere morale di esercitarla.

Ne La ricerca delle radici si trova un brano di Bertrand Russell, tratto da La conquista della felicità, in cui si legge un curioso paradosso che riguarda proprio il collegamento fra razionalità e azione:

l’uomo invidioso obietterà: «A che serve dirmi che il rimedio contro l’invidia è la felicità? Non posso trovare la felicità fintanto che provo invidia, e voi mi dite che non posso smettere d’essere invidioso fino a quando non avrò trovato la felicità». Ma la vita reale non è mai così logica. Il solo fatto di rendersi conto delle cause che suscitano in noi l’invidia basta a far fare un lungo passo avanti nella cura di tale passione. (Perché non siamo felici, 1980, RR, OII 1484)

Ciò che Russell vuole far notare è che se si riesce a passare dall’etica alla meta-etica se cioè ci si rende conto che individuare le cause della nostra invidia vuol dire effettuare un salto logico ed uscire dal paradosso in cui infelicità e invidia si alimentano a vicenda allora l’impasse che blocca la nostra iniziativa diventa superabile. Levi lo ha capito ed infatti afferma:

[i]n questa, ed in molte altre opere, Russell intende dimostrarci che i problemi eterni, non solo della conoscenza, ma anche delche fare, sono accessibili alla nostra ragione. È un buon amico: ci dice che la condizione umana è miserabile, ma che è ozioso attardarsi a compiangerla, e doveroso adoperarsi per renderla migliore. (1484)

Il discorso di Russell è di tipo argomentativo e filosofico, Levi invece è anche un narratore e pertanto ne Il servo affronta il dilemma in termini narrativi, un contesto nel quale l’argomentazione passa attraverso l’esemplificazione (cfr. Rabatel). L’esempio è quello di un fallimento della razionalità, di come regolare tutto attraverso la logica possa portare alla distruzione. Ma vi è anche l’esempio positivo della nobiltà dell’usare le mani galvanizzante sia per il Golem sia per Ariè che ne coglie l’arguzia un azione che riesce a rompere il giogo del potere e della subordinazione grazie ad un compromesso46.

Pierpaolo Antonello ritiene giustamente che, scevro di ogni intento metafisico, con questo racconto Levi si esprima «contro quella visione che vuole hobbesianamente il pensiero umano come semplice espressione di un calcolo, ovvero come un sistema formale chiuso, una macchina di Turing che opera algoritmicamente» (La materia, la mano, l’esperimento” 101-02). Concordo con questa osservazione, tuttavia non mi sembra che il racconto suggerisca ciò mostrando i limiti cognitivi del Golem, come propone Antonello47, anzi, ritengo che non si voglia esclusivamente proporre una riflessione sulla specificità dell’intelletto umano. L’antropoide di Arié, infatti, non è solamente una macchina dalle capacità limitate rispetto all’uomo, è anche una creatura in cui emergono facoltà non riconducibili alle parti di cui è composta: «La pigrizia e la disubbidienza del mostro lo lusingavano, perché queste sono passioni umane, native; non lui gliele aveva inspirate, il colosso d’argilla le aveva concepite da solo» (OI 715). Sebbene non arrivi a sviluppare abilità cognitive superiori che gli permettano di superare un conflitto logico, uscendo da esso con una decisione non basata sulla logica, nel Golem si assiste all’emergere di facoltà non presenti nelle singole parti di cui è composto il sistema, proprio come avviene negli esseri umani, e forse in tutti gli esseri viventi (cfr. Maturana e Varela, Autopoiesi. L’organizzazione del vivente”). Inoltre, se si considera che nell’universo leviano l’uomo è caratterizzato da un’esistenza paradossale, ibrido di carne e spirito, soggetto al doppio vincolo di queste istanze, allora sembra plausibile ritenere che il racconto voglia spostare l’attenzione dalla diversità tra uomo e macchina alla somiglianza tra e gli altri: per quanto possa avere delle caratteristiche «diverse dalle nostre, lontane, incomprensibili» (OI 716), l’Altro è un Golem come noi, condannato ad un’esistenza paradossale.

 

4. La fuggitiva (1978)

Argilla, metallo e vetro non sono gli unici materiali con cui l’uomo può costruire un Golem: nel racconto La fuggitiva (L, OII 121-25) una composizione di carta e inchiostro si anima e si trova a vivere situazioni di tensione con il proprio creatore analoghe a quelle tra Ariè e il il proprio servo. Come ho cercato di dimostrare, uno degli aspetti del mito più carichi di implicazioni etiche riguarda il rapporto di potere tra creatore e creatura, e in questo racconto la volontà di dominio si scontra con l’autonomia di ciò che è stato creato, con la dignità e i diritti di tutto ciò che è vivo pur non essendo umano.

Per l’impiegato Pasquale la creazione di una poesiaviva, «degna di essere letta e ricordata, è un dono del destino: accade a poche persone, fuori di ogni regola e volontà» (121). Fin dall’incipit si incontra un elemento chiave del processo creativo: l’impossibilità del controllo. Tale aspetto è centrale nella vicenda che vede Pasquale combattere contro la pretesa di indipendenza della poesia. Inoltre, non solo il prodotto finito è un organismo vivente, anche l’atto di creazione poetica è descritto come un processo che riguarda il corpo del creatore: essa è una «folgorazione, [un] processo fulmineo in cui la concezione ed il parto si succedevano quasi come il lampo e il tuono» (121). Il campo evocato è quello delmistero della creazione come alluso anche dal titolo della poesia: «Annunciazione» (122)48 un fatto che Pasquale non può controllare, ma solo accettare con «la consapevolezza di avere una poesia in corpo» (121). Immediatamente, però, subentra la volontà di dominarla: la poesia gli sembra «pronta ad essere acchiappata al volo e trafitta sul foglio come una farfalla»; e il parto si conclude in modo razionale, con l’autore che «si ritrov[a] lucido, con il nocciolo della poesia chiaro e distinto».

L’intervento consapevole dell’uomo è fondamentale in ogni processo di poiesi, la téchne è necessaria per dare forma all’incomprensibile, ma nel racconto questo aspetto non è mai esplicitato. Si insiste invece sui limiti del controllo umano sulle proprie opere, le quali assumo un’esistenza autonoma e si trasformano in modi imprevisti:

Il verso-chiave era lì, davanti a lui, come scritto sul muro, o addirittura dentro il suo cranio. Pasquale si concentrò selvaggiamente sul foglio che aveva davanti, dal nocciolo la poesia si irradiò in tutti i sensi come un organismo che cresca, ed in breve gli stette davanti e sembrava che fremesse, appunto come una cosa viva. (121-22)

Come il Golem, la poesia freme, è una forma viva in tensione, ma la volontà di dominio del suo creatore è più forte del riconoscimento e del rispetto della vita: non vi è l’orgoglio del padre per l’indipendenza raggiunta dai propri figli, proprio come non lo prova il rabbino Arié, per il quale è doloroso riconoscere l’autonomia decisionale del Golem. Per ben tre volte Pasquale chiude a chiave nel cassetto la poesia, e quando è in ufficio cerca di non allontanarsi dalla scrivania per tenerne sotto controllo gli spostamenti. Infatti, «aveva capito che per qualche motivo, forse proprio per la sua unicità, per la vita che palesemente la animava, cercava di sfuggirgli, di staccarsi da lui», e «si vedevano nitidamente sporgere le otto zampette delle quattro n. Sporgevano come i peli di una barba mal rasa, e parve a Pasquale che vibrassero perfino un poco» (124).

Il racconto è breve e schematico, la stessa situazione si ripete per tre volte in circostanze diverse, e Pasquale è irremovibile nel proprio atteggiamento autoritario: «l’Annunciazioneera opera sua, alla fine dei conti, roba sua, sua proprietà». Ma la poesia non accetta di sottomettersi al suo creatore e, piuttosto che restare incollata ad un’assicella di compensato, si smembra e se ne va «sotto forma di truciolini, di minuscoli ritagli sfrangiati e cincischiati». Questa poesia è ormai perduta e a Pasquale non accadrà più di saper creare una vita così intensa e tenace, ma le poesie successive sono comunque delle creature vive, seppure «gracili, esangui, snervate» (125). Al lettore non è dato sapere se Pasquale abbia cambiato atteggiamento o continui a preoccuparsi esclusivamente della propria possibilità di controllo sulla vita. Come ne Il servo, la responsabilità degli avvenimenti ricade tutta sul personaggio umano del racconto: il Golem di carta e inchiostro tenta solo di affermare la propria indipendenza, ma il rifiuto degli umani di accettare che anche altre creature possano avere il diritto di agire autonomamente ha conseguenze disastrose.

 

5. A fin di bene (1968-70)

La rete telefonica del racconto A fin di bene (VF, OI 636-46) è un Golem senz’altro più simile a quelli della tradizione, sebbene non vi sia alcuna intenzione umana che la Rete si animi. Essa deve essere semplicemente un mezzo tecnico per agevolare le comunicazioni, tuttavia, proprio come nel servo di Arié emergono facoltà nuove e inaspettate, così anche la Rete è un artefatto che prende vita e cresce.

Il processo di evoluzione della Rete è estremamente interessante. Prima di ogni spiegazione e ipotesi circa la sua costituzione, sono presentati al lettore quelli che sono considerati comportamenti anomali. Il narratore non fa alcun accenno esplicito in tal senso ma essi appaiono come le fasi di apprendimento e sviluppo di un bambino: inizialmente sperimenta e gioca, quasi come se stesse imparando a stare nel mondo e a coordinare mente e corpo; successivamente sviluppa una consapevolezza maggiore e dietro i “guasti” si può avvertire un’intenzione. I primi “esperimenti” sono caratterizzati dalla casualità del gioco: la Rete ripete le uniche parole conosciute (il numero più chiamato, 637), o partendo da questo prova combinazioni diverse («una sola unità in più o in meno», «[a]ltre volte il secondo era multiplo del primo, o era il primo letto all’inverso», 639). I giochi sono quelli di una mente matematica e quindi si hanno anche casi che ad una mente umana possono sembrare più complessi, come quelli in cui «i due numeri davano per somma 1 000 000» oppure, «[i]n quindici casi su 518 studiati, un numero era con ottima approssimazione il logaritmo naturale dell’altro; in quattro casi il loro prodotto, a meno di decimali, era una potenza di 10». Anche l’episodio delle «chiamate bianche» su scala europea è una forma di gioco, e alle correlazioni già citate si aggiunge il caso dei numeri «uguali, salvo naturalmente il prefisso» (641).

Dal punto di vista umano tutto ciò appare come una grande seccatura e un impaccio all’efficienza della tecnica per organizzare la vita sociale. Per comprendere al meglio l’articolazione semiotica del racconto, è doveroso sottolineare che la narrazione è sempre focalizzata su Masoero, con frequenti rappresentazioni indirette libere del suo pensiero o discorso: la prospettiva, quindi, è sempre la sua e il lettore lo segue nellazione di maschio dominante che vuole prevalere sul collega Rostagno, dimostrare di essere il più sveglio e controllare la reteimpazzita. Inoltre, il punto di vista di Masoero è connotato anche in un altro senso: è influenzato da una tensione di impronta sadomasochista. Il nome proprio dell’ingegnere potrebbe alludere a questa attitudine, ma è l’incipit del racconto ad essere inequivocabile: «Chi ha bisogno di punirsi trova occasioni dappertutto» (636). La volontà di dominio, dunque, è alimentata anche dalla vergogna di sentirsi sminuito49, che si trasforma in desiderio di rivalsa e di prevalere sull’ingegnoso Rostagno. Ciò avviene anche nell’epilogo, in cui i due si sono rappacificati: mentre Rostagno sembra spinto dalla voglia di comprendere il mondo intorno a e, pur restando legato ad un punto di vista umano, si chiede onestamente quale sia il grado di coscienza e sensibilità della Rete, Masoero abdica al pensiero e afferma che la comprensione il diritto di dominare su chi svolge una funzione di servizio:

Veniamo a patti: ne abbiamo il diritto, no? Siamo stati noi i primi a comprenderla. Le parliamo, e le diciamo che se non la smette sarà punita.

Pensi che… possa provare dolore?

Non penso niente: penso che sia sostanzialmente una simulatrice del comportamento umano medio, e se così, imiterà l’uomo anche nel mostrarsi sensibile alle minacce. (645).

Come il Golem, la Rete è spinta ad autodistruggersi perché reagisce alla violenza “psicologica” con un «comportamento umano medio», non come una macchina. Ma procediamo con ordine: che tipo di creatura è la Rete?

L’interpretazione del comportamento anomalo viene presentata da Rostagno durante un’intervista su un giornale e letta poi da Masoero, il quale riconosce che è «un’ipotesi fulminante»:

con l’estensione a tutta l’Europa, la rete telefonica aveva superato in complessità tutti gli impianti realizzati fino ad allora, compresi quelli nordamericani, e senza transizione aveva raggiunto una consistenza numerica tale che consentiva di comportarsi come un centro nervoso. Non come un cervello, certo: o almeno, non come un cervello intelligente, tuttavia era in grado di eseguire qualche scelta elementare, e di esercitare una minuscola volontà. (642)

La Rete, dunque, manifesta segni di vita autonoma e Rostagno non sembra avere alcuna difficoltà a spiegare il fenomeno ammettendo la possibilità che un artefatto inorganico abbia un’evoluzione biologica. Non solo, l’ipotesi si rivela ancora più azzardata nella spiegazione dell’organizzazione interna di questa nuova forma di vita: Rostagno enuncia una teoria molto simile a quella di Humberto Maturana e Francisco Varela, e la somiglianza tra l’ipotesi di finzione e quella formulata dai neurobiologi è sorprendente anche perché sviluppata negli stessi anni50. Un semplice impiegato di una compagnia telefonica

aveva avanzato l’ipotesi che la Rete stessa fosse animata da una volontà sostanzialmente buona; che cioè, nel brusco salto in cui la quantità si fa qualità, o (in questo caso) in cui l’intrico bruto di cavetti e selettori diventa organismo e coscienza, la Rete avesse conservato tutti e soli gli scopi per cui era stata creata; allo stesso modo in cui un animale superiore, pur acquistando nuove facoltà, conserva tutti i fini dei suoi precursori più semplici (mantenersi in vita, fuggire il dolore, riprodursi) così la Rete, nel varcare la soglia della coscienza, o forse solo quella dell’autonomia, non aveva rinnegato le sue finalità originarie: permettere, agevolare ed accelerare le comunicazioni fra gli abbonati. Questa esigenza doveva essere per lei un imperativo morale, uno «scopo di esistenza», o forse addirittura un’ossessione. (642)51

La Rete si mantiene in vita perseguendo lo scopo per cui è stata creata, la comunicazione52. Sempre tramite la comunicazione riesce a riprodursi e accrescere la propria estensione, servendosi del lavoro degli uomini (644); e la vicenda si conclude con ilsuicidioper fuggire il dolore minacciato da Masoero. Dunque, persegue «tutti i fini dei suoi precursori più semplici». La Rete èbuona, ha un«indole gentile» (643) ed agisce «A fin di bene»; innanzitutto fa il proprio bene, cioè massimizza le probabilità di comunicazione e la circolazione di informazioni, ma dimostra anche di avere facoltà morali ed estetiche:

[s]i intrometteva dando consigli non richiesti anche sugli argomenti più intimi e riservati; riferiva a terzi dati e fatti casualmente appresi; incoraggiava senza alcun tatto i timidi, redarguiva i violenti e i bestemmiatori, smentiva i bugiardi, lodava i generosi, rideva sguaiatamente delle arguzie, interrompeva senza preavviso le comunicazioni quando pareva che degenerassero in alterchi. (645)

Tuttavia, il suo funzionamento è in conflitto con gli interessi in base ai quali gli esseri umani organizzano le proprie vite. Pertanto, poiché la prospettiva del racconto è sempre umana, i giudizi di Rostagno sul comportamento della Rete non son positivi: «in un certo modo inefficiente e rudimentale una mente agitava la mole; purtroppo la mente era inferma e la mole sterminata, e quindi il salto qualitativo si risolveva per il momento in uno spaventoso cumulo di avarie e disturbi» (643, corsivi miei). Pur riconoscendo che la Rete è un organismo con una mente che può apprendere, la volontà umana è quella di avere il controllo: «[s]enza insistere sul migliore approccio, se elettronico, o neurologico, o pedagogico, o pienamente razionale, Rostagno sosteneva che si sarebbe potuto imbrigliare la nuova facoltà della Rete. Si sarebbe potuto educarla ad una certa selettività».

Charlotte Ross vede il racconto sotto una luce diversa e considera la Rete come «a (defamiliarized) modern day multinational, controlling communications, dictating its own projects of expansion by circumventing usual procedures for obtaining permission, and holding entire continents at ransom, to bow to its wishes» (105-06). Sebbene sia un’interpretazione suggestiva, mi sembra che sia lontana dagli interessi di Levi e che incontri delle resistenze testuali che ne inficiano la plausibilità: soprattutto l’aspetto morale del comportamento della Rete è decisamente estraneo a qualsiasi policy aziendale guidata dal profitto. Mi trovo d’accordo, invece, con l’interpretazione di Giuseppina Santagostino, la quale vede un isomorfismo tra entità umane e non-umane e sottolinea l’importanza del desiderio di autonomia.

La Rete è un Golem che evolve in creatura vivente e non è più disposta a sottomettersi agli ordini degli esseri umani. Così, nonostante alcuni degli argomenti addotti per convincerla a cambiare comportamento possano essere convincenti, l’atteggiamento coercitivo di Masoero non è gradito alla Rete, la quale piuttosto che accettare un’esistenza di servitù preferisce autodistruggersi, provocando per diverse settimane una paralisi completa delle comunicazioni telefoniche in Europa (OI 646). Forse con la consapevolezza che, una volta riparata, nascerà una nuova Rete? I quesiti che rimangono aperti sono gli stessi dei racconti Il servo (1968-70, VF, OI 710-17) e La fuggitiva (1978, L, OII 121-25): come si comporteranno gli esseri umani con gli artefatti sempre più avanzati e complessi che sviluppano un’autonomia operativa ed ontologica? Sceglieranno la via del parassitismo irresponsabile e della guerra di dominio o quella del compromesso e della simbiosi?53 E ampliando l’orizzonte: come saranno impostati i rapporti di lavoro nella società tecnoscientifica del futuro prossimo? E i rapporti sociali in generale? Come ci comporteremo di fronte all’alterità di difficile comprensione dei nostri colleghi, partner di lavoro, dipendenti, vicini di casa?

 

6. «Cladonia rapida» (1964)

Anche nel breve racconto «Cladonia rapida» (SN, OI 442-46) si ha un caso di macchine che si animano autonomamente, a cui si aggiunge l’originale episodio della diffusione di un parassita vegetale che le contagia. Tale aspetto potrebbe essere un argomento a favore della mia ipotesi che lo sfondo sui cui interpretare i racconti golemici è di tipo ecologico e non antropologico, poiché le interazioni fra macchine e vegetali sono qui indipendenti dalla presenza dell’uomo, ma «[i]n un caso, per ora isolato ma preoccupante, è stato coinvolto il proprietario di un autoveicolo, che ha dovuto ricorrere a cure mediche per una diffusa e tenace infezione da Cladonia sul dorso delle mani e sull’addome» (443)

Il racconto ha la forma di un articolo di divulgazione scientifica, e la vicenda della diffusone del lichene dà occasione al redattore di introdurre altri studi sull’emergente organizzazione biologica delle macchine: il primo riguarda la loro «rudimentale differenziazione sessuale, nota già da decenni ma sfuggita finora all’attenzione della scienza ufficiale» (444); il secondo è stato trattato da una ricerca sulle collisioni fra automobili, in cui si conclude che

in almeno un caso su dieci, si ha la sovrapposizione di una rudimentale volontà (o iniziativa) della macchina sulla volontà (o iniziativa) umana: la quale peraltro, nell’atto di guidare attraverso il traffico cittadino, deve in qualche modo essere debilitata e depressa. (44554)

Anche in questo racconto, dunque, gli aspetti che caratterizzano le interazioni fra uomo e macchine sono l’autonomia decisionale degli artefatti tecnologici e i rapporti di potere. Come già per il Golem de Il servo, le ragioni della tecnica non sono riducibili alla razionalità, è piuttosto una embodied cognition quella sviluppata dalle macchine leviane (cfr. Johnson; Varela, Thompson e Rosch). Charlotte Ross coglie uno dei punti cruciali del rapporto di Levi con la razionalità quando parla di narratives of embodiment, le sue interpretazioni però sono a volte parziali, focalizzandosi maggiormente sulla «ability to negotiate our embodied state as one characterized by varying degrees of containment» (3), e tralasciando di esplorare più a fondo le implicazioni dell’embodiment tecnologico. «Cladonia rapida» è proprio un esempio di tale aspetto, un caso in cui la volontà o iniziativa delle macchine è motivata da ragioni emotive: è infatti il trauma di una collisione passata che induce un’automobile torinese a «rallent[are] sensibilmente e tir[are] a destra» (OI 445) ogni volta che si avvicina all’incrocio stradale dove è avvenuto l’incidente.

Le macchine raccontate da Levi sono delle forme di vita complesse, non dei semplici servomeccanismi: sono descritte come organismi biologici, hanno «organi interni» che possono essere infettati da parassiti specifici e necessitano di cure appropriate per evitare «risultati drammatici» (443). Gli esseri umani sfruttano le macchine in sempre più ambiti della propria vita e i racconti di Levi sembrano suggerire che ciò li costringa a sforzarsi continuamente di comprendere la loronaturaper poter vivere al meglio nella tecno-biosfera. Sarebbe interessante approfondire se l’unica lettura lecita di tali racconti sia quella simbolica che considera i Golem come forme di un’alterità che fatichiamo a comprendere, o se invece il pensiero di Levi presenti effettivamente dei tratti post-umani. Ad ogni modo, il racconto si conclude citando il più recente caso riguardante il «conturbante problema della convergenza in atto fra il mondo animato e il mondo inanimato», un episodio che potrebbe segnare un nuovo cambiamento nelle relazioni uomo-macchina, ossia la scoperta di «tracce evidenti di tessuto nervoso nella tiranteria dello sterzo della Opel-Kapitän» (446). La separazione tra organico e inorganico e la necessità che l’uomo ha di confrontarsi con la hyle sono un caposaldo dell’etica leviana, ma le macchine-Golem sono creature che complicano questa immagine antropocentrica. Le leggi dell’evoluzione sono più forti di ogni volontà umana e la responsabilità dell’homo faber riguarda sempre di più la sua capacità di comprendere i cambiamenti dell’ambiente ed agire in esso nell’interesse dell’ecosistema, perché il benessere della specie umana è legato a quello di altre creature, proprio come il benessere del singolo è legato a quello degli altri.

 

7. I sintetici (1968-70)

Accanto ai numerosi racconti in cui le creazioni di Golem si presentano come forme di autopoiesi delle macchine, ne I sintetici (VF, OI 588-99) si narra di un’antropopoiesi in senso letterale. È Renato, un ragazzino di dodici anni incalzato da un suo compagno di classe, a spiegare come avviene la creazione di bambini in laboratorio, fornendo anche i dettagli, un po’ fantasiosi, della possibile manipolazione genetica, dalla scelta del sesso a quella della fisionomia.

L’atteggiamento di Renato nei confronti di Mario, il suo compagno di classe “sintetico”, è un esempio del processo di oscillazione tra meraviglia e orrore per il monstrum. Nel momento in cui la creatura anormale è presente, Renato si sente minacciato dalla diversità che non riesce a comprendere e la aggredisce verbalmente. Quando invece Mario non c’è il discorso si fa più teorico e astratto, e così subentra un tono di meraviglia sempre perturbante, beninteso per le possibilità della tecnoscienza. È il compagno Giorgio a vivere questa ambivalenza dell’osservatore: «taceva sopra pensiero. Era urtato, e insieme l’argomento lo affascinava» (591). I protagonisti del racconto sono bambini e forse per loro è più facile provare compassione per Mario che si vergogna di sentirsi diverso, ma Renato è comunque diffidente: «[a]nche a me fa compassione, però con loro bisogna stare attenti. Capisci, sono uguali agli altri solo dal di fuori» (593)55. Un timore che però la curiosità può facilmente trasformare in un atteggiamento sprezzante: la noncuranza del fatto che la presunta fosforescenza del bambino sintetico può provocare il cancro: «io non ho certe paure, e Mario mi interessa. Mi interessa vedere quello che fa…».

Dalla prospettiva di Mario si apprende che effettivamente «lui si sentiva “più diverso”, magari migliore, e spesso ne soffriva» (590). Messo alle strette dalle parole di Renato tenta di fingersi uno scolaro negligente, ma questo non fa altro che destare l’attenzione della maestra sul suo comportamento atipico, perché contrario alla consueta diligenza, curiosità e intraprendenza (594-95)56. La tendenza generale dei racconti golemici è quella di indebolire le certezze sull’autorità che l’uomo ha nel mondo e, in accordo con ciò, in questo racconto è il concetto di homo faber ad essere messo in discussione: nel caso di un essere umano sintetico quale predisposizione naturale può esserci? Mario ha sì delle virtù prometeiche, ma è anche infelice perché non è accettato dai compagni; viene quindi ribadita la necessità della dimensione sociale perché gli uomini possano non soffrire. Durante il colloquio il preside ricorda a Mario che «[o]gnuno di noi può e deve fare qualcosa per migliorarsi, per coltivarsi», ma aggiunge anche che «il terreno, la sostanza umana, è diversa per ognuno: sarà ingiusto ma è così, l’abbiamo ereditata dai nostri genitori e progenitori all’atto della nascita» (597). Ed è proprio a questo punto che Mario lo interrompe e se ne va. Convinto della propria origine sintetica, lui non può avere ereditato nulla «all’atto della nascita». Per lui essere homo faber è meno importante che essere zóon politikón, animale sociale.

Il tema che mi sembra emerga con più forza nel racconto è la necessità della comprensione e compassione, due modalità di relazione che vanno al di là dell’ingegno e della razionalità57. Il preside si stupisce che Mario, «un logico, un ragionatore», abbia potuto farsi abbattere dalle parole di Renato, e lo tratta come un dispositivo che reagisce in modo deterministico, che «soffr[e] per sovraccarico, insomma, come… una linea del telefono» (596-97). Dal discorso finale di Mario, però, si capisce che ciò che egli desidera è essere accettato e accolto dagli altri bambini, vuole che la sua diversità, che tutte le diversità siano superate, e sogna un mondo utopico:

adesso siamo pochi, ma poi saremo molti e comanderemo noi, e allora non ci saranno più guerre. Sì, perché non combatteremo fra noi come capita adesso, e nessuno potrà assalirci perché saremo i più forti. E non ci saranno differenze: noi non faremo più differenze, bianchi, negri, cinesi, saranno tutti uguali, anche i Pellerossa, quelli che restano. Distruggeremo tutte le bombe atomiche e i missili, tanto non serviranno più a niente, e con l’uranio che ne ricaveremo ci sarà energia gratis per tutti, in tutto il mondo: e anche da mangiare, gratis per tutti, anche in India, così nessuno morirà più di fame. (597-98)

Anche in questo racconto, dunque, il mito del Golem è trasformato in relazione a temi quali il riconoscimento della dignità e dei diritti altrui, e il ridimensionamento del potere di una singola specie in un mondo popolato da miriadi di altre creature. Mario racconta un mondo futuro in cui le nascite sono pianificate e in cui gli esseri umani sintetici hanno «raggiunto il controllo» di se stessi: «[q]uando il controllo è completo uno può anche stare senza respirare, non sentire il dolore, può ordinare al suo cuore di fermarsi» (598). Un mondo in cui ingegneri e biologi sintetici possono sistemare i danni fatti dagli esseri umani “naturali”. Ma tale profezia di ordine e controllo è solo un palliativo momentaneo per Mario: quando Renato interviene la meraviglia per la diversità dei sintetici futuri si trasforma in sconforto per la situazione attuale, «e parve che qualcosa in lui si spegnesse» (599). Nel cortile della scuola Mario è ancora una volta diverso ed emarginato, ciò che desidera non è salvare il mondo e gli uomini dall’inquinamento e dalla sovrappopolazione ma semplicemente essere «come te, come uno di voi». Analogamente agli altri racconti che elaborano il mitologema del Golem, anche ne I sintetici la creazione e l’evoluzione di forme di vita atipiche sollevano questioni che fanno vacillare le nostre certezze e inducono a riflettere sui limiti dell’ingegno umano. In particolare, credo che qui si affermi in modo più deciso rispetto ai racconti prometeici che il fondamento dell’esistenza umana non è diverso da quello delle altre creature: è nel bisogno di relazioni. L’uomo deve dimostrarsi un fabbro responsabile anche in questo, nella capacità di costruire relazioni tenendo in considerazione sé e gli altri.

1Moshe Idel ricorda che «Norbert Wiener […] fece esplicitamente allusione al golem in quanto prototipo degli attuali robot» (Il Golem 10; cfr. Wiener, Cybernetics or Control and Communication in the Animal and the Machine e il successivo Dio & Golem s.p.a. Cibernetica e religione). È evidente anche l’affinità con la creatura del dottor Frankenstein (cfr. Tagliasco).

2Per tutte le occorrenze del termine «Golem» e dei casi di creazione di antropoidi nella tradizione ebraica, cfr. Idel, Il Golem.

3Cfr. «I think, that the medieval philosophical usage of the term Golem as hyle, which is an innovation in comparison to the basic use of the term in the earlier layers of Hebrew, was projected on the pre-medieval use of the term. This philosophical use of Golem as hyle is obvious since the twelfth century Hebrew as employed in Maimonides’s Mishneh Torah» (Idel, Golem 301; cfr. Maimonide 2:3)

4Cfr. «Tra la composizione delle membra e l’introduzione dell’anima, vi è una fase nel corso della quale l’aggregato di polvere e acqua perviene allo stadio intermedio di golem, cioè a un’entità che è superiore a una rappresentazione scultorea dell’uomo, ma che è inferiore a un essere animato da un’anima» (Idel, Il Golem 59).

5Idel offre anche un elemento interessante per un discorso sulle affinità tra le figure mitiche predilette da Levi: «in Genesi rabba, si riferisce che – all’epoca in cui Adamo non era altro che un golem, cioè prima che Dio gli conferisse un’anima – questa creatura embrionale aveva già ricevuto la rivelazione di cose future» (Il Golem 62; cfr. Genesi rabba, sez. 24, par. 2); tale attribuzione di preveggenza rende il Golem-Adamo simile a Prometeo, ma se il titano conosce il futuro a dispetto dell’ignoranza degli dei olimpici, il Golem, invece, è come Tiresia e i profeti biblici, «short-term beneficiary of divine revelation», «his occult knowledge has intrinsic or inspirational authority attached to it as a discourse premise», dunque il potere del Golem è subordinato alla volontà del suo creatore divino (Sternberg, “Omniscience in Narrative Construction” 772 e 787; cfr. Idel, Il Golem 62).

6All’inizio del XX secolo, il rabbino Judel Rosenberg di Varsavia ha raccolto numerose leggende orali che circolavano nell’ambiente ebraico ashkenazita, ma già nel secolo precedente erano state pubblicate varie opere che attribuiscono la creazione del Golem al rabbino Loew (cfr. Neubauer). «Sono dunque la creatività letteraria di Rosenberg e di Bloch, e allo stesso tempo gli sforzi messi in opera da Bloch per divulgare questi scritti, che fecero sì che la leggenda si diffondesse nel largo pubblico» (Idel, Il Golem 268-69).

7Un processo di diffusione analogo avviene per altre creature che fino a questo momento erano parte del folclore locale di altre culture, come ad esempio il vampiro, esportato dalla mitologia dell’Europa orientale e trasformato in mostro romantico da John Polidori con il romanzo The Vampyre (1819).

8Cfr. Meyrink, Der Golem, del 1915 (ma la storia era stata pubblicata a puntate sulla rivista Die weissen Blätter negli anni 1913-14). Celeberrimo è stato anche il film espressionista di Paul Wegener, The Golem: How He Came into the World del 1920; è nota anche l’esistenza di due altri film dello stesso autore sempre sul tema del Golem, uno del 1914, l’altro del 1917, ma entrambi sono andati perduti.

9Il termine robot deriva dal ceco robota che vuol dire «lavoro servile» (“Robot”).

10È questo uno dei meccanismi retorici fondamentali della fantascienza (cfr. Csicsery-Ronay, Jr.)

11L’epistemologia e la teorizzazione che applico per comprendere il funzionamento del «mostruoso» sono di tipo costruttivista, ispirate ai lavori di Gregory Bateson (Mind and Nature), Meir Sternberg (“Proteus in Quotation-Land: Mimesis and the Forms of Reported Discourse), Darko Suvin (Metamorphoses of Science Fiction: On the Poetics and History of a Literary Genre) e Francesco Orlando (si veda soprattutto Illuminismo, barocco e retorica freudiana, ma anche Per una teoria freudiana della letteratura). L’obiettivo di questo paragrafo è di identificare alcune configurazioni tra forme retoriche e funzioni estetico-cognitive che siano pertinenti nella ricezione del mito del Golem.

12In questa definizione, e nelle successive citazioni dallo stesso autore, vi sono due semplificazioni per il discorso da me fatto, dovute al fatto che il saggio si occupa di fantascienza, un modo discorsivo caratterizzato da «cognitive estrangement» e «sense of wonder» (cfr. Suvin, Metamorphoses of Science Fiction). Estendendo il modello proposto da Csicsery-Ronay Jr. ad altri modi discorsivi è possibile includere anche il polo dialettico complementare, ossia un effetto di orrore, ma anche una trasgressione di tipo estetico, non solo cognitivo.

13Cfr. la teoria della «Uncanny valley» di Masahiro Mori, per cui vi è una soglia oltre la quale la somiglianza tra antropoidi artificiali e umani diventa perturbante.

14È questa una dinamica che ritroviamo rappresentata nei racconti di Levi, quando considerazioni pragmatiche interrompono divagazioni e fantasticherie.

15«Questo nuovo, attivo [ergetico], ideale di conoscenza si contrapponeva nettamente al vecchio ideale contemplativo. […] l’immagine di un universo-macchina (nel senso moderno) minacciò di sgretolare il m uro divisorio fra conoscenza umana e conoscenza divina in modo molto più efficace di qualsiasi concetto contemplativo di conoscenza» (Funkenstein 357-58; cfr. Idel, Il Golem 18).

16«A me [mio padre] comperava la bella serie di Mondadori di divulgazione scientifica […] un primo libro sulla genetica che stava ancora nascendo – siamo all’inizio degli anni trenta» (1984, D 12).

17In Frankenstein, ad esempio, la creazione del mostro è meticolosamente presentata come un procedimento scientifico che ha richiesto molti anni di studio, ma non viene spiegato come il dottore ha animato la creatura: questo è un elemento fondamentale per l’effetto perturbante e horror del racconto.

18La produzione fantascientifica italiana dell’epoca era molto poco nota, e diffusa soprattutto in riviste specializzate (cfr. Biondi).

19Si tenga comunque presente che una lettura dei racconti esclusivamente come opere di fantascienza ridurrebbe la poetica dell’autore ad un unico modo narrativo, mentre una delle cifre della scrittura di Levi è la libertà con cui forme e stili diversi sono combinati tra loro.

20«A novum or cognitive innovation is a totalizing phenomenon or relationship deviating from the authors and implied readers norm of reality. [] its novelty istotalizingin the sense that it entails a change of the whole universe of the tale, or at least of crucially important aspects thereof (and that is therefore a means by which the whole tale can be analytically grasped)»; «if the novum is the necessary condition of SF (differentiating it from naturalistic fiction), the validation of the novelty by scientifically methodical cognition into which the reader is inexorably led is the sufficient condition for SF. [] it can be methodically developed against the background of a body of already existing cognitions, or at the very least as amental experimentfollowing accepted scientific, that is, cognitive, logic» (Suvin,Science Fiction and the Novum68 e 70).

21Cfr. il saggio Argilla di Adamo, in cui si espone la tesi di Graham Cairns-Smith per cui «la vita primigenia, la proto-vita, non sarebbe basata sul carbonio, bensì sui silicati dell’argilla: sì, quella usata da Dio Padre per fabbricare il primo uomo» (1987, OII 1330). Nell’articolo si apprende che le argille studiate da Graham sono in grado di comportarsi come i composti organici e «soprattutto, possono moltiplicarsi riproducendo se stesse», forse addirittura creando vita organica: «Neppure si spaventa Graham della capacità tipicamente vitale di estrarre carbonio ed azoto dall’atmosfera per “organicarli”; se illuminati dal sole, sali di ferro trasformano l’anidride carbonica in acido formico, e l’ossido di titanio trasforma l’azoto in ammoniaca: il resto è un gioco facile…» (1330); non è comunque possibile che Levi sia stato influenzato da tale lettura nella scrittura de Il servo perché il libro di Graham è del 1986.

22«Una macchina autopoietica continuamente genera e specifica la sua propria organizzazione mediante il suo operare come sistema di produzione dei suoi propri componenti» (Maturana e Varela, Autopoiesi e cognizione 131).

23«Levi skilfully manipulates our perceptions of the location of sentience in order to raise questions about responsibility, control, hierarchies of power, and the social implications of technological development» (Ross 107).

24«La halakah è un sistema legale che intende chiarire le particolarità del comportamento ebraico così come è stato esposto, a grandi linee, negli stadi precedenti dell’ebraismo, nella Bibbia e nella Mišnah. Benché abbia per argomento dei particolari relativi a entità e avvenimenti reali, la halakah non rinuncia completamente a esaminare delle situazioni ipotetiche» (Idel, Il Golem 229); quindi anche l’attività di creazione del Golem può essere giustamente oggetto di disquisizioni di questo tipo.

25Ma anche: «un riso profondo gli solleticava il cuore senza apparire sul viso» (OI 715).

26«Queste istruzioni […] sono già scritte, stanno nascoste nei libri della Legge, a te basta scegliere, cioè leggere, eleggere. Non una lettera, non un segno dei rotoli della Legge è a caso: a chi vi sa leggere, tutto appare distinto, ogni impresa passata, presente e futura, la formula e il destino dell’umanità e di ogni uomo, e i tuoi, e quelli di ogni carne, fino al verme cieco che tenta la sua via per mezzo il fango» (711-12).

27«Giorno per giorno, anzi notte per notte, il Golem andava prendendo forma, e fu pronto nell’anno 1579 dell’Era Volgare, 5339° della Creazione; ora, 5339 non è proprio un numero primo, ma quasi, ed è il prodotto di 19, che è il numero del sole e dell’oro, per 281, che è il numero delle ossa che compongono il nostro corpo» (712-13). Cfr. «Ricordiamo in proposito che, in certi passaggi del Sefer Yesirah, si parla della corrispondenza tra le membra, che rappresenterebbero il polo yesur [creatura], e le lettere che designano chiaramente il dibbur [linguaggio]. Il rapporto analogico tra le membra e le lettere e la polarizzazione yesur-dibbur permette di vedere in yesur un modo di designare un antropoide» (Idel, Il Golem 36).

28Tale aspetto è una forma antropopoietica di costruzione dell’altro come immagine di se stessi, un tratto che rovescia le forme di antropopoiesi in cui è il sé che viene costruito includendo l’immagine che gli altri ne hanno (cfr. Il fabbricante di specchi, 1985, RS, OII 894-97).

29Sull’interesse di Levi per la cibernetica cfr. il saggio Il brutto potere, in cui è proposto l’esempio dello scaldabagno, usato anche da Wiener per spiegare il funzionamento delle macchine che si autoregolano (1983, OII 1203-07). Ma vi è anche un accenno antecedente alla stesura de Il servo: «si sta cucinando il cervello umano in tutte le salse. Freud, Pavlov, Turing, i cibernetici, i sociologi, tutti a manipolarlo, a denaturarlo, e le nostre macchine cercano di copiarlo» (Pieno impiego, 1966, SN, OI 518-19); il commento è pronunciato da Simpson, ma è percepibile l’ironia del narratore nei confronti del personaggio mosso dall’interesse economico di brevettare una propria idea alternativa alle macchineintelligenti. Negli stessi anni altri letterati che hanno dimostrato interesse per questa disciplina sono stati Gillo Dorfles, Umberto Eco e Italo Calvino (cfr. Antonello, “Cibernetica e fantasmi” 194).

30Un tentativo esplicito di applicare la teoria evoluzionistica di Darwin all’informatica è stato fatto nel 1975 da John H. Holland, il quale ha coniato il termine «algoritmo genetico».

31«[P]rocreò un gran numero di figli, uno dei quali fu progenitore di Carlo Marx, di Franz Kafka, di Sigmund Freud e di Alberto Einstein, e di tutti coloro che nel vecchio cuore dell’Europa inseguirono la verità per vie ardite e nuove» (710).

32«Per fare un uomo, la via è più lunga, perché le istruzioni sono più numerose: ma non sono infinite, essendo inscritte in ogni nostro minuscolo seme, e questo il rabbino Arié lo sapeva, poiché si era visti nascere e crescere intorno figli numerosi, ed aveva considerato le loro fattezze» (711, corsivo mio). Cfr. il principio di funzionamento del Mimete in L’ordine a buon mercato (1964, SN, OI 449), anch’esso ispirato all’ingegneria genetica.

33In un certo senso le tre figure di Prometeo, Arié e il Golem sono simili: il titano è conosciuto per la propria hybris ma in alcune versioni del mito egli è un servitore di Zeus, che esegue l’ordine di creare l’uomo dall’argilla (Ovidio I, v. 81; Apollodoro I, 7, par. 1); Ariè segue la Legge ma fa anche di testa sua compiendo gesti che potrebbero infrangerla; e il Golem non obbedisce sempre alle richieste del proprio padrone. Si noti che in questo racconto tale aspetto di curiosità trasgressiva è un tratto attribuito alla donna, a Eva (OI 713), in accordo al contesto culturale e religioso dell’ebraismo. Nell’uomo Arié, quindi, esso è innato poiché trasmesso ereditariamente da Eva ai propri figli tramite il peccato originale; mentre nel Golem la curiosità è esplicitamente esclusa dalle facoltà infusegli dal rabbino ed è quindi un tratto sviluppato autonomamente perché presente nel Tetragramma. Inoltre, se si considera il Golem come «immagine dell’uomo» (maschio) la questione assume delle implicazioni etiche e ontologiche degne di riflessione, soprattutto in merito alla concezione della donna che ne emerge, liberata dalla colpa di tramandare il peccato originale, dato che anche il Golem è un trasgressore pur non discendendo in alcun modo da una donna.

34Il carattere dei soldati è timoideo, devono sottostare ai razionali governanti come i cani ai pastori, combattendo e obbedendo (Platone, Repubblica v. 440c). Sarebbe interessante continuare il confronto con il testo di Platone e, soprattutto, constatare le diversità in merito al ruolo della razionalità e alla concezione del potere.

35«Come altri tipi di pratiche mistiche o magiche in seno all’ebraismo, le tecniche del golem ignorano tutti i tipi di elementi rituali analoghi ai riti descritti nelle opere giuridiche ebraiche. Le azioni volte a creare un antropoide non sono descritte come l’impresa di maestri che hanno già raggiunto il culmine della perfezione religiosa e non sono nemmeno condizionate dall’esecuzione di riti a carattere strettamente purificatorio o catarchico [sic]. I vari riti connessi al golem costituiscono un campo separato che non implica obbligatoriamente la partecipazione dell’operatore a un gruppo religioso più ampio» (Idel, Il Golem 278-79).

36Cfr. i riferimenti a caos, ordine, e alla probabilità dell’origine della vita come evento unico nel saggio L’asimmetria e la vita (1984, OII 1231-41), articolo divulgativo in cui Levi espone l’argomento della sua tesi di laurea; l’interesse per il tema risale dunque al 1943.

37Il fabbro di se stesso, racconto che in Vizio di forma precede Il servo, si conclude con l’affermazione che l’uomo dovrà fabbricarsi da la collera che gli sarà necessaria a combattere le ingiustizie ed evitare le sofferenze; nel Golem, invece, tale virtù è innata perché gli viene trasferita dal rabbino, il quale la trova dentro se stesso. Tale scelta può essere un indice di un quesito chiave del racconto: come si comporta una creatura razionalmente programmata per seguire delle norme ritenute giuste (la Legge) di fronte alle circostanze e alle contraddizioni della vita?

38Cfr. l’«obbedienza cadaverica» di Peirani nel racconto Le nostre belle specificazioni (1968-70, VF, OI 668).

39Sarebbe interessante istituire un paragone con la nota dialettica hegeliana signore-servo, anche perché il filosofo tedesco ritiene che nella religione ebraica il rapporto tra uomo e Dio sia da intendersi in questi termini, ma non credo che questo possa contribuire più di tanto alla comprensione del racconto leviano (cfr. Hegel, “La positività della religione cristiana” e Fenomenologia dello spirito).

40«Le mani sono il veicolo di materia ed esperimento, che si uniscono per formare il fine autentico dell’invenzione. Le mani fanno cose,l’uomo è artefice, essere umano è sperimentare, forgiare dalla materia, inventare, costruire» (Gordon 162). Cfr. «Le nostre mani erano rozze e deboli ad un tempo, regredite, insensibili: la parte meno educata dei nostri corpi. […] ignoravamo il peso solenne e bilanciato del martello, la forza concentrata delle lame, troppo prudentemente proibite, la tessitura sapiente del legno, la cedevolezza simile e diversa del ferro, del piombo e del rame. Se l’uomo è artefice, non eravamo uomini: lo sapevamo e ne soffrivamo» (Idrogeno, 1968, SP, OI 759-60).

41Un’interpretazione delle azioni del Golem alternativa a quella batesoniana può essere data in termini freudiani, ossia come conflitto tra logica razionale e logica simmetrica; opzione suggerita anche da Federico Pellizzi (213). Sull’arguzia come formazione di compromesso, cfr. Freud, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio e Matte-Blanco.

42Epimenide era un cretese, il quale affermava che i cretesi mentono sempre.

43La distinzione fra tipi logici fu proposta come metodo per il superamento dei paradossi logici da Whitehead e Russell (Principia mathematica) e adottata anche da Bateson.

44 Per una lettura postumanista delle opere leviane, si vedano Druker, Primo Levi and Humanism after Auschwitz 132; Ross 8; e Pianzola, “Il postumanesimo di Primo Levi”.

45Tra i vari esempi, si veda l’invito alla moderazione e alla responsabilità pronunciato dall’anziana zanzara de Le sorelle della palude (1977, L, OII 142-44).

46Un esempio negativo di schismogenesi simmetrica è citato in Lilít: «Pare insomma che sia successo come in una lite, quando a un’offesa si risponde con un’offesa più grave, e così la lite non finisce mai, anzi cresce come una frana» (1979, L, OII 22-23).

47«[O]gni regime retto dal calcolo, non può che essere un meccanismo servile, perché prevedibile nei suoi gesti, un robot, adatto appunto alla corvée», e «per Levi il Golem (almeno come lo concepiamo oggi) rimane e rimarrà sempre un servo» (“La materia, la mano, l’esperimento” 102 e 101, corsivi originali).

48Circa un anno dopo la composizione di La fuggitiva Levi scrive effettivamente una poesia dal titolo Annunciazione (1979, AOI, OII 552), in cui un angelo visita la madre di Hitler incinta.

49«Masoero si sentì montare il sangue alla testa per la rabbia, e subito dopo per la vergogna di aver provato rabbia: non doveva, proibiva a se stesso di albergare un’invidia e una gelosia così abiette» (638).

50Il primo articolo sul tema è del 1970 (Maturana,Biology of Cognition) ma il lavoro più famoso è pubblicato nel 1980 (Maturana e Varela, Autopoiesi e cognizione).

51Come per Maturana e Varela, la capacità operativa è ciò che mantiene in vita una macchina vivente: «Le macchine autopoietiche sono unità, a causa della loro specifica organizzazione autopoietica, e solo a causa di essa: il loro operare specifica i loro propri confini nei processi di auto-produzione»; inoltre, i due studiosi accettano «l’esistenza di sistemi viventi come una prova esistenziale della fattibilità della generazione spontanea di sistemi autopoietici» (Autopoiesi e cognizione 133 e 151). L’ipotesi di Levi e quella dei due biologi cileni sono entrambe elaborazioni della teoria evoluzionistica di Darwin.

52Il fatto che il principio autopoietico della Rete sia la comunicazione rende la proposta di Rostagno una teoria più estesa di quella di Maturana e Varela, anticipando le riflessioni del sociologo Niklas Luhmann, secondo il quale la comunicazione è il processo attraverso il quale si costituiscono i sistemi sociali: la Rete è quindi allo stesso tempo un sistema vivente e un sistema sociale.

53Cfr. Le sorelle della palude (1977, L, OII 142-44) e L’amico dell’uomo (1962, SN, OI 456-59) per un monito contro gli eccessi dei parassiti.

54Cfr. «Chi può dire che la macchina a vapore no possieda una qualche sorta di coscienza? Dove comincia e dove finisce la coscienza? Chi può fissare il limite? Chi può fissare un qualsiasi limite? Non sono forse le cose intessute tutte l’una nell’altra? E le macchine non sono legate in mille modi alla vita animale?» (Butler 173); Butler è nominato esplicitamente nel racconto di Levi come autore di «una precoce e indimenticabile pagina» sull’argomento (OI 445).

55Anche l’insegnante vive un sentimento ambivalente: «Sapeva che convocare Mario ad un colloquio a quattr’occhi era suo dovere, ed insieme la sola cosa giusta da fare; insieme, sentiva che qualcosa in lei temeva questo incontro, e cercava codardamente di rimandarlo» (595).

56Il racconto inizia con Mario che suggerisce a Renato le risposte di un compito in classe, e poi pianifica di andare a raccogliere dei bruchi per allevarli e «aspettare che si facessero il bozzolo» (589).

57Il bisogno del contatto umano è un tema fortemente presente anche in altri racconti di Vizio di forma: ad esempio, in Protezione (1968-70, OII 573-77) e Lumini rossi (1968-70, OII 626-29).