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3 Prometeo

questo libro fa vedere che l’avventura c’è ancora, e non agli antipodi; che l’uomo può mostrarsi valente e ingegnoso anche in imprese di pace; che il rapporto uomo-macchina non è necessariamente alienante, ed anzi può arricchire o integrare il vecchio rapporto uomo-natura. (L’avventura tecnologica, 1980, RR, OII 1444)

 

1. Prometeo maestro degli uomini

Sebbene Levi non abbia mai insistito particolarmente sulla figura di Prometeo, il mito dell’eroe che ha osato sfidare Zeus e ha donato il fuoco agli uomini è forse quello che si articola in modo più complesso e capillare nei suoi racconti di finzione. All’interno di un percorso che si propone di mettere in evidenza le varie trame fra miti e fenomenologia della creazione, il mito di Prometeo è calzante per varie ragioni e, sopratutto, introduce un aspetto fondamentale della questione: la creazione intesa come intreccio fra poiesi e antropopoiesi, due dimensioni ampiamente esplorate nei racconti di Levi. Le occorrenze delle varie forme della creazione e dell’invenzione «si richiamano reciprocamente e, alla fine, pongono gli stessi interrogativi, forse contenuti al meglio nella connessione tra il fare dell’uomo e il suo farsi, tra l’uomo come “fabbro” e l’uomo come “fabbro di se stesso”, “faber sui” [Il fabbro di se stesso, 1968, VF, OI 702; François Rabelais, 1964, AM, OII 645]» (Gordon 173)1.

In tale prospettiva, il mito di Prometeo offre un’enorme quantità di risorse retoriche e tematiche, dunque non sorprende che l’inventio di Levi si rivolga di frequente ad esso. Prometeo è il previdente e il preveggente, figura «dal pensiero complesso e accorto» (Th., v. 5112), «un essere formidabile, capace di trovare scampo anche nelle situazioni impossibili» (Pr., v. 59), colui che dona agli uomini «le cieche speranze» per sopportare la loro condizione mortale (v. 250), e il fuoco, «maestro di ogni arte» (vv. 110-11).

Non solo «i mortali possiedono tutte le arti grazie a Prometeo» (vv. 505-06), e quindi devono a lui tutte le proprie abilità e competenze; l’eroe greco è anche di esempio agli uomini per come sceglie di usare la sua capacità di giudizio, lastuzia e l’abilità pratica che lo contraddistinguono. Prometeo è un esempio etico di chi sa assumersi la responsabilità delle proprie azioni: nella tragedia di Eschilo egli lo afferma («Volevo, volevo farlo il mio sbaglio: non intendo negarlo!», v. 265) e il coro lo ribadisce («la scelta è stata tua: troppo onore hai fatto ai mortali», vv. 543-44). Le grandi abilità e l’atteggiamento responsabile fanno di Prometeo un eroe estremamente in sintonia con l’etica di Levi3, ma il titano è celebre anche per un aspetto che non si addice ad essere incluso fra “le virtù dell’uomo normale”: la hybris, l’eccesso che viola il precetto greco della giusta misura (méden agàn), un valore molto importante anche per Levi. Tale eccesso è enfatizzato anche dal commento del coro, il quale rimprovera a Prometeo il «troppo onore» concesso agli uomini, un gesto che esorbita dall’ordine imposto da Zeus e dall’etica del dono, poiché i mortali non possono contraccambiare il favore ricevuto (934).

Per tale motivo, nella tragedia di Eschilo non vi è corrispondenza tra caratteristiche dell’eroe e valori etici proposti dall’insieme dell’opera, tra funzione del personaggio e funzione del discorso. Questa discrepanza nella costruzione retorica della narrazione impone di considerare non solo la figura di Prometeo, bensì il mito nella sua totalità come parte dell’enciclopedia a cui Levi attinge per le sue variazioni sul tema della creazione. Inoltre, non è solo la tragedia di Eschilo il testo a cui rivolgersi per comprendere il rapporto di Levi col mito, poiché un racconto così celebre come quello di Prometeo è narrato anche in altri testi ampiamente disponibili e noti: la Teogonia e le Opere e giorni di Esiodo, il Prometeo incatenato di Eschilo e la Biblioteca di Apollodoro.

In merito al rapporto fra Prometeo e gli uomini, è opportuno ricordare che nelle fonti che precedono cronologicamente la tragedia di Eschilo l’eroe non agisce spinto da amore per gli uomini ma per una gara di abilità e di inganni con Zeus (Th., vv. 534-616; Op., vv. 42-105). Tale aspetto si riflette in alcuni dei personaggi prometeici di Levi, i quali agiscono egoisticamente per provare la propria abilità, dunque cedendo alla hybris. In questi casi, l’aspetto filantropico, quando viene menzionato, è sbeffeggiato. Ad esempio, Alberto, il compagno di Levi nel lager, sostiene che «Prometeo era stato sciocco a donare il fuoco agli uomini invece di venderlo: avrebbe fatto quattrini, placato Giove ed evitato il guaio dell’avvoltoio» (Cerio, 1974, SP, OI 863). Alberto è un Prometeo a tutti gli effetti:

risalta come un eroe nell’antieroico mondo del campo di concentramento, per il suo ottimismo costruttivo, la sua resistenza al sistema del campo, ragionata e istintiva al tempo stesso [analoga alla resistenza di Prometeo al nuovo ordine imposto da Zeus], per la sua forza e la sua buona volontà, la sua libertà e, infine, per “la sua astuzia” […]. Per tutte queste qualità, Alberto è una specie di protettore per Levi nel campo, simile a Prometeo che protesse l’uomo dalla volontà distruttiva di Zeus. (Gordon 168)

Tuttavia, bisogna ricordare che il mondo del lager è un mondo in cui ogni forma ed ogni comportamento sono “viziati”, esasperati, deformati; e infatti Alberto-Prometeo non dona gratuitamente agli altri come invece fa l’eroe di Eschilo. Alberto non è un eroe tragico, non vi è pathos nella sua azione scenica; è invece personificazione delle abilità prometeiche. Sembra che Alberto agisca sfidando i Nazisti, in un gioco di abilità con cui vuole mostrare di possedere ancora la propria libertà a dispetto del loro potere: «Ho sempre visto, e ancora vedo in lui, la rara figura dell’uomo forte e mite, contro cui si spuntano le armi della notte» (1947, SQU, OI 51). Nel contesto del lager e della narrazione leviana Alberto è veramente un eroe, ma la sua generosità appare un effetto collaterale della titanica impresa di mantenersi umano e resistere al regime nazista. Paradossalmente, contropartita del fatto di avere tale funzione è che il personaggio risulta inevitabilmente idealizzato e “non-umano”, poiché non sembra soffrire per la propria condizione – e la sofferenza è l’unica certezza dell’esistenza (Un testamento, 1977, L, OII 147) – anzi, commentando il mito greco addirittura schernisce l’unico tratto “umano” che la tradizione, da Eschilo in poi, attribuisce a Prometeo: la filantropia.

Il personaggio di Alberto, però, non è certo interpretabile e giudicabile alla stregua delle altre figure disumanizzate del lager. La sua ipostatizzazione eroica è dovuta al fatto che la funzione del personaggio è legata al contesto scenico: in un ambientazione extra-ordinaria come quella del lager diventa importante affermare la possibilità di sfuggire all’ordine vigente, c’è bisogno di un Prometeo che usi il proprio ingegno – e non la forza e la violenza (kratos e bia), strumenti dei nazisti e di Zeus – per scovare quelle «sacche d’eccezione» (Il rito e il riso, 1974, AM, OII 798) nel sistema lager. In Eschilo, «sono la sottomissione al potere del destino e il suo riconoscimento che fanno del Titano un eroe da tragedia» (Calame, Prométhée généticien 62). Nell’opera di Levi, invece, parlando di quella «stagione diversa» (Cerio, 1974, SP, OI 862) che è stata Auschwitz, l’esigenza non è quella di rappresentare l’accettazione della condizione di prigionia, quanto piuttosto di evidenziare come, per sopravvivere, sia necessario non dimenticare ciò che è tipicamente umano, la speranza e l’ingegno donati da Prometeo-Alberto, e la dignità che deriva dal loro esercizio4.

La valenza del mito in questo brano, però, non è circoscritta al passato. Nel momento in cui il tempo della narrazione ritorna al presente, in un mondo in cui Levi è un uomo libero, vi è un indizio testuale che ridimensiona il valore eroico di Alberto. Infatti, il motto nei confronti della “sciocchezza” di Prometeo («era stato sciocco a donare il fuoco agli uomini invece di venderlo»; Cerio, 1974, SP, OI 863) dissimula l’ironia di Levi, il quale simpatizza con la genuina generosità dell’eroe greco e controbatte alle parole di Alberto affermando che su di lui «[q]uesto discorso, della necessità di essere astuti» ha sempre avuto un «modesto risultato; anzi, [il] risultato paradosso di sviluppare in [lui] una pericolosa tendenza alla simbiosi con un autentico astuto, il quale ricavasse (o ritenesse di ricavare) dalla convivenza con [lui] vantaggi temporali o spirituali» (863). In questa prospettiva Alberto è un autentico astuto e le sue azioni non sono eroiche, perché motivate, almeno in parte, da interessi personali.

Il mito, dunque, si presenta stratificato e operante su più livelli discorsivi, non concedendo di stabilire una funzione univoca per esso. Le forme mitiche, anche attinte da narrazioni differenti (Esiodo e Eschilo, nel caso appena citato), confluendo in un nuovo racconto possono svolgere varie funzioni e interagire tra di loro grazie a quei processi di trasformazione che il nuovo contesto permette di attuare. Un’organizzazione retorica di questo tipo, in cui vi è una tensione tra le specifiche funzioni degli elementi della narrazione e la globale funzione etica del discorso, è riscontrabile anche in molti altri racconti. Per la complessità delle connessioni attivate dai temi affrontati, per la loro attualità nelle contingenze storiche in cui Levi viveva e per la ricchezza di sfumature delle qualità e delle azioni dell’eroe, il mito di Prometeo si offre come un’enciclopedia dotata di una notevole densità semiotica, la quale può quindi essere richiamata in una grande varietà di narrazioni.

Ho voluto soffermarmi su un esempio tratto da un racconto storico di Levi perché le caratteristiche riscontrabili in Alberto sono successivamente declinate anche nei racconti di finzione, in situazioni di volta in volta diverse: come attributi di uno o più personaggi, ponendo l’accento su qualità di volta in volta diverse, in alcuni casi esplorandone le potenzialità, in altri soppesandone le conseguenze. A volte è l’aspetto mitico dei doni prometeici ad essere valorizzato, in altre il racconto insiste sulla tragicità degli eroi in scena, ossia sulla personale assunzione di responsabilità del proprio destino. Prima di considerare le occorrenze del mito nei racconti di finzione, però, è utile riflettere su quali siano i doni di Prometeo agli umani, valutando il loro ruolo in relazione all’epistemologia e all’etica di Levi, in particolare in riferimento alla costruzione dialogica fra poiesi e antropopoiesi, fra creazione e creazione di sé.

 

2. Poiesi: homo faber

Una delle caratteristiche costitutive dell’uomo è di essere “fabbro”: secondo una delle «specificazioni» della natura umana date da Levi, «l’uomo è costruttore di recipienti; una specie che non ne costruisce, per definizione non è umana» e tale competenza tecnica è «indizio di due qualità che, nel bene e nel male, sono squisitamente umane. La prima è la capacità del pensare al domani. […] La seconda […] è la capacità di antivedere il comportamento della materia» (Una bottiglia di sole, 1985, RS, OII 958). Due talenti prometeici senza dubbio: il primo reso possibile solamente dal dono delle «cieche speranze» (Pr., v. 250), le quali rendono la vita desiderabile agli occhi degli uomini, capaci di dimenticare la propria condizione mortale e quindi di progettare, di “gettare avanti” il proprio pensiero. Il secondo è una variante limitata della virtù onomastica del titano: capacità di prevedere solamente in termini statistici, con una certezza solo approssimativa, che non deriva da un qualche potere soprannaturale, bensì dall’esperienza e dal confronto con la materia e, quindi, anche dall’errore (Nichel, 1974, SP, OI 801).

Il commento a Eschilo di Davide Susanetti riassume bene i motivi per cui il mito di Prometeo è importante per Levi:

[m]ettendo retoricamente in primo piano la propria persona e il proprio ruolo […] Prometeo si autorappresenta e si celebra come il grande sapiente e il generoso benefattore. […] Egli si aspetta il plauso e l’ammirazione del coro che lo ascolta, del gruppo delle divine Oceanine che sono venute a visitarlo. La sua tirata dovrebbe riempirle di meraviglia. Ma l’effetto sortito è diverso e, con ciò, anche l’angolatura da cui guardare questo prodigioso arsenale di scoperte.

Le Oceanine non hanno, in questa occasione, parole di lode e non si effondono, a loro volta, in una celebrazione del progresso. Si limitano a osservare come Prometeo sia stravolto dal dolore e abbia smarrito la sua intelligenza […]. La luce della tecnica si eclissa nella dimensione del delirio e della confusione mentale, nella radicale impotenza che lo stesso protagonista deve ammettere. […] L’azione di Prometeo appare come un inutile dispendio: un errore di valutazione che conduce allo scacco e che dimentica i rapporti di forza. (18-19, corsivi miei)

I termini che ho enfatizzato ricorrono più di una volta nei saggi e nei racconti di Levi, sono i capisaldi della sua etica, in particolare degli aspetti creativi di essa. Dolore ed utilità sono i parametri con cui giudicare le azioni e il valore degli uomini; i cambiamenti di prospettiva e un procedere per prove ed errori sono il metodo promosso dalla sua etica5.

Nel Prometeo incatenato di Eschilo, l’eroe illustra quale fosse la condizione degli umani prima che egli concedesse loro doni preziosi per riscattarsi dalla miseria.

Nello stato di natura precedente all’era della civilizzazione prometeica […], [d]ifesa e insieme limite di questa loro condizione era il difetto di articolazione percettiva, una completa ottusità dei sensi, l’azzeramento delle facoltà estetiche e intellettive: privi di parola (νηπίους, v. 443), privi di vista e di udito (vv. 446-47), privi di discernimento (vv. 454 sgg.). Sprovvisti di organi e di mezzi che li rendessero abili […]. (Centanni 929-30)

Gli esseri umani, dunque, sono incapaci di sentire e di interpretare, prima ancora che di fare, ed è proprio in questo ordine che, tramite l’insegnamento di competenze e la propria capacità di inventare e creare, Prometeo offre agli uomini la possibilità di uscire dallo stato di minorità che li caratterizza (Calame, Prométhée généticien 37). Insegna loro i saperi detti sophísmata (Pr., vv. 459 e 470) arti semiotiche che richiedono abilità e ingegnosità, e grazie alle quali è possibile sviluppare le facoltà intellettive (gnóme), arti fra cui vi sono il riconoscimento e l’interpretazione dei segni della natura (sémata, v. 498) – inventa per loro i numeri, le lettere e la scrittura, «memoria di tutto, madre feconda della poesia» (v. 461). Tra i doni vi sono poi i mechanémata (v. 469), mezzi tecnici inventati dal titano – giogo, carro e nave – che rendono possibili molte delle attività umane. «Tutti i prodotti dell’invenzione di Prometeo dipendono dall’intelligenza artigiana, dalla métis […]. Corrispondono a dei saperi tecnici (technai) e a dei mezzi pratici (póroi) che permettono agli uomini mortali di sfuggire alle aporie del non-civilizzato» (Calame, Prométhée généticien 38)6.

Oltre a tutte le abilità e agli strumenti, dalle opere di Levi emerge più di ogni altra cosa che gli esseri umani hanno appreso da Prometeo la sua operosità e l’attitudine a tradurre in azione ogni moto dell’ingegno. I racconti presentano numerosi e variopinti esempi di questa disposizione verso il mondo, ma essa è riscontrabile anche nei saggi. Particolarmente suggestivo è il fatto che il valore dell’uomo sia valutato proprio in questi termini, su una scala che va dagli ardimentosi viaggi spaziali alle più urgenti sfide terrene:

Siamo animali singolari, solidi e duttili, spinti da impulsi atavici, e dalla ragione, e insieme da una «forza allegra» per cui, se un’impresa può essere compiuta, essa, sia buona o cattiva, non può essere accantonata ma deve essere compiuta.

Questa, del volo lunare, è un collaudo: altre imprese ci attendono, opere di coraggio e d’ingegno, ben altrimenti impegnative in quanto necessarie alla nostra stessa sopravvivenza; imprese contro la fame, la miseria, il dolore. Devono essere sentite, anche queste, come una sfida al nostro valore, e anche queste, poiché possono, debbono essere compiute. (La luna e l’uomo, 1968, RS, OII 928)7

Non è dunque senza importanza per un confronto con l’etica leviana il fatto che Eschilo presenti i doni prometeici come degli insegnamenti, delle invenzioni e delle scoperte aventi valore in quanto utili (ophelémata, vv. 251, 501, 507 e 613)8. E sarà interessante vedere come nei racconti venga di volta in volta valutata l’utilità, in base a quali parametri (sociali, economici, morali, ecc.) e all’interno di quali sistemi di relazioni (individuale, comunitario, ecologico, ecc.).

In generale, credo che il rapporto di Levi con il mito di Prometeo si configuri come una trasformazione retorica che circoscrive gli elementi del mito alla poiesi umana; un’operazione ermeneutica che accorda il mito ad un’etica della misura e del contegno. Ma questo ridimensionamento non è affatto una limitazione al pensiero di Levi, al contrario, è il tratto specifico della sua etica. Il pensare al futuro è una «poiesis prefigurante» (Centanni 931), facoltà di immaginare e progettare, condizione necessaria di ogni attività umana. Da un’altra prospettiva, inoltre, si può affermare che il misurarsi artigianalmente con la materia porta anche alla conoscenza di sé e dei propri limiti, offrendo la possibilità di migliorarsi (Ferro, 1974, SP, OI 778). In accordo alla poetica di Levi, è «in termini tecnico-operativi e pragmatici che potremo dunque cercare di accostarci alla natura umana» (Porro, “La cultura ibrida di Primo Levi” 125), ossia nei termini di una antropopoiesi.

 

3. Antropopoiesi: homo faber sui

Molto è stato già detto sulla convinzione di Levi che l’uomo debba essere faber sui e costruirsi dalla radici; così come è stato sottolineato anche lo stretto rapporto di questo principio etico con la valorizzazione dell’abilità artigiana e di un atteggiamento pragmatico. In particolare è stato posto l’accento su come tale concezione sia dovuta alla formazione scientifica dell’autore, alla passione per l’alpinismo ma, in modo non trascurabile, anche alle letture di gioventù9. A mio avviso, però, è il mito di Prometeo il topos privilegiato di molte riflessioni su come la capacità poietica degli uomini si trasformi in antropopoiesi, ossia su come la téchne intervenga nei processi di costruzione di identità.

Con il termine «antropopoiesi» si indica l’insieme «dei diversi modi con cui l’uomo costruisce se stesso socialmente e culturalmente[;] questa categoria include tutte le procedure, tecniche e simboliche, che permettono all’uomo di modificare e migliorare la propria “natura”» (Calame, Prométhée généticien 22). Tale nozione, derivata dal campo dell’antropologia e dell’etnografia, non è distante dagli interessi e dal pensiero di Levi, come dimostrano le numerose risonanze che si possono avvertire nel seguente brano di Clifford Geertz:

la cultura, invece di essere aggiunta, per così dire, ad un animale ormai completo, o virtualmente completo, fu un ingrediente, e il più importante, nella produzione di questo animale. […] Tra il modello culturale, il corpo e il cervello fu creato un effettivo sistema di retroazione in cui ciascuno foggiava il progresso dell’altro, un sistema del quale l’interazione tra l’uso crescente degli attrezzi, la mutante anatomia della mano e la espansione della rappresentazione del pollice sulla corteccia cerebrale è soltanto uno degli esempi più vistosi. Sottomettendosi alla guida di programmi simbolicamente mediati per produrre manufatti, organizzare la vita sociale o esprimere emozioni, l’uomo determinò, anche se inconsciamente, le fasi culminanti del suo destino biologico. Letteralmente, anche se senza saperlo, creò se stesso. (62-63)

Proprio come raccontato nel mito di Prometeo, l’uomo è un essere incompleto per natura, che agisce tramite abilità tecniche e ingegno, e così facendo contribuisce al proprio sviluppo biologico. Nel racconto Il fabbro di se stesso l’evoluzione umana è presentata in questi termini, come il frutto di un processo in cui necessità naturale, volontà e uso delle technai sono inseparabili: «se io so che una cosa deve essere fatta, voglio farla, ed essa si fa» (1968, VF, OII 703). Natura e tecnica seguono la stessa logica: l’evoluzione delle specie è un processo per tentativi ed errori e ciò vale anche per gli sforzi umani di comprendere il mondo e agire in esso10. Il fabbro di se stesso è colui in cui convergono questi due aspetti dell’universo antropologico, creatura ibrida la cui specificità è di co-evolvere con le proprie creazioni, in un processo di formazione che coinvolge tecnica e natura senza che la prima prevalga sulla seconda. È questa la condizione anche di Prometeo, maestro di tutte le arti ma intimamente legato alla natura: «[e]gli invoca gli elementi [naturali come testimoni della sua pena] in base a un’immediata comunanza con essi […]. È l’immediatezza della parentela e del contatto amichevole e, appunto perciò, la più completa immediatezza umana […]» (Kerényi, “Prometeo” 233; Pr., vv. 88-93). Di fronte ad una legge rigida e assoluta il nomos di Zeus esercitata da un’astratta volontà tramite la potenza (kratos) e la violenza (bia), Prometeo si appella al proprio contatto con la natura, ponendosi come ragione incarnata in opposizione ad una legge che non tiene in considerazione le esigenze e i desideri umani11. La colpa di Prometeo è quella di aver oltrepassato i limiti posti da Zeus e per questo si ritrova nella condizione di impotenza tipica degli uomini:

E allora si chiarisce subito, che quell’ordinamento cui questa misura appartiene, è la causa delle sofferenze di Prometeo che non ha fatto nulla di diverso da ciò che noi siamo costretti di fare. Egli si è messo nella posizione di noi, uomini. Le sue azioni e le sue sofferenze non erano che le inevitabili conseguenze di questa posizione. E appunto perché sono le conseguenze di essa, le sue sofferenze, viste da quella posizione, sono un patire ingiustizia.

[…] [L]a sua particolare maniera d’esistenza priva l’uomo di una capacità: la capacità di soffrire senza sentire in ciò ingiustizia, una capacità degli animali, la cui esistenza, tra piacere e dolore, s’inquadra nell’ordinamento di Zeus. (Kerényi, “Prometeo” 235)

L’uomo, dunque, come Prometeo, vuole ribellarsi a quell’ordine disincarnato e ingiusto, ad una volontà che non è disposta ad ascoltare le ragioni altrui. E il mito insegna che per fare ciò egli deve riconoscere il valore della natura, proprio come solo gli elementi naturali possono essere testimoni compassionevoli della sofferenza ingiusta di Prometeo. Tale aspetto dell’etica leviana è stato rimarcato da Mario Porro:

La possibilità e il dovere di autodeterminarci non possono spingersi fino alla perdita delle nostre radici biologiche. Chi coltiva l’illusione di poter sfuggire ai vincoli della natura non può che incorrere in una degradazione dell’umano: una volta ridotto a merce, privato di sensazioni e sentimenti, l’uomo diventa facile vittima degli esiti distorti delle sue stesse macchine, suggeriscono tanti racconti di Storie naturali e Vizio di forma. (“La cultura ibrida di Primo Levi” 123)

Per Levi qualsiasi forma di tecnica e di potere che cerchi di dominare la natura è destinato a fallire perché ciò è insensato e distante dalla realtà, in quanto ignora la continuità evolutiva e la stretta interdipendenza che vi è tra cultura e natura.

Gli umani costruiscono da sé il proprio destino, assumendosi la responsabilità delle proprie azioni, e la sola necessità con cui devono convivere è quella della sofferenza, unica certezza dell’esistenza. Una sofferenza dovuta alle azioni umane e agli inevitabili errori di giudizio che si commettono, non a un progetto divino né ad una forza superiore12. Il quadro dipinto da Levi, però, non ha sempre toni tragici: spesso, soprattutto a partire da Vizio di forma, l’uomo tenta di agire in modo “virtuoso” ma è ostacolato da un soggetto collettivo indeterminato. Sono la banalità e l’alienazione che caratterizzano la vita sociale dei personaggi ad opporre una resistenza ostinata alle possibilità creative degli uomini, imprigionati nelle loro vite monotone e insipide; e a volte tali condizioni esterne sono acquisite e incarnate dai personaggi stessi, in una forma inquietante di antropopoiesi:

Azionò il lampeggiatore di sinistra, il quale significava che incominciava una nuova giornata. Si avviò verso il lavoro, e strada facendo calcolò che le lampade rosse di una sua giornata erano in media duecento: settantamila in un anno, tre milioni e mezzo in cinquant’anni di vita attiva. Allora gli parve che la calotta cranica gli si indurisse, come se ricoperta da un’enorme callosità adatta a percuotere contro i muri, quasi un corno di rinoceronte, ma più piatto e più ottuso. (Lumini rossi, 1968-70, VF, OI 628-29)

Sono queste le ultime righe del racconto Lumini rossi, nelle quali è percepibile un effetto perturbante che si insinua nella scena comica con cui termina la narrazione: il lettore sorride della metamorfosi immaginata dall’anonimo protagonista – soprattutto per il contrasto che si crea con il tono piatto e descrittivo dell’intero racconto – ma la facilità con cui ciascuno può immedesimarsi in lui fa sorgere anche un sentimento perturbante, accresciuto dal finale aperto: inizia una nuova giornata, ma per quanto tempo continuerà così la vita? Troveremo la forza di liberarci da questa oppressione?

In più di un racconto sono gli altri o un impersonale ordine della società a porre dei vincoli all’ingegno e alla creatività umana, limitando dunque negativamente la libertà dei rapporti con gli altri e con il mondo naturale; l’enunciazione più esplicita di tali subdoli vincoli, però, è riscontrabile in una poesia:

Colui che m’ha avvinto alla terra

Non scatenava terremoti né folgori,

Era di voce dimessa e piana,

Aveva la faccia di ognuno.

L’avvoltoio che mi rode ogni sera

Ha la faccia di ognuno. (Sidereus nuncius, 1984, AOI, OII 578)

È Galileo che parla e il riferimento prometeico è palese. Con un’interpretazione della vicenda galileana che può ricordare quella che Brecht mette in scena in Vita di Galileo (652-54), e che echeggia ciò che Levi sostiene ne I sommersi e i salvati (1979-86, OII 1020-28): l’accento non è posto sulla colpevolezza della Chiesa, persecutore effettivo di Galileo, ma sulla colpa che riguarda ogni individuo che rinunci ad usare i propri sensi e la propria ragione per paura di un potere più grande13. Considerando il mito di Prometeo e l’etica di Levi nel loro complesso, si può affermare che questa colpa ricade su chi rinuncia a ciò che rende umani e tradisce «la nostra natura e la nostra nobiltà di fuscelli pensanti» (Covare il cobra, 1986, RS, OII 993).

Oltre che rifiutando la presenza di una forza sovrannaturale che non possa essere contrastata dall’agire umano, Levi mostra di avere un rapporto critico con il mito anche perché non considera Prometeo un eroe completamente positivo14. Anzi, sembra quasi che il titano diventi il simbolo dei rischi continui in cui l’uomo può incorrere nell’usare i propri talenti e nel costruire se stesso. Nonostante Prometeo condivida con gli uomini l’esperienza della sofferenza – oltre che le capacità tecniche – Levi non arriva mai a proporlo come simbolo della condizione umana tout court, ma lo usa solo come metafora per alcuni personaggi le cui azioni hanno esiti ambigui, se non negativi. La macchia della hybris è troppo evidente (forse anche troppo nota ai lettori) perché Prometeo possa servire come araldo dell’uomo. A mio avviso, garantirgli tale ruolo vorrebbe dire sbilanciarsi troppo verso un pessimismo che afferma l’inevitabilità dell’eccesso, verso una libertà che risulta autodistruttiva, invece che condizione di possibilità dell’autodeterminazione.

Chi, dunque, può salvare Prometeo dalla propria libertà senza freni? Chi può arginare un «uomo pericoloso, […] ingegnoso e irresponsabile, superbo e sciocco» (Alcune applicazioni del Mimete, 1964, SN, OI 461)? Levi non propone una sola risposta a tale interrogativo implicito nelle sue opere, ma le soluzioni narrative scelte sono tutte molto simili fra loro, e simili alla vicenda narrata dal mito: i personaggi prometeici vengono a trovarsi in situazioni in cui è impossibile agire, analoghe all’incatenamento del titano: la prigione per il narratore di Alcune applicazioni del Mimete (OI 460), uno stato di catalessi per il dottor Kleber di Versamina (1965, SN, OI 474-75) e per Simpson in Trattamento di quiescenza (1966, SN, OI 566-67), il bombardamento del laboratorio per il dottor Leeb di Angelica Farfalla (1962, SN, OI 440).

Tenendo in considerazione questi aspetti del mito di Prometeo, le osservazioni che seguono riguarderanno i racconti in cui vi sono influenze del mito a livello tematico e retorico. Ma piuttosto che soffermarsi su aspetti tematici come la convergenza di natura e cultura, i quali rischiano di risultare troppo generici perché possano plausibilmente essere ricondotti a processi di abduzione relativi ad un’enciclopedia specificamente prometeica, credo sia più proficuo concentrarsi su temi e aspetti retorici più specifici, quali gli attributi e i discorsi del titano, la vicenda narrata, e le omologie funzionali più evidenti tra racconto contemporaneo e mito.

 

4. Arte semiotica, preveggenza e cecità umana

I racconti di Vizio di forma presentano tratti prometeici piuttosto marcati e, tra tutte le arti di cui gli uomini hanno ricevuto dono, per il chimico Primo Levi l’abilità più preziosa è quella di manipolare la materia e costruire artefatti. Si è visto come vi siano esplicite dichiarazioni in tal senso: ad esempio, ne Il sesto giorno il primo requisito di progettazione dell’essere umano è la «particolare attitudine a creare ed utilizzare strumenti» (1957, SN, OI 532), peculiarità ribadita anche nel saggio Una bottiglia di sole (1985, RS, OII 958). La rilevanza di tale aspetto è stata sottolineata da molti critici, anche per l’importanza culturale di un atteggiamento pragmatico aperto ai saperi e alle competenze tecnico-scientifiche. Tuttavia, non è possibile trascurare che c’è un’altra téchne che accompagna sempre l’invenzione e creazione di nuove tecnologie: la capacità ermeneutica, ossia la facoltà di capire i segni del mondo, il carattere altrui, il funzionamento delle cose e i misteri dell’ecosistema costituito da tecnica e natura. In breve, l’arte semiotica. Nei racconti, ogni scoperta e ogni congegno realizzato sono sempre accompagnati da un processo ermeneutico. «Nulla è più vivificante di un’ipotesi» (Verso occidente, 1968-70, VF, OI 582) e non vi è racconto che non dia risalto agli sforzi che continuamente facciamo per comprendere i fenomeni intorno a noi. I processi di decodificazione, interpretazione e organizzazione dei segni sono narrati accuratamente, così come anche il ricorso all’ingegno per trovare la chiave di lettura o la soluzione di un problema. Ma non è la conoscenza ottenuta ad essere importante, fondamentale è invece il percorso fatto verso la comprensione l’attività semiotica di osservazione e interpretazione che orienta il misurarsi con la materia imparando dai tentativi fatti e dai propri errori di valutazione.

Gli esempi sono innumerevoli, dal dottor Morandi che cerca di risalire ai ricordi dell’anziano collega Montesanto decifrando gli odori conservati da questo (I mnemagoghi, 1946, SN, OI 401-08), al giornalista che osservando una giraffa in corsa entro il recinto di uno zoo si rende conto «di quanto sia grande il loro bisogno della libertà dei grandi spazi, e di quanto sia crudele costringerli entro le maglie di un reticolato» (La giraffa dello zoo, 1987, OII 1340). I rapporti tra osservazione, interpretazione e sperimentazione sono stati illustrati chiaramente da Antonello nel suo studio sull’epistemologia e gnoseologia di Levi (“La materia, la mano, l’esperimento”), e vorrei qui semplicemente rimarcare come in ogni racconto di finzione si mettano in risalto i processi ermeneutici del rapporto tra l’uomo e l’ecosistema in cui vive: in ogni storia è messa in scena la formulazione di un’ipotesi e la sua verifica teorica o empirica. È questa un’abilità prometeica, come si è visto, e saranno rilevanti per il percorso di lettura qui proposto i casi in cui, oltre all’insistenza sulle capacità semiotiche dell’uomo, vi è un’aggregazione con altri tratti prometeici.

Un caso ricorrente di convergenza di elementi riconducibili al mito riguarda l’occorrenza nello stesso racconto di episodi semiotici di riflessione e interpretazione in connessione a riferimenti all’ignoranza del futuro, alla condizione di cecità degli uomini e al ruolo del destino. Così, ad esempio, ne Il servo si dice: «non una lettera, non un segno dei rotoli della Legge è a caso: a chi vi sa leggere, tutto appare distinto, ogni impresa passata, presente e futura, la formula e il destino dell’umanità e di ogni uomo, e i tuoi, e quelli di ogni carne, fino al verme cieco che tenta la sua via per mezzo il fango» (1968-70, VF, OI 711-12; corsivi miei)15. In Verso occidente il riferimento prometeico è quasi palese:

fra chi possiede l’amore di vita e chi lo ha smarrito non esiste un linguaggio comune. Lo stesso evento viene descritto dai due in due modi che non hanno niente in comune: l’uno ne ricava gioia e l’altro tormento, ognuno ne trae conferma per la propria visione del mondo. […] Noi abbiamo torto, e lo sappiamo, ma troviamo più gradevole tenere gli occhi chiusi. La vita non ha uno scopo; il dolore prevale sempre sulla gioia; siamo tutti dei condannati a morte, a cui il giorno dell’esecuzione non è stato rivelato […]. [Q]uesta è la difesa principale, quella naturale, che ci viene donata insieme con la vita perché la vita ci sia sopportabile. (1968-70, VF; OI 581; corsivi miei)16

Altrettanto palese è la nota chiusura di Procacciatori d’affari:

Accetto, ma vorrei nascere a caso, come ognuno: fra i miliardi di nascituri senza destino, fra i predestinati alla servitù o alla contesa fin dalla culla, se pure avranno una culla. […] Preferisco essere solo a fabbricare me stesso, e la collera che mi sarà necessaria, se ne sarò capace; se no, accetterò il destino di tutti. Il cammino dell’umanità inerme e cieca sarà il mio cammino. (1970, VF; OI 625; corsivi miei).

Meno chiara, invece, è la formula di Protezione: «Mi sento protetta come in una fortezza […]. [C]ontro tutto. Contro gli uomini, il vento, il sole e la pioggia. Contro lo smog e l’aria contaminata e le scorie radioattive. Contro il destino e contro tutte le cose che non si vedono e non si prevedono. Contro i cattivi pensieri e contro le malattie e contro l’avvenire e contro me stessa» (1968-70, VF, OI 577; corsivi miei).

La cecità umana può essere una preziosissima tutela naturale contro l’angoscia della morte, ma talvolta è proprio l’ignoranza del futuro a rivelarsi angosciosa e a richiedere ulteriori protezioni per poterla sopportare. In questo caso, come in molti altri, non è possibile assegnare una funzione e un’interpretazione univoche a motivi, forme e temi della narrazione: la complessità emerge sempre, senza timore delle contraddizioni, perché anche il paradosso è parte della vita. Anzi, la stessa esistenza si fonda su un paradosso: siamo certi di esistere solamente perché soffriamo, ma è la speranza di un futuro senza sofferenza a far sì che la nostra esistenza continui.

In quest’ottica il mito di Prometeo viene sfruttato per rappresentare situazioni ad elevata complessità, ecosistemi in cui forze individuali, intersoggettive e ambientali interagiscono creando tensioni relazionali e narrative che affascinano il lettore, ma allo stesso tempo lo inquietano, inducendolo a riflettere. Levi è in grado di ottenere una notevole densità semiotica intrecciando il mito con altri elementi di quella vasta enciclopedia della creazione che è alimentata da fonti eterogenee. Oltre agli esempi citati finora, il gruppo di racconti che ruotano intorno alle macchine prodotte dalla società americana NATCA sono un esempio notevole di tale abilità.

 

5. La NATCA

5.1 Il versificatore (1960; 1965 [radio])

In generale, si può affermare che in tutti gli episodi di questa serie riguardante le vicende del signor Simpson e del narratore, alter ego letterario di Levi, «la figura di Prometeo ritorna, a più riprese, come metafora insieme positiva e negativa» in un processo che fa oscillare il lettore «fra un ottimismo euforico, ma anche ingenuo, per l’eterno potenziale dell’inventiva umana di cambiare il […] mondo, e un’ansia malcelata per i rischi (che per Simpson si riveleranno fatali) d’investire troppo di [se] stessi nelle [proprie] invenzioni» (Gordon 167).

Nel primo racconto della serie non vi sono espliciti riferimenti al mito, ma intorno al tema dell’ingegno si avvia un dialogo tra tradizione ebraica e tradizione greca che continuerà nei racconti successivi. Immediatamente prima della comparsa in scena del Versificatore vi è un momento intenso in cui il poeta contempla la virtù del proprio lavoro, elevando l’arte di comporre versi a sublime atto creativo: «esiste una gioia, nel nostro lavoro, una felicità profonda, diversa da tutte le altre, la felicità del creare, del trarre dal nulla, del vedersi nascere davanti, a poco a poco, o d’un tratto, come per incanto, qualcosa di nuovo, qualcosa di vivo che non c’era prima…» (SN, OI 419). Una scena lirica che evoca la creazione divina, una momentanea seduzione per questo potere che avvicina l’agire umano alla capacità generatrice di Dio. Ma il vagheggiamento del poeta si interrompe subito a causa della consapevolezza dell’urgenza pragmatica che lo vincola come «mestierante» della poesia: «(Freddo ad un tratto) Prenda nota, signorina […] è tutta roba che può servire» (419).

Quello del «creare dal nulla» è un motivo dominante anche nel mito di Prometeo. L’immagine della creazione ex nihilo per indicare l’attività dell’ingegno umano17 suggerisce che la capacità di escogitare soluzioni creative e associazioni linguistiche sia un lavoro che non richiede una materia di base da modellare. È un’affermazione di vago sapore idealista che stonerebbe nel quadro dell’etica leviana se non fosse per l’interruzione narrativa, la quale riconduce ad una concezione dell’attività poetica come rielaborazione di materiale grezzo che può essere archiviato per usi successivi. In questo contesto, tale pragmaticità è presentata dal punto di vista del poeta laureato in Lettere (quasi sicuramente in una facoltà universitaria di stampo gentiliano)18 e quindi connotata negativamente in quanto svilente. È curioso, però, che sia proprio lo stesso poeta a sorprendersi quando Simpson, nel racconto successivo, usa lo stesso sintagma: «Ohibò! Come, dal nulla?» (L’ordine a buon mercato, 1964, SN, OI 449). Tale cambiamento è spiegabile in due modi differenti. Da un lato, è indice di un’evoluzione dei personaggi avvertibile in modo evidente in tutti i racconti della serie, poiché ogni episodio presenta aspetti diversi delle loro personalità; dall’altro lato è anche parte di un più ampio processo che vede crescere la complessità della questione etica comune a tutti gli episodi, con l’inserimento di volta in volta di nuovi punti di vista e nuovi elementi da tenere in considerazione. La dinamicità dei personaggi, i cambiamenti di prospettiva, il ricorso a tradizioni mitiche differenti, sono tutte strategie riconducibili a tale processo, scelte retoriche che non permettono di affermare alcuna verità e rimettono continuamente in discussione ogni certezza, anche quelle costruite tramite il racconto.

Si possono considerare parte di questa poetica anche gli altri riferimenti mitici che compaiono accanto agli echi biblici e prometeici. Il primo si incontra quando, per testare la «cultura generale» della macchina, il poeta sceglie un tema mitologico: I sette a Tebe (426). Nel racconto il poeta ammette di non conoscere i loro nomi, ma Levi uno lo ricorda molto bene, grazie anche alla mediazione dantesca, tanto da intitolarvici un racconto: Capaneo (1959, L, OII 7-12). L’eroe greco è il più prometeico dei sette assalitori della città, orgoglioso e tracotante sfida Zeus ad ostacolare le sue imprese, e nel racconto omonimo Levi dice: «dalla memoria liceale mi affiorava, sbiadita come da una incarnazione anteriore, l’immagine spavalda di Capaneo, che dal fondo dell’inferno sfida Giove e ne irride le folgori» (OII 10; cfr. Inferno XIV, vv. 43-72). Oltre che per il riferimento ad Eschilo, autore de I sette a Tebe e del Prometeo incatenato, e alla spavalderia prometeica di Capaneo, questo brano è estremamente interessante anche perché si offre come mise en abyme del processo di abduzione che caratterizza il rapporto con il mito-enciclopedia. Le immagini mitiche che affiorano alla memoria dell’autore sono inserite nel racconto come elementi per orientare l’interpretazione del lettore, per accrescere la densità di senso del sistema di relazioni messo in scena (cfr. supra, cap. 1, par. 4).

Tale densità è ottenuta anche tramite la convergenza di miti greci e miti ebraici. Così l’identità di Simpson viene arricchita dall’etimologia onomastica che collega il venditore al biblico Sansone: «Un legame… poetico!», conviene «con profonda ammirazione» il poeta (OI 432). Ma nuovamente il trasporto lirico che eleva la poesia a materia dello spirito viene troncato dall’economia che regola la mercificazione del lavoro: «venendo adesso a questioni più terrene, più prosaiche… vogliamo rivedere un poco quel suo preventivo?» (433). Inoltre, dal punto di vista mitico, il legame poetico stabilito dal Versificatore è notevole anche per la spiegazione che ne dà Simpson: «in quel momento d’angoscia, sentendo aumentare rapidamente l’amperaggio, ha provato il bisogno di un intervento, di un soccorso, e ha stabilito un legame fra il soccorritore antico e il moderno» (432). Infatti, dopo i due componimenti dall’aura prometeica il primo sui limiti dell’ingegno umano, il secondo su un componimento di Eschilo – la macchina chiude la propria esibizione con dei versi in cui è ancora rinvenibile una vaga allusione alla vicenda del titano, ossia invocando un soccorritore che sappia salvarla dal proprio tormento. Viene così istituito un collegamento tra Sansone e Eracle, soccorritore di Prometeo e mitico benefattore dell’umanità che agisce in accordo alla volontà di Zeus, al contrario del titano ribelle (Th., vv. 507ss).

Il gioco di rifrazioni e scomposizione dei tratti notevoli del mito di Prometeo che è all’opera ne Il Versificatore viene continuato dall’autore anche nei racconti successivi, con ulteriori inversioni delle parti e contraddizioni che complicano l’interpretazione dell’ethos autoriale.

5.2 L’ordine a buon mercato (1964)

Nel secondo episodio della serie si ha il primo esplicito riferimento al mito di Prometeo: è il poeta-narratore che, commentando la funzione del Mimete, insiste «sul duplice aspetto delle sue virtù: quello economico, di creatore d’ordine, e perciò di ricchezza, e quello, dirò cosi, prometeico, di strumento nuovo e raffinato per l’avanzamento delle nostre conoscenze sui meccanismi vitali» (OI 454).

L’allusione è alle tecniche di ingegneria genetica – argomento che però sarà sviluppato solamente nel racconto successivo – e viene confermata da una dichiarazione di Simpson, il quale afferma che «il principio stesso su cui si fonda il Mimete è una novità rivoluzionaria, di estremo interesse non solo pratico ma anche concettuale. Non imita, non simula: ma riproduce il modello, lo ricrea identico, per così dire, dal nulla…», «nel Mimete si ripete un procedimento genetico recentemente scoperto, […] il modello “è legato alla copia dallo stesso rapporto che lega il seme all’albero”» (449)19.

I tratti comuni tra il racconto e il mito di Prometeo in riferimento all’ingegno e alla capacità creativa sono facilmente ravvisabili, e proseguono la riflessione avviata ne Il Versificatore. Viene ripresa anche la scelta di far convergere le tradizioni ebraica e greca; la fervida attività di sperimentazione con il Mimete, infatti, è scandita secondo il ritmo della narrazione biblica della creazione del mondo, fino all’enfatica affermazione: «il settimo giorno mi riposai» (453).

Invece, è una novità l’atteggiamento di Simpson, il quale cambia rispetto al racconto precedente: non è più un venditore entusiasta, bensì un moralista che si indigna per i pericolosi esperimenti tentati. Sorpreso da tale comportamento, il narratore conclude il racconto osservando che «[è] incredibile come persone notoriamente accorte agiscano talora in modo contrario ai propri interessi» (455). Anche in questo caso, dunque, il richiamo a ragioni pragmatiche è un espediente per interrompere la narrazione, ma in questa occasione l’effetto ottenuto non è un aumento di complessità, quanto piuttosto una sospensione: alla chiusura scenica non corrisponde una conclusione della vicenda narrata, la quale avrà invece un epilogo all’inizio del prossimo racconto della serie (Alcune applicazioni del Mimete, 1964, SN, OI 460)20. Anche la questione etica rimane aperta, come già negli altri racconti, ma non perché sia impossibile enunciare una verità morale, bensì per il rifiuto del narratore di riflettere sulle implicazioni etiche dei propri esperimenti, assumendosi le dovute responsabilità. Un Prometeo, dunque, la cui azione è interrotta dall’imprigionamento e che, nell’epilogo orgogliosamente rivendica di «scontare la pena del [suo] lavoro di pioniere, ben lontano dall’immaginare chi, e in che modo, lo stesse continuando» (460). Tale affermazione legittima ulteriormente l’interpretazione della vicenda alla luce del mito greco perché è proprio il narratore a dichiararsi precursore di Gilberto, il quale è esplicitamente identificato con Prometeo.

5.3 Alcune applicazioni del Mimete (1964 [La moglie in duplicato]; 1965 [radio])

Nel terzo racconto della serie, il protagonista è presentato dal narratore nel modo seguente: «Gilberto è un figlio del secolo. Ha trentaquattro anni, è un bravo impiegato, mio amico da sempre. Non beve, non fuma, e coltiva una sola passione: quella di tormentare la materia inanimata» (460). Ma non solo quella inanimata, perché acquistando un Mimete, un duplicatore tridimensionale, Gilberto decide di clonare la moglie Emma. Tale intraprendenza porta il narratore a definire l’amico «un uomo pericoloso, un piccolo prometeo nocivo: è ingegnoso e irresponsabile, superbo e sciocco. È un figlio del secolo, come dicevo prima: anzi, è un simbolo del nostro secolo. Ho sempre pensato che sarebbe stato capace, all’occorrenza di costruire una bomba atomica e di lasciarla cadere su Milano “per vedere che effetto fa”» (461). E successivamente aggiunge: «Non mi è affatto chiaro il motivo che ha spinto Gilberto a crearsi una seconda moglie, ed a violare così un buon numero di leggi divine ed umane. […] [S]ono convinto che si è indotto a duplicarla […] per un male inteso spirito di avventura, per un gusto insano da Erostrato; appunto “per vedere che effetto fa”» (462).

La storia si focalizza sulla questione dei limiti dell’ingegno umano tema caro al poeta-narratore che lo aveva scelto per il primo test del suo Versificatore – ma non viene data alcuna indicazione su quali siano tali limiti. Piuttosto vi si può leggere un invito a riflettere sull’uso delle technai e, soprattutto, sull’etica della ricerca scientifica e sul concetto di progresso. L’ingegneria genetica è al centro della vicenda e si incontrano affermazioni “anti-deterministiche” che spostano momentaneamente la riflessione dal piano etico a quello epistemologico21. Il narratore, infatti, riferendosi a Emma e alla sua copia, dice che «la loro identità, originariamente perfetta, era destinata a non durare […]. Bastava pensare che le due Emme non occupavano materialmente la stessa porzione di spazio: […] erano perciò esposte a incidenti diversi […], a diverse esperienze. Fatalmente si sarebbero differenziate spiritualmente e poi corporalmente […]». Ma con l’ironia tipica di Levi il narratore contraddice le proprie riflessioni dicendo: «Esposi a Gilberto queste mie considerazioni, e tentai di fargli intendere che non si trattava di una mia gratuita ipotesi pessimistica, bensì di una previsione solidamente fondata sul senso comune, quasi di un teorema» (464, corsivo mio). Non è possibile determinare causalmente l’evoluzione di un organismo, ma la diversificazione di due processi sperimentali è cosa certa, poiché sempre soggetta ad incidenti ed esperienze differenti. Non è il fato a stabilire la necessità di ciò che deve essere, bensì solamente una constatazione pragmatica che deriva la propria validità dal senso comune: il ruolo del destino è ridotto ad un alto grado di probabilità, ad una conoscenza dovuta alla familiarità con la materia.

Le osservazioni del narratore sembrano reintrodurre un aspetto prometeico che il personaggio di Gilberto non possiede: la volontà di autodeterminazione. Nella sua foga creativa, infatti, Gilberto trascura di fare ipotesi sul possibile esito del suo esperimento – non incarna quindi la preveggenza di Prometeo – ma il personaggio-narratore gli ricorda che è alle prese con un processo strettamente legato all’azione di più cause e non soggetto ad unica norma che domina la creazione, sia questa l’opera divina o un’applicazione del Mimete (cfr. Calame, Prométhée généticien 17-26).

5.4 La misura delle bellezza (1965)

Nel quarto dei sei racconti sui congegni di produzione NATCA, i rapporti tra il narratore e Simpson cambiano nuovamente. «[U]na certa sua intolleranza, una sua rigidezza puritana che era venuta in luce segnatamente nell’episodio dei duplicatori» (OI 495) aveva raffreddato i loro rapporti, La misura della bellezza, però, mette in luce un nuovo aspetto del venditore, un «lato cinico», che fa una cattiva impressione sul narratore. Dopo che al poeta e a Gilberto, il ruolo di sperimentatore tocca a Simpson, e il narratore diventa un osservatore dalla dubbia moralità, un «Peeping Tom» (496) che giunge a ricattare il commerciante per conoscere il funzionamento del dispositivo di nuova invenzione. Il racconto si chiude con una forma chiastica rispetto a L’ordine a buon mercato: non vi è più traccia degli «scrupoli moralistici» di Simpson, anzi, l’operato commerciale dell’agente NATCA sembra ora motivato dalla ricerca delle «avventure del pensiero» e degli «affari d’oro» rifiutati in precedenza (L’ordine a buon mercato, 1964, SN; OI 454). In L’ordine a buon mercato il signor Simpson «impallidisce», ha «una reazione impetuosa» e definisce «una porcheria» gli esperimenti del narratore, dicendo di voler «restare fuori di quella faccenda. […] poi […] salutò seccamente e se ne andò» (454). Ne La misura della bellezza, invece, è il narratore a reagire in modo negativo all’illustrazione degli usi del Calometro: «non conoscevo questo lato cinico del carattere di Simpson: ci siamo lasciati freddamente, e temo che la nostra amicizia sia seriamente compromessa» (504).

Nessuno degli atteggiamenti risulta credibile, né l’indignazione di Simpson per le applicazioni del Mimete, né il disagio del narratore per il cinismo dell’americano. Ciascuno dei personaggi ha le proprie qualità negative ma nella narrazione vengono enfatizzati il fatto che ognuno esprime un giudizio negativo sull’altro e il conseguente prendere le distanze da ciò che si reputa moralmente sconcertante. I racconti sulle macchine NATCA sembrano dei quadretti prometeici in cui elementi del mito sono rimescolati liberamente e ibridati con l’attualità scientifica e economica della società contemporanea. L’utilità sociale dei doni prometeici degenera nella ricerca dell’utile economico di Simpson; la previdenza del titano è soppiantata dalla curiosità irresponsabile di Gilberto, un atteggiamento da Erostrato o Epimeteo; l’osservazione attenta e l’interpretazione dei fenomeni naturali compare nella forma viziata del Peeping Tom un’ossessione perversa di cui il narratore si vanta e la conoscenza così ottenuta è usata per ricattare Simpson, non per migliorare la propria vita, come insegnato da Prometeo.

5.5 Pieno impiego (1966 [La scoperta del pieno impiego])

Anche nel racconto Pieno impiego si assiste ad un uso poco virtuoso delle technai. Inizialmente Simpson presenta i propri progetti attraverso una molto ragionevole considerazione sulla necessità di un ridimensionamento dell’uso della tecnica: «Proprio qui sta il nocciolo della questione: alla NATCA sbagliano o esagerano. È una mia vecchia idea: le macchine sono importanti, non ne possiamo più fare a meno, condizionano il nostro mondo, ma non sono sempre la soluzione migliore dei nostri problemi» (OI 518). Colui che il lettore ha imparato a conoscere come mediatore fra la tecnologia più avanzata e l’uomo comune sembra dunque voler abbandonare il proprio ruolo per rivolgersi ad altri mezzi che possano offrire risultati migliori nel sopperire ai bisogni umani. Ma la nuova posizione che assume è comunque legata ad un’arte prometeica, all’interpretazione dei segni della natura. Comprendendo il linguaggio degli insetti, Simpson si fa intermediario tra questi e l’uomo, e può affermare: «sono al mio servizio. Anzi, più esattamente: abbiamo concluso un accordo» (520). Ma il narratore chiosa la risposta facendo capire che questa è solo una battuta, e infatti l’accordo si rivela uno sfruttamento: Simpson non «dimentic[a] mai di essere un uomo d’affari» (525) ed è attento a trarre il miglior profitto da ogni trattativa con gli insetti.

Sebbene gli accordi stipulati tra uomo e animali siano presentati come frutto di un dialogo ragionevole e conveniente a entrambe le parti, il sempre maggior impiego degli insetti per lavori utili agli umani ricorda una gestione del lavoro di tipo capitalista in cui gli insetti sono espropriati delle proprie competenze per essere messi al servizio della tecnica e dell’uomo. Ne risulta un quadro molto distante dal valore del lavoro artigiano lodato da Levi, nonché una trasformazione negativa del mito che mostra l’utilizzo dell’ingegno umano orientato al profitto economico. L’ethos autoriale è ancora una volta ambiguo: gli impieghi ipotizzati da Simpson per gli insetti sono tutti socialmente utili, rispettosi dell’ambiente e in grado di salvare vite umane, tuttavia il riferimento esplicito ai limiti della mano artefice («le nostre dita sono troppo grosse e lente»; 526) getta un’ombra di dubbio sul valore etico del lavoro degli insetti al servizio dell’uomo.

La possibilità di un cattivo uso dell’ingegno umano, che porta a strumentalizzare gli animali non solo per guadagno ma anche per fini illeciti, è illustrata dal comportamento di O’Toole, un socio di Simpson, «giovane, ottimista, intelligente, instancabile, e poi pieno di fantasia, una miniera di idee» (526), il quale utilizza delle anguille per trafficare eroina. Più del singolo episodio, però, sono interessanti i commenti di Simpson: «quel disgraziato: come se io gli avessi fatto mancare il denaro»; «ho il fisco alle calcagna. Si immaginano che io guadagni chissà che cosa» (527). È l’utile economico l’aspetto messo in risalto, come confermato anche nel racconto successivo, Trattamento di quiescenza (1966, SN; OI 548-67), in cui Simpson vende alla NATCA formiche addestrate, società i cui padroni «hanno per ogni loro azione solo due scopi, che poi si riducono a uno: guadagnare quattrini e acquistare prestigio, che poi vuol dire guadagnare altri quattrini» (552).

Il racconto si conclude con una domanda che problematizza in termini prometeici il rapporto fra ingegno e profitto, lasciando nuovamente aperta la questione etica, che verrà ripresa e approfondita ulteriormente nel racconto successivo: «Una vecchia storia, vero? Inventi il fuoco e lo doni agli uomini, poi un avvoltoio ti rode il fegato per l’eternità» (527).

5.6 Trattamento di quiescenza (1966)

Tra i guadagni che Simpson ottiene vendendo in esclusiva alla NATCA formiche addestrate vi è anche un «regalo unico al mondo», che però si rivelerà essere tutt’altro che benefico. Più che in ogni altro racconto della serie, in Trattamento di quiescenza compaiono critiche all’operato della compagnia americana, le quali vengono proprio dal loro esponente di spicco, il signor Simpson. Costui è un personaggio in continua evoluzione che ha la funzione di rendere manifesti due lati della questione etica legata al lavoro: da una parte la continua problematicità dell’impiego della tecnica, che pone l’uomo costantemente di fronte a nuovi dilemmi; dallaltra un percorso umano di riflessione etica, dall’atteggiamento «alacre e gioviale» del venditore ne Il versificatore (OI 419) alla noia e oppressione che egli vive in Trattamento di quiescenza (OI 566).

I primi segni del mutamento finale di Simpson sono nelle sue parole: «una volta mi ci appassionavo, a questi giochetti: adesso, invece, non ci provo più nessun gusto, e mi dànno perfino un vago senso di disagio» (549). Gli stati d’animo che egli si attribuisce sono tutti connotati negativamente: «sono proprio queste le cose che mi irritano»; «vengono i brividi»; «perché dovrei continuare a farmi venire cattivo sangue coi clienti?»; «non c’è niente di più irritante di una telefonata durante la fruizione» (550). Ma è il narratore a indicare esplicitamente la gravità delle conseguenze a cui può portare la tecnologia:

mi pare […] che questo Torec sia uno strumento definitivo. Uno strumento di sovversione, voglio dire: nessun’altra macchina della NATCA, anzi, nessuna macchina che mai sia stata inventata, racchiude in sé altrettanta minaccia per le nostre abitudini e per il nostro assetto sociale. Scoraggerà ogni iniziativa, anzi, ogni attività umana: sarà l’ultimo grande passo, dopo gli spettacoli di massa e le comunicazioni di massa. […] Mi sembra assai più pericoloso di qualsiasi droga: chi lavorerebbe più? Chi si curerebbe ancora della famiglia? (552)

Il fuoco della questione etica è spostato dall’utile economico all’utilità sociale, o meglio, alla pericolosità sociale delle macchine e dei mass media; un’invocazione diretta del dilemma prometeico, ossia la capacità di giudicare fino a che punto l’abilità tecnica sia un bene per l’uomo. La replica di Simpson sembra eludere la questione, lasciando però aperta la riflessione, come già negli altri racconti («non le ho mica detto che il Torec sia in vendita», 552), ma questo è appunto un espediente tipico di Levi, una tecnica che riguarda specificamente la forma narrativa, ma che è anche ricollegabile alla strategia retorica di più ampia portata con cui l’autore racconta e approfondisce la vicenda di un singolo individuo o di un singolo dispositivo tecnologico per invitare ad affrontare una questione che interessa tutti gli esseri umani.

Come spesso avviene nei racconti della serie, il frutto dell’ingegno umano è innanzitutto presentato dal punto di vista di chi lo deve commercializzare, il cui fine economico è però dissimulato da un’illustrazione delle caratteristiche socialmente utili dell’invenzione in questione. Per il Torec si cerca il consenso «alla sua distribuzione in tutte le case di riposo e alla sua assegnazione gratuita a tutti gli invalidi e agli ammalati inguaribili», e se ne studiano «le possibilità come ausiliario didattico, per lo studio della geografia, per esempio» (553); e per le registrazioni dei nastri vengono ingaggiati «buoni scrittori e poeti», i quali mettono «a disposizione del fruitore la loro cultura e la loro sensibilità» (556). Solo successivamente si accenna all’inevitabile speculazione che nasce dal commercio: «mi hanno detto che già sta nascendo in America un mercato nero dei nastri: escono misteriosamente dagli studi della NATCA e vengono incettati dai ragazzi che possiedono dei Torec clandestini fabbricati alla meglio da radiotecnici di pochi scrupoli» (556).

In questo episodio, ma anche altrove, vi è un processo di generalizzazione che parte dal singolo caso narrato per giungere a considerazioni di ordine antropologico più vasto, per cui il narratore viene giudicato in quanto esponente del tipo umano dell’«intellettuale italiano» di «buona famiglia borghese», valutazione a cui si aggiunge un commento sulle condizioni che hanno reso possibile l’accettazione di Mussolini da parte degli italiani (557). Il catalogo corredato alla macchina si propone come «tentativo di una sistematica delle esperienze pensabili» (556) e questo contesto favorisce le astrazioni generalizzanti. Ve ne è infatti una seconda in cui l’intento classificatorio è messo in scena direttamente spiegando il funzionamento del Torec: «credo […] che lo abbiano inciso per quegli altri, per i Biondi-Anglosassoni-Protestanti, e per i razzisti di tutte le razze. Pensi che godimento raffinato, sentirsi soffrire nei panni di chi si vuole far soffrire!» (559). In entrambi i casi le generalizzazioni sono troncate cambiando argomento («Ma non divaghiamo», «Be’, lasciamo andare», 557 e 559), creando così un effetto di non-chiusura dei quesiti etici sollevati dal racconto.

Trattamento di quiescenza è un testo in cui l’autore ricorre più di una volta ad una figura retorica molto sfruttata in tutte le sue opere: la mise en abyme. Il Torec è proposto come macchina che rende potenzialmente possibile fruire di tutte le esperienze dell’esistenza umana – mettendo quindi in scena la tendenza di Levi a sperimentare cambiando prospettiva – e una specifica parte del catalogo sintetizza il rapporto in cui stanno Trattamento di quiescenza e l’etica dell’autore: questo racconto è una vera e propria antologia dell’etica leviana e i nastri «Epic», «registrazioni del così detto “effetto Epicuro”», affrontano il nodo centrale di tale etica, offrendo esperienze virtuali della «cessazione di uno stato di sofferenza o di bisogno» (562). «Tutti i nastri Epic sono antologici, cioè sono fatti di centoni», e in quello provato dal narratore è «stato possibile condensare sette soddisfazioni in venti minuti di spettacolo» (563). Proprio per la forma in cui sono raccolte tali esperienze di confronto con la sofferenza, i nastri «Epic» mettono in scena due procedimenti retorici: per un verso, la struttura antologica del nastro richiama la forma del racconto Trattamento di quiescenza, il quale raccoglie accenni a numerosi aspetti dell’etica di Levi, mettendo al centro della vicenda ingegno, lavoro e sofferenza; per un altro verso, con il rapido susseguirsi dei centoni22, tale forma ripropone l’effetto di non-chiusura delle questioni etiche che si è visto essere ricorrente in molti racconti.

La riflessione sulla sofferenza è breve ma esplicita: «da questi giochetti frigidi alle spese del dolore, che cosa si può spremere se non un piacere in scatola, fine a se stesso, solipsistico, da solitari? Insomma, mi sembrano una diserzione, non mi sembrano morali» (563). Ma il quesito rimane aperto e nel rispondere Simpson ricorre egli stesso all’espediente del cambiamento di prospettiva: «Forse ha ragione, – disse Simpson dopo un breve silenzio: – ma la penserà ancora così quando avrà settant’anni? O ottanta? E la può pensare come lei quello che è paralitico, quello che è legato a un letto, quello che non vive che per morire?» (563). Alla domanda del narratore sulla liceità delle esperienze «Epic» si aggiungono, quindi, gli interrogativi di Simpson, rimarcando l’importanza della riflessione etica.

Il racconto non invita solamente a porsi delle domande, bensì mette in evidenza anche il bisogno umano della condivisione di esperienze e il pericolo di ridursi ad un’esistenza solipsistica. In quest’ottica è rilevante il fatto che le tensioni tra Simpson e il narratore siano sorpassate in fretta in questo racconto: non sono menzionati gli episodi di freddezza dei loro incontri precedenti e anche lo spiacevole inconveniente del nastro «Corrada Colli, una serata di», viene superato senza troppe difficoltà, nonostante l’esperienza omosessuale sia sentita come «impossibile, mostruosa» (561). Il pomeriggio di esperimenti col Torec si conclude con Simpson che «estor[ce] affettuosamente la promessa di tornare a trovarlo a novembre, quando la sua raccolta di nastri sarebbe stata completa», lasciando dunque qualche speranza per una condivisione futura. Ma l’epilogo mostra l’esito tristemente negativo di un uomo soggiogato dal potere di una macchina, «oppresso da una noia vasta come il mare, pesante come il mondo, quando il nastro finisce: allora non gli resta che infilarne un altro» (566). La disfatta di Simpson viene descritta con due paragoni biblici che mostrano situazioni in cui l’uomo fallisce nel tentativo di dare un senso a ciò che vive: la lotta tra Giacobbe e l’angelo (Genesi 32:24-34) è vana perché «perduta in partenza» (OI 566) e la sapienza di Salomone sta nel riconoscere la vanità di tutto (Qohèlet 1:7-9 e 1:18)23.

È particolarmente interessante il riferimento al libro di Qohèlet, il meno ortodosso di tutti i testi del Tanakh, ma anche il più affine all’etica di Levi24. La sapienza dell’autore biblico non è quella tradizionale dei rabbini, poiché anche questa è cosa vana; la virtù del saggio non è l’accumulo di conoscenza, bensì il godere delle proprie opere, del frutto del proprio lavoro, perché la saggezza è «acquistata con dolore, in una vita piena d’opere e di colpe» (OI 567)25. Incontrare una citazione biblica in questo contesto, alla fine di un ciclo di racconti che ha esplorato in modo estremamente critico e pragmatico la questione della tecnica e del lavoro, potrebbe lasciare perplessi. Dopo aver escogitato continuamente forme narrative per proporre un’etica fondata sulla responsabilità individuale, come può Levi riconoscere autorità morale ad una parola che, per quanto anomala rispetto ad altre voci bibliche, è comunque ispirata da una forza divina e quindi soggetta ad una legge e ad un ordine sovrannaturali? Il riferimento alla tradizione biblica26 è in parte ridimensionato da una piccola ma importante alterazione del testo di Qohèlet, così che nemmeno l’autorità irriverente di questo antico sapiente – simile al Rabelais tanto amato – viene accolta senza riserve. Accanto all’affermazione della necessità delloperare, infatti, Levi pone la necessità della responsabilità, del riconoscere senza vergogna i propri errori. Un tratto che riecheggia il verso in cui Prometeo ammette la propria colpa di fronte alle Oceanine (Pr., v. 265), suscitando l’effetto di una vaga convergenza tra enciclopedia prometeica e tradizione ebraica.

Salomone è qui un esempio positivo di ricchezza di vita, di esperienze e di solidarietà27, al punto che il suo testo è l’unica forma di condivisione che riesce a far breccia nell’apatia di Simpson, «nei rari giorni in cui è in pace con se stesso» e in cui riesce a comprendere «se stesso e la sua condizione». Tuttavia, l’ultimo paragrafo del racconto si apre con una proposizione avversativa che toglie a Simpson il privilegio di avere l’ultima parola, svelando anzi l’illusione della panacea offerta da una lettura empatica di Qohèlet. La saggezza di Simpson non è quella narrata da Salomone, essa è solamente «frutto di un complicato circuito elettronico e di nastri a otto piste, e lui lo sa e se ne vergogna, e per sfuggire alla vergogna si rituffa nel Torec» (OI 567). L’eccesso di tecnologia neutralizza l’efficacia della speranza, phármakon prometeico donato agli uomini contro la costante visione della morte che incombe sull’esistenza. Nella vulgata di Levi non vi è speranza senza la possibilità di agire responsabilmente: l’uomo «senza Torec sarebbe perduto, col Torec è perduto ugualmente», incatenato ad una roccia di noia «pesante come il mondo» che inibisce qualsiasi azione. La punizione di Simpson-Prometeo non è più solamente quella di Pieno impiego – in cui l’uomo d’affari è tormentato dal fisco qui Simpson è uomo integralmente, e la questione etica diventa tormento esistenziale reiterato. Soffre le conseguenze di una vita dominata da un uso irresponsabile della tecnica, non l’affrontare la morte: questa non è temuta perché «l’ha già sperimentata sei volte, in sei versioni diverse, registrate su sei dei nastri dalla fascia nera» (567).

6. Da fabbro a fabbro di se stesso

6.1 Il fabbro di se stesso (1968)

Nella quotidianità i processi di antropopoiesi sono per buona parte inconsci o inconsapevoli, ne Il fabbro di se stesso, invece, la finzione letteraria offre la possibilità di esplorare la co-evoluzione di natura e tecnica guidate da un intervento consapevole. Nel racconto l’evoluzione segue due principi complementari: il protagonista e sua moglie sono soggetti ai cambiamenti del mondo naturale ma reagiscono anche a queste variazioni ambientali.

«Io» so tutto questo, ho fatto e subito tutto quanto i miei avi hanno fatto e subito, perché io ho ereditato le loro memorie, e pertanto io sono loro. (VF, OI 703; corsivi miei)

Tale dicotomia è presentata al lettore nell’introduzione alle pagine di diario che narrano l’evoluzione del «fabbro di se stesso» ed è ribadita anche alla fine del racconto:

Con queste mie ultime trasformazioni ed invenzioni, il più è ormai compiuto: da allora, nulla di essenziale mi è più successo, né penso mi debba più succedere in avvenire. (709; corsivi miei)

Questo essere vivente agisce inventando e trasformando ma è anche soggetto agli accadimenti. Il suo atteggiamento non è solo di reazione agli eventi, egli è in grado anche di agire volontariamente per raggiungere i propri obiettivi, mutando in base alle proprie scelte. Ciò che nella conclusione è espresso dal sintagma «trasformazioni ed invenzioni», all’inizio del racconto è espresso in modo più esteso con le seguenti parole:

Ora, se io so che una cosa deve essere fatta, voglio farla, ed essa si fa, non è come se io l’avessi fatta, non l’ho fatta io? Se l’aurora mi abbaglia, ed io voglio chiudere gli occhi, e gli occhi mi si chiudono, non ho io chiuso gli occhi? Ma se mi occorre staccare il ventre dalla madre terra, se lo voglio staccare, ed esso nei millenni si stacca, ed io non ho più strisciato ma ho camminato, non è questa opera mia? Io sono il fabbro di me stesso […]. (703)

Il primo dono di Prometeo si rivela fondamentale ancora una volta: la capacità di guardare al futuro è la condizione necessaria per poter progettare la propria metamorfosi. E in questo racconto tale capacità è esplorata retrospettivamente, raccontando le mutazioni di un organismo che al termine della sua evoluzione sarà un essere umano.

Uno di loro [i miei avi], il primo, mutò felicemente acquistando questa virtù della memoria ereditaria, e l’ha trasmessa fino a me, cosicché/affinché io possa oggi dire «io» con questa inusitata ampiezza. (703; corsivo mio)

La centralità della volontà del soggetto è rimarcata in più occasioni e il tono del racconto, autoritario e saccente, sottolinea tale aspetto: il protagonista si fa vanto continuamente della propria esperienza eccezionale e delle proprie abilità. Levi, tuttavia, inserisce un contrappunto ironico a questa vanità: vi è un’ironia di sapore psicanalitico nell’enfasi data alla grandezza di questo «io», maggiormente evidente in alcune brevi scene che lo sminuiscono. Da un lato, quindi, vi sono allocuzioni dirette al lettore con cui il protagonista deride la limitatezza degli uomini ordinari28 e si vanta delle proprie peculiarità29. Dall’altro lato, il tono del racconto vira al comico parodiando i linguaggi da imprenditore e da artigiano, e anche tramite il frequente ricorso a luoghi comuni e euristiche di pensiero; un insieme di scelte retoriche che fa risaltare la banalità degli stereotipi esibiti dal «fabbro di se stesso», soprattutto quelli coniugali e lavorativi.

La parte introduttiva ha un tono più saccente e autoritario, e sono spiegate in modo didascalico le differenze tra l’uomo comune e il protagonista; nelle pagine di diario, invece, assieme al genere discorsivo muta anche il tono, diventando molto colloquiale. Nel contesto dell’enciclopedia prometeica che si sta qui valutando è inoltre rilevante l’argomento con cui il protagonista sancisce la propria superiorità sugli uomini comuni:

Queste cose le avete registrate, «recorded»: le ricordate bene, ma, ripeto, a che serve ricordare senza evocare? Non è questo il senso del verbo «ricordare», quale viene comunemente pronunciato e inteso.

Per me è diverso. Io ricordo tutto: voglio dire, tutto quanto mi è accaduto dall’infanzia. Posso riaccenderne in me la memoria quando desidero, e raccontarlo. (702)

L’atteggiamento arrogante potrebbe essere considerato prometeico di per sé, ma è il rapporto istituito tra memoria e racconto ad essere incisivo nel suggerire un’analogia con il mito. I versi di Eschilo parlano della memoria come «madre feconda della poesia» (Pr., v. 461); nel racconto di Levi la memoria è una virtù straordinaria che distingue il protagonista dagli altri esseri viventi30, ed è proprio tale virtù a rendere eccezionale la narrazione. Se il protagonista non avesse questa «memoria cellulare ereditaria» il racconto non esisterebbe poiché esso è il diario delle metamorfosi che lo hanno portato a diventare un essere umano, dunque una storia di trasformazioni autopoietiche e antropopoietiche.

Nelle pagine del diario la questione dell’antropopoiesi viene esplorata come una serie di scelte evolutive; in particolare, sono un punto d’orgoglio le ingegnose sperimentazioni biologiche della moglie del protagonista, riguardanti la procreazione e la crescita dei piccoli. La peculiare temporalità del racconto, per cui milioni di anni sono condensati in poche righe, permette di presentare l’evoluzione come un problema di progettazione dell’organismo, un lavoro creativo in cui ontogenesi e filogenesi si sovrappongono. Così la decisione di «allevare i piccoli in una qualche cavità del suo stesso organismo, e poi, una volta che siano autonomi, di metterli fuori» (703-04) non è solo una questione di sviluppo della progenie, bensì una scelta che segna il passaggio da anfibi a mammiferi, perché la «moglie si è messa in capo di tenersi le uova in corpo» (703). Una decisione rivoluzionaria che comporta un ulteriore sforzo inventivo per rendere possibile il cambiamento: «È chiaro che dovrà limitare di molto il numero dei piccoli» e riuscire a «modificare sei ghiandole epiteliali, e a farne uscire qualche goccia di un liquido bianco», «un alimento completo, zuccheri, proteine, vitamine e grassi» (704).

Il tema della procreazione incontra quello dell’antropopoiesi in modo più significativo e con elementi riconducibili al mito di Prometeo nel momento in cui il narratore esplicita alla moglie quali sono le abilità che i figli dovranno avere:

Fai attenzione, i figli a me non importa che siano alti tre metri, né che pesino mezza tonnellata, né che siano capaci di stritolare coi denti un femore di bisonte: io i figli li voglio coi riflessi pronti e i sensi bene sviluppati, e soprattutto svegli e pieni di fantasia, che magari col tempo siano capaci di inventare la ruota e l’alfabeto. (705)

Le virtù che i futuri esseri umani dovranno avere sono le stesse che Prometeo dona loro nella tragedia di Eschilo. Gli uomini erano privi di vista e di udito (Pr., vv. 446-47) prima che il titano intervenisse in loro favore, e qui si sottolinea che è fondamentale avere «i sensi bene sviluppati»; fantasia e ingegno sono i doni più noti di Prometeo, e anche il narratore li presenta come imprescindibili; e l’alfabeto (v. 461) e la ruota (v. 469) sono i primi mezzi tecnici che gli uomini ricevono dal loro benefattore.

Ritornando alla parte introduttiva del racconto, è rilevante sottolineare che l’argomento antropopoiesi viene introdotto in riferimento a due pratiche ben precise: il ricordare e il raccontare. La costruzione di un’identità (biologica, in questo caso) è quindi strettamente legata alla narrazione, un tema che Levi affronta in più occasioni, sia rispetto alla memoria dei fatti storici sia in rapporto all’invenzione letteraria, come nei racconti Lavoro creativo (1968-70, VF, OI 651-60) e Nel parco (1968-70, VF, OI 671-80). La finzionalità de Il fabbro di se stesso si articola su più livelli ma l’aspetto più evidente è la straordinaria memoria del narratore, grazie alle possibilità che tale facoltà retrospettiva offre. Leggendo con attenzione il diario, tuttavia, si nota che la finzione non si articola solo tramite una retrospezione eccezionale ma anche tramite forme di anticipazione.

Nella pagina datata «– 2 x 107» (OI 706), al di là della ovvie difficoltà pratiche che un dinosauro può incontrare nello scrivere, i fenomeni testuali di prospezione31 inducono a collocare il tempo della scrittura del diario ad uno stadio biologico e cronologico più avanzato, attribuendo quindi la narrazione ad un essere umano, il quale però evoca i ricordi dei propri avi presentandoli dal loro punto di vista, senza una mediazione discorsiva evidente. Ogni pagina corrisponde ad unera temporale dell’ordine delle decine, centinaia o migliaia di anni, e gli eventi di ciascun periodo sono raccontati come se il narratore li stesse registrando su un diario scritto in quella stessa epoca. In alcuni casi il tentativo di mimesi di uno stadio evolutivo antecedente a quello umano è tale da superare palesemente i limiti di una coerenza logica: ad esempio, in una pagina datata cinque milioni di anni fa il narratore che, approssimativamente, si è da poco evoluto in primate – fa una serie di commenti che presuppongono una manualità, una soggettività, e un insieme di conoscenze, valori e elementi culturali propri degli esseri umani: «Chi dice che la morte è inscritta nella vita non ha pensato a loro [gli alberi]»; «mentre scrivo, ho qui davanti a me una quercia» (707); «Mi stavo guardando le mani e i piedi, così, oziosamente: ormai, tanto per intenderci, sono fatti su e giù come i vostri»; «certi dettagli biologici […] li conservo deliberatamente, come si fa coi ritratti degli antenati» (708).

Esempi di questo tipo ricorrono con una tale frequenza che è difficile non considerarli una strategia retorica dell’autore, un gioco con le possibilità della finzione letteraria. Inoltre, è doveroso aggiungere che ad un lettore attento non possono sfuggire le incoerenze nello sviluppo della narrazione: errori di biologia grossolani che sembrano improbabili per un osservatore scrupoloso come Primo Levi, tanto più che il racconto è dedicato a Italo Calvino, notoriamente appassionato di biologia32. Mi riferisco in particolare al fatto che l’evoluzione dell’organismo narrante contraddice quanto egli ha tronfiamente millantato nella parte introduttiva, ossia il fatto di ricordare «tutto quanto è avvenuto ad ognuno dei miei avi, in linea diretta» (702; corsivo mio). Secondo quanto riportano le pagine del diario, però: un miliardo di anni fa era un pesce; novecento milioni di anni dopo sperimenta per la prima volta il mammiferismo, quindi, presumibilmente, si evolve in un cetaceo; dopo cinquanta milioni di anni approda sulla terraferma, ma in forma di anfibio quindi momentaneamente riconvertito alla riproduzione ovovivipara – che cambia la pelle, striscia e sta pensando di farsi crescere qualche gamba, salvo poi ricordarsi di essere mammifero perché la moglie partorisce, talvolta assistita da un’ostetrica. Dopo altri trenta milioni di anni si ritrova ad essere un rettile, per la precisione un dinosauro, il quale sopravvive inspiegabilmente ad un’estinzione di massa e venticinque milioni di anni dopo è un primate convinto, che in pochi milioni di anni può evolvere finalmente in antropoide.

Tali incongruenze sono talmente bizzarre che, a mio avviso, suggeriscono di leggere la dedica a Calvino in esergo non solo nei termini di un’affinità tematica con Le Cosmicomiche, bensì anche come somiglianza nella costruzione retorica del racconto; una tesi condivisa anche da Antonello:

Così come accade nelle Storie naturali di Levi, il protagonista dei racconti cosmicomici, Qfwfq, è visto come voce di una epistemologia di senso comune, comica, perché caricato di tutti i tic, di tutte le idiosincrasie, gelosie, rivalità, confusioni, desideri dell’uomo medio di fronte a rivoluzioni paradigmatiche, salti evolutivi, flessi nella trasformazione della materia, in un turbinìo di metamorfosi e dislocazioni percettive, mettendo così in risalto le stabilità della psicologia umana e la difficoltà ad accordarsi ai continui cambi paradigmatici. (“Cibernetica e fantasmi” 197)

La vicenda narrata ne Il fabbro di se stesso è originale e avvincente, con un ritmo incalzante e un tono ironico che coinvolgono facilmente il lettore nelle peripezie evolutive del protagonista. A mio avviso, il fatto che il gioco tra suspense, sorpresa e curiosità suscitate dal racconto sia estremamente vivo, e quindi l’interesse narrativo del lettore risulti accentuato, è un aspetto fondamentale del racconto (cfr. Sternberg, “Raccontare nel tempo (II)”; Baroni). Tale coinvolgimento emotivo-cognitivo nella vicenda è orientato a ridurre il grado di attenzione critica del lettore, in modo che l’autore possa giocare sul piano metanarrativo senza che il racconto risulti un esercizio di stile eccessivamente artificioso.

L’impiego di tale tecnica mi sembra l’ennesima dimostrazione dell’eterogeneità retorica messa in campo da Levi, il quale ricorre di volta in volta agli strumenti espressivi che ritiene più idonei per le proprie narrazioni. La funzione della metanarrazione è solitamente quella di rendere esplicito il gioco narrativo, simulando il coinvolgimento del lettore in esso, e in un contesto di fiction a tale funzione si aggiunge un’esibizione delle possibilità della creazione e finzione letteraria. Vi è però anche un effetto secondario, ossia quello di sottolineare il potere dell’autore, orchestratore che può decidere ogni cosa tramite le scelte retoriche con cui costruisce il discorso. Ciò non avviene solamente creando un mondo di finzione e mettendo in risalto gli elementi che si vuole siano notati: una delle possibilità offerte dalla metanarrazione – la meno evidente al lettore è proprio la manipolazione della comunicazione, ossia il fatto di simulare una narrazione trasparente, commentando il discorso mentre viene enunciato e rendendo esplicito ciò che si sta facendo, mentre allo stesso tempo si “imbroglia” il lettore confondendo i piani della narrazione e fornendogli delle informazioni inattendibili33. Credo sia questo il caso de Il fabbro di se stesso: nello specifico, le tracce dell’inaffidabilità del narratore hanno la funzione di screditarlo, di mostrare il lato negativo del self-made man, arrogante e saccente, quasi un altro «Prometeo nocivo». Tale procedimento retorico è antitetico al più evidente plauso all’ingegnosità e all’abilità tecnica dell’organismo in evoluzione, ed è proprio nel momento in cui il narratore sembra enunciare una delle tesi del manifesto etico di Levi – la celebrazione della mano come organo principe di un tipo fondamentale di intelligenza – che emerge la provocazione morale:

Ho anche notato che, facendo le cose, te ne vengono in mente altre, a catena: spesso ho l’impressione di pensare più con le mani che col cervello.

Con le mani, non che sia facile, ma si può anche scheggiare una selce, e legare la scheggia in cima a un bastone, e insomma farsi un’ascia, e con l’ascia difendere il mio territorio, o magari anche allargarlo; in altri termini, sfondare la testa di certi altri «io» che mi stanno fra i piedi, o corteggiano mia moglie, o anche soltanto sono più bianchi o più neri o più pelosi o meno pelosi di me, o parlano con accento diverso. (OI 709)

Leggere questo paragrafo – il penultimo del racconto – dopo aver osservato l’ingegnosità e la straordinaria memoria del protagonista crea un effetto di sorpresa abbastanza sconcertante. L’intera narrazione sembra voler coinvolgere il lettore, anche se in modo un po’ brusco, per ottenere un effetto di ammirazione; tuttavia, il finale è straniante perché propone un’applicazione bellicosa della creatività umana. La sensazione è quella di essere caduti in una vera e propria «trappola morale» poiché il personaggio che nella sua boria risultava comico si presenta ora sotto una luce diversa, capace di odiare e di fare violenza ad altri «io» come lui, addirittura sereno nell’ammettere il razzismo come motivazione della propria aggressività. La questione etica emerge improvvisamente e viene lasciata in sospeso dalla rapida conclusione della narrazione:

Ma qui questo diario può anche finire. Con queste mie ultime trasformazioni ed invenzioni, il più è ormai compiuto: da allora, nulla di essenziale mi è più successo, né penso mi debba più succedere in avvenire. (709)

L’interruzione del racconto su un atteggiamento moralmente riprovevole sembra insinuare che, nell’evoluzione del pianeta e delle creature che lo abitano, la caratteristica essenziale degli esseri umani sia riconducibile all’odio e alla violenza, vizi di forma di quelle virtuose applicazioni dell’ingegno animale esemplificate nella prima parte del racconto – nonché nei primi novecentocinquanta milioni di anni di evoluzione. La trappola morale di Levi ci presenta un ingegno animale responsabile di possibilità virtuose e un ingegno umano esposto a rischi viziosi.

Un’interpretazione di questo tipo, però, non tiene in debito conto i segnali testuali che marcano l’inaffidabilità del narratore. Prendendoli in considerazione il giudizio morale sulle sue gesta varia leggermente poiché le incongruenze del racconto portano il lettore a formulare l’ipotesi che il narratore sia in qualche modo sospetto, generando un effetto di attesa per la conferma o smentita di tale ipotesi interpretativa. Così, nel momento in cui incontra l’improvvisa ammissione di aggressività, il ruolo del lettore non è di inferiorità nei confronti dell’autore che lo ha ingannato portandolo a sorridere di un personaggio che si rivela essere razzista; al contrario, in questa prospettiva il lettore trova confermate le proprie perplessità sull’affidabilità del narratore, in quanto si rivela un personaggio moralmente dubbio, oltre che un narratore poco credibile.

Ipotesi ermeneutiche di questo tipo sono solitamente molto vaghe34 e non richiedono di essere confermate o smentite in modo deciso o pertinente. Come spesso accade per molti giudizi di valore, dal momento in cui si formula una spiegazione ipotetica si innesca un processo di ricerca di indizi che possano essere d’appiglio per risolvere l’ambiguità, in questo caso riguardante l’ethos del narratore. La suspense che alimenta la progressione narrativa con il desiderio di colmare tale gap di informazione è l’altra faccia dell’effetto sorpresa che invece si ha in una lettura che non coglie le tracce dell’inaffidabilità del narratore; due effetti che dipendono dalla reazione del lettore alla metanarrazione che sovrappone i piani narrativi (cfr. Sternberg, “Raccontare nel tempo (II)”). Nel caso in cui si ritenga il narratore affidabile, la suspense riguarda il piano della vicenda narrata, ossia il modo in cui l’organismo protagonista evolverà fino allo stadio di essere umano, e la sorpresa riguarda la delusione per un contrasto di valori che si genera nel lettore, prima divertito dal protagonista e poi deluso dal suo comportamento razzista. Nel caso in cui si percepisca un narratore inaffidabile, la suspense riguarda anche il piano dell’enunciazione narrativa, ossia il fatto che il narratore si confermi o smentisca inaffidabile, e la delusione per la meschina evoluzione biologica è simultaneamente – se non prevalentemente – soddisfazione per la corretta intuizione sull’ethos del narratore che si rivela essere una figura moralmente dubbia35. In quest’ultimo caso, però, subentra un’ambiguità nei confronti di quanto raccontato in precedenza: si apre un’incertezza di valutazione sull’abilità e l’ingegno del protagonista poiché, sebbene questi siano manifestazione di valore, sono anche strumento per azioni violente.

Per percepire l’inaffidabilità del narratore è necessario prestare attenzione in particolar modo ai segnali metanarrativi. Chi racconta è un essere umano che «evoca» i ricordi della propria memoria cellulare e li presenta nel diario in forma non mediata, assumendo di volta in volta il punto di vista dei suoi antenati. Grazie alla memoria ereditaria vi è una parziale identità biologica tra il narratore e i suoi antenati, e si può affermare che la voce degli avi sia quella del narratore in senso proprio: è egli stesso a ricordare ciò che è accaduto loro. La finzione di questa mimesi, però, viene smascherata da vari segnali testuali: dalle riflessioni che tradiscono un punto di vista umano, dai riferimenti ad aspetti culturali e sociali, e dall’uso di espressioni idiomatiche. La credibilità di ciò che viene raccontato è quindi messa in dubbio dalla goffa abilità fabulatrice del narratore, la quale genera però un’attenzione verso un’abilità narrativa di livello superiore, quella dell’autore.

Ne Il fabbro di se stesso, dunque, il tema della creazione è presente in modo evidente in quanto racconto di unevoluzione antropopoietica, ma è presente anche come creazione letteraria che esibisce il proprio carattere di finzione. L’homo faber, in quanto artigiano del linguaggio e inventore di storie fantastiche, utilizza la narrazione per rappresentare l’altro aspetto del suo essere creatore, quello di homo faber sui. Volendo valutare le dinamiche della comunicazione in atto, il fatto di marcare la finzionalità del racconto risulta una sorta di bilanciamento alla forte tematica antropopoietica. In altri termini, l’effetto globale è che, sebbene necessarie, l’attitudine pragmatica e l’intraprendenza lavorativa del protagonista non sono le forme più importanti dell’ingegno; non lo sono perché non vi è una virtù dominante: anche la capacità di immaginare e la creatività che si manifesta nella scrittura sono altrettanto essenziali. O meglio, tutte le forme dell’ingegno sono soggette alle stesse possibilità virtuose e agli stessi rischi viziosi, come esemplificato dall’evoluzione biologica del violento protagonista e dalla disonestà del narratore.

 

6.2 Procacciatori d’affari (1970; 1977 [tv]; 1980 [teatro])

Una dinamica analoga a proposito della moralità e affidabilità dei personaggi si trova nel racconto Procacciatori d’affari. Il titolo suggerisce che il perseguimento dell’utile economico sia un criterio fondamentale per valutare le azioni e i discorsi che si incontrano nella vicenda narrata, ma questo aspetto si rivela del tutto secondario rispetto al tema etico della storia, pur essendo funzionale al mantenimento di un tono comico e parodico che allevia la drammaticità di alcune scene. Il racconto è una rappresentazione fantastica delle considerazioni che portano un’anima a decidere di intraprendere un’esistenza come essere umano che sia fabbro di se stesso, quindi una sorta di riflessione trascendentale sulla condizione umana.

In un oltremondo in cui vivono i «non-nati», simile a quello descritto da Samuel Butler in Erewhon36, i tre individui che fanno visita al non-nato S. si presentano come dei «funzionari», «specialisti della Terra» (VF, OI 610) pronti ad illustrare «con tono professionale e concreto» le attrattive di nascere come creatura del «Genere Umano» (611). Levi trae molti spunti dal romanzo di Butler, ma a differenza di Erewhon, la cui mitologia stabilisce chiaramente che per i non-nati è un tormento nascere sulla terra37, il più tenace dei procacciatori d’affari afferma:

Io, noti bene, non ho argomenti per dimostrare chi dei due abbia ragione, il non-nato o il nato, ma una cosa le posso affermare per diretta esperienza: chi ha assaggiato il frutto della vita non ne sa più fare a meno. I nati, tutti i nati, con pochissime eccezioni, si aggrappano alla vita con una tenacia che stupisce perfino noi propagandisti, e che è il miglior elogio della vita stessa. Non se ne staccano finché hanno fiato in corpo: è uno spettacolo unico. (621-22)

È la determinazione di S., «un ragazzo educato, ma dalla testa dura» (619), a costringere il funzionario ad ammettere l’impossibilità di argomentare facendo un bilancio degli aspetti positivi e negativi della vita umana, nonostante non vi sia nessuno meglio qualificato di lui per farlo38. E difatti tutti i tentativi di persuasione non avvengono tramite dimostrazione o argomentazione, bensì grazie ad immagini in cui i soggetti raffigurati sono «come impazienti di entrare in azione» (613) o che si animano mostrando delle microstorie. In effetti, sembra proprio essere l’esemplificazione narrativa il metodo privilegiato per testimoniare come sia l’esistenza degli esseri umani e, come spesso accade nella vita e nei racconti39, gli eventi sono imprevedibili: una giovane madre indiana è «entrata per errore» nel campionario (613); la metamorfosi di un atleta avviene al contrario (613-14); un’animazione, «come se il meccanismo fosse sfuggito al controllo», mostra a un lettore un futuro nell’esercito che lo porta a morire lontano dalla propria famiglia (620).

Le storie che S. vede nelle immagini che gli vengono mostrate lo lasciano molto perplesso e ciò costringe i funzionari ad ammettere che «non tutto sulla Terra è programmato, un margine di libertà (e quindi d’imprevedibilità) esiste; il tessuto ha qualche smagliatura, non possiamo negarlo» (617). E successivamente affermano anche che nella progettazione c’è stato qualche errore: «Lei, mi pare, lo ha intuito: qualcuno da qualche parte ha sbagliato, ed i piani terrestri presentano una faglia, un vizio di forma» (623). Tali affermazioni sono il nucleo dell’intera raccolta di racconti, l’enunciazione dell’esistenza di «un “vizio di forma” che vanifica uno od un altro aspetto della nostra civiltà o del nostro universo morale» (1971; OI 144140). Quale può dunque essere l’atteggiamento del funzionario, incaricato di promuovere la vita umana, di fronte a questa tragica constatazione? Nel risvolto editoriale del libro Levi scrive che questi racconti hanno «un’aura […] di sostanziale confidenza per il futuro» (1443), li propone quindi come veicolo di speranza; il procacciatore d’affari adotta la stessa tecnica: contrasta le “trame smagliate” con altrettante storie, combattendo la miseria e la tristezza delle prime con l’intensità tragica delle seconde.

Nei tre esempi di «elogio della vita» i cardini dell’esistenza umana sono l’ignoranza del futuro (qui evocata dal campo semantico dell’oscurità) e la capacità di sperare41, sono queste le virtù necessarie per resistere ai momenti più neri: un minatore rimasto bloccato in una galleria crollata «era solo, ferito, affamato, tagliato fuori dal mondo, in mezzo alle tenebre. Gli sarebbe stato facile morire: per lui, non sarebbe stato altro che il passaggio da un buio a un altro buio. Non sapeva neppure in quale direzione avrebbe trovato la salvezza: ma scavò a caso, per dodici giorni, e rivide la luce». Il secondo esempio è quello di Robinson Crusoe, il quale «visse in solitudine per ventott’anni senza mai perdere la speranza e la gioia di vivere». Il terzo riguarda un uomo comune: «il suo lavoro quotidiano è un immutabile pozzo di noia, la moglie lo disprezza e probabilmente ama un altro, i figli sono cresciuti e lo guardano senza vederlo. Eppure resiste, e resisterà a lungo, come uno scoglio: aspetterà ogni giorno il suo domani, ogni giorno udrà una voce che gli promette per il domani qualcosa di bello, grande e nuovo» (622; corsivi miei).

Nemmeno queste storie, però, riescono a superare la perplessità del non-nato e l’ultima carta che il giovane e determinato funzionario G. decide di giocarsi è quella di rendere S. protagonista di una storia. Il potenziale acquirente viene adulato e fatto sentire importante42, e gli vengono offerti «delle ottime possibilità» e dei «buoni vantaggi iniziali» (624), ma le parole del procacciatore d’affari sono sospette, così come anche il futuro che egli prospetta al non-nato. Tutte le qualità positive che egli attribuisce a S., infatti, sono in palese contraddizione con il comportamento che costui ha avuto finora: è poco serio in quanto lavora con discontinuità, si distrae e il campanello deve suonare tre volte prima che si decida ad aprire (609); ammette di non essere preparato43; è disonesto in quanto fruga nella borsa dei funzionari e prende delle fotografie «in un modo tutt’altro che regolare» (618); e la sua titubanza è in buona parte dovuta a codardia, al timore di avere dei guai per il diverso colore della pelle o di nascere in condizioni disagiate (618 e 623). Per quanto riguarda le promesse del propagandista, il futuro che aspetta il non-nato sembra essere quello di uno scienziato o di un medico:

Le daremo un corpo agile e sano, e la inseriremo entro un contorno affascinante: in questi luoghi silenziosi si costruisce il mondo di domani, o si penetra quello di ieri, con strumenti nuovi e meravigliosi. E questo è ancora lei, qui dove si raddrizzano i torti, e si fa giustizia rapidamente e gratis. O anche qui, dove si sopisce il dolore, e si rende la vita più tollerabile, più sicura e più lunga. I veri padroni sono questi, siete voi: non i capi dei governi né i condottieri di armate. (624)

È un futuro ambiguo quello che aspetta S., i termini scelti per descriverlo sono vaghi e evocano aspetti positivi e negativi: lo sviluppo della tecnica offre la possibilità di nuove conoscenze, la giustizia non tarda a venire e la sofferenza può essere alleviata; ma è un bene che la giustizia sia rapida e senza costo? E a quali conseguenze si va incontro se «si sopisce il dolore»?

Giustizia e sofferenza sono temi che Levi troppo spesso affronta e dibatte in modo minuzioso perché le promesse di un venditore motivato da «una modesta provvigione, oltre al rimborso delle spese» (624), non risultino sospette. Eppure S. accetta di nascere tra gli esseri umani. Prima di decidere resta in silenzio molto a lungo, come se stesse riflettendo sulle ultime immagini viste, quelle per cui

non occorrevano commenti, né la lusinga del diventare vive: parlavano un linguaggio ben chiaro. Si vide un cannone multiplo sparare nelle tenebre, illuminando col suo bagliore case crollate e fabbriche in rovina; poi cumuli di cadaveri scheletriti ai piedi di un rogo, in una tetra cornice di fumo e di filo spinato; poi una capanna di canne sotto una pioggia tropicale, e dentro, sul pavimento di terra nuda, un bambino stava morendo; poi una squallida distesa di campi non coltivati e ridotti a paludi, e di foreste senza foglie; poi un villaggio, ed una valle intera, invasi e sepolti da una gigantesca marea di fango. (624)

Sono queste le scene che spingono il non-nato ad accettare un’esistenza umana: è l’empatia suscitata dalla sofferenza altrui a convincerlo più di ogni retorica, al punto da volerla condividere e «nascere a caso, come ognuno: fra i miliardi di nascituri senza destino» (625). E qual è la motivazione di tale scelta? La vergogna. Una vergogna che ci sarà comunque, qualunque sia la condizione sociale ed economica, perché è ciò che si prova ad essere parte del genere umano sapendo che vi sono altri uomini che soffrono ingiustamente (cfr. 1985, SES, OII 1057-58). Per questo motivo S. preferisce nascere «senza indulgenze e senza condoni», perché nonostante i propri difetti vuole essere un uomo giusto: «Preferisco essere solo a fabbricare me stesso e la collera che mi sarà necessaria»44, per non dover «chinare la fronte per tutta la vita davanti a ciascuno dei miei compagni non privilegiati» (OI 625).

6.3 Le nostre belle specificazioni (1968-70)

A differenza di Procacciatori d’affari, che si focalizza sull’uguaglianza dei diritti di tutti e sulla responsabilità etica delle scelte che si fanno nella costruzione di sé, il racconto Le nostre belle specificazioni introduce una prospettiva più antropologica, affrontando il rapporto tra poiesi e antropopoiesi, tra le abilità creative ed ermeneutiche degli esseri umani e una possibile identità di specie. Vi è però un tratto in comune tra i due racconti: il contesto commerciale che fa da sfondo alla vicenda. Se in Procacciatori d’affari i funzionari devono convincere un non-nato ad “acquistare” una vita umana, in Le nostre belle specificazioni l’impiegato Renaudo è alle prese con le procedure burocratiche di approvazione della «Specifica 366 478, Uomo» (VF, OI 664). In un certo senso il secondo racconto potrebbe essere il seguito del primo: là, in conclusione, si afferma che «ogni uomo è artefice di se stesso» e S. sceglie di «esserlo appieno, costruirsi dalle radici» (625); qui si ribadisce che il sistema delle specificazioni vige «in ogni parte del mondo in cui l’uomo si sia fatto fabbro» (670), è questa la condizione fondamentale dell’esistenza umana. I procacciatori d’affari vendono la vita umana ai non-nati, le specificazioni sono i criteri in base ai quali è decretata l’«accettazione» del «materiale in entrata», gli esseri umani assunti nell’Azienda in cui si svolge la vicenda (664).

Il processo descritto è una forma di adattamento selettivo: solo chi è fit all’ambiente (azienda) viene accettato nel mondo, salvo poi continuare a rispettare certi parametri per avere il diritto di sopravvivere. Renaudo reputa tutto ciò una «scemenza disumana» (667). A mio avviso, lo scandalo non è per il rigore nel controllo delle specifiche, quanto piuttosto per il fatto che il caso, l’anomalia componenti essenziali della vita non sono accettatati, e quindi nemmeno la novità: in breve, si richiede un’esistenza in cui non ci può essere creatività. L’evoluzione è pianificata e regolamentata. Le nostre belle specificazioni mostra il lato negativo della staticità, e si contrappone ad altri racconti in cui la novità e la metamorfosi sono accettate come una ricchezza e una possibilità di crescita (La grande mutazione, 1983, RS, OII 868-72; Disfilassi, 1978, L, OII 93-99), anche se presentano dei rischi (Angelica Farfalla, 1962, SN, OI 434-41). Non si riconosce che alla formazione di un embrione (epigenesi) «faranno seguito tutte le complessità dello sviluppo, e a questo punto l’aspetto combinatorio dell’embriologia, sottolineato dal termine epigenesi, imporrà nuove prove di conformità» (Bateson, Mente e natura, 236; corsivo mio), cioè diverse da quelle della specifica applicata all’origine.

In questo racconto, l’attività poietica umana non è una forma di creatività libera, è piuttosto codificata in un sistema rigido che vuole ordinare ogni opera dell’ingegno e addirittura trovare i tratti distintivi di tale facoltà inventiva. È un mondo in cui dominano «la normalizzazione, l’unificazione, la programmazione, la standardizzazione, e la razionalizzazione della produzione» (OI 670). In un contesto siffatto si inserisce un importante conversazione tra Renaudo e il direttore dell’Azienda, il cavalier Vittorio Amedeo Peirani, il quale avanza una proposta per superare la separazione tra pensiero scientifico e umanistico, un tema caro a Levi. L’integerrimo cavalier Peirani, infatti, osa dire: «Non hai mai avuto il dubbio che l’evidente divorzio fra le dottrine tecniche e quelle morali, e l’altrettanto evidente atrofia di queste ultime, siano dovuti proprio al fatto che l’universo morale manca finora di definizioni e tolleranze valide?» (663). La via suggerita per il dialogo tra le due culture è quella della rigidità: solo perseguendo «tecniche di unificazione» e trovando regole precise a cui conformarsi le discipline morali potranno «prolifera[re] rigogliosamente» (670).

Il racconto mostra gli esiti assurdi a cui la razionalizzazione e la normatività possono condurre se applicate a tutti i campi dell’esistenza, e Peirani è la vittima illustre di tale sistema, costretto a dimettersi perché «ormai sprovvisto dei requisiti di conformità alla specificazione» (670). L’assurdità di un mondo in cui la tecnica domina sull’uomo è palese e viene presentata sotto una veste comica in cui il buon senso di Renaudo si scontra con l’inflessibilità di Peirani e del sistema, grazie anche all’intervento del collega Di Salvo che combatte una battaglia contro le follie della burocrazia. La comicità, però, veicola anche un’ironia che riguarda l’argomento chiamato in causa da Peirani: la separazione delle due culture. L’esempio più eclatante è una della affermazioni che il cavaliere pronuncia in difesa del sistema vigente, una prolusione in cui si coglie l’ironia dell’autore in quanto ricalca un brano di Rabelais, come verrà spiegato in seguito a Renaudo da Di Salvo:

Il giorno in cui non solo tutti gli oggetti, ma anche tutti i concetti, la Giustizia, l’Onestà, o anche solo il Profitto, o l’Ingegnere, o il Magistrato, avranno la loro buona specifica, con le relative tolleranze, e ben chiari i metodi e gli strumenti per controllarle, ebbene, quello sarà un gran giorno. (663)45

Ironicamente Peirani usa le parole di un maestro delle belle lettere, dissacratore di ogni autorità e trasgressore di ogni vincolo imposto alla creatività. Lo stesso meccanismo retorico è all’opera in un’altra affermazione del cavaliere:

con questo mio lavoro di trent’anni fa ho apportato un contributo, piccolo ma definitivo, all’ordine dell’azienda e quindi all’ordine del mondo. Una specifica è opera sacra: occorre fatica e devozione per compilarla, e anche umiltà, che a lei manca; ma una volta compilata, e approvata dagli uffici competenti, deve restare, come una pietra d’angolo. (663)

L’attribuzione di sacralità alle pratiche burocratiche e la similitudine biblica echeggiano nuovamente il testo di Rabelais, in cui le decretali hanno origine divina.

Un altro esempio dell’ironia che nasce dal contrasto con la proposta di Peirani è il modo in cui Di Salvo descrive la burocrazia ricorrendo ad una tecnica tipica del sapere umanistico: il pensiero analogico, una forma di produzione che, ovviamente, non ha nulla a che vedere con la standardizzazione e la razionalizzazione. «Una pratica, vedi, è uno strano uccello. Sotto certi aspetti assomiglia a un seme, sotto altri a un bisonte» (666). Partendo da questa analogia Di Salvo sviluppa un’ardita allegoria dei percorsi della burocrazia, una figura di pensiero che viene accolta anche da Renaudo per affrontare il proprio dilemma morale e decidere cosa fare della pratica di cui nessuno è ancora a conoscenza.

La questione etica che tormenta Renaudo ricorda quella del muratore di Fossano che «detestava la Germania, i tedeschi, il loro cibo, la loro parlata, la loro guerra; ma quando lo misero a tirare su muri di protezione contro le bombe, li faceva diritti, solidi, con mattoni bene intrecciati e con tutta la calcina che ci voleva; non per ossequio agli ordini, ma per dignità professionale» (1985, SES, OII 1087). Renaudo non vuole essere negligente ma, al contrario del muratore, il lavoro non è l’unico mezzo che ha per affermare la propria dignità, possiede ancora un margine di libertà che gli permette di opporsi a ciò che considera «una scemenza disumana» (667). Per il muratore di Fossano poiesi e antropopoiesi coincidono, Renaudo invece può scegliere un’altra via per autodeterminarsi, ma non sa decidere.

Il tema dell’antropopoiesi è strettamente connesso al contrasto fra dottrine tecniche e morali: è una questione di come costruire se stessi, di quale «tipo umano» si vuole essere.

A Renaudo piaceva classificare i suoi simili: non ridurli a schemi, ma soffermarsi così, da dilettante, sulle loro somiglianze e dissimiglianze, prevederne i comportamenti, frugare nei motivi da cui scaturiscono le parole e le azioni. (667)

Le classificazioni di Renaudo non sono rigide come quelle imposte dal sistema, anzi, egli ricorre al linguaggio figurato per identificare persone e relazioni umane46. In quest’ottica Peirani è il «tipo umano […] del “right or wrong, my country”, dell’obbedienza cadaverica del buon suddito» (668), fedele al sistema in cui crede, ossequioso a quella legge di Zeus che Prometeo ha osato mettere in discussione e per cui è stato punito. Renaudo però non è un eroe e non ha tratti prometeici, è piuttosto Di Salvo ad avere l’audacia e la “preveggenza” per sfidare l’ordine vigente:

Bisogna vedere più lontano, a costo di qualche rischio e di qualche scomodità: fare esplodere le contraddizioni del sistema, come suol dirsi. E mi attira l’eleganza del gioco, la sua giustizia e la sua economia: saranno le Decretali a liquidare se stesse. Per mano tua, se lo vorrai: se no, per mano mia. (669)

Alla fine il gesto di Di Salvo non raggiunge l’obiettivo che si era prefisso, ma è comunque necessario e giusto, il timore e l’inazione di Renaudo non sono la soluzione di nulla, non possono portare a nessun cambiamento, e nell’etica di Levi ciò non è accettabile.

 

6.4 Il fabbricante di specchi (1985)

Anche il racconto Il fabbricate di specchi affronta la questione del rapporto tra poiesi e antropopoiesi, questa volta introducendo l’aspetto sociale come elemento chiave della costruzione d’identità. Il protagonista non è né il «buon suddito» obbediente che compila Decretali con cui ordinare il mondo e gli individui, né un ardito impiegato che tenta di fare implodere il sistema; tuttavia, il conflitto tra controllo e creatività rimane. Timoteo è colui che, per cogliere la ricca varietà del mondo e il mistero dell’identità di un essere umano, «[f]in da ragazzo, di nascosto dal padre e dal nonno, aveva trasgredito le regole della corporazione», e solamente con la morte di suo padre, «sciolto dal vincolo della tradizione» (RS, OII 894), può essere creativo in modo libero.

I primi effetti di questa libertà sono immediatamente associati ad un commento metafisico, quasi a voler rimarcare l’inestricabile rapporto tra poiesi ed esistenza:

Che cosa fa uno specchio? «Riflette», come una mente umana; ma gli specchi usuali obbediscono a una legge fisica semplice e inesorabile; riflettono come una mente rigida, ossessa, che pretende di accogliere in sé la realtà del mondo: come se ce ne fosse una sola! Gli specchi segreti di Timoteo erano più versatili. (894)

L’angolazione è decisamente diversa da quella con cui Levi presenta il burocratizzato tentativo di comprensione del mondo in Le nostre belle specificazioni. Gli specchi «segreti» riflettono «un mondo più rosso o più verde di quello vero, o variopinto, o con contorni delicatamente sfumati, in modo che le persone e gli oggetti sembr[ano] agglomerarsi fra loro come nuvole» (894), e a volte danno risultati non previsti, proprio come le combinazioni del mondo reale47.

L’ambizione di sperimentare di Timoteo personaggio «dall’aria arguta, trasognata» (896), molto simile a quel «piccolo prometeo nocivo» che è Gilberto (Alcune applicazioni del Mimete, 1964, SN, OI 461), ma anche ai prometeici “dottori” da laboratorio di altri racconti48 lo porta a voler creare uno «Spemet», uno «specchio metafisico» che «non obbedisce alle leggi dell’ottica, ma riproduce la tua immagine quale essa viene vista da chi ti sta di fronte» (OII 895). Ecco introdotta la dimensione sociale della costruzione didentità: il modo in cui si è visti dagli altri è parte di come si è, anzi, determina il fatto che non esista un vero «io»:

Distribuì vari Spemet ai suoi amici più cari. Notò che non due immagini coincidevano fra loro: insomma, un vero Timoteo non esisteva. (897)

Lo stesso argomento era stato affrontato da Levi molti anni prima, nel confronto istituito fra l’esistenza umana “ordinaria” e l’esperienza del lager; scriveva infatti: «Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo» (OI 168)49. Nonostante questa affinità tematica, Il fabbricante di specchi affronta però i problemi di un mondo ordinario: non si avverte la necessità di sentirsi ancora uomini, e non vi sono riflessioni sulla costruzione intersoggettiva della propria identità che vadano oltre le poche righe citate. Le osservazioni del narratore sono scontate e di ciò il lettore è avvertito fin dal momento in cui l’invenzione di Timoteo viene presentata per la prima volta: «l’idea era vecchia, l’aveva già pensata Esopo e chissà quanti altri prima e dopo di lui, ma Timoteo era stato il primo a realizzarla» (OII 895). Così l’atmosfera del racconto mantiene un’aura di ordinarietà e la narrazione presenta episodi ovvi: l’ex-fidanzata lo vede come un essere disgustoso, «calvo, […] le labbra socchiuse in un sogghigno melenso da cui trasparivano i denti guasti»; per la madre è un «sedicenne, biondo, roseo, etereo e angelico» (896); e alla nuova ragazza sembra un dio greco, tanto che, commenta ironicamente il narratore, guardando nello Spemet, «in quel momento, Timoteo si accorse di amare Emma di un amore intenso, dolce e duraturo» (897). In aggiunta a tale rappresentazione della mediocrità dei rapporti umani, anche il valore dell’ingegno è sminuito da una valutazione basata sull’utile economico che se ne può ricavare:

Notò ancora che lo Spemet possedeva una virtù spiccata: rinsaldava le amicizie antiche e serie, scioglieva rapidamente le amicizie d’abitudine o di convenzione. Tuttavia ogni tentativo di sfruttamento commerciale fallì: tutti i rappresentanti furono concordi nel riferire che i clienti soddisfatti della propria immagine riflessa dalla fronte di amici o parenti erano troppo pochi. Le vendite sarebbero state comunque scarsissime, anche se il prezzo si fosse dimezzato. (897)

Se teniamo conto dell’etica di Levi e del ruolo fondamentale che egli attribuisce alla creatività, la situazione rappresentata ne Il fabbricante di specchi non è poi così lontana da quella del lager50. Così come ad Auschwitz «l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo», analogamente una società in cui non si è in grado di accettare la diversità di prospettiva dello sguardo altrui è un ambiente “disumano” (cfr. Gordon 133-54). È un mondo in cui la fiamma dell’ingegno si spegne sotto l’azione distruttiva dell’inerzia, riducendo Timoteo a sterile fabbricante, non più artigiano e inventore:

Timoteo brevettò lo Spemet e si dissanguò per alcuni anni nello sforzo di mantener vivo il brevetto, tentò invano di venderlo, poi si rassegnò, e continuo a fabbricare specchi piani, del resto di qualità eccellente, fino all’età della pensione. (OII 897)

L’evento intorno a cui il racconto si muove è l’incontro con lo sguardo altrui, incontro reso possibile dall’abilità poietica dell’uomo, ma tale evento è perturbante: non si è in grado di riconoscere se stessi l’idea che si ha di se stessi – in ciò che il punto di vista altrui ci mostra. La nostra identità si forma anche nella relazione con gli altri e, guardando negli Spemet, le «esteriorizzazioni semi-reificate dell’alterità che è in noi ci rivelano che il sé, come anche il corpo (che nel caso dello Spemet cambia effettivamente per meglio riflettere il sé percepito), è fondamentalmente unheimlich» (Ross 37).

 

7. Prometeo e il dottor Frankenstein

Tra i racconti che presentano un’affinità con il mito di Prometeo ve n’è un gruppo con una notevole caratteristica comune: la presenza di un personaggio prometeico che si cimenta in esperimenti sugli esseri umani, sia egli un dottore, un medico o uno scienziato che si occupa di biologia o genetica. Questi personaggi ricordano il dottor Frankenstein del racconto omonimo di Mary Shelley, colui che è riuscito a creare la vita in laboratorio, unendo parti di corpi umani. Frankenstein è un personaggio prometeico che «ritorna ossessivamente in Levi, nelle sue riflessioni sul problema dello scienziato come inventore e trasgressore dei limiti» (Gordon 158 e 169), un personaggio nel cui orizzonte si trova il tema dell’antropopoiesi intrecciato ad aspetti che riguardano la poiesi e le relazioni con altri esseri viventi. La storia del dottor Frankenstein è talmente nota che per il lettore è facile istituire collegamenti a partire dai racconti di Levi, nei quali si trovano diversi tentativi di trasformazione-creazione della materia organica. Il mondo in cui sono ambientati i racconti leviani, però, è estremamente più complesso di quello in cui studia e opera il dottor Frankenstein le possibilità offerte dalla tecnica si sono moltiplicate e così anche gli esiti degli esperimenti ma l’insegnamento morale che se ne può trarre non è molto distante da quello del racconto dell’autrice inglese.

7.1 Angelica Farfalla (1962; 1965 [radio])

Il racconto Angelica Farfalla (SN) affronta il caso della metamorfosi dell’uomo in un essere alato tramite un processo di evoluzione indotta, una forma di antropopoiesi ideale: la trasformazione dell’uomo in angelo.

L’atmosfera lugubre del paese abbandonato che si incontra nell’incipit è evocata anche in un saggio dal titolo Farfalle (1981, AM, OII 751-54), dove si descrive un ambiente ospedaliero caratterizzato da sofferenza e morte: «L’edificio, attualmente (1981) in ristrutturazione, che ospitava l’Ospedale di San Giovanni Battista di Torino, non è un luogo ameno. Le sue mura vetuste e le altissime volte sembrano imbevute dei dolori di generazioni; i busti dei benefattori, che fiancheggiano le scale, guardano il visitatore con l’occhio senza sguardo delle mummie» (751)51. La somiglianza del titolo e dell’ambientazione iniziale non sembrano casuali, e l’analogia tra i due scritti continua anche nel modo in cui si sviluppa il discorso. Il racconto ha un titolo che evoca un’immagine celestiale ma l’incipit presenta immediatamente uno scenario inquietante e, successivamente, le «angeliche farfalle» sono descritte a partire dai resti trovati fra le ceneri, presentate in tutta la loro mostruosità. Anche il titolo del saggio probabilmente suscita immagini di bellezza e armonia con il semplice riferimento alle farfalle, ma l’introduzione del tema avviene circoscrivendo il luogo – un edificio che evoca ricordi tristi e funesti – in cui il narratore ha osservato i corpi defunti di questi animali. Inoltre, le creature sono in seguito presentate da una prospettiva che reifica l’animale e suscita un effetto di straniamento: descrivendone la vista al microscopio, infatti, Levi sottolinea che «per la maggior parte degli osservatori, all’ammirazione subentra l’orrore o il ribrezzo. In assenza dell’abitudine culturale, quest’oggetto nuovo ci sconcerta; gli occhi enormi e senza pupille, le antenne simili a corna, l’apparato boccale mostruoso ci appaiono come una maschera diabolica, una parodia distorta del viso umano» (752). A rafforzare il contrasto fra senso comune e inquietudine suscitata si parla poi di «lunga ombra ammonitoria», di «mistero conturbante della metamorfosi» e del significato simbolico che tale processo naturale assume «negli strati profondi della nostra coscienza», aspetti che sono evocati dalle leggende popolari o da scrittori quali il “crepuscolare” Guido Gozzano o il “mistico” Herman Hesse (753-54).

Il saggio è stato scritto oltre vent’anni dopo il racconto ma non stupisce che tra i due lavori vi sia affinità nonostante tale distanza temporale. I temi affrontati e evocati, infatti, sono ricorrenti e cruciali per Levi: il rapporto estetico distorto fra esseri umani e regni vegetale e animale, l’ambiguità insita in ogni fenomeno e in ogni creatura, la metamorfosi animale che allude alla capacità antropopoietica. A mio avviso, il valore aggiunto di Angelica Farfalla è che il contesto di fiction e l’abile costruzione narrativa52 permettono all’autore di sfruttare l’enigmaticità e il mistero del racconto – a cavallo tra fantastico-gotico e fantascienza – per accrescere l’effetto di ambiguità che investe i temi affrontati e il risvolto etico dell’opera.

La tecnica antropopoietica presentata nel racconto è simile ad alcune tradizioni in uso fra popolazioni tribali, dove l’ingestione di certi alimenti ha una funzione centrale nei riti di passaggio all’età adulta (cfr. Calame, Promethée genéticien 92-98). Il professor Leeb «si propone di sottoporre interi villaggi, per generazioni, a regimi alimentari pazzeschi, a base di latte fermentato, o di uova di pesce, o di orzo germinante, o di poltiglia di alghe» (OI 438) per innescare il processo di metamorfosi dell’organismo e indurre l’evoluzione in «angelica farfalla». A tale forma tradizionale di antropopoiesi si aggiunge però anche l’intervento della tecnologia più avanzata: infatti, è solo «da qualche decennio» che i biologi riescono a pilotare i processi fisiologici di metamorfosi tramite la somministrazione di «estratto tiroideo» (437).

Il racconto di questo macabro tentativo rende palese il rapporto distorto dell’uomo con la natura: le farfalle non sono belle per noi (cfr. Farfalle, 1981, OII 752; Perché gli animali sono belli?, 1980, RR, OII 1383-87), la natura non è al servizio dell’uomo che vuole sperimentare indiscriminatamente sugli animali o con la genetica. A confermare tale interpretazione contribuisce anche il fatto che l’opera del dottor Leeb è accomunata alle teorie di Alfred Rosenberg, autore de Il mito del XX secolo, il cui lavoro è frutto di un uso improprio dell’ingegno umano53. «Su quali basi sperimentali?», viene chiesto a proposito della validità delle teorie di Leeb. «Nessuna, o poche. È agli atti un suo lungo manoscritto: una ben curiosa mistura di osservazioni acute, di generalizzazioni temerarie, di teorie stravaganti e fumose, di divagazioni letterarie e mitologiche, di spunti polemici pieni di livore, di rampanti adulazioni a Persone Molto Importanti dell’epoca» (OI 438). La questione non riguarda quindi la «schisi innaturale» tra scienza e discipline umanistiche (“Premessa”, 1985, AM, OII 632) e i pericoli a cui può esporre l’ignoranza delle leggi del mondo naturale. Interpretare il racconto in questi termini vorrebbe dire leggerlo con la lente dell’umanista più attento al contenuto del proprio sapere piuttosto che ai modi in cui esso è acquisito. Il racconto è invece ambiguo: da un lato affascina perché evoca un potenziale umano che tende al celestiale, ma dall’altro è perturbante perché mostra come il sogno possa facilmente diventare un incubo. La vicenda riporta il lettore ad una dimensione più pragmatica, mostrando come sia nocivo ignorare l’importanza della conoscenza che deriva dal fare le cose, dallo sperimentare prima di costruire teorie.

Il colonnello, infatti, mette in evidenza il contrasto fra teoresi e prassi, e la prima volta che esprime la sua opinione sul dottor Leeb lo “assolve” proprio per la sua attenzione ai fatti: «[i]l suo era un tempo propizio alle teorie, sapete bene, e se la teoria era in armonia coll’ambiente, non occorreva molta documentazione perché venisse varata e trovasse accoglienza, anche molto in su. Ma Leeb, a modo suo, era uno scienziato serio: cercava i fatti, non il successo» (OI 436). Inoltre, questo commento sul pragmatismo del dottore incontrato prima che il lettore venga a conoscenza dei suoi macabri esperimenti acquista un risalto maggiore anche per il contrasto con il dialogo che segue subito dopo, in cui il colonnello afferma: «membro quale sono della Chiesa presbiteriana… insomma credo in un’anima immortale, e tengo alla mia», ma viene interrotto dal chimico Hilbert che lo sprona a sua volta ad un atteggiamento pragmatico: «Ci dica quello che sa, per favore. Non per niente, ma dal momento che sono tre mesi ieri che tutti noi non ci occupiamo d’altro… Mi pare giunto il momento, insomma, di sapere a che gioco si gioca. Anche per poter lavorare con un po’ più di intelligenza, capisce» (436). È dopo queste battute che l’assenza di basi sperimentali nel lavoro di Leeb viene messa in luce, sciogliendo ogni riserva sul suo essere un personaggio negativo, in quanto ha lasciato che il caos e un certo idealismo prendessero il sopravvento sulla sua impresa.54 Solo a questo punto la scena è pronta per accogliere la testimonianza di Gertrude Enk, una giovane ragazza che svela progressivamente gli orrori degli esperimenti del professore.

Il lavoro di Leeb ricorda molto quello di un altro celebre dottore tedesco, Frankenstein, e il racconto della ragazza riconduce all’archetipo comune ai due: Prometeo. Entrambi scoprono che i principi che regolano le trasformazioni di un organismo vivente sono imprevedibili e non controllabili: sia Frankenstein che Leeb creano dei mostri55 ma la presenza del mito di Prometeo è diversa nei due racconti. Mentre il personaggio di Shelley intraprende l’impresa di creare l’uomo dalla materia inanimata, l’attenzione di Levi si focalizza invece sulle conseguenze a cui possono portare esperimenti che forzano i limiti vigenti, e il mito che emerge dalle sue pagine è rovesciato: l’avvoltoio non tormenta il Prometeo postmoderno, anzi, è l’animale ad essere incatenato e divorato. E non è Leeb-Prometeo ad accanirsi sugli avvoltoi, sono coloro che hanno assistito come “spettatori” a mangiarli, non per un ordine superiore ma per necessità naturale: «tutti avevano fame» (440). Le leggi di natura vengono trasgredite e le leggi di natura decretano la punizione, ma ad essere punito non è il trasgressore. Mito e memoria si sovrappongono: la vittima è un innocente, è colui che appare diverso e che non viene riconosciuto come nostro simile; i deportati ormai trasformati in «bestiacce» non sono più umani, sono il capro espiatorio, mentre il trasgressore è libero e, «cercando bene, lo si troverebbe, forse non tanto lontano» (441)56.

7.2 Versamina (1965; 1966 [radio])

Un’ambientazione simile a quella di Angelica Farfalla si incontra nel racconto Versamina, in cui un chimico visita l’Istituto in cui aveva lavorato molti anni prima, in tempi di maggiore attività. L’atmosfera è desolata e tutto appare degradato in confronto ai ricordi del chimico Dessauer; si è conservato immutato solo un individuo che è sempre apparso logoro, il vecchio assistente e custode Dybowski, il quale si incarica di raccontare la storia del defunto collega Kleber, «Wunderkleber, come lo chiamavano, Kleber dei miracoli» (SN, OI 467), novello Frankenstein.

Simile al professor Leeb, Kleber è presentato come uno «della vecchia scuola, credeva più a i fatti che alle statistiche» (468-69), «testardo, serio, attaccato al lavoro, istruito, abilissimo. Non gli mancava neppure quel filo di follia che nel nostro lavoro non guasta» (468). Come in Angelica Farfalla, anche qui lo scienziato è introdotto tramite una descrizione che ne mette in risalto le qualità positive, le virtù di uomo pragmatico, ma in questa occasione si incontra anche un’altra importante caratteristica prometeica, quel «filo di follia» che ha spinto il titano a infrangere gli ordini di Zeus, e Frankenstein le leggi naturali e divine. L’ambizione di Kleber emerge in modo progressivo nella storia ma l’atrocità della sua trasgressione è evidente fin dalla scoperta della prima «versamina»: conigli, uomini, cani, cavie e topi sono trasformati in bestie autolesioniste che compiono gesti feroci con conseguenze raccapriccianti.

Personaggio di un mondo senza dei, Kleber si autoinfligge la propria pena e comincia a drogarsi dopo aver stipulato un accordo economico con una compagnia farmaceutica57. In questo modo il mito di Prometeo estende sempre più la propria ombra sul racconto: già trasgressore, il professore firma la propria condanna per ambizione e avidità («fece un contratto con la OPG, e cominciò a drogarsi», 473), assumendo quindi anche il ruolo di Zeus, nonché quello dell’aquila che gli divora il fegato. Al termine della storia raccontata da Dybowski, sono le riflessioni di Dessauer a rendere chiaro quale sia la legge trasgredita da Kleber:

il dolore non si può togliere, non si deve, perché è il nostro guardiano. Spesso è un guardiano sciocco, perché è inflessibile, è fedele alla sua consegna con ostinazione maniaca, e non si stanca mai, mentre tutte le altre sensazioni si stancano, si logorano, specialmente quelle piacevoli. Ma non si può sopprimerlo, farlo tacere, perché è tutt’uno con la vita, ne è il custode. (476)

Il racconto si conclude con una metafora che attribuisce al dolore il mestiere di custode, con un’eco intratestuale che riporta all’incipit, in cui si trova un commento generico sui lavori che distruggono e conservano: «Fra quelli che conservano meglio, per un naturale compenso, sono appunto i mestieri che consistono nel conservare qualcosa» (467). Ne consegue che il dolore è sempre presente proprio perché è il «custode» della vita.

Etica ed estetica sono intimamente connesse, qui come anche in altri racconti, e il lettore si trova in una situazione complessa e di difficile interpretazione. Inoltre, Levi utilizza la tecnica della mise en abyme per rappresentare e allo stesso tempo dissimulare il processo estetico in atto: Dybowski il quale è narratore ma anche spettatore, avendo «visto tutta la storia solo dalla parte dei cani» (473) esplicita che «[a] guardarli, era una cosa orribile e affascinante» (471). È così che il lettore si sente di fronte a molti dei racconti di Levi, diviso fra attrazione per il potenziale dell’ingegno umano e repulsione per le perversioni a cui può condurre. Tale tensione ossimorica pervade tutta la narrazione, sia sul piano della vicenda sia sul piano dell’organizzazione retorica del discorso, e nell’ultimo paragrafo assume la forma di una citazione letteraria. Nell’epilogo, infatti, è riportata la reazione di Dessauer al racconto del vecchio Dybowski: «[p]ensava a molte cose confuse insieme», «contraddittoriamente» (476). E a questi pensieri si aggiunge anche «una di quelle associazioni di cui la memoria è generosa», ossia un’evocazione analogica di alcuni versi del Macbeth, con i quali il racconto si conclude: «Fair is foul, and foul is fair: / Hover through the fog and filthy air».

Sono state date varie interpretazioni di tale scelta retorica ma non ne è stato finora rilevato il valore in rapporto alla fictionality del contesto58. A mio avviso, la citazione non ha solamente un ruolo precipuo nel sintetizzare in un’immagine la complessità della questione etica sollevata, lasciando ancora una volta il lettore a «brancolare nella nebbia» senza risposte. Proprio per la sua appropriatezza e per la sua collocazione in fine di racconto, credo che la citazione abbia anche la funzione di sottolineare il valore della scrittura di finzione: formazione di compromesso che permette di condensare e rappresentare il carattere contraddittorio e paradossale dell’esistenza. In tutto il racconto la finzionalità è messa in evidenza da vari segnali testuali che ricordano al lettore il contesto scenico della narrazione, ed è allo stesso tempo dissimulata dagli elementi biografici e cronachistici del racconto di Dybowski, testimone oculare della vicenda narrata59. Ma il finale sancisce il potere della fiction, strumento che permette di cogliere e comunicare i paradossi della vita. Così, anche se siamo condannati a «vagare nella nebbia e nell’aria sudicia», in una terra «mai vista ma meglio che vista» dove «il giusto è orribile, e ciò che è orribile è giusto», la letteratura è un pharmakon migliore delle versamine perché ci aiuta a comunicare e condividere le nostre esperienze, «anche i dolori più pesanti e più lunghi, il dolore di un’assenza, di un vuoto attorno a te, il dolore di un fallimento non riparabile, il dolore di sentirti finito» (476).

7.3 La bella addormentata nel frigo (1952; 1961 [radio]; 1978 [tv])

Ne La bella addormenta nel frigo vi è un uso del mito greco piuttosto libero che, pur non essendo molto evidente, è a mio avviso fondamentale per comprendere l’organizzazione retorica del racconto. L’esito narrativo è una sorta di smembramento della figura di Prometeo, la quale si trova riflessa in personaggi diversi, con un conseguente annebbiamento dei confini morali dell’intera vicenda. In questo racconto gli uomini di scienza cercano di combattere il destino mortale degli umani ed inventano a questo scopo la tecnologia criogenica.

La questione dell’uso della tecnica è affrontata ponendo attenzione alle possibili ricadute negative. Si assiste infatti all’inquietante vicenda in cui sono gli stessi uomini che hanno saputo dimostrare la propria grande abilità inventiva a far soffrire le pene di Prometeo ad un altro essere umano: Patricia è “incatenata” alla sua cella frigorifera ed è condannata a subire le ripetute molestie del proprio custode. Una possibile conseguenza dell’hybris umana, dunque, è anche quella di una scissione tra carnefici e vittime: la tecnica prometeica ha portato ad avere da un lato esseri umani che interpretano le parti di Zeus torturatore e dell’avvoltoio e, dall’altro lato, un essere umano incatenato e sofferente. Ma la divisione non è così netta come può apparire: Patricia ama pensare che sarà bella e giovane in eterno e, inoltre, si è offerta volontaria per l’esperimento, allettata dai guadagni che avrebbe potuto fare vendendo le memorie dei suoi incontri con uomini illustri60. In lei si ritrova quindi quell’aspetto delle arti prometeiche che guarda all’utilità (ophelémata), però nella versione degenerata che valuta i risultati delle azioni in termini di profitto economico. In ultimo, Patricia utilizza la propria astuzia per indurre Baldur a liberarla, salvo poi sbarazzarsi di lui. La divisione dei ruoli scenici, dunque, inizialmente appare chiara ma viene messa in discussione con l’avanzare dell’azione.

Le analogie con il mito non si limitano alla sola versione greca, sono infatti individuabili delle affinità anche con il moderno Prometeo di Mary Shelley. I risvegli di Patricia ricordano quelli del mostro creato in laboratorio dal dottor Frankenstein61, risvegli che però non sono accompagnati dal terrore di chi vi assiste, anzi, l’alterazione di un essere vivente oltre i limiti imposti dalla natura diventa occasione di spettacolo. L’esperienza è perturbante per gli astanti, i quali sono attratti ma anche timorosi di fronte alla novità: «il corpo della donna costituisce un fragile, ma cristallizzato, raccordo tra mondi distinti, fungendo, altresì, da “oggetto mediatore” tra più dimensioni» (Di Fazio 33). Patricia incarna il processo di convergenza tra natura e tecnica in atto nella società, è emblema delle possibilità offerte dalle technai, una creatura la cui esistenza è controllata dalla tecnologia ma che allo stesso tempo sfugge ad essa, proprio come il mostro creato dal dottor Frankenstein62.

Nel contesto di un discorso che indaga i processi enciclopedici che interessano la composizione retorica dei racconti, è interessante rilevare anche altri indici di intertestualità che confermano quanto sia frequente la tendenza di Levi a far convergere e ibridare tradizioni diverse. Come è evidente, il titolo del racconto è un riferimento alla popolare fiaba appartenente ad un folclore transnazionale, e la grande popolarità di queste narrazioni crea delle difficoltà nel ricostruire le influenze intertestuali. Quale versione della fiaba aveva letto Levi? E con quale intento propone la propria rielaborazione fantascientifica? In dialogo con quali testi e con quali tradizioni si pone? Il racconto, con i suoi elementi perturbanti, potrebbe considerarsi una provocante risposta alla casta versione di Perrault, forse la più celebre delle varianti. Inoltre, sono riscontrabili delle affinità con una versione più antica della fiaba, quella di Cesare Basile intitolata Sole, Luna e Talia, in cui sono rappresentati perturbanti episodi di deflorazione, stupro e infedeltà coniugale, temi ripresi in maniera più allusiva anche da Levi.

Mito greco, racconto fantastico e fiaba popolare: La bella addormentata nel frigo sfrutta le risorse di tre narrazioni estremamente conosciute per costruire una trappola morale che metta in scena situazioni ambigue e perturbanti. Il lettore è divertito dalla parodia del titolo della fiaba e dall’ironia che investe i cliché da commedia borghese e, grazie a questi espedienti, i temi trattati e le questioni etiche sollevate si insinuano nella memoria.

 

8. L’antropopoiesi narrativa: Lavoro creativo e Nel parco (1968-70)

Nella coppia di racconti Lavoro creativo e Nel parco, si ha quel gioco di rispecchiamenti che si è già incontrato in La bella addormentata nel frigo, con ulteriori forme di intertestualità che legano la raccolta del 1971, Vizio di forma, a quella del 1966, Storie naturali. Con il recupero di temi già affrontati ritorna anche il tema dell’ibrido, ma non nella forma del centauro bensì in quella dell’«ambigeno» (VF, OI 657), colui che è allo stesso tempo persona reale e personaggio letterario.

Per chi conosce Storie naturali, l’effetto suscitato dalla lettura è quello di identificare Antonio Casella come alter ego di Primo Levi scrittore, mentre James Collins è decisamente simile al signor Simpson. Collins, però, si presenta al lettore con diversi gradi e forme di esistenza: è il protagonista di «una fortunata raccolta di novelle»; è «un inventore, geniale ed un po’ stravagante, che creava straordinarie macchine per conto di una società americana» (652); è un abitante del Parco Nazionale, tecnico che sa rendersi utile per molti lavori che richiedono manualità e ingegno; ed è autore a sua volta, dunque anche alter ego dello stesso Levi, chimico e scrittore.

Questa rifrazione metanarrativa tra autori e personaggi assume la forma di un’esplorazione delle possibilità di antropopoiesi offerte dal raccontare. L’esistenza è costruita tramite il discorso, dice Collins al proprio creatore, «quello che conta, sono le testimonianze, e lei ne ha scritto un bel numero con le sue stesse mani, e, per comune consenso, sono valide» (657). E sempre Collins invita Casella alla responsabilità: «Adesso i giochi sono fatti, e io sono quello che sono, che diamine; non si metta in testa di cambiarmi, che tanto, gliel’ho già detto, non potrebbe. Un personaggio è come un figlio, quando è nato, è nato» (654). All’autore ormai anziano non resta quindi che «concep[ire] l’idea di fare da sé: di scrivere la propria autobiografia», garantendosi l’accesso al Parco Nazionale. Così in tre anni di lavoro «accumul[a] […] nel suo altro io tutte le virtù che non [ha] saputo costruire dentro di sé nella sua vita reale» (659). In questo caso la scrittura non è téchne che contribuisce all’antropopoiesi ma strumento nocivo usato a fini personali, attività mossa dallo stesso «spirito da Erostrato» esibito da Gilberto in Alcune applicazioni del Mimete (462). Casella alimenta con la scrittura letteraria la propria «speranza di immortalità», ironicamente definita dal narratore come «ragionevole» (659). Non avendo un fondamento etico l’impresa ha un esito solo illusoriamente positivo, poiché in ultimo conduce Casella all’isolamento, condizione che da Levi è sempre dipinta in toni negativi: «creò un mondo più vero del vero, al cui centro stava lui […]; pagina su pagina, pietra su pietra, si murò intorno un edificio». Ma l’ethos del narratore è ancora una volta ambiguo, perché il risultato del lavoro di scrittura è presentato come seducente, «armonioso e solido, fatto di viaggi, di amori, di combattimenti e di scoperte: una vita piena e molteplice, quale nessun uomo aveva mai vissuta» (659).

Il finale di Lavoro creativo fornisce indicazioni indispensabili per interpretare l’esperienza di Casella nel Parco poiché queste portano il lettore ad enfatizzare proprio l’aspetto solitario dell’esperienza di auto-fiction descritta nel racconto successivo. Il risultato di tale lettura intertestuale è la percezione che Nel parco sia una specie di parabola triste, lungo la quale Casella passa dall’entusiasmo per gli incontri con luoghi e personaggi che hanno a lungo vissuto nel suo immaginario letterario ad una fine malinconica, in cui «compre[nde] che il suo tempo [è] giunto, la sua memoria estinta, la sua testimonianza compiuta» (680). Una tristezza che lo avvicina ai protagonisti che vivono una qualche forma di solitudine in altri racconti di Vizio di forma, anche perché tale tristezza emerge sempre in corrispondenza del finale della narrazione63. Tornando però alla conclusione di Lavoro creativo, è interessante che l’ambiguità seducente che viene presentata al lettore sarà riecheggiata quasi dieci anni più tardi in Disfilassi (1978, L, OII 93-99): come Casella si sente «intimamente contento» (OI 659) della ricchezza con cui si è raccontato, pronto ad acquisire lo statuto di «ambigeno» e ad entrare nel Parco Nazionale, così Amelia, «con un ottavo di linfa vegetale che le corr[e] nelle vene» (OI 95), si abbandona alla conturbante fantasia di una fecondazione tra specie diverse. L’ibridismo è un tema caro a Levi e la tentazione di immaginare nuove forme di esistenza è irresistibile sia per Casella che per Amelia, ma l’ambientazione utopica e l’organizzazione retorica di entrambe le narrazioni costruiscono un contesto in cui la questione della positività della metamorfosi è lasciata in sospeso su due scene in cui la solitudine dei protagonisti è perturbante. Con il consueto senso della misura, Levi sembra metterci in guardia dal potere dei nostri desideri, una forza che se non è gestita in modo responsabile può destabilizzare qualsiasi proposito etico di vita sociale64.

Per concludere le riflessioni sulle forme di antropopoiesi letteraria è senz’altro pertinente un commento sulla distribuzione dei racconti in Vizio di forma, dato che non segue l’ordine cronologico di composizione. Non pare un caso, infatti, che tra Lavoro creativo e Nel parco si trovi Le nostre belle specificazioni. Fra due esempi di antropopoiesi narrativa Levi inserisce la rappresentazione di un’antropopoiesi “da ufficio”, burocratizzata e alienante, frutto della speculazione teorica di un impiegato eccessivamente zelante. Tale scelta nella disposizione dei racconti riproduce il procedimento già noto con cui Levi interrompe le divagazioni verso temi lirici e forse troppo idealistici (il sogno di Casella), riportando sempre il lettore al confronto con i vincoli pragmaticamente imposti dalla vita sociale. Nel parco accompagnerà poi nuovamente il lettore in un mondo fantastico alla seconda potenza, dove però troverà un’ambientazione «variopinta, pigmentata e distorta» (OI 676), in cui è facile isolarsi e restare imprigionati.

1Poiesi e antropopoiesi sono due istanze a cui sono riconducibili tutti e cinque i tipi di quel «compendio o tassonomia dell’invenzione o dell’inventore moderni» individuati da Gordon nelle opere di Levi: «[I]l primo è l’invenzione come forma di ri-configurazione o trasposizione imitativa di fenomeni esistenti […]; il secondo tipo è l’invenzione di un nuovo linguaggio, di un nuovo codice o canale di comunicazione […]; il terzo è l’invenzione in quanto analisi dei meccanismi […]. Il quarto tipo compie il breve passo che separa l’“invenzione” dall’affine virtù dell’“inventiva”, proseguendo poi verso l’“ingegno” e l’“astuzia” […]. La quinta […] è l’invenzione narrativa o letteraria» (169-72). Cfr. Bartezzaghi, “Le cosmichimiche di Primo Levi” (61–76).

2Le citazioni da Teogonia (Th.) e da Opere e giorni (Op.) sono tratte da Esiodo, Tutte le opere e i frammenti. Le citazioni da Prometeo incatenato (Pr.) sono tratte da Eschilo, Le tragedie.

3«I poeti, e chiunque eserciti una professione creativa ed individuale, hanno in comune con gli scacchisti la responsabilità totale dei loro atti. […] Anche se solo in occasione di un gioco, [sono] adult[i] e matur[i]» (Gli scacchisti irritabili, 1981, AM, OII 764). Ma i risvolti negativi e i limiti di un atteggiamento eccessivamente individualista sono poi esplorati, ad esempio, nel racconto Protezione (1968-70, VF, OI 573-77), o nel commento alla vicenda di Falaride e Perillo, narrata da Plinio nelle Naturalis Historiae (XXXVII, 89): «Se l’opera era stata inventata da Perillo, e proposta a Falaride, non c’è dubbio che Perillo, a quel tempo già famoso, meritava di essere punito (ma non necessariamente così, e non da Falaride, che accettando il manufatto si era reso complice dell’inventore)» (Covare il cobra, 1986, RS, OII 990-91).

4Cfr. anche la forma di resistenza e la dignità del prigioniero Steinlauf, basate sulla «facoltà di negare il nostro consenso» (1946, SQU, OI 35), cioè sull’uso responsabile della ragione.

5L’etica del dolore è enunciata esplicitamente nel racconto Un testamento (1977, L, OII 145-48) e nei saggi Contro il dolore (1977, AM, OII 673-75) e Il brutto potere (1983, OII 1203-07). Damiano Benvegnù sintetizza in modo efficace la radicalità di questa concezione con il sintagma «Patior ergo sum», affermando che «differently from the solipsistic nature of the Cogito, Levi’s formula not only shapes the ontological status of the first person, the “Ego”, but inevitably applies to the presence of others» (“Primo Levi and the Question of the Animal” 90-91). Per quanto riguarda la prospettiva, gli errori di valutazione e le altre virtù dell’etica leviana legate alla capacità creativa, si veda la sezione “L’ingegno” in Gordon (99-173); cfr. anche la sezione “Homo faber” in Antonello, “La materia, la mano, l’esperimento” (103-15).

6Un esempio generale dell’importanza del mito di Prometeo nella concezione di ciò che è umano per Levi è il brano seguente: «le virtù dello scacchista, ragione, memoria ed invenzione, sono le virtù di ogni uomo pensante» (Gli scacchisti irritabili, 1981, AM, OII 763).

7Cfr. «Siamo quello che siamo: ognuno di noi, anche il contadino, anche l’artigiano più modesto, è ricercatore, e lo è da sempre»; «[q]uanto alla ricerca di base, essa può e deve proseguire: se l’abbandonassimo tradiremmo la nostra natura e la nostra nobiltà di fuscelli pensanti, e la specie umana non avrebbe più motivo di esistere» (Covare il cobra, 1986, RS, OII 992 e 993).

8Per l’utilitarismo etico di Levi, cfr. il capitolo “L’utile” in Gordon (83-98).

9Per rimanere in ambito letterario, senza citare gli interessi scientifici: sulla lettura di Joseph Conrad, cfr. Bertone, “Italo Calvino e Primo Levi”; su Melville, le prefazioni a Giovinezza e a un brano di Moby Dick (Un’occasione di provarsi e Il pozzo buio dell’animo umano, 1980, RR, OII 1414 e 1452); e Antonello ricorda anche la lettura di Arthur Conan Doyle (“La materia, la mano, l’esperimento” 109).

10Cfr. «Dunque, non solo l’uomo è forte perché tale si è fatto, fin da quando, un milione d’anni addietro, fra le molte armi che la natura offriva agli animali ha optato per il cervello: l’uomo è forte in sé, è più forte di quanto stimasse, è fatto di una sostanza fragile solo in apparenza, è stato misteriosamente progettato con enormi, insospettati margini di sicurezza» (La luna e l’uomo, 1968, RS, OII 928). «La facilità con cui l’uomo si adatta all’assenza di peso è un affascinante mistero. […] nulla della nostra lunga storia evolutiva ha potuto prepararci a una condizione così innaturale come la non-gravità. Abbiamo dunque margini di sicurezza vasti e imprevisti» (L’uomo che vola, 1985, RS, OII 976). Per Gordon, «[i]n Levi la pratica, ovvero prova ed errore, è un processo di vita, di apprendimento dal vivere. È fallibile per definizione, ma è iscritta nel sistema stesso della vita, dall’universo naturale in evoluzione fino all’individuo, come lo è nel lavoro letterario e nel raccontare storie» (147-48); cfr. Antonello, “La materia, la mano, l’esperimento” 111.

11Per una lettura delle opere di Levi che valorizzi la questione del legame tra razionalità e corporeità, cfr. Ross.

12Si noti come l’insistenza sul libero arbitrio e sulla responsabilità e il dolore che derivano dal suo esercizio sono aspetti comuni al mito di Prometeo e al mito biblico della creazione (cfr. infra, cap. 5, par. 2); ma nell’insieme dell’enciclopedia mitica leviana questi aspetti sono fondamentali anche per la storia del Golem (cfr. infra, cap. 4, par. 3.4).

13Sidereus nuncius è stata scritta l’11 aprile 1984, anno in cui era in corso la stesura de I sommersi e i salvati (cfr. OII 1563-66), e quindi la riflessione sulla «zona grigia», ma anche periodo in cui Levi scrive racconti in cui i temi della passiva omologazione e dell’alienazione della vita quotidiana hanno un ruolo importante (Anagrafe, 1981, OII 1162-65; La grande mutazione, 1983, RS, OII 868-72; Il fabbricante di specchi, 1985, RS, OII 894-97). La sostituzione dell’aquila del mito greco con la figura dell’avvoltoio è ricorrente in Levi (Angelica Farfalla, 1962, SN, OI 440; Pieno impiego, 1966, SN, OI 527).

14Si ricordi che la sua figura è stata interpretata anche come trickster (cfr. Bianchi 127; Kerényi, “Prometeo”).

15Il verme è metafora dell’uomo, eco dantesca (Purgatorio, X, vv. 124 e 129), che riporta al mito biblico della creazione e alla condizione umana come coesistenza di elementi opposti: terra e alito divino. È così in Angelica farfalla, in cui è esplicitato l’uso di «una citazione dalla Divina Commedia, in italiano, in cui è questione di vermi, di insetti lontani dalla perfezione» (1962, SN, OI 438). «[Q]uesto è proprio della condizione umana, di essere sospesi fra il fango e il cielo, fra il nulla e l’infinito» (François Rabelais, 1964, AM, OI 646). Analogamente, il fango si riferisce alla misera condizione dell’uomo: in Verso occidente, i «roditori che avanzavano nel fango, affondandovi fino al ventre; procedevano con fatica ma senza esitare» (1968-70, VF, OI 578). Ma è soprattutto esperienza del Lager: «Avevamo lavorato a lungo insieme, nel fango polacco. A tutti noi capitava di cadérci, nel fango profondo e viscido del cantiere, ma, per quel tanto di nobiltà animale che sopravvive anche nell’uomo desolato, ci sforzavamo di evitare le cadute, o almeno di ridurne gli effetti»; ma anche: «Il fango era il suo rifugio, la sua difesa putativa. Era l’omino di fango, il colore del fango era il suo colore» (Capaneo, 1959, L, OII 7). E ancora: «in questa casa del fango e del dolore» (Lilít, 1979, L, OII 543). E vi sono anche riferimenti letterali all’animale in congiunzione alla specifica attribuzione di cecità: a proposito dei sentieri liguri, il Versificatore compone: «Seguo il cammino cieco dei lombrichi» (1960, SN, OI 431).

16Cfr. «l’infinita vanità del tutto, di cui è difficile dubitare, pesa su noi solo nei momenti di chiaroveggenza, e questi, in una vita normale, non sono frequenti» (Il brutto potere, 1983, OII 1203).

17La centralità di tale questione emerge anche dalla scena del primo esperimento col Versificatore, in cui il tema scelto dal poeta è proprio «limiti dell’ingegno umano» (424). Bartezzaghi giustamente si domanda: «Chi è il parodiato? Il linguaggio poetico, o la sua scimmia meccanica, o l’ingegno umano (il “cerèbro folle”) che ha prodotto entrambi?» (“Le cosmichimiche di Primo Levi” 36).

18Cfr. «Avevo un ottimo rapporto con la mia insegnante di italiano, ma quando ha detto pubblicamente che le materie letterarie hanno valore formativo, e quelle scientifiche solo valore informativo, mi si sono rizzati i capelli in testa. Sono uscito confermato nell’idea che esisteva una congiura gentiliana. Tu giovane fascista, tu giovane crociano, tu giovane cresciuto in questa Italia non avvicinarti alle fonti del sapere scientifico, perché sono pericolose […]» (1984, D 14).

19Cfr. il brano di Arthur Clarke antologizzato in La ricerca delle radici: «Immaginiamo un apparecchio a raggi super X che possa scrutare un oggetto solido, atomo per atomo […]. Concessa la possibilità d’un simile strumento, non dovrebbe sembrare tanto più difficile invertire il procedimento e ricostruire, dalla informazione trasmessa, un duplicato dell’originale, identico a questo in tutto e per tutto. […] Trasmetterebbe […] l’informazione secondo cui un’adatta provvista di materia non organizzata nell’apparecchio ricevente potrebbe venire composta nella forma desiderata» (La TV secondo Leonardo, 1986, RR, OII 1506); il testo di Clarke è del 1962 ed è stato tradotto in italiano nel 1965.

20L’epilogo in carcere compariva però nella versione pubblicata sul quotidiano Il giorno nel 1964 (Belpoliti, Primo Levi di fronte e di profilo).

21Cassata afferma che questo cambiamento epistemologico nelle opere di Levi – la crisi del determinismo – avviene con Vizio di forma (Cassata 95-99), ma credo che già in Alcune applicazioni del mimete ve ne sia un esempio ben articolato.

22«Non durò a lungo: non avevo bevuto neppure un litro che l’acqua non mi dava più alcun piacere» (562).

23Giacobbe viene benedetto dall’angelo con il nome di «Israele», ossia colui che «ha lottato con Dio» (Genesi 32:28); e in Qohèlet si dice: «egli non può competere con chi è più forte di lui» (6:10), a proposito del valore dell’uomo di fronte a Dio. Entrambi gli episodi ricordano l’impotenza di Giobbe (Il giusto oppresso dall’ingiustizia, RR, 1980, OII 1369-80).

24Qohèlet è «un pensatore coraggioso convinto che le antiche affermazioni teologiche e sapienziali della tradizione fossero vecchie e non resistessero più alla critica, un conservatore e un innovatore allo stesso tempo. […] Certo, la sua figura è contraddittoria […]. “Per tutto ciò possiamo definirlo un lucido pensatore realista, che con la sua sottile ironia mette in ridicolo tutte le dottrine, le ideologie, le pratiche, gli usi e le credenze con cui gli uomini si illudono di conoscere la realtà in maniera definitiva ed esaustiva”» (Cini Tassinaro 26-7; la citazione è da Líndez 35).

25«Non negai ai miei occhi tutto ciò che bramavano, né privai d’alcuna gioia il mio cuore. Godetti anzi d’ogni mia fatica; e fu questa la ricompensa di tutte le opere mie» (Qohélet 2:10); «Così ho compreso che non c’è nulla di meglio per loro che rallegrarsi e fare bene durante la loro vita» (3:12); «Vedo che non c’è altra felicità per l’uomo che godere delle opere sue, perché questa è la sua sorte» (3:22). L’acqua è simbolo di sapienza (Isaia 11:9), ma Qohélet afferma che nonostante la continua ricerca di comprensione non si giunge mai ad essa, «il mare non s’empie» (Qohélet 1:7; OI 567). «Qohèlet è un pensatore scettico e dubbioso, non tanto nell’ambito della crisi di fede, quanto in quello della crisi della sapienza. Egli cerca di capire tutte le esperienze della vita, ma comprende che lo sforzo è vano e sempre limitato e parziale, perfino doloroso. Non urla il suo dolore come Giobbe, ma lo osserva con disincanto, senza lamento: non c’è tragedia o disperazione, ma amaro sorriso e nera malinconia. Il relativismo e l’enigma sembrano essere gli unici assoluti, e l’incomprensibilità la sorte dell’esistenza umana» (Cini Tassinaro 29).

26Non è solo Qohèlet ad essere citato, cenni alla vita e alle virtù di Salomone sono tratti anche dai Libri dei re e dai Libri delle cronache.

27«Re vecchio e giusto, sazio di sapienza e di giorni, che […] aveva dato veste di canto alla sua saggezza» (OI 567). Si noti che Salomone condivide la sua ricchezza tramite il canto, creazione poetica.

28«Ma che ricordi sono questi, che non obbediscono al vostro richiamo? A cosa vi servono?» (702); «Tu, lettore, avrai certo conosciuto tuo padre, o saprai comunque molto di lui. Avrai forse conosciuto tuo nonno, meno probabilmente il tuo bisnonno. Alcuni pochi fra voi possono risalire nel tempo per cinque o dieci, attraverso documenti, testimonianze o ritratti, e vi trovano uomini, diversi da loro nei costumi, carattere e linguaggio, pure ancora uomini. Ma diecimila generazioni? O dieci milioni di generazioni Quale dei vostri antenati in linea maschile non sarà più uomo ma quasi-uomo? Metteteli in fila e guardateli: quale non è più uomo ma altro? Quale non più mammifero? E qual era il suo aspetto?» (702-03).

29«Io ricordo tutto: voglio dire, tutto quanto mi è accaduto dall’infanzia. Posso riaccenderne in me la memoria quando desidero, e raccontarlo. Ma anche la mia memoria cellulare è migliore della vostra, anzi è piena: io ricordo tutto quanto è avvenuto ad ognuno dei miei avi, in linea diretta, fino al tempo più remoto. Fino al tempo, credo, in cui il primo dei miei avi ebbe in dono (o si fece dono di) un encefalo differenziato. Perciò, il mio dire “io” è più ricco del vostro, e si sprofonda nel tempo» (702; corsivi miei); «”Io” so tutto questo, ho fatto e subito tutto quanto i miei avi hanno fatto e subito, perché io ho ereditato le loro memorie, e pertanto io sono loro. Uno di loro, il primo, mutò felicemente acquistando questa virtù della memoria ereditaria, e l’ha trasmessa fino a me, cosicché/affinché io possa oggi dire «io» con questa inusitata ampiezza. So anche il come e il perché di ogni variazione, piccola o grande» (703; corsivi miei).

30«Non sono diverso da voi viventi che in un punto: ho memoria migliore della vostra» (702).

31Sui concetti di «retrospezione» e «prospezione», cfr. Sternberg, Raccontare nel tempo (II): cronologia, teleologia, narratività”.

32«Calvino ha preso spunto per scrivere Le Cosmicomiche da un mio racconto, Il sesto giorno, pubblicato in una rivista prima che nelle Storie naturali, perciò mi ha regalato il suo libro con una dedica molto cordiale. Adesso, invece, vorrei chiedere io il permesso a lui di prestarmi il suo Qfwfq su cui ho già un racconto in mente» (Note ai testi, OI 1444).

33Secondo la terminologia introdotta da Wayne Booth questo fenomeno è identificato con il nome di «narrazione inaffidabile»; per una trattazione più aggiornata dell’argomento, cfr. Yacobi, “Fictional Reliability as a Communicative Problem” e “Package Deals in Fictional Narrative: The Case of the Narrator’s (Un)Reliability”.

34Umberto Eco le chiama «abduzioni ipocodificate» (I limiti dell’interpretazione).

35Inattendibilità e dubbia moralità sono tratti che spesso si sovrappongono nei cosiddetti narratori inaffidabili (Yacobi, “Fictional Reliability as a Communicative Problem”).

36«Erewhonians believe in pre-existence; and not only this […], but they believe that it is of their own free act and deed in a previous state that they come to be born into this world at all […]. The conditions which they must accept are so uncertain, that none but the most foolish of the unborn will consent to them; and it is from these, and these only, that our own ranks are recruited. […] Who these are to be, whether rich or poor, kind or unkind, healthy or diseased, there is no knowing» (Butler 215-27).

37Ma ci sono anche frasi che affermano la contraddittorietà di molte credenze; gli abitanti di Erewhon, infatti, credono e allo stesso tempo non credono alle proprie leggende (Butler 216).

38«A noi funzionari la licenza ce la danno solo se possiamo esibire un curriculum terrestre completo» (615).

39«La vita, comprende, la vita è un tessuto unico, anche se ha un diritto e un rovescio; ha giorni chiari e giorni scuri, è un intreccio di sconfitte e vittorie» (621; corsivi miei); si noti come i vocaboli usati rimandino alla metafora della «trama» narrativa.

40Si tenga presente che il sintagma «vizio di forma» è però ironico, come afferma Levi stesso: «nella mia intenzione è ironico, cioè si tratta di qualcosa di assai più profondo che un vizio di forma; si tratta, come è stato detto, di un errore di sostanza […], il fallimento della tecnica come fattore di progresso» (1971, “Primo Levi – Vizio di forma”).

41Anche Butler insiste su questo punto: «they say that there was a race of men tried upon the earth once, who knew the future better than the past, but that they died in a twelvemonth from the misery which their knowledge caused them; and if any were to be born too prescient now, he would be culled out by natural selection, before he had time to transmit so peace-destroying a faculty to his descendants» (225).

42«Non gliel’ho rivelato all’inizio perché non la conoscevo ancora, e volevo fare certe verifiche, ma ora glielo posso dire: non siamo venuti da lei come andiamo da tutti, non siamo arrivati qui per caso. Lei ci era stato segnalato. […] Abbiamo necessità urgente di gente seria e preparata, onesta e coraggiosa: ecco perché abbiamo insistito e insistiamo. Noi non siamo per la quantità ma per la qualità» (623).

43«Ma… ecco, non sono pronto. Non mi sento pronto: non ho fatto nessun calcolo, nessun preparativo. Sa bene come succede, quando non c’è una scadenza: si preferisce lasciar passare i giorni, e restare così, nel vago, senza prendere decisioni» (610).

44La collera è attributo dei giusti di Israele; cfr. Il servo (1968-70, VF, OI 713) e infra, cap. 4, par. 3.2.

45Cfr. «quando sarà tal dono di grazia elargito agli umani, così che posto in non cale ogni altro studio e negozio, ad altro non intendano che a leggere voi, a penetrare in voi, a conoscervi, usarvi, praticarvi, incorporarvi, sanguificarvi e incentrificarvi nei profondi ventricoli dei loro cervelli, nell’intimo midollo delle ossa, nell’intricato labirinto delle arterie? Oh allora sì, e non prima, e per altra via sarà felice il mondo! […] non più tempeste, brinate, gelate, non più calamitosi uragani! Sopra la terra abbonderà ogni bene. Non più guerre, non saccheggi, non vessazioni, né assassini, né stragi, eccetto, s’intende contro gli eretici e i dannati ribelli. Una pace perenne e incorruttibile regnerà nell’universo; e gaudio, allegrezza, letizia, sollazzo, divertimento, piacere e delizia, per quanto è dato volerne e goderne alla natura umana. Ma, oh la grande dottrina, l’inestimabile erudizione, i deifici precetti, incastonati nei divini capitoli di queste eterne Decretali! Oh come, leggendo soltanto un mezzo canone, un piccolo paragrafo, una piccolissima sentenza di queste sacrosante Decretali, voi vi sentite avvampare nei cuori la fornace dell’amor divino e della carità verso il prossimo, purché non sia tocco da eresia, e raffermarsi in voi il disprezzo di tutte le cose effimere e terrene; l’estatica elevazione dei vostri spiriti fino al terzo cielo, la piena e certa soddisfazione di tutte le vostre aspirazioni!» (Rabelais, Gargantua e Pantagruele, libro IV, cap. LI).

46Di Salvo è «acuto e flessibile, ma anche spento, logoro, e un po’ sporco, con dentro qualche cosa di livido, di ammaccato e poi impiastricciato alla meglio per coprire il guasto», e di fronte a lui Renaudo ha paura di sentirsi «come una mosca fra le branche di una mantide» (667).

47Sulla complessità delle combinazioni in rapporto alla comunicazione fra individui, cfr. il commento al racconto Ammutinamento (1968-70, VF, OI 718-24), infra, cap. 5, par. 4, e la prefazione a La ricerca delle radici (1980, OII 1363).

48Sono inventori e sperimentatori con la materia, chiusi nel loro laboratorio, quasi incatenati ad esso: il dottor Montesanto (I mnemagoghi, 1946 SN, OI 401-08), il personaggio-narratore del ciclo NATCA (in L’ordine a buon mercato, 1964, SN, OI 447-55), il dottor Kleber (Versamina, 1965, SN, OI 467-76), il dottor Leeb (Angelica farfalla, 1962, SN, OI 434-41) e Memnone (Il passa-muri, 1986, RS, OII 898-901).

49Cfr. anche la poesia Amici: «Di noi ciascuno reca l’impronta / Dell’amico incontrato per via; / In ognuno la traccia di ognuno. / Per il bene od il male / In saggezza o in follia / Ognuno stampato da ognuno» (1985; OII 623).

50Si ricordi che Levi stesso ribadisce la continuità tra le opere di testimonianza e i racconti di Vizio di forma, individuando la «smagliatura» come elemento comune (1971, VF, OI 1443).

51Oltre alla descrizione della desolazione del villaggio in macerie, in Angelica Farfalla si legge anche: «Assomigliavano alle teste delle mummie che si vedono nei musei» (OI 440).

52Si assiste a continui cambi di scena, salti temporali e variazioni del punto di vista e della scala degli eventi narrati, i quali oscillano tra episodi con allusioni ad un contesto storico preciso, possibili applicazioni ad «interi villaggi, per generazioni» e considerazioni biologiche di portata universale: la neotenia come segno della «ulteriore capacità di sviluppo» comune a molti animali (OI 438).

53Durante il Terzo Reich c’è stata una pubblica diatriba tra Alfred Rosenberg, il dedicatario del lavoro del dottor Leeb e Oswald Spengler, uno degli ispiratori delle idee naziste. È curioso che al piano terra della palazzina degli orrori viva una certa vedova Spengler: che sia forse la moglie del noto autore de Il tramonto dell’Occidente? Il cammeo della vedova Spengelr potrebbe essere una semplice allusione al contesto storico-ideologico, ma il fatto che nel racconto di Levi Spengler sia morto potrebbe anche essere un gioco perturbante che riguarda la smentita delle sue idee per mezzo dei risultati del lavoro di Leeb: l’Occidente (e quindi il Nazismo, sua fase «invernale») non è al tramonto perché può trasformarsi e rinascere sotto altra forma. E la suggestione diventa ancora più inquietante se si tiene conto della convergenza tra la credenza di Leeb che ci siano dei «fondamenti fisiologici della metempsicosi» (OI 438) e la teoria di Rosenberg sull’esistenza di un’«anima della razza». Se ci fosse bisogno di una conferma che Levi conoscesse Spengler questa può venire dal saggio La rima alla riscossa, in cui dice: «a partire dagli inizi di questo secolo […] si è cominciato a parlare di crisi della civiltà e di tramonto dell’Occidente» (1985, RS;,OII 943).

54Roberta Mori nota che «the names of three of the detectives (Hilbert, Smirnov, and Leduc) coincide with those of the late nineteenth-, early twentieth-century mathematicians David Hilbert and Vladimir Ivanovich Smirnov, and the French physicist Anatole Leduc. Levi presents two clashing concepts of science—science as pure heuristic spirit aiming at knowledge and the improvement of humanity (represented by the three Allied officers) versus science reduced to spurious doctrine exploited in the service of despotism (represented by the German scientist)» (“Worlds of ‘Un-knowledge’” 276).

55Il dottor Frankenstein chiama la propria creatura con vari appellativi («creature», «monster», «fiend», «wretch», «daemon», «devil») e tra questi compare anche «vile insect». Inoltre, parlando di sé al dottore, la creatura dice: «ought to be thy Adam, but I am rather the fallen angel» (Shelley; corsivo mio).

56Le dinamiche sociali tra riconoscimento dell’alterità e etica sono importanti anche nel racconto di Shelley: lo si nota dalle difficoltà incontrate dal mostro ad interagire con gli esseri umani, dalla richiesta che egli fa a Frankenstein per avere una compagna ed essere quindi felice, e dai numerosi accenni all’importanza delle relazioni familiari e di amicizia: «we are unfashioned creatures, but half made up, if one wiser, better, dearer than ourselves such a friend ought to be do not lend his aid to perfectionate our weak and faulty natures».

57Lo stesso avviene per un altro personaggio prometeico, il signor Simpson, il quale si “droga” con il Torec e protrae la sua pena autodistruggendosi lentamente. Per entrambi la pena è circoscritta ad un momento ben preciso reiterato nel tempo per Simpson è l’uso del Torec, per Kleber l’assunzione delle versamine allo stesso modo in cui nel mito di Prometeo l’aquila agisce esclusivamente di giorno, concedendo una tregua notturna. Al contrario del mito, però, in cui la punizione per aver trasgredito alla legge di Zeus deve essere esemplare e terribile (soprattutto nella versione di Eschilo), nei racconti di Levi il tormento subito è paradossalmente anche momento di sollievo. Simpson e Kleber traggono piacere dalle loro droghe ma la pena sorge proprio nel tentativo di appagamento. Non si tratta di una punizione imposta successivamente come, invece, avviene nel mito, e tale scelta retorica contribuisce a sfumare ulteriormente i confini della questione etica.

58Secondo Nancy Harrowitz, «[i]n “Versamina” it is only the lesson of Macbeth that stops the scientist form repeating the mistakes of the past, even though he has learned of the fate of the others who took the drug. Literary culture is thus raised to a position of ethical authority higher than that of empirical experimentation. Here we have an illustration not of the role of science in the formulation of culture, but of the role of culture in the formation of science. The inversion of fair and foul, so central to Levi’s post-Holocaust understanding of culture, has become a double inversion, this time of methodology. His use of Macbeth as a figure to gloss his story suggests another kind of reversal as well: he uses science, in other words his versamine example, to reflect back on Macbeth» (71). Non credo però che Dessauer abbia imparato dalla letteratura e sia deciso a non ripetere l’errore di Kleber, anzi, la questione rimane aperta.

59Il segnale più evidente della fictionality è forse quello in cui si costruisce una scenografia adatta al tema della narrazione, una città piena di contraddizioni: «Stava ascoltando con attenzione, ma insieme non riusciva a distogliere lo sguardo dalla nebbia e della pioggia fuori dai vetri, né ad interrompere un suo filo di pensiero: la sua città come l’aveva ritrovata, quasi intatta negli edifici ma sconvolta intimamente, lavorata dal di sotto come un’isola di ghiaccio galleggiante, piena di falsa gioia di vivere, sensuale senza passione, chiassosa senza gaiezza, scettica, inerte, perduta. La capitale della nevrosi: solo in questo nuova, per il resto decrepita, anzi, senza tempo, pietrificata come Gomorra. Il teatro più adatto per la storia contorta che il vecchio andava dipanando» (470-71; corsivo mio). Allo stesso tempo, però, dato che l’enfasi del racconto è sulla comprensione e tutela della vita, vi sono anche segnali che mettono in secondo piano l’aspetto creativo della narrazione promuovendo invece la staticità dell’esistenza: nell’incipit si distingue tra «mestieri che distruggono e mestieri che conservano» chi li compie (467), senza nominare il valore antropopoietico del lavoro, ma, soprattutto, presentando il narratore Dybowski come una persona che conserva qualcosa, non come una persona che crea una storia nuova (cfr. supra, cap. 1, par. 2.3).

60Nel racconto Trattamento di quiescenza viene detto che il termine «incontri» usato per alcuni nastri «è un eufemismo bello e buono. […] per la massima parte si tratta di tutt’altro, sono nastri sexy. L’incontro c’è, ma in un altro senso, insomma» (OI 559). L’allusione potrebbe valere anche per Patricia, confermando il lato cinico del suo carattere che emerge anche dal modo in cui sfrutta Baldur.

61Più che il racconto di Shelley, in questo caso ha un ruolo importante nell’immaginario dell’epoca (ma anche in quello attuale) la versione cinematografica, un film di grande successo prodotto dalla Universal Studios nel 1931.

62Questo tema è esplorato più a fondo nel racconto Il servo (cfr. infra, cap. 4, par. 3.4).

63Casella: «Provava tristezza, ma non spavento né angoscia» (680); Peirani: «Rassegno pertanto le mie dimissioni, con animo colmo di tristezza» (Le nostre belle specificazioni, OI 670); Mario: «parve che qualcosa in lui si spegnesse […]. Giorgio lo trovò poco dopo in un angolo della palestra, seduto in terra, col capo fra le mani, che piangeva in grossi singhiozzi» (I sintetici, OI 599); Marta: «provò un piacere intenso e breve che la riempì di una tristezza grigia, luminosa, non dolorosa: questa tristezza le rimase addosso a lungo, le tenne compagnia dentro la sua corazza, e l’aiutò a vivere per parecchi giorni» (Protezione, OI 577). Si noti come anche la figuralità di questo elemento non sia riducibile ad una funzione univoca: il sentimento di tristezza può evocare condizioni differenti e orientare la riflessione etica in direzioni diverse.

64Cfr. «Era meglio Fabio o il ciliegio? Meglio Fabio, senza dubbio, non bisogna cedere agli impulsi del momento: ma in quel momento Amelia fu consapevole di desiderare che in qualche modo il ciliegio entrasse in lei, fruttificasse in lei. Giunse alla radura e si sdraiò fra le felci, felce lei stessa, sola leggera e flessibile nel vento» (OI 99).