12 Capitolo I: Il paravento

L’impressione che si aveva, entrando in Napoli, dalla stazione ferroviaria, venti anni or sono, era di giungere in una città angusta, male odorante, sporca, affogata di case di tutte le altezze, di tutti i colori, portanti, tutte, il marchio del decadimento e del sudiciume. Se, poi, trascorso il vecchio Corso Garibaldi, la carrozzella del forastiero rallentava un poco il passo, in via Marina, in quella strada eternamente disselciata, dalle buche profonde, ove si trabalzava così maledettamente, se il forastiero lasciava il suo portamantelli sul soffietto, o collocava il nècèssaire da viaggio sulla via Marina, in quella strada eternamente disselciata, dalle buche profonde, ove si trabalzava così maledettamente vi era la rapina, quando non ne accadevano due o tre con l’agile ladruncolo che fuggiva nelle viuzze e nelle viottole, alle spalle della Marina. E alla impressione estetica assai deludente pel forastiero che ancora non era giunto nel rione della Beltà, cioè verso la Riviera si univa un ribrezzo morale, di cui non solo le oneste e sincere guide Baedeker erano l’eco, ma di cui tutti i viaggiatori formavano una larga e invincibile propaganda.
Niuno dubbio che, dopo venti anni, la impressione estetica sia mutata completamente. La piazza della Stazione, ormai, ha una vastità degna di una metropoli e le tre ampie strade che vengono di fronte al forestiero, le due enormi arterie a dritta e a sinistra, i grandi palazzi che formano gli angoli della via, tutte queste cose grandi, piene di luce, piene di aria, tutte queste cose che hanno l’aspetto nitido o quasi, danno agli occhi curiosi una prima visione gradevole. Entrando, poi, nel Rettifilo, l’occhio un po’ distratto, un po’ stanco del viaggiatore, scorrendo rapidamente, finisce per avere un senso di ammirazione, per la larghezza di questa via, per il suo disegno che, sino ad un certo punto è bello. Mancano, è vero gli alberi, che formano la poesia di tutti i paesi civili del mondo, anche escludendo Parigi ove gli alberi sono la delizia e l’ammirazione dei cittadini: mancano gli alberi e vi sono, in cambio, a irrisione nostra, alcune pianticelle tisiche, mal piantate, non coltivate, non protette e, viceversa, esecrate, odiate, perseguitate dalle autorità istesse, dai cittadini e dai monelli: tanto che sarebbe meglio sradicarle, anzi che assistere a quella lenta agonia di cui nessuno ha pietà, non il sindaco, non l’assessore dei giardini, non i proprietarii delle case, non quelli dei magazzini, salvo la vana pietà di qualche malinconico viandante, che rammenta gli alberi, non di Parigi, per l’amor di Dio, ma quelli di Milano e di Torino, città a cui il Signore non dette il paesaggio ma a cui, gli uomini, si affrettarono a dare il verde e l’ombra dei begli alberi, riposo degli occhi, sogno vago dell’anima. Basta! Il Rettifilo ha una linea maestosa, il suo insieme colpisce specialmente se, traversandolo rapidamente, guardandolo senza troppo analizzarlo, non ci si accorge delle svariate bruttezze degli svariati palazzi nuovissimi che vi sono sorti, dei loro colori diversi, alcuni chiassosi, delle goffe e pretenziose ornamentazioni di alcuni fra essi: questo, però, è, purtroppo un male comune a tante altre belle città italiane, dove accanto agli splendori, antichi e alle profonde eleganze del gusto, gli architetti moderni hanno elevato i monumenti della loro completa ignoranza e della loro perfetta assenza di senso estetico. Quando si sono visti abbattere i meravigliosi sentieri ombrosi di quella villa incantevole che era la Ludovisia, a Roma, quando quel bosco sacro alla beltà e alla grazia, è sparito, per dar luogo ai quartieri Ludovisii, possiamo sopportare in pace anche le laidezze di non tutti i palazzi del Rettifilo; anche perchè, alcuni fra essi sono, se non altro, semplici, poichè, fortunatamente l’architetto non aveva fantasia; e qualcuno, forse, ha persino delle linee eleganti. Non bisogna guardar troppo, ecco tutto, bisogna sogguardare, e così la vivezza della grande fontana, in piazza della Borsa, nasconderà il dislivello famoso e incorreggibile di via Guglielmo Sanfelice, mentre il solenne edificio della Borsa gli farà credere, al viaggiatore, chi sa quale mirabolante giro di affari e la gabbia aerea dei telefoni, a una rete di abbonati che serri tutta la città. Per fortuna, le guide tacciono su queste circostanze; il viaggiatore non vede che l’esterno; e la messa in iscena del Rettifilo, del resto abbastanza felice, ottiene il suo effetto. Che se, poi, qualche conoscente napoletano, qualche compagno di viaggio più esperto, narra al viaggiatore che il Rettifilo ha tagliato in due il ventre di Napoli, attraversando i quattro quartieri popolari e popolosi di Mercato Vicaria, Pendino e Porto; che questo Rettifilo non è stato fatto solo per arrivare più presto e meglio alla stazione ferroviaria; non è stato fatto solo per i grandi industriali che vendon tessuti di lana e di cotone; non è stato fatto solo per avere una larghissima via; ma è stato fatto in nome di un criterio assoluto d’igiene e quindi di civiltà, allora la sua impressione si viene sempre più migliorando. Il Rettifilo era, doveva essere, dovrebbe essere l’apportatore dell’aria, della salute, della pulizia di migliaia e migliaia di popolani napoletani: il suo ufficio, realizzando una idealità di carità civile che vollero Umberto Primo, Agostino Depretis e Nicola Amore, era quello di vincere la malattia e la morte, nel popolo napoletano. E allora, per chi abbia anima sensibile questa strada assume un simbolo elettissimo, è l’emblema della solidarietà umana che, dall’alto del trono, del governo dello Stato, del governo della Città, sente la necessità di elevare prima fisicamente e poi moralmente il popolo, dando ad esso i beni primari della vita, la luce, l’aria, la nettezza, la salubrità, dandogli la via e la casa, dandogli il modo di acquistare la sanità del corpo che è la gioia dell’anima, sottraendolo alle infermità, alle degenerazioni, all’epidemia, e sottraendolo, così, anche alla disonestà e al vizio. Questo, nella mente di chi lo volle, dopo la strage del 1884, dopo la visita ai tugurii e alle catapecchie fatta dal Re, dopo l’orrore che ne ebbe l’animo dei maggiorenti, questo era il compito del Rettifilo, che si è chiamato e si chiama Risanamento, con tutto il suo progetto di diramazioni, di colmate, di traverse. Il Rettifilo doveva salvare il popolo napoletano: e poichè gli occhi che guardano poco e fugacemente, poichè le labbra che domandano, non sempre sono esaudite da labbra che conoscano la verità, poichè il difetto di cui tutti siamo malati, è la fretta, poichè noi siamo, anche, malati di superficialità, poichè nessuno ha il tempo di fare quel che vorrebbe, nel mondo, poichè nessuno ha la volontà necessaria a eseguire tutto quello che vorrebbe, poichè tutto ci sfugge, per esser profondi, così, noi possiam credere che, veramente, il Rettifilo abbia dato al popolo napoletano tutto quello che gli mancava, e, sovra tutto, lo posson credere tutti coloro che passano qui un giorno o un mese!

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Eppure, questa illusione non resisterebbe a una osservazione più minuta. Alla seconda, alla terza, alla decima volta che voi attraversate questa magnifica strada, volgendo gli occhi, a manca, a dritta, lo scenario seducente ha dei grandi strappi. Un imponente palazzo, rossastro, pomposo, si pavoneggia con le sue cento finestre: e, accanto, voi scovrite un vuoto, e un muretto basso si prolunga, si prolunga, un muretto su cui la pubblicità allegramente appende i suoi quadri, da anni e anni, e dietro questo muretto, molto più indietro, sorgono delle masse di case lercie, cadenti, miserabili, di tutte le misure, macchiate di tutte le stigmate della povertà e del vizio. Ciò sparisce: un’altra costruzione moderna tenta ridarvi una parvenza di civiltà, ma, fatto accorto, voi cercate ficcar l’occhio, ai fianchi, alle spalle, e subito dietro, a otto o dieci metri, ecco, di nuovo, un affogamento di topaie, dalle cui finestrette pendono i cenci più indecenti, magari con la poesia del vaso di basilico e del popone appeso al giunco. Così, otto, quindici, venti volte, dalle due parti, ma sovra tutto, a diritta, andando verso la ferrovia, questo sipario lacerato bruscamente, vi mostra degli spettacoli improvvisamente brutti, nauseanti, schifosi: è la cattiva parola, ma è la parola e invano voi tentate di rifare le fila del vostro sogno di una via maestosa e ricca, di una via nobile e purificante, di una via che serva egualmente alla salute, alla fortuna e alla felicità del popolo. Queste continue apparizioni, fra le enormi nuove costruzioni, di quelle immonde costruzioni vecchie, non lontane, vicine, non lontane, accanto, non lontane, alle spalle, vi hanno distrutto tutta la vostra tela d’illusione. Cercate le traverse che dovevano portare da sinistra, dai quartieri più alti al Rettifilo, bonificando la regione che comincia a santa Maria la Nova e continua pei Banchi Nuovi, san Giovanni Maggiore, Mezzocannone, Università, sino all’Annunziata, sino a Capuana, e non ne trovate che due sole, complete, su venti, quelle attorno al Sedile di Porto, e tutte le altre sono abbozzate, sono pezzi di via, di otto o dieci metri, con il loro bravo nome, di un qualche nostro illustre cittadino – e anche di voi, o Francesco Serao, o avo mio! – e niente altro, salvo, dopo questi dieci metri, che una cortina di antiche case non abbattute, una cortina che chiude le comunicazioni, che urta lo sguardo. Voi cercate le più belle traverse, quelle che dovevan tagliare a diritta, dal Rettifilo al mare, risanando i quartieri successivamente di Porto, Mercato e Vicaria. Su venti, ve n’è una sola, completa. Alcune altre, quattro o cinque sono come quelle a sinistra, appena cominciate, abbandonate da anni, ottuse, traverse cieche, ove, in fondo, ma non molto in fondo, sorge lo stesso spettacolo, sempre, di case antichissime, mezze dirute, mezze cadenti, nerastre, verdastre, grigiastre. Dopo, non vi è più nulla. Cioè, vi sono dei vicoletti che precipitano per mezzo di dislivelli paurosi, di scalette ripide, difese da rozze ringhiere, in tutto ciò che sta dietro il Rettifilo, vicoletti sinuosi, vicoletti neri, angoli dove due o tre vicoli s’intersecano dirupandosi, tutto un disegno bislacco e grottesco, accanto, sì, accanto, alle altitudini superbe dei nuovi palazzi. E voi, verso la fine del Rettifilo, vedendo fuggire gli ultimi lembi mirabili della vostra illusione, voi vi domandate se non siate vittima di un’allucinazione, se una parte di quel che vedete non sia falso, poichè troppo forte è il contrasto, poichè non può essere tutto vero, a pochi metri di distanza, il decente e l’indecente, il pulito e lo sporco, la pompa e l’inguaribil miseria, il lusso e la povertà più abbietta. Che cosa è falso, che cosa è vero? Sono, forse il portato di un incubo tutte quelle masse di abitazioni luride, fetide, cascanti, ove pare che si moltiplichino la tristizie e la tristezza, il morbo e il disonore, il delitto e la morte? Sono forse gli spettacoli che vi fecero inorridire, come uomini e come cristiani, venti anni prima, sono questi spettacoli che si rinnovano, falsamente nella memoria, nella fantasia, così, come nei momenti di nostra malinconia spirituale e di nostra debolezza fisica? O, forse è falsa l’altra parte, cioè la parvenza moderna del Rettifilo e i suoi palazzi che vorrebbero essere splendidi, ma che sono almeno, nuovi, netti, solidi, grandi, appartengono al sogno? Non sono forse, un lungo scenario di tela, su cui un abile scenografo abbia dipinto a grandi tratti, una serie di edifici maestosi, e intanto, non si sa come, non si sa perchè, la tela ha delle grandi soluzioni di continuità e lascia vedere l’oscurità, il luridume delle quinte, ove tutto è rancido, è puzzolente, è nauseante? O, forse, non sono di carta pesta, di legno dipinto, queste case, come quelle che estrae, lentamente, da una scatola, la mano di un bimbo e le dispone sovra un piano, ad angoli retti? Non è, forse, a destra, a sinistra del Rettifilo, lo svolgersi di un bizzarro paravento, i cui pezzi non sono bene congiunti, anzi sono disgiunti, e il paravento non giunge a nascondere, quel che non si deve vedere?

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E passino i vostri occhi ricercatori dalle cose alle persone del Rettifilo, vi passino, per conoscer più presto e meglio il motto dell’enigma. La possente arteria napoletana rifluisce, in ogni ora, di sangue vivido: una folla attraversa costantemente il Rettifilo, a piedi, in carrozza, in trams, specialmente sino a piazza Depretis, andando e venendo dai due rami di via Duomo. Folla di ogni qualità e, talvolta, anche, folla di persone distinte, bene vestite, gli uomini con la catena di oro sul panciotto, le donne con i ciondoli sospesi sul petto. Tutto questo mondo va, viene, ritorna, si allontana, mondo svariato, multiforme, multanime. Se voi siete abituato a discernere i volti e le espressioni, fra la folla, se avete l’ardente e dolente segreto dell’intuizione, voi scorgerete, lungo il Rettifilo, persone e faccie che vi daranno un fremito di sorpresa e, forse, di sgomento. Sugli angoli di quelle viuzze, presso quelle ringhiere, su quel limitare fatidico fra il vecchio e il nuovo, e, persino, nelle poche vie principali e non finite, stazionano sempre degli uomini, sul cui viso la delinquenza è impressa e la cui espressione non mente; stazionano mendicanti dei due sessi e di tutte le età, ma di una mendicità sfrontata e ributtante, e stazionano anche, meno di mattina, molto più nel pomeriggio, moltissimo di sera, le sventurate e sciagurate femmine del popolo, che esercitano il più compassionevole e più atroce fra i mestieri. Così, sull’orlo della superba via, sui due suoi lati, fiancheggiandola, il vizio e la miseria, il delitto mettono la loro popolazione. La gente che passa, è molta, non guarda bene, non bada: ma due, tre volte al giorno, un ladro si slancia sovra al galantuomo, sovra la signora, in pieno giorno, in pieno Rettifilo, fra mille persone, e gli strappa l’orologio, le strappa gli orecchini, il derubato grida, il ladro infila la viottola, si gitta per un angiporto, è sparito, la folla strepita, non vi sono guardie, i mendicanti gridano e una di quelle donne del vizio, dà una falsa indicazione, perchè è, forse, un’amante, un’amica, una sorella del ladro, sempre una complice. Sia a piedi, sia in carrozza, la vittima, il ladro finisce sempre per fare il suo colpo, senza farsi arrestare, liquefacendosi come una nuvola, dietro una di quelle stradette: e alcune, anzi, di quelle vie, hanno la loro fatal rinomanza, come quella a principio del Rettifilo, la via di santa Candida. Dopo le nove di sera, il tratto del Rettifilo da piazza Depretis alla Ferrovia, è poco percorso da gente: e malgrado le grosse lampade elettriche, quel tratto è uno dei più pericolosi della città, e i medesimi cocchieri da nolo, affrettano il passo zoppicante del loro povero cavallo, andando alla stazione o tornandone, poichè sanno che il loro passaggiero può avere, forse e senza forse, un’aggressione. In quell’ora non si aggirano, colà, che ladruncoli, camorristi, pregiudicati e donne di mala vita. Nella magnifica strada: nella strada della salute e della redenzione del popolo napoletano!

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Ahi, che essa è semplicemente un paravento, ma leggiero, fragile e grossolano paravento, un paravento che non nasconde neppure, a chi vuol saper tutto, tutto ciò che vi è dietro, di pietoso e di orribile! E un’altra volta io vi dirò quel che vidi, lì dietro, con una triste e lunga curiosità, con un coraggio disperato e, con l’angoscia più opprimente, del mio umile ma fedele cuore di napoletana!