22 VI. Il pane dell’anima

Quando il direttore del MATTINO si trova, per caso, in polemica col giornale ROMA lo chiama, per lo più, il giornale dei portinai. Ciò mi ha sempre fatto sorridere.
Il ROMA potrebbe essere il giornale dei portinai, come è quello dei bottegai che rientrano a pranzo, fra l’una e le due pomeridiane, ma non è. I portinai napoletani non sanno leggere. Facendo una inchiesta curiosa e bizzarra, voi potreste trovare, sovra un centinaio di guardaportoni da quattro a cinque che sanno leggere, non di più; e per disimpegnare gli obblighi del proprio mestiere, svariati e non senza difficoltà, i portinai napoletani adoperano la sveltezza naturale del loro ingegno, fanno le ambasciate, distribuiscono le carte da visita, dividono le lettere e i giornali, ma non sanno leggere. Passando ai cocchieri, gente sveltissima se mai ve ne fu, domandate ad uno di essi, per esempio, di portarvi a via Partenope, numero diciotto: anzi tutto, egli vi chiederà se si tratta del teatro Partenope: e, in secondo, quando sarete giunti, con la sua carrozza, a via Partenope, egli non saprà punto trovare il numero diciotto: il cocchiere napoletano raramente sa leggere e ignora quasi sempre la figura grafica dei numeri, anche accanito giuocatore di lotto, come è. E, passando di classe in classe, non solo il forestiere si accorge e si sorprende e rimpiange che fra il popolo napoletano, così intelligente, così vivido, così rapido, sia innumerevole il contingente di coloro che non sanno leggere, ma voi stesso, voi, napoletano, ogni volta che vi trovate di fronte a un ignorante, a un analfabeta, voi sentite il rammarico acuto di tanta barbarie e di tanta oscurità; e, talvolta, vi assale il ribrezzo di tanto oblio e di tanto abbandono, in cui è lasciata questa povera gente. E, ogni tanto, in quelle tristi interviste con qualche spettro della notte, che la malinconia della deambulazione notturna vi procura, in quegli incontri singolari e tetri, con un ragazzo della malavita, con un cercatore di mozziconi, con un caffettiere ambulante, voi udite il motto profondo, aspro, crudele, in cui il popolo napoletano riassume il suo profondo rispetto per la cultura e il dolore della propria ignoranza, crudele motto che emana dall’intimo dell’anima, come un rinfaccio, come amarissimo rimprovero alle classi più alte. Voi v’interessate al guaglione di mala vita, al fantomatico mozzonaro, al singolare caffettiere che gira come un fantasma, esso, dall’alba, per le vie napoletane e compiangete la sua sorte ed egli si compiange, così, crollando le spalle, filosoficamente. Ma tu sai leggere?– voi gli chiedete. Egli vi guarda, risponde: Signò, si sapesse leggere nun starria cca: starria a Palazzo. Per il popolo napoletano, chi sa leggere non può esser cercatore di mozziconi, venditore di ulive, ladruncolo notturno, ma può diventare Re o qualche cosa di simile al re, abitare la Reggia e non un tugurio o gli scalini di una chiesa, comandare gli uomini e non finire in carcere o all’ospedale.

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Centinaia, migliaia di bambini, di bimbe pullulano, si arrotolano, si aggrovigliano in tutte le vie, dalle più aristocratiche alle più popolari, creature seminude, scalze o malamente coperte o appena vestite: e non si sa donde vengano e dove vadano, non si sa a chi appartengano, come vivano, come muoiano. Eppure hanno madre e padre, queste misere bimbe questi bimbi miserelli e vorrebbero, questi genitori infelici, o privi di lavoro o provvisti di un lavoro mal remunerato, faticosissimo, durissimo, vorrebbero, questi genitori, mandare, in un asilo, in una scuola, queste creature delle loro visceri, vorrebbero che oltre il piccolo e rude pane del corpo, dato, ahi, con così rigorosa misura, fosse loro dato, da chi ne ha l’obbligo strettissimo, da chi ne ha il sacrosanto dovere, il pane dell’anima, l’istruzione. Desiderio insano! Mancherà, spesso a questa immensa folla di piccini e di piccine, di ragazze e di ragazzi, il modo come sfamarsi poichè, pare, la povertà napoletana sia molto pittoresca e i custodi dell’estetica adorano questa manifestazione possente e triste di dolore sociale: mancherà, senz’altro, il pane dell’anima, quello che dovrebbe dar frutto di bene intellettuale, di bene morale, mancherà senz’altro la istruzione. Vi è ancora fra il popolo, una istituzione strana e caratteristica: una specie di piccola scuola tenuta, da qualche donnetta, in un basso più spazioso degli altri: altre donnette, operaie, serve, lavandaie, stiratrici, vi portano i loro figliuoli e le loro figliuole, alla mattina, prima di andare al lavoro e pagano un soldo al giorno, le più facoltose, diciamo così, venti soldi, e quindici soldi al mese, le più sventurate. La donnetta che ha la scuoletta, non insegna nulla a tutte quelle creature: le tiene raccolte un poco, poi, le lascia scorazzare: le sgrida, sempre: urla, dietro loro: le sculaccia: pianti, strilli, singhiozzi: ma, infine, è responsabile, per un soldo al giorno, per tre centesimi, per due centesimi, di ogni bimba, di ogni bimbo, sino alla sera. E mi rammento, anche, la mia giovinezza, e un certo diploma di grado superiore che mi fu dato, per tre anni, mentre raggiungevo questo diploma, questa missione di dare il pane dell’anima alle figlie del popolo, continuamente rammentata, a ogni problema di aritmetica sbagliato: e infine toccato miracolosamente questo scopo del massimo diploma, l’obbligo del tirocinio di maestra, in una di queste scuole, ove accorrevano queste figlie del popolo, a cui io doveva insegnare a leggere e a scrivere.
E andai piena d’interesse, di gentile ansia segreta, di emozione, persino, a fare la tirocinante e mi trovai fra molte bimbe assai decentemente vestite, alcune con eleganza. Una per una le interrogai, queste figlie del popolo, chi fossero, donde venissero; e appresi, man mano, che eran figliuole di professionisti, d’impiegati, di negozianti, di bottegai, e fra settantadue scolare, una solamente, una, era una figlia del popolo, lacera, pallida, impertinentissima, intelligentissima, affascinante. Una! Più tardi, io sparvi dalla scuola, perchè avevo finito di fare la tirocinante: la piccola Buonfantino, indimenticabile al mio cuore tenerissimo, ne sparve, perchè morì, di tisi, a undici anni. Era una figlia del popolo, quella: ma la scuola non era fatta per essa.

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E non vi sono scuole, a Napoli! Non ve ne sono! Ogni tanto, noi ci riuniamo, diamo un ballo splendido, con una lotteria di oggetti d’arte, tutta la grande società napoletana e la meno grande v’interviene e la Croce Rossa prende trentamila lire: ma le scuole mancano e migliaia di ragazzi e ragazze s’imputridiscono il corpo e l’anima nelle vie fangose. Non vi sono scuole: mentre noi per un mese, organizziamo una Kermesse enorme, con sessanta dame nei chioschi, e gli ottanta o novanta ciechi di Caravaggio, che hanno già ereditato due o tre fortune, ricevono venticinquemila lire. Non vi sono scuole: e altre dame della Società Margherita e io con esse, organizzano, organizziamo, conferenze, recite, gite, per aiutare ventidue o ventisette ciechi a domicilio, comprando loro un pianoforte o un fonografo o una biccicletta! Non vi sono scuole, a Napoli, e le maestre muoiono di fame e le ragazze e i ragazzi del popolo vanno al vizio, alla corruttela, al disonore al crimine: e vi stupite delle statistiche dell’onta, del delitto, a Napoli, quando dimenticate che non vi sono scuole, che invano qualche anima buona di assessore grida, perchè se ne aprano delle altre, mentre il goffissimo progetto del quartiere della bruttezza, a Santa Lucia, chiede un milione e duecentomila lire, poichè ciò fa comodo a un assessore qualunque! Non vi sono scuole, a Napoli, e questi cattolici che sono al Municipio di Napoli, non si vergognano di far perdurare questa cosa infame, che è l’analfabetismo, di cui tutti arrossiamo, innanzi non agli stranieri, solamente, che ne ridono ironicamente, beffandoci, ma innanzi agli italiani di Lombardia e di Piemonte. Non so da quanti anni si sta delirando e spendendo intorno al Maschio Angioino, sempre e la cancrena più ributtante divora il popolo napoletano, confitto nelle tenebre dell’ignoranza: e neppure i cattolici che da Cristo Signore Nostro avrebbero dovuto apprendere l’amore dei piccoli e degli oscuri, fanno niente. I socialisti domandavano la refezione scolastica: e avevano ragione, ma prima della refezione che andrebbe a figliuoli delle persone agiate, aprire delle scuole, aprirne altre cento, dappertutto, ecco quella che è la carità sociale, la solidarietà sociale! Viceversa, noi ci occupiamo se il lampadaro di S. Carlo toglierà la visuale a coloro che vanno in quarta e quinta fila: questione gravissima. Costoro che si agitano per questa cosa bizantina, sono pregati d’informarsi un poco, così, per sapere, quanti degli abitanti ordinarii delle carceri di San Francesco, di Sant’ Eframo e di Santa Maria ad Agnone sanno leggere. Dopo, si covrano la faccia con le mani: se hanno un poco di rossore!