11 Evitare argomenti che non interessano o temi sottili difficili da capire

Nel favellare si pecca in molti e varii modi, e primieramente nella materia che si propone, la quale non vuole essere frivola né vile, percioché gli uditori non vi badano e perciò non ne hanno diletto, anzi scherniscono i ragionamenti et il ragionatore insieme. Non si dee anco pigliar tema molto sottile né troppo isquisito, percioché con fatica s’intende dai più. Vuolsi diligentemente guardare di far la proposta tale che niuno della brigata ne arrossisca o ne riceva onta. Né di alcuna bruttura si dee favellare, comeché piacevole cosa paresse ad udire, percioché alle oneste persone non istà bene studiar di piacere altrui, se non nelle oneste cose. Né contra Dio né contra’ Santi, né dadovero né motteggiando si dee mai dire alcuna cosa, quantunque per altro fosse leggiadra o piacevole: il qual peccato assai sovente commise la nobile brigata del nostro messer Giovan Boccaccio ne’ suoi ragionamenti, sì che ella merita bene di esserne agramente ripresa da ogni intendente persona. E nota che il parlar di Dio gabbando non solo è difetto di scelerato uomo et empio, ma egli è ancora vizio di scostumata persona, et è cosa spiacevole ad udire: e molti troverai che si fuggiranno di là dove si parli di Dio sconciamente. E non solo di Dio si convien parlare santamente, ma in ogni ragionamento dee l’uomo schifare quanto può che le parole non siano testimonio contra la vita e le opere sue, percioché gli uomini odiano in altrui eziandio i loro vitii medesimi. Simigliantemente si disdice il favellare delle cose molto contrarie al tempo et alle persone che stanno ad udire eziandio di quelle che, per sé et a suo tempo dette, sarebbono e buone e sante. Non si raccontino adunque le prediche di frate Nastagio alle giovani donne, quando elle hanno voglia di scherzarsi, come quel buono uomo che abitò non lungi da te, vicino a San Brancazio, faceva. Né a festa né a tavola si raccontino istorie maninconose, né di piaghe né di malattie né di morti o di pestilenzie, né di altra dolorosa materia si faccia menzione o ricordo: anzi, se altri in sì fatte rammemorazioni fosse caduto, si dee per acconcio modo e dolce scambiargli quella materia e mettergli per le mani più lieto e più convenevole soggetto. Quantunque, secondo che io udii già dire ad un valente uomo nostro vicino, gli uomini abbiano molte volte bisogno sì di lagrimare come di ridere: e per tal cagione egli affermava essere state da principio trovate le dolorose favole che si chiamarono tragedie, accioché, raccontate ne’ teatri (come in quel tempo si costumava di fare), tirassero le lagrime agli occhi di coloro che avevano di ciò mestiere; e così eglino, piangendo, della loro infirmità guarissero. Ma, come ciò sia, a noi non istà bene di contristare gli animi delle persone con cui favelliamo, massimamente colà dove si dimori per aver festa e sollazzo, e non per piagnere: ché, se pure alcuno è che infermi per vaghezza di lagrimare, assai leggier cosa fia di medicarlo con la mostarda forte, o porlo in alcun luogo al fumo. Per la qual cosa in niuna maniera si può scusare il nostro Filostrato della proposta che egli fece piena di doglia e di morte a compagnia di nessuna altra cosa vaga che di letizia: conviensi adunque fuggire di favellare di cose maninconose, e più tosto tacersi. Errano parimente coloro che altro non hanno in bocca già mai che i loro bambini e la donna e la balia loro: – Il fanciullo mio mi fece ieri sera tanto ridere. – Udite; voi non vedeste mai il più dolce figliuolo di Momo mio. – La donna mia è cotale. – La Cecchina disse. – Certo voi no ’l credereste del cervello ch’ella ha. – Niuno è sì scioperato che possa né rispondere né badare a sì fatte sciocchezze, e viensi a noia ad ognuno.