16 Sulle cerimonie per debito o per vanità – le cerimonie imposte dalla legge da usare tenendo conto del luogo e delle usanze – aneddoto di Edipo e Teseo

Restami a dire di quelle che si fanno per debito e di quelle che si fanno per vanità. Le prime non istà bene in alcun modo lasciare che non si facciano, percioché chi le lascia non solo spiace, ma egli fa ingiuria; e molte volte è occorso che egli si è venuto a trar fuori le spade solo per questo, che l’un cittadino non ha così onorato l’altro per via, come si doveva onorare, percioché le forze della usanza sono grandissime, come io dissi, e voglionsi avere per legge in simili affari. Per la qual cosa chi dice «voi» ad un solo, purché colui non sia d’infima condizione, di niente gli è cortese del suo, anzi, se gli dicesse «tu», gli torrebbe di quello di lui e farebbegli oltraggio et ingiuria, nominandolo con quella parola con la quale è usanza di nominare i poltroni et i contadini. E, se bene altre nazioni et altri secoli ebbero in ciò altri costumi, noi abbiamo pur questi, e non ci ha luogo il disputare quale delle due usanze sia migliore, ma convienci ubidire non alla buona, ma alla moderna usanza, sì come noi siamo ubidienti alle leggi eziandio meno che buone per fino che il Comune o chi ha podestà di farlo non le abbia mutate. Laonde bisogna che noi raccogliamo diligentemente gli atti e le parole con le quai l’uso et il costume moderno suole e ricevere e salutare e nominare nella terra ove noi dimoriamo ciascuna maniera d’uomini, e quelle in comunicando con le persone osserviamo. E, non ostante che l’Ammiraglio, sì come il costume de’ suoi tempi per aventura portava, favellando col re Pietro d’Aragona gli dicesse molte volte «tu», diremo pur noi a’ nostri re «Vostra Maestà» e «La Serenità V(ostra)», così a bocca come per lettere: anzi, sì come egli servò l’uso del suo secolo, così debbiamo noi non disubidire a quello del nostro. E queste nomino io cirimonie debite, conciosiaché elle non procedono dal nostro volere né dal nostro arbitrio liberamente, ma ci sono imposte dalla legge, cioè dall’usanza comune; e nelle cose che niuna sceleratezza hanno in sé, ma più tosto alcuna apparenza di cortesia, si vuole, anzi si conviene ubidire a’ costumi comuni e non disputare né piatire con esso loro. E quantunque il basciare per segno di riverenza si convenga dirittamente solo alle reliquie de’ santi corpi e delle altre cose sacre, non di meno, se la tua contrada arà in uso di dire nelle dipartenze:
– Signore, io vi bascio la mano –; o – Io son vostro servidore –; o ancora: – Vostro schiavo in catena –, non dèi esser tu più schifo degli altri, anzi, e partendo e scrivendo, dèi salutare et accommiatare non come la ragione, ma come l’usanza vuole che tu facci; e non come si voleva o si doveva fare, ma come si fa: e non dire: – E di che è egli signore? – o: – È costui forse divenuto mio parrocchiano, che io li debba così basciar le mani? –  percioché colui è usato di sentirsi dire «Signore» dagli altri, e di dire egli similmente «Signore» agli altri, intende che tu lo sprezzi e che tu gli dica villania, quando tu il chiami per lo suo nome, o che tu gli di’ «Messere» o gli dài del «Voi» per lo capo. E queste parole di Signoria e di servitù e le altre a queste somiglianti, come io di sopra ti dissi, hanno perduta gran parte della loro amarezza; e, sì come alcune erbe nell’acqua, si sono quasi macerate e rammorbidite dimorando nelle bocche degli uomini, sì che non si deono abominare, come alcuni rustici e zotichi fanno, i quali vorrebbon che altri cominciasse le lettere che si scrivono agl’imperadori et ai re a questo modo, cioè: «Se tu e’ tuoi figliuoli siate sani, bene sta; anch’io son sano», affermando che cotale era il principio delle lettere de’ latini uomini scriventi al Comune loro di Roma, alla ragion de’ quali chi andasse drieto, si ricondurrebbe passo passo il secolo a vivere di ghiande. Sono da osservare eziandio in queste cirimonie debite alcuni ammaestramenti, accioché altri non paia né vano né superbo. E prima si dee aver risguardo al paese dove l’uom vive, percioché ogni usanza non è buona in ogni paese, e forse quello che s’usa per li Napoletani, la città de’ quali è abondevole di uomini di gran legnaggio e di baroni d’alto affare, non si confarebbe per aventura né a’ Lucchesi né a’ Fiorentini, i quali per lo più sono mercatanti e semplici gentiluomini, sanza aver fra loro né prencipi né marchesi né barone alcuno. Sì che le maniere di Napoli, signorili e pompose, trapportate a Firenze, come i panni del grande messi indosso al picciolo sarebbono soprabondanti e superflui, né più né meno come i modi de’ Fiorentini alla nobiltà de’ Napoletani – e forse alla loro natura – sarebbono miseri e ristretti. Né perché i gentiluomini Viniziani si lusinghino fuor di modo l’un l’altro per cagion de’ loro ufficii e de’ loro squittini, starebbe egli bene che i buoni uomini di Rovigo o i cittadini d’Asolo tenessero quella medesima solennità in riverirsi insieme per nonnulla; comeché tutta quella contrada (s’io non m’inganno) sia alquanto trasandata in queste sì fatte ciancie, sì come scioperata o forse avendole apprese da Vinegia, loro donna, imperoché ciascuno volentieri sèguita i vestigii del suo signore, ancora sanza saper perché. Oltre a ciò, bisogna avere risguardo al tempo, all’età, alla condizione di colui con cui usiamo le cirimonie et alla nostra, e con gli infaccendati mozzarle del tutto o almeno accorciarle più che l’uom può, e più tosto accennarle che isprimerle (il che i cortigiani di Roma sanno ottimamente fare), ma in alcuni altri luoghi le cirimonie sono di grande sconcio alle faccende e di molto tedio. – Copritevi –, dice il giudice impacciato, al quale manca il tempo; e colui, fatte prima alquante riverenze, con grande stropiccio di piedi, rispondendo adagio, dice: – Signor mio, io sto ben così. – Ma pur dice il giudice: – Copritevi! – E quegli, torcendosi due o tre volte per ciascun lato e piegandosi fino in terra con molta gravità, risponde: – Priego V(ostra) S(ignoria) che mi lasci fare il debito mio –: e dura questa battaglia tanto, e tanto tempo si consuma, che ’l giudice in poco più arebbe potuto sbrigarsi di ogni sua faccenda quella mattina. Adunque, benché sia debito di ciascun minore onorare i giudici e l’altre persone di qualche grado, non di meno, dove il tempo no’l sofferisce, divien noioso atto e deesi fuggire o modificare. Né quelle medesime cirimonie si convengono a’ giovani, secondo il loro essere, che agli attempati fra loro; né alla gente minuta e mezzana si confanno quelle che i grandi usano l’un con l’altro. Né gli uomini di grande virtù et eccellenza soglion farne molte, né amare o ricercare che molte ne siano fatte loro, sì come quelli che male possono impiegar in cose vane il pensiero. Né gli artefici e le persone di bassa condizione si deono curare di usar molto solenni cirimonie verso i grandi uomini e signori, che le hanno da loro a schifo anzi che no, percioché da loro pare che essi ricerchino et aspettino più tosto ubidienza che onore. E per questo erra il servidore che proferisce il suo servigio al padrone, percioché egli se lo reca ad onta e pargli che il servidore voglia metter dubbio nella sua signoria, quasi a–llui non istia l’imporre et il commandare. Questa maniera di cirimonie si vuole usare liberalmente, percioché quello che altri fa per debito è ricevuto per pagamento e poco grado se ne sente a colui che ’l fa; ma chi va alquanto più oltra di quello che egli è tenuto pare che doni del suo et è amato e tenuto magnifico. E vammi per la memoria di avere udito dire che un solenne uomo greco, gran versificatore, soleva dire che chi sa carezzar le persone con picciolo capitale fa grosso guadagno. Tu farai adunque delle cirimonie come il sarto fa de’ panni, che più tosto gli taglia vantaggiati che scarsi, ma non però sì che, dovendo tagliare una calza, ne riesca un sacco né un mantello. E se tu userai in ciò un poco di convenevole larghezza verso coloro che sono da meno di te, sarai chiamato cortese; e se tu farai il somigliante verso i maggiori, sarai detto costumato e gentile; ma chi fosse in ciò soprabondante e scialacquatore, sarebbe biasimato, sì come vano e leggiere, e forse peggio gli averrebbe ancora, ché egli sarebbe avuto per malvagio e per lusinghiero e, come io sento dire a questi letterati, per adulatore: il qual vizio i nostri antichi chiamarono, se io non erro, piaggiare, del qual peccato niuno è più abominevole né che peggio stia ad un gentiluomo. E questa è la terza maniera di cirimonie, la qual procede pure dalla nostra volontà e non dalla usanza. Ricordiamoci adunque che le cirimonie, come io dissi da principio, naturalmente non furono necessarie, anzi si poteva ottimamente fare sanza esse, sì come la nostra nazione, non ha però gran tempo, quasi del tutto faceva, ma le altrui malatie hanno ammalato anco noi e di questa infermità e di molte altre. Per la qual cosa, ubidito che noi abbiamo all’usanza, tutto il rimanente in ciò è superfluità et una cotal bugia lecita; anzi, pure da quello innanzi non lecita, ma vietata, e perciò spiacevole cosa e tediosa agli animi nobili, che non si pascono di frasche e di apparenze. E sappi che io, non confidandomi della mia poca scienza, stendendo questo presente trattato, ho voluto il parere di più valenti uomini scienziati; e truovo che un re il cui nome fu Edipo, essendo stato cacciato di sua terra, andò già ad Atene al re Teseo, per campare la persona (ché era seguitato da’ suoi nimici), e dinanzi a Teseo pervenuto, sentendo favellare una sua figliuola et alla voce riconoscendola percioché cieco era, non badò a salutar Teseo, ma, come padre, si diede a carezzare la fanciulla; e, ravvedutosi poi, volle di ciò con Teseo scusarsi, pregandolo gli perdonasse. Il buono e savio re non lo lasciò dire, ma disse egli: – Confortati, Edipo, percioché io non onoro la vita mia con le parole d’altri, ma con le opere mie –: la qual sentenza si dee avere a mente; e comeché molto piaccia agli uomini che altri gli onori, non di meno, quando si accorgono di essere onorati artatamente, lo prendono a tedio, e più oltre lo hanno anco a dispetto. Percioché le lusinghe (o adulazioni che io debba dire) per arrota alle altre loro cattività e magagne hanno questo difetto ancora: che i lusinghieri mostrano aperto segno di stimare che colui cui essi carezzano sia vano et arrogante et, oltre a ciò, tondo e di grossa pasta e semplice sì che agevole sia d’invescarlo e prenderlo. E le cirimonie vane et isquisite e soprabondanti sono adulazioni poco nascose, anzi palesi e conosciute da ciascuno, in modo tale che coloro che le fanno a fine di guadagno, oltra quello che io dissi di sopra della loro malvagità, sono eziandio spiacevoli e noiosi.