II. Il vicolo del pianto

Annottava: piovigginava. Per la via di Tordinona si facevano rari i viandanti. I fanali a gas, velati dalla umidità serale di Roma, da quella costante nebbia che si eleva dal Tevere che scorre sotto i parapetti di via Tordinona, appena appena fiammeggiavano, in quella luce gialla e triste che opprime.
Quasi tutte le botteghe di quel bizzarro, oscuro budello che è via Tordinona, botteghe piccole, nerastre, in massima parte di ferravecchi, di stracciaroli, di antiquari o di tutte le tre cose insieme, si chiudevano. A quell’ora, chi mai sarebbe venuto a contrattare una lampada antica di ferro battuto, un pezzo di velluto rosso stinto, magari uno di quei cofani di nozze che sono stati il delirio delle signore borghesi, innamorate della roba vecchia? Il forestiere o l’amatore passa di giorno, in via Tordinona: e da che è stato demolito il teatro Apollo, dopo l’Avemmaria, quella strada perde ogni vivacità.
Una botteguccia posta verso la fine di Tordinona, quasi presso il vecchio ponte Sant’Angelo, teneva ancora un fumoso lume a petrolio acceso: e la luce incerta dava le forme più strane a un ciarpame di robivecchi, ad ammassi di cenci sordidi, a cataste di ferri polverosi e irrugginiti, a mobili sconquassati e tarlati, a bocce di cristallo appannate, a bracieri di ottone diventato verde: tanto che, a darvi uno sguardo dal di fuori, non si arrivava a distinguere che ombre singolari in cui si agitavano, ma lentamente, due persone.
Una di esse, avvolta quasi sino ai piedi in una sudicia palandrana nera, con un cappellaccio bisunto sul capo, era un vecchio, vecchio da quanto tutti i rottami che possedeva nella botteguccia, vecchio, pareva, come via Tordinona, come il Tevere e il suo ponte Sant’Angelo. La faccia, tutta tagliata da rughe profonde, in tutti i sensi, era gialla come la cartapecora, e una gran barba bianca si partiva dalle guance, per discendere sul petto. Dei capelli bianchi, lunghi, rigettati indietro, ricadevano sul collo e avevano reso untuoso il colletto della palandrana; le sopracciglia bianche erano molto folte e assai cavi gli occhi. Tutta la fisonomia aveva una espressione di umiltà e di stanchezza: ma negli occhi, ogni tanto, lampeggiava uno sguardo vivacissimo e le labbra violacee erano sfiorate da un sorriso malizioso. Quell’uomo era curvo, molto curvo; ma sembrava che fosse tale più per l’abitudine della servilità e della paura, che per la vecchiaia. Le sue mani erano scarne con certe grosse vene violette e i polsi nodosi: qualche cosa di avido vi era nelle dita adunche.
Il suo compagno era un giovanotto di una ventina d’anni, magro, ossuto, scialbo, di un pallore così malaticcio che faceva pensare a tutte le infermità che ammiseriscono e gelano il sangue. Era miseramente vestito, come il vecchio: un paio di pantaloni troppo leggieri per quella stagione invernale, una giacchetta troppo corta e un goletto di camicia tutto sfilacciato sotto cui si annodava un cencio di cravatta. Era brutto: aveva la bruttezza di chi vive di fame, di chi è sporco, di chi dorme negli stambugi infetti: e, vedete ironia del destino, quel giovanotto si chiamava Giacobbe, il nome del gran patriarca carico di ricchezze e di anni, glorioso nella Mesopotamia!
I due avevano finito la loro giornata. Alla meglio, Giacobbe, cercava di ripulire con una scopa la botteguccia, ottenendo di mettere dei mucchietti di polvere e d’immondizie verso il fondo, niente altro. Il vecchio scriveva lentamente in un suo grosso libro dai fogli ingialliti come il suo volto, con una penna d’oca che strideva, malgrado fosse spesso bagnata nella spugna di un calamaio di terra, da un soldo. Gli occhiali del vecchio erano rilegati in argento, unico lusso della sua persona: occhiali pesanti, che rendevano anche più degno dell’Antico Testamento quel robivecchi. Del resto, era ebreo e si chiamava Mosè Cabib: ebreo, il suo poverissimo commesso, Giacobbe Verona.
Il vecchio seguitava, con mano incerta, a scrivere in quel suo libraccio: e Giacobbe appoggiato alla scopa, aspettava con pazienza. Quello era certo, un libro di cassa: ma gli affari erano stati così scarsi, in quel giorno, che, veramente, non si poteva comprendere che cosa Mosè Cabib registrasse in quel volume. Non aveva venduto che una piccola cornice dorata del secolo scorso per cinque lire e un cofanetto di legno, tutto tarlato e sgangherato, per otto lire, più due o tre bazzecole, da due o tre lire. Il grosso avventore, il grosso colpo era mancato: ma non si sa neppure che cosa avrebbe potuto comperare lì dentro, fra quelle robe vecchie, sconquassate, sporche, quasi ributtanti di sporcizia.
Mosè Cabib finì di scrivere. Aspettò che l’inchiostro si asciugasse e richiuse il volumone legato in cuoio tutto bistorto: poi lo gittò in un tavolino, dal cassetto socchiuso. Lasciava così il suo libro di cassa: ma era scritto in ebraico. Mosè Cabib sapeva scrivere bene la sua lingua. Poi, cavò un portafogli immenso, sdrucito, legato con uno spago e vi ripose le quindici o venti lire della giornata, senza che gli occhi maliziosi di Giacobbe giungessero a distinguere che cosa vi fosse, ancora, dentro. E disse:
— Andiamo.
Ma, a questo, un fischio dolce e lungo si udì dalla cantonata, verso ponte Sant’Angelo: una espressione d’inquietudine si dipinse sul volto del vecchio, ed egli si sollevò gli occhiali sulla fronte come per meglio ascoltare. Il fischio si ripetette. Allora egli si levò e disse a Giacobbe:
— Ora torno: aspettami qui.
— Va bene.
— Non ti muovere, comprendi?
— Sì.
Uscendo di bottega, Mosè Cabib si voltò due o tre volte, a vedere se il suo commesso avesse obbedito: non voleva essere spiato. Rassicurato, si avanzò verso il ponte; lo attraversò per metà, col suo passo strascicato, ma cauto.
Un uomo era appoggiato al parapetto del ponte e chinato sulla pietra parea che guardasse con attenzione scorrere le acque del fiume, di sotto le arcate.
Nelle ombre, non vedevasi bene la sua figura, tanto più che, egli aveva aperto l’ombrello, sebbene piovesse pochissimo o niente. Quando Mosè Cabib giunse vicino a lui, egli non si voltò e parlarono insieme, pianissimo, senza guardarsi:
— Buona sera, Maestro, — disse Mosè Cabib.
— Buona sera, Moussa, — disse lo sconosciuto, dandogli il nome arabo di Mosè. — Eccoti dunque!
— Mi avete chiamato, sono venuto, — mormorò il vecchio antiquario.
— Sei obbediente, lo so; — rispose l’altro — ma ti ho chiamato due volte, ricordatelo. —
E la sua voce sibilante aveva una espressione di durezza.
— Ho inteso, ma non ero certo. …
— Solo io posso chiamare così. Un’altra volta, non esitare e vieni subito.
— Sono vecchio, Maestro, e cammino lentamente: un’altra volta correrò.
— Sta bene. Che nuove mi dai?
— Di quale affare?
— Uno mi preme molto. Parlami prima dell’altro.
— Dunque, quello della contessa Loredana. È in buona via, Maestro. …
— Vale a dire?
— Il giovane conte Ranieri le è stato presentato, oggi, al raout della principessa Marescalchi.
— E che se ne è avuto?
— Pare che sia molto piaciuta a Ranieri Lambertini.
— Pare! non è certo?
— No. Una conoscenza di un giorno. …
— Si rivedranno?
— Si spera. La contessa Loredana è sicura di sedurlo.
— È necessario, è urgente, Moussa, — disse lo sconosciuto, con voce imperiosa.
— Lo so, — disse il vecchio, crollando il capo — purtroppo!
— Dici, purtroppo? — esclamò l’altro — vuol dire che il secondo affare va malissimo?
— Malissimo, — e l’antiquario sospirò.
Un sospiro che parve un ruggito escì dal petto dello sconosciuto.
— Ma chi, chi si oppone al mio volere? — disse, con voce soffocata dall’ira, guardando il cielo.
— Chi? Lei! — esclamò Mosè Cabib.
— Una misera fanciulla!
— Misera? Non tanto, Maestro. Ella è piena di forza e di volontà.
— Io sono più forte di lei.
— Voi l’amate, Maestro, — disse umilmente il vecchio, per temperare la crudezza della dichiarazione.
— Io l’amo e la odio, — egli disse, fra i denti stretti.
— Voi la volete felice e grande, lo so, — riprese Mosè Cabib. — Ma ella respinge la vostra offerta, sempre.
— Non mi ama, non mi ama, — disse il Maestro, a capo basso.
— Vi teme, ma vi sfida.
— E tu, suo padre, non puoi fare nulla? Che uomo sei?
— Ella ha minacciato di uccidersi, Maestro, se io tentava di costringerla.
— Non lo farà!
— Lo farà, lo farà, è capacissima di farlo. E mi è figlia, Maestro.
— Tu l’ami! E la daresti a me?
— La darei.
— Sai tu che voglio farne, Moussa Cabib, di Rachele, di tua figlia?
— Vostra moglie?
— Non solo!
— Vostra padrona?
— Non soltanto!
— Vostra regina?
— Più ancora.
— Che?
— Io voglio farne un’altra cosa, — disse il Maestro, con voce sorda.
— Glielo avete detto? — domandò Mosè con voce trepida e un po’ sgomenta.
— Forse, lo ha compreso. Perciò mi respinge. Le faccio paura.
— Fate paura a tutti.
— Ella cederà.
— Non credo, — disse Mosè, desolatamente.
— Ma chi, chi me la toglie? — e mostrò il pugno al cielo.
— Ella ama quel Ranieri Lambertini.
— Quell’imbecille!
— È un bel giovane.
— Ed io sono brutto e vecchio.
— La giovinezza attira. Egli è nobile.
— E io sono grande e potente, Moussa.
— Sì, Maestro: ma Rachele ama colui.
— Io lo ucciderò!
— Ella ne morrebbe.
— Che fare, dunque? Deve la mia vita, la mia felicità, la mia fortuna e la mia gloria, tutto arrestarsi innanzi alla volontà di Rachele? Io ho vinto le più aspre battaglie; combatterò io contro un fuso e una conocchia?
— Quel Lambertini. …
— Non dici che la Loredana lo avrebbe sedotto?
— Se ci riesce! E poi, Rachele è così sicura di lui!
— Gli daremmo la prova!
— È una creatura difficile. —
Tacquero: chinavano il capo.
— Vi deve essere qualche altra cosa, — disse il Maestro, rialzando la testa.
— Che cosa?
— Quella fanciulla ha qualche idea nella mente che non conosciamo.
— Non credo.
— Tanta resistenza non è possibile.
— L’amore. …
— L’amore non basta. Vi è qualche altra cosa. Sento un nemico, nell’ombra, Moussa. Guarda bene, osserva, scruta quell’anima. … Ella obbedisce a qualche potere che non è l’amore.
— Volete voi vederla, Maestro? — chiese Mosè Cabib, con timidità.
— Io le faccio orrore.
— Vedetela, parlatele; la vostra parola è eloquente; soprattutto, il vostro sguardo è acuto.
— Io so tutto, — disse orgogliosamente il Maestro — io conoscerò il segreto di questa fanciulla.
— Il suo segreto è amore, è noto.
— Ella ne ha un altro, Moussa!
— Voi sapete tutto, — e s’inchinò devotamente — verrete voi, domani?
— No, domani, no. Non voglio uscire, nella giornata. Verrò a sera avanzata. Rachele vi sarà?
— Aspetterà la vostra visita.
— Non annunziargliela! Non darle armi contro me, Moussa! Che io giunga inaspettato! Che io possa sorprendere quell’anima!
— Va bene, Maestro. Volete voi altro dal vostro servo?
— No, Moussa.
— Raccomandatemi al nostro Dio, voi che siete un saggio e un Maestro.
— Sì. Buona notte.
— Buona notte. —
Il Maestro rimase appoggiato al parapetto, mentre Mosè Cabib si allontanava, lentamente, ritornando alla sua bottega.
Il vecchio trovò Giacobbe Verona che sonnecchiava sopra una sedia.
— Andiamo, — ripetette il vecchio.
E questa volta fu davvero. Le porte della bottega furono serrate e sprangate; Mosè se ne mise la chiave in tasca.
Giacobbe aveva un misero ombrelluccio di cotone e lo aprì: insieme, piano piano, il giovine e il vecchio si misero per la via, a raggiungere la loro casa.
Senza toccare il Corso, i quartieri eleganti e mondani di Roma, voltarono per una quantità di viuzze male illuminate e quasi deserte, traversando tutta la distanza che separa quel quartiere clericale di Roma dal Ghetto. I due parlavano poco: Giacobbe Verona cascava di sonno e di fame, mentre Mosè rimuginava nella mente tutte le parole terribili dettegli dal Maestro. Sua figlia aveva, dunque, un altro mistero nel cuore? Non bastava quello sciagurato amore per Ranieri Lambertini, il bel giovine aristocratico, di una grande famiglia? L’amore per un cristiano, per un signore, non bastava, come tormento alla sua vita? E le spalle del vecchio si curvarono un po’ più, egli abbassò il capo sul petto, come oppresso da una ignota sventura.
— Sei stato a casa, stamane? — domandò ad un tratto, a Giacobbe Verona.
— Sì, padrone.
— Per prendere la tua colazione?
— Sì: e per portare alla signorina Rachele un libro che mi aveva chiesto.
— Un libro? Che libro?
— Un romanzo.
— Che romanzo?
— Si chiama: I promessi sposi di Alessandro Manzoni.
— E tu glielo hai portato? Lo avevi?
— No. Glielo ho comperato da un rivenditore di libri vecchi.
— Avrai speso un banco! Che hai speso?
— Trenta centesimi. Era quasi nuovo.
— Ah! meno male.
— Mi aveva dato due lire.
— Due lire! Due lire! Chi gliele aveva date, a lei?
— Io non lo so.
— Compra dei libri! Dei romanzi! Ha dei denari! Dio mio! — mormorò fra sè Mosè Cabib.
— Non vi era, stamane, la signorina Rachele, — soggiunse Giacobbe Verona.
— Come! — gridò il vecchio, arrestandosi d’un tratto.
— Non v’era! — rispose Giacobbe, con voce indifferente.
— E dove era?
— Non lo so.
— Era uscita? Sola? Sola?
— No: era uscita con Rosa, la serva.
— L’hai aspettata?
— Sì, sotto il portone. Avevo fame e dovevo consegnarle il libro.
— Quanto tempo ha tardato?
— Mezz’ora, forse: ma non so quanto tempo prima fosse uscita.
— Ah! Donde veniva?
— Non me l’ha detto.
— Era pallida, agitata, commossa?
— Pallida. … credo.
— Che ti ha detto?
— Mi ha ringraziato del libro.
— Ma non ti ha detto dove era stata?
— No.
— Le hai dato il denaro?
— Sì.
— Che ti ha dato da mangiare?
— Della carne, rimasta dal pranzo di ieri sera e accomodata con le cipolle. Ma ho dovuto ancora aspettare che ciò si riscaldasse. Rosa era di malumore.
— E Rachele che faceva, intanto?
— Era salita su, in camera sua, a leggere.
— Non l’hai riveduta?
— No.
— Che è, questo libro dei Promessi sposi? Lo hai letto?
— Io, no.
— Io, neppure. Sarà uno di quei brutti libracci di questi cristiani!
— Ne aveva un grande desiderio, la signorina Rachele.
— Chi sa chi gliene ha parlato! — mormorò il padre.
Ma erano giunti al vicolo del Pianto, uno dei tanti del Ghetto. Nero, sporco, fra piccole case di uno o due piani, con un’aria fetida che trapelava da quelle mura gocciolanti umidità, il vicolo del Pianto avrebbe fatto orrore e terrore a qualunque galantuomo vi si fosse arrischiato in un’ora avanzata della notte. Quell’ambiente respirava la miseria, la sudiceria, il vizio e forse il delitto. A quell’ora, solo due o tre finestrette apparivano illuminate, attraverso i vetri sporchi.
Mosè Cabib si fermò innanzi a un portoncino basso, serrato; tirò una catena di ferro e un suono debole di campanello corrispose dall’interno. Al primo piano una finestretta si schiuse e una testa di donna si affacciò:
— Chi è?
— Sono io, Rosa, apri. —
Poco dopo un passo strascicato si udì per le scale e un tirare di catenaccio rugginoso: Rosa, la serva di Mosè, con una lampadetta fumosa in mano, mostrò il suo viso senza età e la sua persona ossuta e grossolana.
— Buona sera, padrone, — e lo sogguardò, con occhio scrutatore, mentre egli saliva su.
— Buona sera, buona sera, — borbottò lui, infastidito.
— Brutto tempo, — pensò la serva, fra sè, che non era senza peccati.
La scala era stretta, umida, tutta sbocconcellata: non aveva nè un cordone, nè un bastone cui appoggiarsi: la lampadetta illuminava male e per poco Mosè non cadde.
— Attento, padrone! — disse la serva Rosa.
— Sto attento, sto attento, più di quello che tu creda, — egli brontolò, entrando in casa.
Sulla soglia lo aspettava sua figlia, Rachele, che vedendolo, s’inchinò e gli baciò la mano. Tale atto lo commoveva sempre, il vecchio Mosè: e baciandola in fronte, le disse:
— Dio ti benedica, Rachele. —
Ella lo seguì, in una camera bassa e oscura che serviva da salotto, da stanza da pranzo, da lavoro. Poveramente mobiliata, vi era però, caso stranissimo, molta nettezza. La mensa era preparata sopra una rozza tovaglia, ma di bucato: i piatti erano di creta, le forchette di stagno, ma pulitissime. Era preparato per due. Rachele non aspettava mai suo padre, per pranzare: era lui, che voleva così. Rientrava a ore incerte, talvolta a mezzanotte: talvolta, non pranzava a casa, andando chi sa dove, mantenendo il segreto delle sue assenze, e non voleva che ella contasse su lui. Per economia, egli dava il vitto a Giacobbe Verona: e neanche amava che sua figlia pranzasse col suo commesso. Così, ogni sera, come quella, Rachele assisteva in silenzio al pranzo di suo padre. Pranzo povero e scarso, che il vecchio e il giovane divoravano, con una fame da lupo, mentre Mosè studiava la grandezza delle fette di pane che si tagliava Giacobbe. La scena era curiosa. Quel vecchio, stanco, affranto, sempre avvolto nella sua palandrana, col bisunto cappello sul capo, con le mani nodose e rossastre pel freddo, masticava rumorosamente, con uno scricchiolìo di vecchie mascelle, e beveva dei bicchieri di acqua e vino, colmi. Il giovane, pallido, dissanguato, tutto gramo nella sua giacchetta, mangiava in silenzio, ma con una voracità spaventosa, senza levar gli occhi dal piatto. Rosa andava e veniva dalla cucinetta, portando la poca roba. All’altro capo della tavola Rachele, le mani incrociate sulla tavola, assisteva, muta, pensosa.
In Rachele Cabib brillava tutta l’alta beltà muliebre giudaica. Così certo, nei tempi patriarcali, le sue antenate dovevano essere belle, nate al sole della Mesopotamia, erranti per le valli fiorite e arrestantisi alle fresche fontane: così doveva essere Rebecca, la nobile fanciulla: così Erodiade, colei che fatalmente strappò al Tetrarca la testa di Giovanni Battista. Rachele era alta e snella della persona e nelle sue forme erano una grazia e una seduzione infinite: ogni sua movenza aveva un senso armonico che completava la purezza delle sue linee. Era pallida e un po’ bruna, ma bruno di avorio, caldo e vivido, carnagione ammirabile, dove il sangue della giovinezza e della salute scorreva, vigoroso e fine, insieme. Nerissimi i capelli e profondamente neri gli occhi, tagliati a mandorla, socchiusi sotto le palpebre d’avorio dalle lunghe ciglia ricurve: e negli occhi una espressione misteriosa di pensiero, un segreto impenetrabile che destava una curiosità sempre inappagata. Il volto era ovale, in una linea molle e carezzevole; la bocca era rossa e tumida, un po’ fiera, poco fatta pel sorriso e per le parole. Bellissima!
Ella era vestita di una stoffa nera di lana, semplicissima, ma tagliata come il panneggiamento di una statua, stretta alla persona da una cintura di vecchio argento, a placche cesellate: un oggetto antico che suo padre aveva ritrovato fra le cianfrusaglie.
Ella portava al collo una sciarpa di merletto ingiallito dal tempo, dai toni molto dolci, che temperava l’aspetto claustrale di quel vestito e di quella cintura. Nessun gioiello al collo, agli orecchi: nessun anello alle perfette mani, mollemente incrociate sulla tavola, in atto stanco.
Lo sguardo di Rachele si fermava spesso su suo padre, con una fugace espressione di tenerezza, ma si ritraeva, subito, come rinchiudendosi in sè stesso. Ella abbassava gli occhi e pensava. Anche Mosè Cabib, ogni tanto sogguardava sua figlia, come se volesse dirle qualche cosa, ma pareva che vi rinunziasse per una ragione ignota. Forse, la presenza di Giacobbe Verona lo seccava. Costui abitava in una stamberga del Ghetto poco lontana, e ordinariamente, preso quel poco di cibo, non si tratteneva molto in casa del padrone: cascava sempre dal sonno, quell’infelice! Pure Mosè Cabib, non seppe resistere e, all’improvviso, domandò a Rosa:
— Siete uscite, stamane?
— Già, — disse costei.
— Dove siete andate?
— Dove ha voluto la padrona, — ella rispose, schivando astutamente una risposta precisa.
Mosè Cabib guardò interrogativamente sua figlia, che sollevò le palpebre e rispose piano, con una voce armoniosa e pura, ma come infranta.
— Avevo mal di capo, sono uscita per prendere aria.
— Dove sei stata?
— Pel Corso. …
— E chi hai incontrato?
— Nessuno, — rispose Rachele, con tono secco.
E abbassò gli occhi, serrò le labbra, come se non volesse rispondere più. Il padre conosceva quei movimenti: sapeva che, in quel momento, sua figlia diventava di pietra. Non chiese nulla. Rosa sparecchiava la tavola ed egli aveva accesa una pipetta, che aveva cavata dalla tasca della sua palandrana. Giacobbe Verona si era levato in piedi, per andarsene.
— Vieni presto, domattina, Giacobbe, — raccomandò Mosè Cabib, al suo gramo commesso che andava via.
Costui si chinò e gli baciò la mano, come faceva ogni sera. Rosa accese un fiammifero, per fargli lume, per le scale, non volendo togliere la lampada ai padroni. Poi, rientrò. Rachele Cabib restava sempre immobile, con le mani incrociate, assorbita nei suoi pensieri. Le lunghe ciglia delle palpebre abbassate le mettevano un’ombra sulle guance. Il padre fumava in silenzio la sua pipa. Rosa aveva preso una calza e lavorava, un po’ lontana dalla tavola, senza neanche guardare le maglie.
— Perchè siete uscite, stamane? — ripetette Mosè, rivolgendosi alla serva, ancora una volta. — Lo sapete che non mi piace! —
Costei non rispose, ma fece un gesto per indicare Rachele. La fanciulla non si smosse, come se non avesse udito.
— Rachele? — chiamò il vecchio.
— Padre? — rispose ella, scuotendosi.
— Hai udito?
— No, padre.
— Mi spiace che tu sia uscita.
— Qui, si soffoca, — ella disse, con voce sorda.
— È il quartiere della tua gente.
— Io lo odio, — ella replicò, tetramente.
— Odî la tua gente?
— Sì, — diss’ella, con energia.
— Anche me?
— Vi rispetto e vi amo, voi.
— Ma mi disubbidisci.
— Non voglio morire, ecco, padre.
— Questa è una delle migliori case del Ghetto. Non ti manca nulla; sei servita; che vuoi? — disse il vecchio, con amarezza.
— Andar via di qui! — disse lei, subito.
— Via? Dove?
— Via: dovunque. Fuori di qui! Ci muoio, padre.
— Via sola?
— Via, con voi, — ella disse, a bassa voce.
— O sola; andresti anche sola, — mormorò il vecchio Mosè, sempre più amaramente.
Ella tacque.
Un silenzio si fece, in cui non si udiva che lo scricchiolìo dei ferri di Rosa e qualche sbuffo della pipa di Mosè.
— Che è questo libro, che ti sei fatto comperare da Giacobbe? — domandò Cabib, a un tratto.
— È un romanzo, — diss’ella, semplicemente.
— I libri guastano la testa.
— Quello è un libro onesto, padre.
— Che ne sai tu?
— Me lo hanno detto.
— Chi te l’ha detto? —
Ella non rispose.
Quando suo padre la tormentava troppo, con le domande, con le indagini, il silenzio era il suo rifugio.
— Questi Promessi sposi… un romanzo d’amore? — egli riprese, con quella ostinazione che è particolare ai vecchi.
— Sì, padre.
— E ora. … passerai la notte a leggerlo?
— Ho letto, oggi, molto. Leggerò poco, stanotte.
— La notte è fatta per dormire. —
Di nuovo, silenzio.
Mosè Cabib scosse la pipetta sull’orlo della tavola. Guardò Rosa; costei seguitava a sferruzzare, come se nulla fosse. Fuori, la pioggia era diventata più forte.
— Va a letto, Rosa, — disse il vecchio.
— Non è tardi, posso ancora restare.
— A che resteresti? Sono ore di sonno che perdi. —
Rosa, invece di obbedire, guardò Rachele. Costei non disse nulla. L’altra riprese la calza.
— Va a letto, va, — replicò il vecchio, stizzito.
— La signorina Rachele può aver bisogno di qualche cosa. …
— Rachele?
— Padre?
— Hai bisogno di nulla da Rosa?
— No, nulla: vai, vai pure, Rosa, — ella disse alla serva, con un’occhiata di affetto.
— Proprio nulla, signorina? — mormorò la serva, già in piedi, ma esitante.
— Nulla: andrò a letto anche io, — e si alzò.
— Rimani, tu, — disse Mosè Cabib a Rachele.
— Perchè?
— Ho da parlarti. —
Rachele crollò la testa malinconicamente e si sedette di nuovo.
— Ora voi ricominciate a tormentare questa figliuola! — esclamò la serva, con la sua rude familiarità.
— Rosa, vattene, ho da parlare a mia figlia, — gridò il vecchio, incollerito.
— Vado, vado. … ma non vi è ragione. … buona notte, signorina. … non ve ne prendete. … e le chiacchiere sono chiacchiere. …
— Rosa!
— Eh! buona notte —
E acceso un cerino, passò in uno stanzino, dietro la cucina, dove aveva un lettuccio e una sedia. Mosè Cabib lasciò passare qualche minuto, per esser certo che quella non sarebbe tornata. Rachele aspettava, con aria rassegnata, quel discorso. In quel momento, la sua bellezza assumeva un fascino di malinconia che conquideva. Mosè Cabib la guardava e non poteva nascondersi di essere orgoglioso di quella sua creatura. A un tratto, un pensiero gli traversò la mente e disse, rompendo la pausa:
— Rachele, sai chi ho visto, questa sera?
— Chi?
— Una persona che ti spiace.
— Non parlatemene, allora, — diss’ella impallidendo, poichè aveva compreso.
— Debbo parlartene. Ho visto il Maestro.
— Oh Dio! — ella disse, nascondendosi la faccia fra le mani.
— Egli è qui: è qui di nuovo.
— Credevo che fosse partito per sempre. …
— Egli parte sempre. … ritorna sempre. … egli è l’eterno viaggiatore. … e l’eterno reduce. … — pronunziò il vecchio, con voce misteriosa.
— Perchè ritorna? Che vuole? Se ne vada! — ella replicò, con voce cupa.
— Ha le sue ragioni. Niuno le conosce. Egli è il Maestro, Rachele: rispettalo.
— Non lo conosco: non rispetto che Dio e voi.
— Egli è più di me.
— Ma meno di Dio! — ella ribattè, fieramente.
— Rispettalo, rispettalo!
— Non so chi sia: non voglio saperlo! — replicò ancora, con la sua voce più dura.
Padre e figliuola si guardarono un momento, ambedue molto turbati: il padre inquieto e sgomento: la figliuola accesa d’ira e di ribellione. La bella faccia bruna, di quel pallore d’avorio, si era colorita: le labbra schiuse lasciavano vedere i bianchi, magnifici denti: e negli occhi di Rachele Cabib si leggeva una espressione energica di sfida.
— Rachele, tu ti pentirai della tua fierezza, — riprese il padre con umiltà.
— No, padre.
— Il Maestro è grande e possente.
— Dio solo è grande e possente, padre mio.
— Egli è vicino a Dio, Rachele!
— Non bestemmiate! — e impallidì orribilmente.
— Credimi, egli può farti gloriosa e forte, se tu vorrai.
— Con lui, mai! — ella esclamò.
— Tutti i segreti della vita sono palesi a lui, Rachele, e il cuore degli uomini è un libro dove egli legge a pagina aperta; egli può esser più ricco di un re, più grande di un imperatore e tutto questo sarà dato a te, — disse il vecchio, con voce esaltata, con occhi ardenti.
— Io lo odio, — replicò lei, con voce cupa.
— Non sei tu ambiziosa? Non vuoi tu uscire dalla miseria e da questa casa? Non vuoi tu mettere un diadema di brillanti sui tuoi neri capelli e una collana di perle al tuo collo? Non vuoi tu esser ricevuta da questi infami cristiani, corteggiata, adulata? Solo il Maestro ti può dare tutto questo, Rachele, — disse il vecchio tentatore, sognando il trionfo della figliuola che egli adorava.
— Non voglio nulla da lui, — ella disse, freddamente.
— Vuoi languire nell’oscurità?
— Sì.
— Nella miseria?
— Sì.
— La tua bellezza deve sfiorire qui dentro?
— Sì.
— Tu sei pazza, Rachele: quel pallido giovinastro ti ha fatto perdere la testa, — disse il vecchio furioso.
Ella non rispose e arrossì d’ira repressa, udendo ingiuriare l’uomo che amava.
— Scommetto che lo hai riveduto, oggi! — gridò il vecchio, gittando da sè la sua cara pipa, in un moto di sdegno.
Ella tacque.
— L’hai visto, è vero, l’hai visto? — gridò ancora il vecchio, facendo fiamme dagli occhi.
— Che v’importa, padre? — ella rispose, piano, distogliendo lo sguardo da Mosè.
— Che m’importa? Che m’importa? Mi portano via mia figlia e io lo debbo permettere?
— Io sono qui, ancora, — ella disse con uno strano sorriso.
— Ma il tuo cuore è altrove, ma la tua anima è altrove: oh, ti capisco, perfettamente; quando taci, quando sei distratta, tu pensi a lui!
— Le anime e i cuori non si legano, — ella mormorò, dimessamente.
— Tu l’hai visto!
— Che io lo veda o non lo veda, padre, è lo stesso, — ella replicò semplicemente.
— Io ti chiuderò in casa, Rachele, — egli minacciò.
— Farete quel che vorrete, — rispose Rachele, diventata freddissima, abbassando il capo.
— Tu non lo vedrai più, mai più!
— Come vorrete.
— Io gli impedirò, per sempre, di venire qui, in questa strada, dove gironza, ogni tanto; gli impedirò d’incontrarti, altrove: non lo vedrai più! —
Ella tacque, chinando il capo sul petto.
— Già — riprese il vecchio, con la voce sibilante fra i denti — Ranieri Lambertini non t’ama. Qualunque donna rapisce il suo cuore e la sua fantasia. Adesso, è innamorato di una bella donna veneziana. …
— Non è vero, — ella disse, subito.
— Per Mosè, è vero!
— Non vi credo.
— Non credi a tuo padre?
— M’ingannate, perchè io non lo ami più.
— Vuoi avere le prove del tradimento?
— Le avessi, non ci crederei. Ranieri Lambertini è mio.
— Una israelita non può essere nè l’amante, nè la moglie di un cristiano, — disse il padre, gravemente.
— Lo so, — ella rispose, a voce alta.
— Ebbene?
— Ebbene, lo amo, lo amerò sempre.
— È una follìa.
— Che durerà tutta la mia vita.
— Egli non t’ama; egli ti abbandonerà.
— Che importa? Lo amerò sempre!
— Contro la volontà di tuo padre? Contro il Dio dei tuoi avi? Contro tutto?
— Nè mio padre, nè Dio possono essere così crudeli, con me.
— Lo saranno, — gridò il vecchio, levandosi in piedi, quasi fatto più grande dalla collera.
— Ebbene: contro!
— Io ucciderò quell’uomo, Rachele! — urlò il vecchio, che non ragionava più.
— Speriamo di no, padre, — ella disse, con grande dolcezza.
— Non io, sono vecchio, egli è giovane: ma egli morrà, il Maestro lo ucciderà!
— Sarebbe male, padre, — diss’ella, sempre dolcemente, ma con fermezza.
— Lo ucciderà, lo ucciderà! Egli ha tante armi che uccidono bene, tanti veleni che non lasciano traccia: il Maestro è il signore della Morte. Ranieri Lambertini è un ostacolo, a lui, al suo amore, alla sua felicità; Ranieri Lambertini morrà.
— Dio non permetterà questo, — ella replicò, fremendo tutta, ma dominando la sua emozione.
— Dio è col Maestro. Ranieri Lambertini morrà.
— Non solo, padre! — gridò ella, uscendo dalla sua freddezza dolce.
— Che dici?
— Dico che Ranieri Lambertini non morrebbe solo.
— Rachele!
— Un’ora dopo di lui, lo seguirei, — ella disse, così decisamente, che il vecchio balbettò:
— Tu faresti questo?
— Sì.
— Oh povero me, la mia vita è finita! — gridò Mosè Cabib, ricadendo sulla sedia, col capo sulle braccia.
— Padre, quel Marcus Henner è uno scellerato, — disse Rachele, con voce ancora vibrante, ma accostandosi al tavolino dove Mosè Cabib mormorava e gemeva fra sè.
— Non nominarlo! Chiamalo: il Maestro! Il suo nome porta sventura: pochi lo conoscono ed egli lo nasconde. Marcus Henner non esiste; egli si chiama: il Maestro!
— Io non lo chiamerò mai così! — ella mormorò, mentre un fugace rossore le passava sulle guance.
— Ti porterà sventura, chiamarlo altrimenti, — disse il vecchio, con una espressione di terrore, sul viso.
— Perchè temi tanto quell’uomo, padre?
— Sono vecchio e povero. … — balbettò Mosè Cabib.
— Non sei giovane, più, ma neppure tanto vecchio, padre. E sei, poi, tanto povero? — e gli dette uno sguardo scrutatore.
— Poverissimo, poverissimo! — gridò Mosè, levandosi in piedi, con le labbra tremanti e gli occhi smarriti. — Anche tu credi che io celi del denaro? Anche tu? Chi te lo ha detto? Che bugie ti hanno riferite?
— Non mi hanno detto nulla, — riprese lei, con lentezza — e non so nulla. Suppongo. … suppongo che tu sia meno povero di quello che sembri.
— Chi te lo fa supporre? Che cosa? Non ho mai venti soldi per formare una lira! A bottega non si fa niente. … è un crepacuore. … questi ladri cristiani non comprano neppure una vecchia carrucola. …
— Eppure, noi viviamo, tutti, su questa bottega. … tu mi dai qualche vestito. …
— A stento. … a stento. … ma se muoio, ti lascio sulla via. … sono poverissimo, te lo giuro. … non ho nulla. … come potrei aver qualche cosa?
— Non ti affannare, — ella riprese, con la medesima lentezza. — Io non faccio indagini. Se hai o non hai denaro, non m’importa.
— Poverissimo! Per questo ho bisogno del Maestro: e tu pure, così giovane, così bella, senza risorse. … che faresti senza me?
— Lavorerei, forse, — ella disse, senza batter palpebra.
— Non sapresti.
— Che ne sai tu?
— Hai imparato a lavorare? Tu? La figliuola di Sara Cabib? A lavorare? Mai, mai, con quelle mani bianche e fini, mai! — egli disse, in preda a una bizzarra esaltazione.
— Mia madre, non ha lavorato, forse? — ella chiese, con uno sguardo scrutatore.
— Mai, lo giuro! Era bella come una regina e indolente come una regina, Sara. … Ah! ella ha visto altri tempi!
— Parlami del passato, parlami, — e si chinava con ansietà sul vecchio, quasi a beverne le parole.
— Un passato luminoso, di amore, di ricchezze, di piaceri. … — rispose il vecchio, come sognando.
— Dove, dove? — ella disse, attentissima, ansiosissima.
— Laggiù. … laggiù. … lontano, nel nord. …
— Nel nord?
— Dove fa freddo, molto freddo. …
— In qual paese, padre?
— A Varsavia, in Polonia. … che casa splendida, quante pellicce, quanti gioielli, quanti servi. …
— A mia madre, è vero?
— A tua madre. … sì, tutto a lei. …
— Eravate ricchi e fieri. …
— Ricchissimi. … ella era così bella. … meritava tutte le gioie. …
— Tu l’amavi, Sara, nevvero?
— Io l’adoravo. …
— E lei. …
— Io era così diverso da lei. … così diverso. … così dedito al lavoro. … ella era bella e intelligente. …
— Eravate felici?
— Sì, — disse lui, con voce tetra, trasognata.
— E come. … tutto sparve …?
— Ella sparve. … — disse il vecchio, parlando come un sonnambulo.
— Morì, è vero?
— Sparve. …
— È morta, dopo?
— Non so, — disse lui, con gli occhi allucinati.
— Padre, tu non sai se mia madre è morta? — ella gridò, in preda a uno strano terrore.
— Che dici? Che ho detto? — gridò Mosè, uscendo dal suo delirio.
— Mia madre, mia madre? — ella chiese, come folle.
— Tua madre? Che vuoi sapere di tua madre? — e parve cadesse dalle nuvole.
— È morta, è viva, dove è, dove sta, conducimi da lei!
— Tua madre è seppellita in un piccolo cimitero di Germania, — disse, a voce bassa, Mosè Cabib.
— Perchè m’inganni, perchè?
— Non t’inganno. … ho io detto qualche cosa poc’anzi? Che ho detto?
— Nulla, nulla, — disse lei, diventata glaciale, a un tratto, sentendo che la verità le sfuggiva.
— Ero pazzo, Rachele, quando ho parlato. Queste scene dolorose mi fanno perdere la testa; ho farneticato. … ho parlato di paesi lontani, forse?
— Non so. … credo, — ella rispose, chiusa, diffidente.
— Ho nominato qualche paese?
— Non mi ricordo; non ci ho badato.
— Vaneggiavo. … ho parlato di ricchezze …?
— Forse. … non so bene.
— Non mi credere, quando sono in quello stato, Rachele. Che serata penosa! Figliuola mia, tentiamo calmarci. … io ti ho tormentata molto?
— Non importa. …
— Sì, sì, perdonami. … ti amo troppo. … perdona al tuo vecchio padre. — Di nuovo, una debolezza lo assaliva. Egli aveva gli occhi pieni di lagrime.
— Non parliamo più, padre, — ella disse, crollando il capo. — La sera è avanzata: domani vi sarà il sole.
— Tu mi vuoi bene?
— Sì, padre.
— Io non ho che te, Rachele. … — egli disse, con voce tremante.
— Solo me, è vero, — ella mormorò, con accento enigmatico.
— Così povero, così vecchio, così malato! — e curvava anche più la persona, quasi a dimostrare la sua triplice miseria.
— Va a letto, padre, va, va! — ella soggiunse, con voce carezzevole, come si fa a un bimbo infermo.
— E tu?
— Andrò anche io.
— Tranquilla?
— Sono sempre tranquilla. —
Ed ebbe uno strano sorriso.
— Dormirai?
— Se posso, sì.
— Non leggere per tante ore, Rachele. Questi orribili libri dei cristiani! Tu detesti i cristiani, è vero?
— Io? — ella gridò.
— Dimenticavo che ne ami uno, — egli disse, amaramente. — Ma gli altri?
— Io non ne odio nessuno.
— E il Maestro, perchè lo odii?
— Padre, va a letto, va! —
Egli sospirò, profondamente. Si levò e trascinando il passo, andò vicino a sua figlia. Le impose una mano sulla fronte, per benedirla, come faceva ogni sera.
— Che Jehova ti benedica, Rachele.
— Dio, — ella ripetette, senz’altro, chinando la fronte.
Il vecchio accese una misera stearica e si avviò alla sua stanza, che era contigua alla stanza da pranzo. Lo si sentì chiudere la porta a chiave e spingere il catenaccio. Ogni sera, Mosè Cabib si barricava così. Rachele, dopo un minuto di aspettativa, prese un piccolo lume ad olio, lo accese, spense la lampada a petrolio e uscì da una seconda porta. Ivi si trovava una scaletta, che conduceva a una sola cameretta, al secondo piano. Rachele l’aveva occupata, dicendo che lassù vi era più aria, vi erano meno cattivi odori.
In verità, era per restare più sola, per essere più indipendente. Lassù, in quella cameretta, le pareva di essersi distaccata dall’ambiente di miseria morale e materiale che era la sua casa. Ella odiava il Ghetto e la sporcizia ebrea. La sua cameretta era nuda, ma linda. Il lettuccio era bianco, un pezzo di tappeto vecchio vi era innanzi; sulla tavola da scrivere vi erano dei libri, una cartella, un calamaio. Due o tre sedie, una poltroncina, un armadio, uno specchio, completavano il poco mobilio. La finestra non aveva tende, ma aveva delle persiane. A capo letto, una pallida miniatura rappresentava la madre di Rachele, Sara Cabib.
Ella, entrando, guardò quella miniatura. Vi si rivolgeva ogni sera e spesso nella giornata. E quella sera le rivolse uno sguardo disperato. Il suo viso si era sconvolto, sentendo tutto il contraccolpo della lotta con suo padre.
Combatteva una lotta terribile, ineguale. Suo padre, Mosè Cabib, l’adorava; ma ella era una figliuola disubbidiente ed empia, giacchè amava un cristiano, un signore, un nobile. Mosè Cabib avrebbe dato la vita per lei: ma ella sapeva che egli aveva del denaro, dove, come, quando, non sapeva: e intanto la faceva vivere in quella strada, in quella casa, in quella miseria. Mosè Cabib era il più tenero dei padri, ma un misterioso legame lo avvinceva a Marcus Henner, al Maestro. Tanti misteri, nella vita di Mosè: e tanto cruccio, in quella di sua figlia Rachele!
Ella aveva posato la lampadina ad olio sulla tavola ed era caduta sopra una sedia, con le braccia prosciolte, col viso terreo. La sua esistenza, in quell’ora, le sembrava più greve, più dura che mai. Era oppressa, atterrata. Una voce debole, a un tratto, la riscosse. Era Rosa, la serva, che era giunta in camera, senza far rumore. La povera donna non si era spogliata, temendo che la lite fra padre e figlia non si prolungasse e non ardesse troppo: voleva intervenire, se ne fosse stato il caso. Aveva inteso una lunga discussione, poi il silenzio: e ora, agitata, era venuta su per la scaletta, a vedere la sua Rachele.
— Signorina?
— Rosa?
— Perchè vi affliggete tanto?
— Ho le mie ragioni: lo sai, — mormorò la fanciulla, che si sentiva debole, vinta, perduta.
— Va bene; ma siete giovane, bella, vi vogliono bene! …
— Tutto ciò si converte in disgrazia, Rosa.
— Dio ci assista! — fece l’altra, segnandosi.
Rachele la guardò con gli occhi stralunati.
— Perchè vegli, ancora, Rosa, a quest’ora?
— Ero in pensiero per voi. …
— Che fare? È sempre la stessa tristezza!
— Vostro padre è stato crudele?
— No, poveretto. Ma l’idea che io ami Ranieri Lambertini lo esaspera!
— E chi dovreste amare?
— Un altro, — disse semplicemente Rachele che non voleva parlare di Marcus Henner, il Maestro, a Rosa.
— Nessuno val più del conte Lambertini! Bello, ricco, giovane, buono; vi ama tanto!
— Mi ama, poi? — disse Rachele con gli occhi incerti e tristi delle persone infelici.
— Ne dubitate, signorina?
— Sì. … spesso.
— Se non vive che per voi!
— Ha un’amante, pare, adesso.
— Chi? Chi? È una calunnia infame.
— Me l’ha detto mio padre, Rosa.
— Naturalmente. E chi sarebbe, costei?
— Una contessa, una veneziana. … bella assai.
— Non è vero, non deve essere vero, — disse la serva, concitata.
— Speriamolo, Rosa.
— Io lo saprò; ne avrò la verità, signorina. Che perfidie, che birbanterie!
— Tu lo difendi molto, — disse Rachele, con un pallido sorriso.
— Vorrei vedervi felice con lui, signorina, — disse la serva a voce bassa.
— Un abisso ci divide, — disse Rachele, desolatamente.
— Speriamo in Dio! — mormorò Rosa.
Ella vide il volto di Rachele molto abbattuto e pensò che il sonno ne avrebbe riparato le forze.
— Signorina, coricatevi.
— Sì, sì, Rosa, buona notte.
— Volete che vi aiuti?
— No, non ne ho bisogno.
— Vorrei vedervi coricata: se vegliate ancora questa notte, vi fa male. Poi, vostro padre vede il lume.
— Io chiudo le imposte.
— Sì, sì, egli viene a guardare sotto la porta: e il filo di luce si vede.
— Tu credi che egli mi spii?
— Ogni notte!
— Ne sei certa?
— Certa, come della presenza di Dio, — disse Rosa, segnandosi. — Ogni notte, io odo del rumore nella sua stanza che, come sapete, è poco lontana dalla mia.
— Anche io, talvolta, ho udito rumore. … — soggiunse Rachele, pensosa.
— Stranissimi rumori: un grande strusciare di piedi, soprattutto. Una volta, ho inteso come la caduta di un corpo pesante. … mi sono sgomentata. … è vecchio. …
— Non sei accorsa?
— Non ho osato. Temo sempre che egli, in un accesso di rabbia mi mandi via. E poi, non faccio la spia, io!
— Fai bene.
— Sto in guardia, ecco tutto. L’ho spesso udito uscire nella saletta, salire le vostre scale. …
— Anche io. Talvolta egli mi ha parlato a traverso la porta.
— Voi chiudete sempre con la chiave e col catenaccio?
— Contro mio padre? — disse Rachele, inarcando le ciglia.
— Egli è incapace di farvi del male. … — disse Rosa, misteriosamente. — Ma. …
— Ma, che cosa?
— Non mi pare che sia sempre solo di notte, — mormorò Rosa, con voce così bassa che parve un soffio.
— Che dici?
— Dico che qualcuno viene in casa, talvolta, — replicò Rosa, con forza, ma a bassa voce.
— Hai udito ciò?
— Sì.
— Non ti sei ingannata?
— No, signorina, ve lo giuro.
— Forse dormivi, forse sognavi!
— Ero bene sveglia. Ho udito colle mie orecchie, benissimo.
— Dimmi, dimmi tutto.
— È nella notte molto alta, verso le tre del mattino. Si ode, nella via, un fischio, molto dolce e molto lungo, s. …
— Dio mio! — disse piano Rachele Cabib.
— Poi, a un piccolo intervallo, un secondo fischio, identico. Allora, vostro padre a traverso la saletta va alla scala. …
— La mia? la mia?
— No, quella che comunica colla porta di entrata. Malgrado tutte le sue precauzioni, io odo il suo passo.
— E poi?
— Discende, apre il portone. …
— Ah!
— E risale, con qualcuno, — disse Rosa che si era fatta pallidissima e tremante, dal suo stesso racconto.
— Ne sei certa, certa?
— Sì. Si odono passi di due persone.
— Due?
— Due e non più.
— E chi è che entra in casa con mio padre?
— Io non lo so.
— Un passo pesante, leggiero?
— Un passo da uomo, reso lieve dalla precauzione.
— È un uomo?
— Pare!
— Pare? Non hai mai guardato?
— Mai. Mi avete detto che qualunque cosa udissi, non dovevo levarmi dalla mia stanza, se non a un vostro ordine.
— Hai ragione. E. … quest’uomo. … che fa, in casa?
— Pare che parlino insieme.
— Si odono le voci?
— Appena appena, ma si odono, signorina.
— Hai mai compreso quello che dicono?
— No: parlano troppo piano.
— Non alzano la voce, mai?
— Una volta, solo. …
— E hai udito? hai udito?
— Sì.
— Che dicevano?
— Era vostro padre. Disse questo: «È stata una crudeltà, una infamia.» E l’altro: «Iddio è crudele e la scienza è infame.»
— Oh, Signore! — esclamò Rachele, rabbrividendo.
— Non avrei ritenuto queste parole: ma le ho ripetute molte volte, per impararle a memoria e potervele dire.
— Erano irritate, le voci?
— Molto commosse: però gridavano.
— E poi?
— Non udii altro.
— Rimane molto tempo questo sconosciuto?
— Un’oretta, quasi sempre. Il signor Mosè lo accompagna per le scale, apre e richiude il portone: dopo se ne va a letto.
— E hai udito, spesso, entrare quest’uomo?
— Così. …
— Una volta la settimana, per esempio?
— No: certe volte sta un mese senza venirci.
— Ah!
— Ma l’ho inteso anche venire tre o quattro notti di seguito. …
— Veramente?
— Sì: nell’ottobre scorso. Ogni notte, alle tre. Smuovevano anche degli oggetti, con vostro padre. Ho udito lo stridere di una serratura. Poi, un profondo sospiro.
— Di chi? Di chi?
— Di vostro padre.
— È orribile, orribile, — disse Rachele, al colmo del terrore.
— Non vi sgomentate, fidate in Dio, — disse la serva Rosa, segnandosi, come faceva sempre quando nominava il Signore.
— Dio? Dio? E mi vorrà aiutare? — domandò
Rachele Cabib, in preda alla più paurosa incertezza.
— Esso aiuta tutti, signorina. Esso vi difenderà.
— Contro mio padre?
— No. Contro quell’uomo che viene in casa, — disse Rosa misteriosamente.
— E tu credi, tu credi che sia mio nemico? — mormorò Rachele pianissimo.
— Ne sono certa, signorina!
— Chi te lo fa supporre?
— Così! Vostro padre vi vuole tanto bene, e vi tortura in tal modo. … ci deve essere un altro. … ci dev’essere chi lo spinge contro di voi. …
— E contro Ranieri Lambertini! — esclamò Rachele, con voce desolata.
— Io vedrò il conte, domani, signorina.
— Non dirgli nulla, di tutto questo. … mi raccomando. …
— No. Gli chiederò solo di questa veneziana.
— Ma non dire che sono io! — disse Rachele, che era molto fiera.
— Vedrete, vedrete. Ma voi vi dovete decidere, signorina, — disse Rosa, in modo enigmatico.
— A che?
— A quel che sapete!
— Non oso. … non oso.
— Bisogna averne il coraggio.
— Mio padre, mio padre!
— Sarà per il vostro meglio: egli stesso dovrà riconoscerlo.
— Ne soffrirà, ne può morire. …
— Eppure bisogna decidersi, — ripetette la serva, che sempre insisteva, conoscendo l’incertezza della padrona.
— Più tardi. … più tardi!
— Più ritardate, peggio è.
— Non ne ho la forza, Rosa.
— Chiedetela a Dio.
— La chieggo, la chieggo sempre. Sono stanca, va a letto Rosa.
— Buona notte, signorina.
— Buona notte. —
Rachele Cabib rimase sola. Ancora una volta i suoi occhi si rivolsero al ritratto di sua madre, che era a capo letto. Un terribile momento le sovrastava ed ella si rivolgeva a quella immagine, come a una speranza di bene. Ma l’aveva poi amata, quella madre che, come diceva Mosè Cabib, era seppellita in un piccolo cimitero di Germania? Vagamente, ella ricordava quella figura di donna, di una beltà suprema, di cui ella, Rachele, non era che la pallida rassomiglianza: vedeva un viso divino, e certe mani bianche, lunghe e fini, mani di principessa e non di lavoratrice, come diceva Mosè. Ma tutto ciò così lontano, nell’infanzia, in un castello perduto fra le grandi pianure di neve: dopo, un gran vuoto nero si faceva nella memoria di Rachele ed ella si ritrovava sola, in Roma, con suo padre, in Roma, dove era da dodici anni e appena ella toccava i venti! Ogni volta che aveva chiesto a suo padre di sua madre, costui si era turbato e rattristato; spesso le aveva ripetuto che sua madre era morta giovane, seppellita in un cimitero di Germania, nella loro fuga dalla Polonia.
Ma due o tre volte, Mosè Cabib, sconvolto dai ricordi, aveva fatto delle confessioni ambigue, come quella sera, aveva narrato di favolose ricchezze, di piaceri luminosi, di esistenza principesca: aveva parlato di Sara Cabib come se fosse sparita e non già come se fosse morta. Sempre, si era pentito di queste nebulose confessioni e le aveva smentite. Ma Rachele ne era rimasta così colpita: e lentamente, in lei, si era fatta la convinzione che sua madre non fosse morta.
Eppure, se non era morta, dove era? Che faceva?
Perchè aveva abbandonata sua figlia e suo marito? Perchè non li cercava? E perchè Mosè Cabib che l’aveva amata, non la cercava? Da dodici anni Mosè non si muoveva da Roma e viveva miseramente: e il solo mistero profondo e impenetrabile della sua vita, era la sua relazione con Marcus Henner, col Maestro. La madre! Morta o viva? Malata, sana, ricca, povera? Chi sa! Forse morta, anche! D’altronde, Rachele credeva al fascino dell’amore e del dolore. Fino a che la sua vita era passata monotona e triste, ma senza gravi dolori, in quel Ghetto, in quel vicolo del Pianto, le pareva che il lontano, fantasticamente lontano, affetto materno non dovesse intervenire; ma da che la sua esistenza era tutta un tramite di dolori e di lotte, le sembrava che sua madre non dovesse abbandonarla così. E se sua madre era morta?
Ora la pregava, come si prega una santa, a volerla soccorrere dal cielo o dalla terra, dove si trovava, a voler darle un consiglio, una guida, una luce! Il ritratto di Sara Cabib era vecchio di una quindicina di anni e molto scolorito: ma gli occhi conservavano una vivace espressione dolce e fiera nello stesso tempo, e pareva che la guardassero.
— Madre, madre mia, se tu vivi, vieni a me! Se sei morta, prega per me! — implorava così, inginocchiata, Rachele Cabib.
E teneva gli occhi fissi su quel ritratto, le mani congiunte convulsamente, senza sentire il dolore delle ginocchia che erano piegate sulla dura terra, senza asciugarsi le lagrime che le scorrevano per le guance. Ogni notte, Rachele pregava innanzi a quel ritratto; ma quella notte la sua esaltazione era giunta all’estremo. L’ora era alta, il silenzio profondo, ma tutti i nervi di Rachele vibravano dopo aver avuto quella scena con suo padre, dopo le rivelazioni di Rosa. Adesso, la preghiera esciva più ardente dalle sue labbra come se ella volesse strappare l’aiuto, il sussidio, a quella smorta immagine di donna.
— Mamma, se sei viva, vieni a me, vieni a soccorrermi: se sei morta, mamma, mamma mia, invoca Iddio per me! —
E, a un tratto, nell’ardore di quella preghiera, a Rachele Cabib parve che quel ritratto scolorito avesse uno sguardo vivo, negli occhi: parve che su quella bellissima e pallida bocca fiorisse un sorriso vivo. E parve, proprio le parve, che una voce, una voce udita altra volta, non una voce propriamente, ma un soffio, a lei noto, di voce, le dicesse:
— Eccomi. —
La fanciulla gittò un grido e cadde riversa, svenuta.