Premessa

Claudia Berra

Per anni, nel mio lavoro di professore di letteratura italiana, ho studiato la letteratura classica di comportamento diffidando dei trattatelli di etichetta odierni (per manager, per amanti, per dandy…), che mi parevano inutili tentativi di omologazione.

Intanto, nella nostra università coinvolta e travolta da grandi cambiamenti e ancor più grandi numeri, osservavo con crescente perplessità i miei allievi: molti, anche i volonterosi e i gentili, spesso incerti nel parlare, nel chiedere, in generale nel “comportarsi” con me e con i compagni. Con i colleghi, sorridevo amaramente ai florilegi di aneddoti, errori e gaffes che tutti i professori alimentano (ci sono le barzellette sui carabinieri; sui politici; e ci sono da sempre quelle sugli studenti). Amaramente constatavo come l’incapacità di comportarsi nel modo giusto, rispettoso degli altri e di sé, non esista solo nell’università, ma nella società in genere, per molte ragioni che non è possibile ricordare qui.

Immaginavo d’altra parte la noia delle matricole alle mie reprimende su ovvie questioni di disciplina e forma («Non si mangia a lezione!», «Non si entra ed esce a piacere!» «Le email si firmano!»). Immaginavo anche il loro sconforto di fronte a lezioni oceaniche, corridoi con la densità umana della Stazione Centrale, decine di curricula e persino di programmi diversi per ogni disciplina. L’università di oggi è lontana anni luce da quella di qualche decennio fa e dalla scuola superiore, e lo è nei modi più contradditori: libera e burocratica, specialistica e labirintica. Naturale che non si sappia come comportarsi.

Poi ho ripensato a una storia che avevo letto decine di volte. C’era un nobiluomo colto, amabile e squisito con un solo difetto: mangiando, produceva con la bocca uno sgradevole rumore. Tutti se ne accorgevano e se ne dispiacevano; finché un giorno un vescovo cortese e saggio gli mandò a dire che gli offriva un dono, pregandolo che lo accettasse: il dono era la rivelazione di quell’unica pecca. Il nobiluomo si corresse, per sempre grato dell’osservazione.

La storia è nel Galateo di Giovanni Della Casa. Ricordarlo, anche in un galateo minimo come questo, è necessario: non per per ripararsi all’ombra di un grande nome (sarebbe, dal mio punto di vista, blasfemo), ma perché spiega come meglio non si potrebbe a cosa servono le buone maniere.

«Ciò che potrebbe parer frivolo, cioè in communicando et in usando con le genti essere costumato et piacevole et di bella maniera, è o virtù o cosa molto a virtù somigliante». Procedo, l’autore mi perdoni, parafrasando: la virtù è senza dubbio cosa più lodevole e più nobile, ma le buone maniere si usano sempre e dovunque; procurano benevolenza e prestigio; e sono, in aggiunta, una ricchezza disponibile a tutti.

Insomma, l’apparenza non è non può divenir sostanza, come insegnava già Socrate. Affetti e cultura veri non sono mai nati da modi compiti e citazioni azzeccate. Però le pur vituperate regole ci accompagnano e persino difendono ogni giorno tra i nostri simili. Se le conosciamo, possiamo decidere di violarle; ignorandole riusciamo solo goffi.

Non a caso i manuali di comportamento celebri, dai monumenti del passato al Bon ton di Lina Sotis, sono apparsi nei periodi di trasformazione, per ammaestrare gli ignari, per soccorrere gli incerti. Una volta definita e divulgata, la norma appare poi spesso fastidiosa, bacchettona, superata. All’inizio, però, serve come riferimento, come definizione di qualcosa che sfugge proprio perché sta cambiando.

Nei ranghi più umili del genere, e con molto humour, anche il Piccolo galateo dello studente universitario è nato così: frutto di osservazioni sul campo in un periodo di cambiamento. E’ debitore all’esempio di Fulvio Scaparro, autore, ormai parecchi anni fa, de L’attimino sfuggente. Obiezione di coscienza contro il linguaggio uniforme, un opuscolo che con garbo e acume invitava a riflettere sugli usi stereotipati, e perciò poveri e meccanici, della nostra lingua. Quelle pagine esortavano a non conformarsi, queste, al contrario, consigliano delle regole: in entrambi i casi, tuttavia, l’intento non è reprimere l’errore, ma aiutare a comunicare e capirsi nel modo migliore, al di là di sciatterie e automatismi.

Del Piccolo galateo dirò preliminarmente: che è limitato, e perciò aperto a suggerimenti e integrazioni: insegno a lettere e a Milano, e certamente non avrò contemplato mille casi utili in altre facoltà e atenei e molti, anche a me accessibili, ne avrò dimenticati o trascurati; che, come tutti i gli scritti di costume, è frutto di opinioni personali ed è soggetto a evoluzione col tempo e con le mode; che non è e non vuole essere considerato come un quaderno di lamentele o una raccolta di amenità (le amenità, quando si trovano, servono solo da esempio dissuasorio); che vorrebbe invece praticamente e spicciolamente aiutare, come un aggeggio che semplifica la vita; che, per aiutare, deve spesso schematizzare, anche dove ci sono mille sfumature e possibilità, ma non per questo pretende di enunciare l’unica e universale norma.

I lettori obietteranno che anche i professori, almeno in qualche caso, si gioverebbero di un manualetto analogo: è sacrosanto, ma non spetta a me scrivelo.

Questo è, soprattutto, un regalo ai miei studenti, che faranno parte degli intellettuali, una categoria oggi non molto apprezzata: con l’augurio che il rispetto del nostro ruolo e dell’istituzione in cui studiamo e lavoriamo possa cominciare da noi.