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5 Lilít

vorrei tornare a quello che diceva Gödel, il quale rispondeva a chi gli obiettava di aver distrutto i fondamenti della matematica che, al contrario, lui aveva rivalutato il ruolo dell’intuizione. (1984, D 57)

1. Le storie di Lilít

Nel corpus delle opere leviane le uniche occorrenze esplicite del mito di Lilít sono la poesia e il racconto omonimi, rispettivamente del 1965 e del 1979, tuttavia vi sono echi di alcuni dei mitologemi elaborati dal mito anche in altri racconti, addirittura antecedenti alla deportazione ad Auschwitz, luogo in cui l’autore afferma di aver appreso per la prima volta la storia di Lilít1. Anche il rapporto con questo mito, dunque, sembra configurarsi secondo un pensiero abduttivo, un procedimento ricorrente nella poetica dell’autore. In altri termini, il mito di Lilít entra a far parte di un’enciclopedia la cui peculiarità è di essere un orizzonte sul cui sfondo Levi tenta di rappresentare un principio antagonista e complementare a quello razionale dominante, un principio ugualmente potente ed esigente nella vita di ogni essere umano.

I mitologemi che si incontrano nel mito di Lilít sono più di uno e quelli che interessano le opere di Levi sono sostanzialmente tre: (i) Lilít come prima donna, creata dalla stessa argilla di Adamo, che afferma di avere gli stessi diritti dell’uomo e si ribella alla volontà di dominio assoluto espressa da Adamo e da Dio; (ii) Lilít come lato femminile di un essere androgino unitario, una creatura che incarna due nature paritetiche; (iii) Lilít come amante di Dio e simbolo originario del male. Vi sono aspetti che sono trasversali a tutti e tre i mitologemi e altri che sono più specifici, mi limiterò qui a considerare i tratti del mito che possono essere rilevanti per comprendere la funzione etica della retorica leviana. In base allo stesso principio mi permetto di evitare una ricostruzione della ricezione del mito e di tralasciare quei filoni che lo hanno rielaborato in forme troppo distanti dalle opere e dagli interessi di Levi come, ad esempio, le interpretazioni che eleggono Lilít dea sovrana di un universo matriarcale primigenio usurpato dal monoteismo patriarcale giudaico (cfr. Bitton 125-26). I tre mitologemi menzionati, invece, sono riscontrabili in più di un’opera dell’autore ed hanno implicazioni sociali e antropologiche consonanti con la sua etica.

1.1 Lilít: la poesia (1965)

Il mito di Lilít viene presentato da Levi per la prima volta nella poesia omonima, scritta nel 1965:

Lilít nostra seconda parente

Da Dio creata con la creta stessa

Che serví per Adamo.

Lilít dimora in mezzo alla risacca,

Ma emerge a luna nuova

E vola inquieta per le notti di neve

Irrisoluta fra la terra e il cielo.

Vola in volta ed in cerchio,

Fruscia improvvisa contro le finestre

Dove dormono i bimbi appena nati.

Li cerca, e cerca di farli morire:

Perciò sospenderai sui loro letti

Il medaglione con tre parole.

Ma tutto è vano in lei: ogni sua voglia.

Si è congiunta con Adamo, dopo il peccato,

Ma di lei non sono nati

Che spiriti senza corpo pace.

Sta scritto nel gran libro

Che è donna bella fino alla cintura;

Il resto è fiamma fatua e luce pallida. (AOI, OII 543)

Alcune delle caratteristiche attribuite a Lilít compaiono quasi identiche nel racconto omonimo di quattordici anni più tardi (1979), in cui Levi afferma di essere venuto a conoscenza del mito da un compagno di prigionia. La fonte documentaria della poesia, dunque, sembra essere principalmente il racconto di Tischler, portavoce del folclore degli ebrei ashkenaziti tramandato oralmente e giunto fino al narratore Primo Levi. Gli ultimi tre versi della poesia, però, alludono ad una storia diversa da quelle narrate da Tischler, o forse omessa nel racconto ma salvaguardata nella poesia. Ad ogni modo, vi sono alcuni testi della tradizione ebraica a cui Levi può aver attinto per integrare la propria conoscenza del mito.

Non è chiaro quale sia il «gran libro» a cui si accenna ma sono riuscito ad individuare un solo caso in cui si descrive l’aspetto di Lilít nei termini citati nella poesia: il Trattato sull’Emanazione Sinistra, un testo cabalistico risalente alla prima metà del XIII secolo:

A great jealousy sprang up between Samael the greater prince of all and Ashmodai king of the demons over Lilith who is called Lilith the Maiden, and who has the form of a beautiful woman from the head to the navel, and from the navel down [she is] flaming fire. (Scholem, “Kabbaloth R. Ya’aqob wer. Yitzhaq”; cfr. Patai, Gates to the Old City 464)

Nello stesso testo, inoltre, vi è una descrizione dell’origine di Lilít come lato femminile di un essere androgino, aspetto fondamentale della ricezione del mito nei racconti di Levi, come mostrerò in seguito. E si menziona anche un altro episodio incluso nella poesia: Lilít ha origine da un involucro di luce ed è proprio grazie a tale luce, la quale «di per e santa»2, che Lilít riesce a sedurre prima Eva e poi Adamo, costringendolo ad avere rapporti sessuali contro la propria volontà (R. Isaac ben Jacob ha-Kohen, Lilith in Jewish Mysticism: Treatise on the Left Emanation; cfr. Patai, Gates to the Old City 455-56). Escludendo la possibilità che Levi avesse una conoscenza diretta di questo testo piuttosto ignoto, l’unica altra fonte bibliografica che precede la poesia è un articolo di Gershom Scholem del 1927, in ebraico (“Kabbaloth R. Ya’aqob wer. Yitzhaq”). La conoscenza che Levi aveva dell’ebraico era però molto limitata, dunque l’ipotesi più plausibile è che il «gran libro» sia lo Zohar, testo in cui Lilít ricorre più di una volta ma in cui vi è un solo riferimento alla sua genesi: come emanazione della luce primigenia e della spada fiammeggiante dei cherubini, cioè della luce e del fuoco divini. Oltre alla vaga corrispondenza di questi riferimenti con il verso della poesia, anche tutti gli altri elementi del mito riproposti nel racconto sono presenti in modo puntuale nel testo cabalistico: l’originaria unione androgina con il lato maschile; il rapporto sessuale tra Adamo e Lilít; e l’episodio in cui Lilít diventa l’amante di Dio dopo l’esilio della Shekhinah (1:19b; 1:148a, “Sitrei Torah”; 3:76b; 3:69a).3

Da un lato vi è quindi una conoscenza indiretta ottenuta oralmente, dall’altro la possibilità che i testi citati siano fonti a cui Levi ha potuto plausibilmente rivolgersi per ottenere informazioni; ma per comprendere quali aspetti del mito siano più rilevanti per l’autore è opportuno avviare un confronto con il racconto omonimo inserito nella sezione Passato prossimo del libro Lilít e altri racconti.

1.2. Lilít: il racconto (1979)

Pubblicato nel 1979 sul quotidiano La Stampa, il racconto è presentato come «storia malinconica da una civiltà perduta» (“Dentro il Lager con Lilìt” 3), un’antica storia del popolo ebraico che è anche legata ad un’esperienza personale vissuta ad Auschwitz. Nell’episodio raccontato, Levi e il suo compagno Tischler trovano momentaneo riposo dal lavoro in un tubo di cemento in cui si riparano dal violento acquazzone che li ha costretti ad interrompere l’attività nel cantiere. Il contesto in cui il mito viene presentato non è segnato da un intento di testimonianza, come l’autore stesso dice nella prefazione all’edizione americana del libro, bensì dalla volontà di presentare figure umane strane e bizzarre (Prefazione a Moments of Reprieve, 1986, OII 1314-16).

La funzione del mito, dunque, non si esaurisce nell’intento memorialistico e, a mio avviso, Levi costruisce il racconto in modo da raffigurare vividamente Tischler, utilizzando l’esemplarità del mito come espediente per instaurare «una situazione tipica ed un gioco che mi piaceva, la disputa fra il pio e l’incredulo, che è ignorante per definizione, ed a cui l’avversario, dimostrandogli il suo errore,fa digrignare i denti» (OII 20). Una volta accettato, il gioco assume una portata dominante: la voce narrante di Tischler si sovrappone a quella di Levi e si fa carico anche del commento metanarrativo che rinforza e mantiene viva la dinamica discorsiva:

Ora, la storia di Eva è scritta, e la sanno tutti; la storia di Lilít invece si racconta soltanto, e così la sanno in pochi; anzi, le storie, perché sono tante. Te ne racconterò qualcuna, perché è il nostro compleanno e piove, e perché oggi la mia parte è di raccontare e di credere: l’incredulo oggi sei tu. (20-21)

E qualche paragrafo dopo: «Tu ridi, perché appunto sei un epicureo, e la tua parte è di ridere» (22). Non è soltanto il gioco specifico tra pio e incredulo ad essere importante, ma anche il fatto di accettare di partecipare ad un gioco narrativo. Come ogni gioco, il raccontare vive anche di contraddizioni e, infatti, in un altro momento Tischler redarguisce Levi quando questi ride, salvo poi esplicitare con un commento metanarrativo che stanno giocando:

Perché ridi? Certo che non ci credo, ma queste storie mi piace raccontarle, mi piaceva quando le raccontavano a me, e mi dispiacerebbe se andassero perdute. Del resto, non ti garantisco di non averci aggiunto qualcosa anch’io: e forse tutti quelli che le raccontano ci aggiungono qualche cosa, e le storie nascono così. (21)

La narratività del mito è funzionale alla costruzione di una storia su Tischler perché Levi insiste sull’aspetto diegetico dell’episodio vissuto in lager, così da mettere in risalto le grandi doti di intrattenitore del polacco, riconosciute da tutti nel campo.

Nonostante il racconto nasca dalla volontà di ricordare questa figura positiva, non è possibile trascurare gli elementi che accennano al valore che il mito di Lilít può avere più in generale. In tal senso è fondamentale la conclusione del racconto:

è inesplicabile che il destino abbia scelto un epicureo per ripetere questa favola pia ed empia, intessuta di poesia, di ignoranza, di acutezza temeraria, e della tristezza non medicabile che cresce sulle rovine delle civiltà perdute. (23)

Nei vocaboli scelti per qualificare la «favola» di Lilít è evidente il motivo per cui tale mito affascini l’autore: è una storia ossimorica, che nasce dalla tradizione popolare e dall’intraprendenza dei cabalisti, «gente senza paura» (22). In essa, quindi, Levi trova le pragmatiche contraddizioni della vita che nel tempo sono confluite in questa storia; vi trova anche esempi di utilizzi diversi della stessa figura, Lilít, a volte spiritello dispettoso, altre volte simbolo mistico del male. Come ricordato da Tischler, le storie che compongono il mito sono molte e hanno avuto origini differenti, ma in alcuni casi si sono verificati fenomeni di sincretizzazione fra storie diverse. Nel valutare gli aspetti del mito più significativi per l’opera leviana cercherò però di tenere distinti i vari aspetti presenti nel racconto così da poter poi individuare le loro occorrenze anche in altri contesti.

 

2. Le forme di Lilít4

2.1 Prima donna

Tischler introduce Lilít al proprio complice uditore cominciando dallo strano caso del libro della Genesi, nel quale la storia della creazione della donna è raccontata due volte:

Vedi, se leggi bene e ragioni su quello che leggi, ti accorgi che nel primo racconto sta solo scritto «Dio li creò maschio e femmina»: vuol dire che li ha creati uguali, con la stessa polvere. Invece, nella pagina dopo, si racconta che Dio forma Adamo, poi pensa che non è bene che l’uomo sia solo, gli toglie una costola e con la costola fabbrica una donna; anzi, una «Männin», una uomessa, una femmina d’uomo. Vedi che qui l’uguaglianza non c’è più: ecco, c’è chi crede che non solo le due storie, ma anche le due donne siano diverse, e che la prima non fosse Eva, la costola d’uomo, ma fosse invece Lilít. (20)

La differenza fondamentale fra le due donne è che in un primo momento vi è un’uguaglianza tra maschio e femmina, tra Adamo e Lilít, mentre successivamente la genesi della donna è subordinata all’esistenza dell’uomo. Ritorna qui il tema della servitù, della volontà di una creatura di assoggettarne un’altra, questione che Levi esplora anche tramite il mito del Golem, come si è visto, e che in questo caso è assunta a tema fondante l’esistenza sociale degli esseri umani. La prima delle storie raccontata da Tischler tratta proprio di ciò:

Adamo volle che Lilít si coricasse in terra. Lilít non volle saperne: perché io di sotto? non siamo forse uguali, due metà della stessa pasta? Adamo cercò di costringerla, ma erano uguali anche di forze e non riuscì, e allora chiese aiuto a Dio: era maschio anche lui, e gli avrebbe dato ragione. Infatti gli diede ragione, ma Lilít si ribellò: o diritti uguali, o niente; e siccome i due maschi insistevano, bestemmiò il nome del Signore, diventò una diavolessa, partì in volo come una freccia e andò a stabilirsi in fondo al mare. (21)

Secondo Michèle Bitton questo aspetto del mito si è sviluppato intorno al X secolo d.C., quando alcune credenze anteriori, diffuse soprattutto tramite i midrashim e le haggadot, si consolidano e trovano un simbolo efficace in Lilít, figura ereditata da altri culti dell’area mesopotamica. In tal modo – cioè con la formazione di racconti a proposito di una prima creatura femminile che si ribella al volere dell’uomo e di Dio – alla donna viene associato in modo conclamato quell’aspetto demoniaco che non aveva ancora trovato una forma mitica precisa. È doveroso però ricordare che tale processo di sincretizzazione si affianca ad altre concezioni esoteriche positive del rapporto uomo-donna, e convive con quotidiane dimostrazioni di rispetto per il ruolo delle madri (cfr. Bitton).

Le leggende da cui è originato il mito sono il riflesso di comunità in cui è presente un un certo grado di negazione della femminilità e un’esclusione delle donne dalla vita pubblica; l’identificazione della prima donna con il demone Lilít radicalizza nella narrazione tali elementi socio-culturali. Alle donne ebree non era permesso studiare e la loro partecipazione alle decisioni collettive era molto limitata: queste regole rendevano manifesta una loro inferiorità sul piano epistemologico e politico poiché, nonostante siano naturalmente procreatrici, non potevano generare nuova conoscenza o contribuire attivamente alla costruzione di relazioni pubbliche. Tali vincoli sono omologhi ad alcune tendenze del misticismo ebraico ad escludere il corpo dal processo di creazione: l’idea che il mondo sia nato dalla combinazione delle ventidue lettere dell’alfabeto e anche le varie imprese poietiche dei cabalisti (inclusa quella del Golem) si fondano sull’idea di una creazione in cui il livello intellettuale è dominante, mentre gli aspetti pratici della magia e dell’esperienza mistica sono solo un ausilio per affermare la potenza dellastratta parola creatrice divina5.

In accordo con tale punto di vista, il mito della prima donna esibisce un’intenzione di esclusione dell’Altro, di un principio (quello femminile) che è originariamente altro e che viene considerato una minaccia e un pericolo perché priva gli uomini del proprio potere creatore (il seme), sfruttandolo per generare demoni6. Lilít, in quanto prima donna, è simbolo di tutto ciò che è diverso e che si ribella alla posizione subordinata in cui il pensiero dominante maschile tenta di costringere la diversità. La donna originaria non mostra reverenza verso un potere che non ascolta le ragioni altrui e si pretende assoluto, perciò compie la trasgressione per antonomasia secondo la religione ebraica: pronuncia il nome di Dio e sceglie un’esistenza diabolica, al di fuori della Legge (cfr. infra, par. 2.3). Secondo Bitton, «cette séparation est l’analogon de l’altérité absolue, le premier pivot de la vie sociale fondé sur la différence. L’échec d’une Première Eve, d’une Lilith créé d’une matière identique à celle d’Adam traduit l’impossibilité (sociale) d’une identité de nature ou d’essence entre le masculin et le féminin» (123). Una lettura che è stata recepita in molte riscritture del mito in chiave femminista:

In recent years, feminists have reconfigured the Lilith myth, claiming it reveals male anxiety about women who cannot be kept under patriarchal control. Lilith is admired as a woman who opposed Adam’s attempts at hegemony over her, who had a firm will, and who possessed the power of secret knowledge to assert her autonomy. In feminist versions of the creation story, Lilith demands equality with Adam. Her expulsion from the Garden of Eden indicates not her evil, but the intolerance of male entities, Adam and God, who insist on defining and controlling women. Her independence and knowledge reveal not her demonic nature or sexual miscasting, but represent all women seeking liberation from the imposition of narrow gender roles. (Scholem, “Lilith”)

Credo che un’interpretazione simile possa valere anche per il rapporto di Levi con questo mito: Lilít è una figura che esemplifica una resistenza alla volontà di «definizione e controllo», alla pretesa di assoggettare altri individui alla propria ragione.

La prospettiva maschile esibita dalla cultura ebraica vede la scelta di Lilít come esemplificazione dell’atteggiamento seduttrice delle donne che tentano di corrompere l’uomo, facendolo deviare da una condotta retta e fedele alla Legge. Anche molte delle donne dei racconti di Levi sono rappresentate da questo punto di vista. Prima fra tutte la ragazza polacca che Levi osserva con attenzione e che Tischler riconosce come Lilít (OII 20)7; ma anche Teresa de Simone di Quaestio de centauris, la quale seduce il protagonista ed è in un certo senso la causa della follia del centauro Trachi (1961, SN, OI 511-13); e Patricia di La bella addormentata nel frigo è «una smorfiosa eterna, una civetta incorruttibile», ha avuto relazioni con molti uomini potenti e con la propria avvenenza convince il giovane Baldur a liberarla (1952, SN, OI 489-91). Gli aspetti più inquietanti della seduzione sono però esplorati nel racconto Vilmy, in cui è un animale femmina ad esercitare un attrazione irresistibile e corruttrice sugli uomini attraverso il proprio latte materno (1968-70, VF, OI 630-35).

Nelle narrazioni di Levi, tuttavia, la frequenza del punto di vista maschile non coincide con una posizione ideologicamente orientata che afferma la superiorità dell’uomo sulla donna, anzi, talvolta l’effetto complessivo del discorso è ironico: la legittimità di tale concezione è messa in dubbio e ne sono mostrati i limiti. Questo impiego del mito non è affatto anomalo poiché nel mito stesso vi è traccia di una prospettiva che rifiuta di assumere il principio maschile come dominante, una traccia lasciata da quelle varianti che presentano Lilít come aspetto femminile di una creatura primordiale androgina.

2.2 Creatura androgina

L’androginia è un elemento del mito a cui Tischler accenna solo brevemente:

La prima storia è che il Signore non solo li fece uguali, ma con l’argilla fece una sola forma, anzi un Golem, una forma senza forma. Era una figura con due schiene, cioè l’uomo e la donna già congiunti; poi li separò con un taglio, ma erano smaniosi di ricongiungersi […]. (OII 21; cfr. Zohar 3:19)8

Nonostante la concisione di tale frammento, Levi inserisce successivamente una cornice metanarrativa che valorizza l’aspetto androgino: nell’unica interruzione del racconto l’autore propone infatti una similitudine che, in modo incisivo, situa la narrazione nel contesto della vita del Lager quasi a voler sottolineare l’efficacia e l’importanza del gioco in un’occasione di pausa dal lavoro inutile9 e prelude anche ad una successiva riflessione di Tischler che attualizza il mito10:

Si sentì uno strepito lontano, e poco dopo ci passò accanto un trattore cingolato. Si trascinava dietro uno spartineve, ma il fango spartito si ricongiungeva immediatamente alle spalle dell’arnese: come Adamo e Lilít, pensai. Buono per noi; saremmo rimasti in riposo ancora per parecchio tempo. (21)

In una prospettiva che vede Lilít come parte di una creatura androgina la questione dell’uguaglianza tra uomo e donna non è più intesa come parità di diritti per due individui creati dalla stessa materia e che hanno esistenza autonoma, bensì viene ridefinita nei termini di una relazione necessaria tra due aspetti di una forma di esistenza unica: maschile e femminile – e per estensione molte altre coppe dialettiche11 – sono due principi complementari che esistono solo nella relazione e nel dialogo reciproco. La separazione dei due aspetti è un atto arbitrario, «un taglio» operato per una scelta divina che paradossalmente si rivela diabolica in senso proprio, in quanto divide ciò che è originariamente unito12.

Lilít è l’altra faccia di Adamo, e Adamo è l’altra faccia di Lilít. A Levi piace questa figura ibrida «con due schiene» (21), tanto da averla già usata in riferimento ad un processo alchemico in Mercurio (1968-73, SP, OI 828). L’affinità tra le due opere per il ricorrere del tema dell’unione degli opposti invita a dedicare particolare attenzione a tale aspetto del mito, importante anche in altri racconti. Nella tradizione cabalistica, inoltre, più frequentemente che in unione ad Adamo, Lilít era nota come volto femminile di una creatura duplice il cui lato maschile è Samael, il principe del male (Scholem, “Lilith”; Patai, Gates to the Old City 453). In tal modo l’elemento androgino del mito converge con un altro aspetto non trascurabile, ossia il ruolo di Lilít come forza malefica.

2.3 Il principio del male

L’appartenenza di Lilít al regno del male è tramandata dalla letteratura cabalistica in varie versioni del mito: accanto alla storia della creatura androgina si incontrano tradizioni in cui Lilít è semplicemente la consorte o amante di Samael o di Ashmodai, due re o principi dei demoni. A volte si distingue tra una Lilít-madre e una Lilít-serva, entrambe emanazioni del male; altre volte il ruolo di Lilít nel regno del male viene considerato omologo a quello della Shekhinah nel regno di Dio (Patai, Gates to the Old City 453). Nel racconto di Tischler è proprio quest’ultimo aspetto ad acquisire un rilievo notevole, soprattutto in riferimento alla condizione di reclusione in cui si trovano gli ebrei nel lager, abbandonati da Dio ma non dalla loro Madre, la Shekhinah, la quale è in esilio con loro13. Da questa audace prospettiva la colpa di Dio è di non aver cercato un dialogo con la sua altra metà per ricostruire l’unione perduta; si è comportato invece in modo diabolico, accrescendo questa separazione:

Così Dio è rimasto solo, come succede a tanti, non ha saputo resistere alla solitudine e alla tentazione, e si è preso un’amante: sai chi? Lei, Lilít, la diavolessa, e questo è stato uno scandalo inaudito. Pare insomma che sia successo come in una lite, quando a un’offesa si risponde con un’offesa più grave, e così la lite non finisce mai, anzi cresce come una frana. (OII 22-23; cfr. Zohar 3:69a)14

Daniela Amsallem sottolinea inoltre che, essendo la Shekhinah la presenza di Dio nel creato, la separazione della coppia divina corrisponde ad una separazione tra Dio e gli uomini (136; cfr. Hegel, “La positività della religione cristiana”). La schisi è dunque il principio del male ma individuarne la causa non è cosa semplice. L’impresa non può essere lasciata intentata, però, e Tischler si dimostra un intrattenitore temerario tanto quanto i cabalisti lo erano nelle loro riflessioni15, riuscendo a presentare in poche righe il nucleo di un’ontogenesi del male:

Perché devi sapere che questa tresca indecente non è finita, e non finirà tanto presto: per un verso, è causa del male che avviene sulla terra; per un altro verso, è il suo effetto. Finché Dio continuerà a peccare con Lilít, sulla Terra ci saranno sangue e dolore; ma un giorno verrà un potente, quello che tutti aspettano, farà morire Lilít, e metterà fine alla lussuria di Dio e al nostro esilio. Sì, anche al tuo e al mio, Italiano: Maz’l Tov, Buona Stella. (OII 23, corsivo mio)16

In quest’ottica Lilít non è unita ad Adamo come parte di un simbolo positivo; per la maggior parte dei cabalisti, i quali cercano un’origine metafisica del male, è la Shekhinah ad avere un ruolo positivo, mentre Lilít rappresenta l’alterità negativa, «lo spirito di dissolutezza, che si annida al posto della ricezione creatrice» (Scholem, La mystique juive. Les thèmes fondamentaux 141; cfr. Amsallem 135, nota 40). Utilizzando un procedimento idiomatico leviano si potrebbe affermare che Lilít è una «contromadre»17 perché non genera vite capaci di crescere e creare a loro volta, anzi, mette al mondo creature distruttrici: «[e]ssendo una diavolessa, partorisce diavoli, ma questi non fanno molto danno, anche se magari vorrebbero. Sono spiritelli maligni senza corpo» (OII 22). È questo un esempio, come già tanti altri, in cui la corporeità, la materia, è considerata il frutto necessario di un atto creativo: esistendo solo come spirito e non come intenzionalità incarnata i diavoli sono creature vane, inutili, distruttrici, così come della loro madre si dice che «tutto è vano in lei: ogni sua voglia» (Lilít, AOI, OII 543)18.

Queste osservazioni sugli aspetti malefici di Lilít riguardano una riflessione metafisica sul male e sono in contrasto con la usuale poca insistenza di Levi su ciò che è trascendente. Per valutare correttamente il valore del mito in riferimento all’etica leviana, quindi, è opportuno traslare il discorso dal piano divino alla condizione umana: la diavolessa Lilít può così essere intesa come una figura complessa che esemplifica gli aspetti negativi dell’agire umano. L’uomo non è solo creatore e fabbro, capace di utilizzare la ragione per migliorare la propria condizione, è anche un distruttore che talvolta agisce inutilmente, sprecando energie potenzialmente creative, con danno per sé e per gli altri. Il dolore e la sofferenza sono frutto di un agire senza pensare e di una razionalità che pretende di essere una facoltà assoluta per ogni scelta etica; ma allo stesso tempo sono anche la causa di tali azioni dannose, poiché l’uomo tende a perpetrare le dinamiche sociali in atto, creando un loop di sofferenza che genera nuova sofferenza. In questo ruolo Lilít è parte di un simbolo negativo in cui due volontà individuali e solitarie si fronteggiano, lasciando poche speranze per una futura rappacificazione19. L’unica via duscita è uno sforzo metaetico che vada oltre questo sterile conflitto, accettando la natura dialogica dell’esistenza e dunque riconoscendo la necessità che esistano sempre almeno due punti di vista differenti sul mondo20. Se vuole agire bene, ogni individuo deve essere in grado di comportarsi come quel «potente» che metterà fine alla bramosia individuale e all’esilio esistenziale degli uomini (OII 23).

Ricapitolando, secondo quanto riportato nel racconto omonimo, il mito di Lilít può svolgere funzioni differenti: può esemplificare (i) una sovversione nei confronti delle pretese di dominio o asservimento; (ii) la necessaria ambiguità e duplicità di ogni fenomeno; (iii) la sofferenza e la distruzione derivanti da comportamenti egoisti. Comune a tutti e tre gli aspetti è l’affermazione della necessità di una prospettiva dialogica che sia in grado di riconoscere il valore costruttivo della diversità.

Nell’incontro con l’alterità, il soggetto etico è inevitabilmente posto di fronte alla limitatezza e parzialità della propria conoscenza ed esistenza: ciò che è Altro non si conosce, e spesso è temuto proprio per questo motivo. Il superamento della diffidenza per il diverso è un tema ricorrente nei racconti di Levi e, a mio avviso, è significativo che siano quasi sempre personaggi femminili ad essere un esempio costruttivo di apertura verso l’Altro. Non solo, Levi attribuisce esplicitamente al genere femminile questa virtù, necessaria per l’esistenza e l’evoluzione dell’umanità: nel racconto Il servo, infatti, si dice che il Golem è privo della «curiosità di Eva» (OI 713). Ciò che nella tradizione greca è un attributo di Prometeo nella tradizione ebraica è riconosciuto come qualità tipica della donna; e forse è anche la mancanza di una madre a fare del Golem una creatura incompleta e imperfetta. Le figure femminili di Levi non sono quasi mai una costola di Adamo, sono più simili alla prima delle due donne di Genesi, Lilít, creata insieme all’uomo dalla stessa argilla e quindi dotata di caratteristiche fondamentali per comprendere la condizione esistenziale umana21.

Sono le donne ad essere forti e a non temere l’ignoto, pronte ad ascoltare le ragioni altrui e ad abbracciare punti di vista diversi dal proprio; temerarie nei confronti di ciò che non è razionale, disposte alla metamorfosi al punto da accettare anche l’ibridazione e la fusione tra corpi. Sono così Gertrud (Angelica Farfalla, 1962, SN), Anna (Verso occidente, 1968-70, VF), Clotilde (Ammutinamento, 1968-70, VF), Laura (In fronte scritto, 1968-70, VF), Maggie (Mercurio, 1968-73, SP), Amelia (Disfilassi, 1978, L), Danuta (I costruttori di ponti, 1978, L), Isabella (La grande mutazione, 1983, RS), Ecate (Il passa-muri, 1986, RS), nonché Le fans di spot di Delta Cep. (1986). Tutte queste figure hanno dei tratti comuni che le avvicinano al mito di Lilít e sottolineerò in seguito l’importanza di alcuni di questi personaggi nel contesto narrativo in cui sono inseriti. Ora, invece, vorrei focalizzare l’attenzione sul racconto La bestia nel tempio, in cui è messa in scena una divisione tra due polarità che può essere letta alla luce delle considerazioni fatte sul mito di Lilít.

 

3. La bestia nel tempio (1977)

Questo racconto è solitamente considerato dalla critica come una trattazione fantastica di temi risalenti all’esperienza del lager, ed è letto soprattutto in chiave psicologica. Se l’interpretazione più comune è che rappresenti un tentativo di evasione impossibile (Renda; Angier), la mia proposta, al contrario, vuole mostrare come vi sia un elemento costruttivo anche in questa storia apparentemente assurda e angosciante.

Secondo Carole Angier il racconto afferma la necessità di una fuga, «un’esigenza per tutto il mondo, che sarà risanato dopo che ciò sarà avvenuto», ed il suo tema centrale sarebbe l’antagonismo tra la bestia prigioniera e la folla che attende fuori dalla recinzione, pronta ad ucciderla e mangiarla, ossia catturarla nelle «viscere umane nell’attimo stesso in cui è fuggita da quelle di pietra» (19). A mio avviso, la bestia non rappresenta qualcosa di negativo che deve essere arginato, non è «il male in tutte le sue manifestazioni» (Renda), credo invece che esemplifichi la razionalità.

Quella presentata ne La bestia nel tempio è una situazione ribaltata rispetto a ciò che è vissuto da un’altra creatura mostruosa, il Golem: mentre ne Il servo la creatività e la libertà del Golem sono vincolate dagli ordini del rabbino Arié, qui la razionalità è prigioniera dell’«apparenza assurda» che «si imponeva con l’evidenza delle cose concrete», «un nemico invisibile, forse l’insensatezza, l’impossibilità dello scenario entro cui era rinchiusa» (L, OII 90). L’effetto complessivo, tuttavia, mi sembra lo stesso in entrambi i racconti: da una condotta sorda alla richieste altrui – anche dell’Altro che è in noi stessi – derivano disagio e dolore. Questa è in parte una constatazione della necessaria sofferenza che caratterizza la condizione umana, e in parte una proposta etica per una vita migliore, la proposta di non reprimere in modo programmatico ciò che non è strettamente razionale.

Il punto di vista della narrazione è quello di alcuni turisti occidentali, per i quali senso e possibilità sono dettati dalla razionalità e non riescono quindi a venire a capo di ciò che hanno di fronte. La comprensione può venire solamente dall’incontro tra uomo e bestia, l’incarnazione della razionalità. Tuttavia, questa è una condizione non accettabile dalla ragione, la quale può comprendere il mondo esclusivamente secondo le proprie regole. A sottolineare tale difficoltà troviamo qui una delle figure retoriche predilette da Levi, la mise en abyme, tecnica la cui complessità è in questo caso amplificata dal fatto di essere operante all’interno del racconto e non a partire da un livello metanarrativo esterno alla vicenda. Infatti, i turisti assistono ad un comportamento ostinato ma che non dà risultati – quello della bestia – che replica la loro esperienza di osservatori interdetti; e il lettore osserva tutto ciò da una distanza ulteriore. Come i mendicanti che vogliono cacciare la bestia, i turisti vengono dall’esterno e tentano di comprendere le forme del tempio con i propri strumenti razionali, i quali però si rivelano inadeguati:

Ci sforzammo inutilmente, i Torres e noi, di venire a capo di questa apparenza assurda, che svaniva se ci avvicinavamo, ma si imponeva con l’evidenza pesante delle cose concrete se osservata dalla distanza di qualche decina di metri. Claudia scattò qualche fotografia, ma senza fiducia: la luce era troppo scarsa. (90)

L’avvicinarsi e allontanarsi degli osservatori è analogo alla carica della bestia, così come anche l’intenzione di sfruttare il debole spiraglio luminoso offerto dalla ragione tra quei cumuli di rovine:

La bestia puntava verso una delle aperture, la meno angusta e la più sgombra da sfasciumi. Cozzò contro gli stipiti, come se, cieca di collera, non li avesse visti; vi si incastrò per un attimo, emise un ruggito di dolore e si trasse indietro; l’architrave di pietra crollò sgretolato dall’urto, e l’apertura apparve più stretta di prima, ostruita a mezzo dalle pietre cadute. (91)

Questi episodi mettono in scena una volontà ostinata che si sforza di utilizzare i mezzi di cui dispone per raggiungere i propri obiettivi di comprensione e liberazione da un’impasse cognitiva. La spiegazione di tale dinamica è fornita da uno dei turisti, Claudia, una donna: «È prigioniera di se stessa. Si chiude intorno tutte le vie d’uscita» (91). La ragione, come ogni sistema chiuso, non può sfuggire alle proprie regole, anzi, in alcune occasioni più si ostina ad applicarle ciecamente più si allontana da ogni possibile soluzione di compromesso che permetterebbe perlomeno una comprensione parziale dei fenomeni irrazionali.

L’epilogo di questo intenso incontro insiste su particolari che mi sembrano avvalorare l’interpretazione proposta. Dopo il confronto con dei fatti che si svolgono nell’ombra del tempio, non raggiungibile dalla luce della ragione e non fotografabile, il sole pomeridiano risulta abbagliante; e le lucertole, che stanno annidate «nelle fenditure delle pietre» o «immobili al sole velato, come minuscoli bronzi», se disturbate dalla razionalità impertinente che vuole osservare tutto da vicino, analiticamente, «si lascia[no] cadere nel vuoto» (91). Il racconto insiste fino alla fine sull’impossibilità di ridurre uno dei due poli all’altro: la ragione non può comprendere tutto, anche se spesso non vede i propri limiti e si scontra inevitabilmente con essi. Ma nemmeno rifiutare la razionalità in nome di una libertà irrazionale (magico-religiosa, in questo caso) può essere una soluzione: i mendicanti stanno «accovacciati al riparo dal sole», pronti ad attaccare la bestia e ad assimilarla nel proprio corpo tramite un rito magico che prevede la sua fagocitazione; tuttavia, ciò non può avvenire, perché «la bestia non uscirà mai» (92). Ragione e irrazionalità sono due principi radicalmente diversi, coesistenti e irriducibili l’uno all’altro. Levi ci mostra ciò ambientando una storia nel regno di Lilít, un mondo che non può essere descritto e compreso in termini razionali, ma da cui la ragione non può svincolarsi.

La tensione tra due principi opposti e complementari è una caratteristica ricorrente in molti dei racconti e Lilít può essere considerata la madrina del polo non razionale in tale incontro-scontro. Le figure associabili a lei in base ad uno dei tre aspetti che ho messo in evidenza di individuo libero, donna e diavolessa hanno la funzione di affermare una diversità irriducibile e l’esistenza di più di una verità. Questa condizione apparirà sempre come una sfida nei confronti della ragione, e Levi nei propri racconti rappresenta alcune delle possibili manifestazioni di tale tensione, variando la scala di grandezza su cui le sue narrazioni si soffermano. Ad esempio, ne La bestia nel tempio il conflitto è cognitivo, mentre nel racconto Ammutinamento il fuoco della lente di osservazione è tarato su scala ecologica, mettendo in scena relazioni tra esseri umani e i regni vegetale e animale.

 

4. Ammutinamento (1968-70)

Il racconto Ammutinamento è collocato, nella raccolta Vizio di forma, subito dopo Il servo e prosegue un tema lì introdotto, quello del tentativo di una creatura di asservirne un’altra per i propri scopi. È questo un tema centrale nel mito di Lilít, che viene qui rappresentato dando spazio ai punti di vista delle rispettive parti in causa, grazie anche alla figura mediatrice di Clotilde Farago, una bambina in grado di parlare con piante e animali.

La chiave del racconto è la capacità di dialogo, istanza che si articola nella narrazione in diverse forme ed è presente in diversi gradi di cooperazione tra le parti: dalla totale incomprensione fra il narratore e la terra, agli sporadici e «rudimentali» scambi tra vicini di casa umani, all’intensa comprensione e comunicazione fra Clotilde, piante e animali.

Clotilde è diversa. L’abbiamo vista crescere di estate in estate come un pioppo, e adesso ha undici anni. È bruna, snella, ha sempre i capelli che le cadono sugli occhi, ed è piena di mistero come tutte le adolescenti; ma era misteriosa anche prima, quando era rotonda, alta due spanne, e sporca di terra fino agli occhi, e secondo ogni apparenza imparava a parlare e a camminare dal cielo direttamente, o forse dalla terra stessa, con cui aveva un rapporto evidente ma indecifrabile. (OI 718-19)

Clotilde non è l’unica ad avere delle abilità straordinarie, e ciò è rilevante dal punto di vista etico perché implica che la capacità di dialogo non sia un dono sovrannaturale ma una virtù che può essere appresa e sviluppata: «Le ho chiesto se parla con le altre piante, e mi ha detto che certamente. Anche suo padre e sua madre, ma lei meglio di loro: non è proprio un parlare con la bocca, come noi, ma è chiaro che le piante fanno dei segni e delle smorfie, quando vogliono qualche cosa, e capiscono i nostri» (719-20).

Il valore del dialogo emerge principalmente in relazione alla violenza nei confronti della libertà individuale, ed è reso esplicito dal narratore:

Secondo Clotilde, tutto quello che cresce dalla terra, ed ha foglie verdi, è «gente come noi», con cui si trova modo di andare d’accordo; appunto per questo non si deve tenere piante e fiori nei vasi, perché è come chiudere le bestie in gabbia: diventano o stupide o cattive, insomma non sono più le stesse, ed è un egoismo nostro metterle così allo stretto solo per il piacere di guardarle. (OI 720; cfr. Perché gli animali sono belli?, 1980, RR, OII 1383-87)

Il dialogo è dunque possibile e doveroso anche tra specie diverse: bisogna ascoltare, «cercare di non perdere la pazienza e farsi capire» (OI 720); gli uomini non hanno alcun diritto di sfruttare le piante per i propri fini. Ma nemmeno Clotilde, la quale è così ben disposta al dialogo interspecie, è un esempio di virtù pura, ha anche lei i suoi limiti: non parla con la gramigna perché «ammazza le altre piante, e lei non muore mai», e giustifica il proprio comportamento dicendo che questa «fa eccezione, perché non viene dalla terra, ma da sottoterra». Così anche la creatura più disposta e abile al dialogo sembra rinunciarvi proprio nel caso in cui sarebbe più necessario, ossia per fermare un comportamento dannoso che porta alla distruzione di molte piante. In questo caso Clotilde si comporta come Adamo e Dio, i quali non hanno saputo dialogare con Lilít e la Shekhinah, e hanno dato avvio a situazioni conflittuali dolorose. Questa debolezza non stupisce più di tanto, perché Levi cerca sempre di offrire situazioni reali, con tutte le idiosincrasie della vita quotidiana, mostrando esempi di virtù incarnate, non astratte, che talvolta possono essere difettose.

Diversità di posizioni e punti di vista si incontrano sia sul fronte umano sia fra le piante, in una gamma di sentimenti contrastanti e coesistenti che va dalla cooperazione, alla diffidenza, all’odio. Il narratore e la sua famiglia provano «invidia e ammirazione» per i vicini Farago, e pensano che questi «non ci vogliono insegnare troppe cose: che, non si sa mai, non ci venisse in mente un giorno o l’altro di rubargli il mestiere» (718). E ipotizzano anche che «forse non vogliono responsabilità, o si rendono conto che una maggiore intimità e confidenza fra loro e noi non è possibile né desiderabile». La distanza fra esseri umani viene spiegata come un’ostilità volta a salvaguardare la propria sopravvivenza, o come volontà di non farsi coinvolgere in situazioni potenzialmente spiacevoli per l’ambiente, o anche come una fondamentale diversità che non permette forme più intense di comunicazione, e quindi giustifica positivamente il fatto che non vi sia una familiarità maggiore.

Nel valutare le dinamiche intersoggettive rappresentate, tuttavia, bisogna considerare che il punto di vista tramite cui queste sono presentate al lettore è quello di soggetti con una capacità di dialogo limitata, che si autodefiniscono «dei dilettanti e degli inurbati» che si «nutr[ono] di errori» (718). Così il narratore presenta i Farago come una famiglia poco socievole, e la «rudimentale amicizia» che nasce con loro è «sommaria ed inarticolata». Ma se si considera che la socialità fra esseri umani è un parametro di valutazione parziale, che non rende giustizia dell’ampiezza e della complessità dei rapporti istituibili in un ecosistema che include anche individui non umani, allora le parole di questi «orticultori» possono assumere un valore diverso22. Le parole «[c]i va occhio» o «ci va la mano» possono essere intese come una sottolineatura dell’importanza di forme di ascolto e comunicazione che non sono «proprio un parlare con la bocca, come noi» (719). Fuor di metonimia: il dialogo non vive solo dell’argomentazione logica, con la quale esprimere in modo chiaro e distinto i propri desideri e le proprie volontà, anzi, il ragionamento analogico e l’empatia contribuiscono in modo fondamentale alla costruzione di relazioni e dialoghi23.

Divergenze di atteggiamento non sono esclusivo appannaggio degli uomini, agli occhi di Clotilde, infatti, tutte le creature hanno una propria individualità: «non tutte le piante sono d’accordo. Ce ne sono di addomesticate, come le mucche e le galline, che non saprebbero fare a meno dell’uomo, ma ce ne sono altre che protestano, cercano di scappare, e qualche volta ci riescono» (720-21). E come avviene tra gli uomini, ci sono individui più estremisti di altri, i ciliegi che sono più agguerriti degli ulivi e affermano che «[b]isogna combattere l’uomo, non purificare l’aria per lui, sradicarsi e partire, anche a costo di morire o di ritornare selvaggi» (723).

La figura di Lilít aleggia su questo racconto nel suo aspetto di alterità irriducibile alla prospettiva di chi dimostra un atteggiamento dominante, e Clotilde ha il ruolo di educare all’ascolto gli umani che credono di dover rispondere delle proprie azioni ad una qualche autorità astratta – perché «i frutti delle nostre enormità gridano al cielo» (718) – mentre non si rendono conto della responsabilità che hanno prima di tutto nei confronti delle altre creature (umane e non) che vivono sulla terra insieme a loro.

 

5. La ragazza del libro (1980)

Un altro racconto in cui ha un ruolo cruciale il punto di vista attraverso cui sono presentati gli eventi è La ragazza del libro (L, OII 175-79). Gli effetti che si possono ottenere con le variazioni di prospettiva sono molteplici: in Ammutinamento il punto di vista del narratore impone una posizione subalterna a tutte le creature non umane ed è in grado di comprendere solo forme di comunicazione verbale; ne La ragazza del libro, invece, due punti di vista maschili tentano di presentare una donna come pari dell’uomo, autonoma ma anche una seduttrice fiera e combattiva. A mio avviso, questa diversa configurazione prospettica della narrazione è un indice della consapevolezza etica di Levi, il quale si rende conto che l’affermazione di un punto di vista implica che i valori e i limiti dell’osservatore modellino la rappresentazione di eventi, persone e relazioni. Che si tenti di subordinare qualcuno o di descrivere il suo ruolo in un rapporto, si corre sempre il rischio di violarne la libertà di autodeterminazione, così come fanno Dio e Adamo con Lilít.

La ragazza del libro sviluppa il tema dell’imposizione di un punto di vista accanto e in congiunzione a quello della memoria. Il libro menzionato nel titolo è composto dalle «memorie di un soldato inglese» (177) che racconta le avventure da lui vissute in Italia durante la seconda guerra mondiale. Il contenuto del libro è sintetizzato seguendo la lettura che ne fa Umberto, il protagonista del racconto di Levi, raddoppiando dunque il punto di vista maschile sulla vicenda. Nella narrazione è centrale la figura di Harmonika – una ragazza lituana con cui il soldato ha una relazione e che Umberto incontra molti anni dopo «in riviera» (175) – e in merito alla configurazione dei punti di vista è utile riportare subito ciò che ella afferma alla fine del racconto: «Non ero io a trascinare l’inglese; io ricordo me stessa molle nelle sue mani, come argilla» (179), come Lilít nel momento della creazione. Nel libro letto da Umberto, invece, la prospettiva maschile del soldato modella Harmonika come Lilít la seduttrice:

instancabile e indistruttibile, brava a sparare quando occorreva, portentosamente vitale: una Diana-Minerva innestata sul corpo opulento (e diffusamente descritto dall’inglese) di una Giunone. […] La lituana veniva descritta come un’amante senza eguali, impetuosa e raffinata, mai distratta: poliglotta e polivalente, sapeva amare nella sua lingua, in italiano, in inglese, in russo, in tedesco, ed in almeno altre due lingue su cui l’autore sorvolava. (177)

Il punto di vista maschile è successivamente rincalzato da Umberto che tra sé chiama Harmonika «baccante», e che «[s]i sentiva ilare e intento come un bracco sulla pista della volpe; marciò dalla stazione alla Bomboniera con passo militare» (178). Tra i vari elementi del racconto, credo che anche la similitudine mutuata dalla caccia e la specificazione del tipo di camminata contribuiscano ad indicare un atteggiamento autoritario e maschilista: Umberto è talmente esaltato dalla sua scoperta da non chiedersi nemmeno se l’intrusione nella vita privata di un’altra persona sia una cosa lecita, e quando Harmonika gli prende il libro dalle mani «si [rende] conto in quel momento che lo scopo vero del suo ritorno in riviera era stato proprio quello: vedere Harmonika in atto di leggere le avventure di Harmonika» (178). Inoltre, il ricorso ad un linguaggio marziale non è un caso isolato; nelle prime righe, infatti, Umberto viene presentato al lettore come «un uomo d’ordine, che stava dove lo mettevano; se lo avevano mandato in riviera era segno che doveva starci» (175).

Tramite l’inserimento di un racconto nel racconto i punti di vista maschilisti risultano due; tuttavia si può cogliere anche l’emergere di una prospettiva differente, quella ironica del narratore. Nei pensieri di Umberto vi sono tracce di una virilità autoritaria e grossolana, egli si ritiene infatti un uomo forte dall’atteggiamento deciso, che «detest[a] la riviera, le mezze stagioni, la solitudine, e sopratutto la malattia»; purtroppo per lui, però, l’ironia del narratore è impietosa: il poveretto ha «qualche guaio ai polmoni» e «perciò era di pessimo umore, e gli pareva che non sarebbe mai guarito, che anzi la sua malattia si sarebbe aggravata, e che lui sarebbe morto lì, in mutua, in mezzo a gente che non conosceva; morto di umidità, di noia e di aria marina» (175). Inoltre, sebbene si senta un predatore nei confronti di Harmonika, la sua volontà di controllo e conoscenza sono inconsistenti e si traducono in un atteggiamento sfrontato esclusivamente nei confronti di una persona fondamentalmente immaginaria, conosciuta attraverso un libro. Prima della lettura, infatti, incontrando la signora lituana per strada riesce a parlarle solo una volta, e «[d]opo di allora Umberto non seppe immaginare altri artifici per varare una conversazione» (176). Inetto nelle relazioni, se si prende come parametro di riferimento il suo punto di vista, Umberto fa una magra figura anche con Eva, la sua fidanzata o amante, non riuscendo ad avere un ruolo dominante nemmeno con lei: «[o]gni tanto prendeva il treno e tornava in città per passare la notte con Eva, ma poi se ne ripartiva al mattino tutto triste, perché gli sembrava che Eva stesse abbastanza bene anche senza di lui» (175). Di fronte all’indipendenza dimostrata da questa prima Eva, Umberto è un Adamo che volge il suo sguardo altrove, ad un’altra donna, comportandosi inoltre da ipocrita perché per soddisfare la propria curiosità nei confronti di Harmonika – il proprio voyeurismo – racconta una fandonia alla sua ragazza24.

Per quanto concerne il punto di vista femminile, di fronte alla storia del soldato inglese e all’atteggiamento invadente di Umberto25, Harmonika dice solamente: «Sì, ricordo una stagione in cui io ero diversa. Mi piacerebbe essere la ragazza del libro: mi accontenterei anche solo di esserlo stata, ma non lo sono mai stata» (179). Nonostante sembri essere attratta dall’immagine di se stessa come donna autonoma e forte, Harmonika non accetta di essere descritta come oggetto del desiderio. L’indipendenza e intraprendenza femminili, infatti, sono trasformate dal punto di vista maschile in caratteristiche erotiche di una donna seduttrice; è così nel racconto dell’inglese, e lei intuisce che sia proprio questo ad alimentare la curiosità di Umberto:

I miei amori… sono questi che le interessano, vero? Ecco stanno bene dove sono: nella mia memoria, scoloriti e secchi, con un’ombra di profumo, come fiori in un erbario. Nella sua [dell’inglese] sono diventati lucidi e chiassosi come giocattoli di plastica. Non so quali siano i più belli. Scelga lei: via, si riprenda il suo libro e se ne torni a Milano. (179)

Harmonika è infastidita dal racconto del soldato e dalla curiosità di Umberto, dalla mancanza di rispetto di entrambi per la sua identità, come dimostra uno dei rari passaggi di narrazione impersonale: sul volto di lei «si vedevano passare i moti dell’animo come le ombre delle nuvole su una pianura spazzata dal vento: rimpianto, divertimento, stizza, ed altri meno decifrabili» (179). Rimpianto per qualcosa che non è stato, ma stizza per una rappresentazione mistificante: la donna non condivide il punto di vista del soldato.

Sono due i mitologemi elaborati nel racconto di Levi: quello della seduttrice e quello dell’imposizione di un individuo su di un altro. Il modo in cui questi sono intrecciati fra loro e con il tema della memoria rende particolarmente difficile comprendere l’ethos autoriale. Paradossalmente, l’imposizione degli Adamo inglese e italiano avviene descrivendo una Lilít lituana indipendente, la quale però non accetta questo ruolo perché vuole che il passato rimanga un ricordo sbiadito. E a fare da contesto alla lettura del libro da parte di Harmonika è la «Bomboniera», casa-cimelio in cui l’anziana signora vive, un luogo in cui il passato è immobilizzato. Gli atteggiamenti dei due personaggi che ricordano non sono però molto diversi, entrambi costruiscono allegorie di un passato che non c’è più, cercando di dargli una struttura rigida: lei di «fiori in un erbario», lui di «giocattoli di plastica»26. L’effetto che risulta dall’intreccio di diversi punti di vista con il tema del ricordo è di porre in risalto la retorica di ogni memoria. L’autore prepara gli elementi necessari per un incontro simbolico fra due individui, ma poi mette in scena un fallimento, perché gli sguardi allegorici del soldato e di Harmonika non concedono possibilità di dialogo, di trasformazione. Inoltre, Umberto fallisce come mediatore perché, invece di incoraggiare l’incontro fra le due memorie, prende parte per una di esse ed è conseguentemente respinto dall’altra.

Ricordare e raccontare i propri ricordi sono attività con cui si rischia sempre di distorcere impropriamente il passato, e credo che con la particolare costruzione prospettica di questo racconto Levi ribadisca che dignità e dolore sono implicati in ogni azione e devono pertanto essere sempre tenuti in considerazione. Se non vi è rispetto di ciò non può esserci dialogo né comprensione, e difatti Harmonika caccia Umberto da casa propria, ma continuerà a vivere nel passato irrigidito della Bomboniera.

 

6. I figli del vento (1981)

Oltre che come gioco narrativo di opposizioni di punti di vista, in alcuni casi il tema dell’alterità è esemplificato anche dalle caratteristiche morfologiche dei personaggi. È il caso del racconto I figli del vento (L, OII 117-20), in cui il dimorfismo sessuale è l’aspetto manifesto di una diversità più profonda27. Il corpo di maschi e femmine della «singolarissima specie di roditori» che abita l’isola di Mahui è molto diverso e ciascun genere ha un nome proprio – «atoúla» i maschi, «nacunu» le femmine (117). «I maschi sono torpidi e pigri, le femmine agili ed attive», vivono in branchi separati e le relazioni fra individui dei due sessi avvengono esclusivamente a distanza, in quanto «[g]li uni e le altre sono muti» e «[f]ra gli atoúla non esiste accoppiamento» (118).

Alla separazione intraspecifica si contrappone però una convergenza fra regno animale e regno vegetale, riproponendo un gioco con diversi ordini di grandezza – in questo caso l’ampiezza degli insiemi biologici – che ricorre anche in altri racconti ed è uno degli strumenti etici di Levi (cfr. Gordon, cap. “La misura”):

gli spermi degli atoúla sono diversi da quelli di tutte le altre specie animali, e sono piuttosto da assimilarsi ai granelli dei pollini delle piante anemofile. Non hanno filamento caudale, ed invece sono ricoperti da minuti peli ramificati ed aggrovigliati, per cui possono essere trascinati dal vento a distanze rilevanti. (OII 118)

Paradossalmente, proprio a causa di questo ibridismo animale-vegetale tra i due sessi della stessa specie non vi è contatto: una più stretta relazione tra regni biologici differenti porta ad un allontanamento fra individui della stessa specie.

La riflessione morale innescata da questa “storia naturale” è che l’evoluzione e l’ibridismo impongono di riconsiderare le forme di interazione e relazione fra individui e fra gruppi. Il gioco tra scale di grandezza, però, rende difficile prendere una posizione perché un auspicabile avvicinamento tra forme di vita diverse provoca una distanza maggiore tra individui biologicamente più affini. Considerando il racconto nel complesso, mi pare che emerga come questione decisiva quella del corpo come componente non trascurabile nella relazione, nella costruzione di senso attraverso la relazione. Il corpo è medium che permette forme positive di contatto, che compensa l’astrattezza e la normatività dei rapporti, e allo stesso tempo offre dei confini e una materialità su cui è possibile costruire e negoziare un senso (cfr. Ross). D’altra parte, però, c’è il rischio che la presenza corporea offra una facile soluzione a chi vuole evitare di impegnarsi nella relazione tramite il dialogo e la negoziazione di senso con la parola: è questo il caso di Dio e la Shekhinah, coppia il cui rapporto si interrompe nel momento in cui Dio si prende Lilít come amante, preferendo l’immediatezza del corpo ai frutti futuri e faticosamente guadagnati col dialogo.

I possibili collegamenti tra il mito e I figli del vento non riguardano solo la presenza di due polarità in relazione; le nacunu, infatti, hanno tratti somatici che ricordano l’aspetto di Lilít: come la diavolessa è fiamma dalla cintola in giù (Lilít, AOI, OII 543), così i roditori femmina di questa specie hanno una coda che «dal fulvo sfuma all’arancio, al rosso acceso, o al porpora» e «si notano di lontano, anche perché è loro abitudine dimenare la coda» (OII 118), facendole sembrare «fiamme aranciate e violette» (119). L’eco del mito è vago ma credo che non sia irrilevante, anche perché i diavoli generati da Lilít sono figli della vanitas, hevel in ebraico: figli del vento28. Così, sebbene i piccoli di nacunu e atoúla non siano creature senza corpo come i figli della diavolessa, il contatto corporeo è assente nell’accoppiamento degli animali. Il risultato è analogo in entrambe le condizioni: l’assenza di corporeità ha delle conseguenze su tutti gli esseri viventi che entrano nel campo d’attrazione di tale unione:

In quei giorni l’intera isola brulica delle fiamme aranciate e violette delle loro code, e il vento si carica di un odore acuto, muschiato, stimolante ed inebriante, che trascina in una ridda senza scopo tutti gli animali dell’isola. Gli uccelli si levano in volo stridendo, si aggirano in cerchi, puntano verso il cielo come impazziti e poi si lasciano precipitare come sassi; i topi saltatori, che di norma è solo possibile intravedere nelle notti di luna, minuscole ombre inafferrabili, escono allo scoperto, abbagliati ed inetti nello splendore del sole, e si possono acchiappare con le mani; perfino le serpi sgusciano come allucinate dalle loro tane, si ergono sugli ultimi anelli e sulle code, e dimenano le teste come se seguissero un ritmo. Anche noi, nelle brevi notti che interrompevano quei giorni, abbiamo sperimentato sonni irrequieti, gremiti di sogni variopinti ed indecifrabili. (119-20)

L’astrazione dell’occasione dincontro più intimo tra due creature porta ad una generale mancanza di senso. Da ciò si può inferire che il corpo è una componente necessaria per comprendere, per decifrare i prodotti della propria mente (sogni, in questo caso), e per entrare in relazione con gli altri. La parzialità o assenza di un senso è dannosa non solo per chi è direttamente coinvolto nella relazione, ma anche per tutti coloro che ne sono testimoni, poiché vengono trascinati in un vortice «senza scopo», in comportamenti circolari o in situazioni di stallo, analoghe a quella vissuta dal Golem29. Non sono solamente le creature nell’orbita degli atoúla ad essere inebriate dal rituale di accoppiamento: è facilmente percepibile anche il cambio di ritmo e registro della narrazione, che diventa ammaliante, e la «trappola morale» si fa forte di questo fascino lirico30.

Le «nozze aeree e lontane» (120) degli atoúla sono intense ma solipsiste, tanto che l’accoppiamento sembra una sintesi dialettica di tipo idealista, in cui i due poli agiscono indipendentemente col fine di generare una nuova unità a cui essi però non partecipano, continuando la propria esistenza individuale. In quest’ottica, si può leggere nel racconto un’esemplificazione di come un incontro tra due alterità che non sia guidato da un’intenzione dialogica – ossia da una compresenza nella relazione – possa portare a comportamenti privi di senso e pericolosi (uccelli «impazziti» che «si lasciano precipitare come sassi», topi «abbagliati e inetti» che si lasciano catturare)31. Non si può tuttavia ignorare che l’amplesso è presentato anche come un’occasione di libertà dai vincoli di qualsiasi forma di controllo sulla vita, un momento di creatività assoluta. Ma a questo proposito è doveroso ricordare che in più luoghi Levi invita a diffidare di qualsiasi forma di assolutismo, politico, teologico, razionale, ma anche passionale, come in questo caso.

Vi sono altri racconti che affrontano il tema della sessualità e dell’intensità che nasce dall’incontro fra due creature, anch’essi trappole morali in cui riecheggia il mito di Lilít nel suo aspetto di seduttrice, generatrice di cose vane ma anche protettrice della libertà. In Disfilassi (1978, L, OII 93-99), ad esempio, si insiste sull’abbattimento delle barriere tra specie e sulla convergenza tra mondi animale e vegetale, portando a compimento la suggestione della nascita di creature ibride. Ma è in particolare il confronto con Mercurio (1968-73, SP, OI 822-32) e Il passamuri (1986, RS, OII 898-901) a fornire ulteriori spunti per continuare la riflessione sulle risorse ermeneutiche offerte dal mito di Lilít.

7. Mercurio (1975)

Alla fine del racconto Nichel (1974, SP) Levi presenta le due brevi storie che seguiranno ne Il sistema periodico e utilizza delle parole rivelatrici per molti dei suoi racconti di finzione: «due racconti di isole e di libertà», di cui uno «ambiguo e mercuriale», «il lettore li troverà qui di seguito, inseriti, come il sogno di evasione di un prigioniero, fra queste storie di chimica militante» (OI 803 e 808). Libertà, ambiguità ed evasione sono le parole chiave con cui Levi parla di questi racconti di finzione per distinguerli dagli scritti autobiografici inseriti nella stessa opera, parole che sottolineano una necessità espressiva che ho già avuto modo di mettere in evidenza. Sempre a proposito di ambiguità, è interessante anche una dichiarazione fatta durante la scrittura de Il sistema periodico: «Il primo racconto [Idrogeno] descrive il mio amore giovanile per la chimica, anzi per l’alchimia; la chimica pare una cosa troppo evidente, priva di velo, di mistero» (1968, OI 1446). Tali affermazioni, fatte in concomitanza con la realizzazione di un progetto narrativo che vuole celebrare le avventure di un chimico, possono essere interpretate come una conferma della propensione di Levi per le soluzioni spurie, e dell’attrazione per ciò che non è immediatamente evidente. Si potrebbe parlare di un tentativo di svincolarsi dall’eccessivo rigore del metodo induttivo sperimentale, confessando un amore per l’abduzione e la figuralità, per i collegamenti e i composti analogici e misteriosi (cfr. supra, cap. 1, par. 4).

Mercurio non è il racconto a cui fa riferimento Levi nella dichiarazione del 1968, ma l’alchimia è senza dubbio una componente fondamentale sia per lo sviluppo della narrazione sia per comprendere le implicazioni etiche di questa storia «ambigua e mercuriale». Come molti dei racconti nell’orbita del mito di Lilít anche qui vi è una contrapposizione tra punto di vista maschile e femminile, tra il caporale inglese Abrahams e sua moglie Maggie. È Abrahams a narrare la storia della loro vita sull’isola di Desolazione, prima in solitaria e poi in compagnia di alcuni nuovi arrivati olandesi e italiani. Il caporale ha un modo di fare da militare, deciso e pragmatico, e l’opposizione tra il suo punto di vista e quello della moglie è evidente nel modo in cui parla di alcuni comportamenti che lo fanno sospettare che Maggie sia un’idolatra del «Cranio del Diavolo», una roccia che si trova nella grotta di «Holywell». In effetti, la stessa Maggie ammette di sentire una voce nella grotta ed è convinta che questa pronuncerà «un giorno il nostro destino, e dell’isola, e di tutta l’umanità» (OI 824); inoltre, conosce le erbe medicinali e alcuni incantesimi con cui guarisce il giovane Willem.

La diversità e la parziale incomprensione tra i coniugi si accentua quando sull’isola arriva Hendrik, un alchimista truffatore fuggito dall’Olanda, con cui Maggie instaura ben presto un rapporto di complicità, parlando «delle sette chiavi, di Ermete Trismegisto, dell’unione dei contrari e di altre cose poco chiare» (825). E successivamente, dopo che nel «pozzo sacro» comincia a sgorgare il mercurio, il rapporto si intensifica e i due si accingono ad «iniziare la Grande Opera», e a fare «la bestia con due schiene» (828)32. In che cosa consistano queste imprese alchemiche lo si apprende dalla voce sarcastica di Abrahams:

Quanto alla bestia, [Hendrik] mi ha detto che non è una cosa da spiegarsi in due parole. Il mercurio, per la loro opera, sarebbe indispensabile, perché è spirito fisso volatile, ossia principio femminino, e combinato con lo zolfo, che è terra ardente mascolina, permette di ottenere l’Uovo Filosofico, che è appunto la Bestia con due Dossi, perché in essa sono uniti e commisti il maschio e la femmina. Un bel discorso, non è vero? Un parlare limpido e diritto, veramente da alchimista, di cui non ho creduto una parola. (829)

L’obiettivo di un alchimista è quello di raggiungere l’unione dei principi maschile e femminile, di ritornare alla condizione originaria in cui uomo e donna sono due aspetti di un’unica entità. Con un obiettivo del genere la vicenda alchemica costituisce senz’altro un’opportunità di evasione per il chimico-autore, offrendogli una libertà fantastica dalla direzione della ditta di vernici con cui ha a che fare ogni giorno. Oltre a tale aspetto, però, l’alchimia è anche il contesto nel quale emerge l’ambiguità annunciata da Levi, un fattore che offre spunti di notevole interesse per un discorso etico.

Abrahams, da uomo pragmatico qual è, non crede a ciò che gli racconta Hendrik ed è convinto che voglia avere rapporti sessuali con Maggie: si dimostra quindi possessivo con la moglie, anche se ammette che «[d]opo vent’anni di matrimonio, a me di Maggie non me ne importa poi tanto, ma in quel momento ero acceso di desiderio per lei, e avrei fatto una strage. Tuttavia mi sono padroneggiato» (829). La situazione di crisi rende manifesta la sua incapacità di avere un dialogo con la moglie, ma la capacità di controllarsi e di volgere in profitto (vendendo il mercurio) la possibile perdita di una relazione risultano essere più importanti della quotidiana assenza di desiderio e di comunicazione. Come Adamo si rivolge a Dio pur di non ammettere la parità di Lilít, e come Dio stesso lascia andare la Shekhinah e si prende la diavolessa come concubina, così Abrahams sceglie di non affrontare il problema che ha con Maggie – una relazione che è come il mercurio, «freddo e fuggitivo, sempre inquieto» (830) – e tenta invece di allontanare gli elementi esterni che potrebbero rompere definitivamente il matrimonio. Salvo poi, al termine del racconto, rinunciare ad impegnarsi e optare per una nuova donna.

La questione etica, però, non è così semplice. Con il denaro ottenuto dalla vendita del mercurio, infatti, il caporale vuole attuare un progetto concordato con gli altri quattro uomini: comprare delle mogli. Quindi, in teoria, la funzione dell’oro è di risolvere il problema della mancanza di relazioni; anzi, stando alle parole del capitano Burton, incaricato di trovare le donne, l’oro è l’unica soluzione possibile (826). La suggestione di questa chimica delle relazioni umane è che, sebbene la sicurezza (data dall’oro) possa avere una funzione nell’istituire rapporti, è con l’imprevedibilità (del mercurio) che inevitabilmente ci si trova a confrontarsi, una forza che può contrastare l’oro trasformandolo in stagno senza valore (830). Anche lo stato d’animo di Abrahams nell’ultima scena sembra suggerire l’impossibilità di una condizione di equilibrio e di quiete nelle relazioni: «mi dava un’impressione allegra e leggera, come un solletico, e mi faceva venire in mente l’idea di acchiapparla al volo come una farfalla» (831-32). La giovane «dagli occhi grigi» è nuovo mercurio per il caporale, il quale non sembra aver cambiato attitudine nei confronti delle donne e vuole controllare anche la nuova ragazza. Infatti, le considerazioni che fa prima di prendersi una nuova moglie sono, nell’ordine: «che i due bambini avrebbero potuto aiutarmi a guardare i maiali; che Maggie non mi avrebbe certamente dato figli», e solo in ultimo «che la ragazza dagli occhi grigi non mi dispiaceva» (831). L’utile prima di tutto. Al contrario, Hendrik e Maggie sono consenzienti, parlano molto e sembrano anche avere un progetto comune, ma non è dato sapere se la loro relazione sarà benefica e prospera per entrambi o se la Grande Opera li distruggerà.

Secondo le affermazioni cautelative dell’autore, in questo racconto l’alchimia ha una funzione di evasione fantastica, ma sarebbe troppo semplicistico voler dividere nettamente il pensiero di Levi tra un razionalismo illuminista e una figuratività ardita e complessa, individuabile in molti dei racconti che ho preso in esame. A questo proposito, Brian Cheyette ha sottolineato in modo pertinente che «Levi’s chemistry is defined throughout as an uneasy mixture of the magic of alchemy and the exactness of physics» (271). Credo che Mercurio offra numerosi elementi a favore di questa tesi – così come anche Il passa-muri (1986, RS, OII 898-901) – ma vorrei aggiungere che non credo sia l’«esattezza» l’attributo della fisica che Levi ama di più, quanto piuttosto la tensione verso l’ignoto e l’audacia sperimentale di questa disciplina, che nei secoli non ha mai esitato a mettere in discussione le basi su cui fonda le proprie indagini, per poter raggiungere gradi di conoscenza sempre maggiori. A riprova di ciò si ricordi anche che già la tesi di laurea di Levi va al cuore dell’incertezza della fisica e della chimica, in un regno regolato dalla statistica e della probabilità di esattezza, più che da assolute verità di scienza33.

 

8. Il passa-muri (1986)

L’ultimo dei racconti nell’orbita del mito di Lilít che prenderò in esame è un ottimo esempio di come nell’enciclopedia mitica evocata dai racconti convergano tradizioni diverse. Il protagonista del Il passa-muri, infatti, è un alchimista per cui l’incontro fra principi femminile e maschile si rivela cruciale, ma per certi versi è simile anche ai personaggi prometeici di Levi: all’artigiano Timoteo, desideroso di libertà creativa (Il fabbricante di specchi, 1985, RS, OII 894-97), e ai dottori di Storie naturali, rinchiusi nel proprio laboratorio, avidi sperimentatori e tormentatori della materia. L’alchimista Memnone, analogamente a Timoteo, trasgredisce al dettato della propria corporazione, «forte, rigida nella sua ortodossia, riconosciuta dall’Imperatore». Come Prometeo e Galileo, si rifiuta di seguire acriticamente una dottrina che non ha basi empiriche, una conclusione teorica che ignora il comportamento della materia ritenendo che «sostenere che ci fossero quei granelli ultimi, gli atomi, era eresia» (898). Ma per i personaggi prometeici di Levi i limiti all’ingegno e all’agire non sono solamente imposti dall’esterno, c’è anche chi diventa schiavo del proprio lavoro o della propria passione senza accorgersene, come Montesanto (I mnemagoghi, 1946, SN, OI 401-08), Leeb (Angelica Farfalla, 1962, SN, OI 434-41), Gilberto (Alcune applicazioni del Mimete, 1964, SN, OI 460-66) e Kleber (Versamina, 1965, SN, OI 467-76).

In un modo o nell’altro queste sono tutte storie di cecità e fallimenti, Memnone invece è diverso da tutti loro: è consapevole della propria prigionia «[d]elle quattro mura fra cui era rinserrato conosceva ogni ruga, crepa e grumo: le aveva studiate con gli occhi di giorno, con le dita di notte» (898)e, al contrario di Prometeo, riesce a liberarsi grazie alla propria abilità, tramite lo sforzo creativo più importante per l’uomo, l’antropopoiesi, qui esemplificata alla lettera come trasformazione del proprio corpo. La metamorfosi a cui si assiste ricorda quella dello scrittore Casella: «[d]apprima fu solo una gran debolezza, ma poi notò, alla luce della finestrella, che la sua mano si faceva sempre più diafana, finché ne distinse le ossa, tenui anch’esse» (899)34. L’uscita dalla prigione riecheggia quella di Morandi, raccontata 40 anni prima ne I mnemagoghi: «nella prima luce dell’alba emerse nell’aria come una farfalla dalla pupa» (899). Come per Morandi, è la luce ad offrire sollievo dopo l’oppressione dell’oscurità35, vincolo momentaneo da cui liberarsi: se però Morandi rifiuta decisamente di entrare nel regno oscuro dello studio medico, spaventato di perdere la propria giovinezza e il proprio vigore36, Memnone non fugge, l’oscurità è sua compagna, Ecate, una metà di se stesso che egli accetta, al punto da fondersi corporalmente con essa.

In un arco immaginario che si estende per quarant’anni, marcando l’evoluzione della narrazione di Levi e il suo rapporto coi miti, si potrebbe affermare che MorandiEracle è il soccorritore di Montesanto-Prometeo ma non ha nessun centauro (Chirone) da offrire per redimere il vecchio, è in grado di assumere egli stesso il ruolo di creatura ibrida (I mnemagoghi, 1946, SN, OI 408). Casella prova ad essere quell’ibrido e si autocrea tramite l’arte, diventando creatura ambigena; il suo limite, però, è l’individualismo, egli tenta di fare tutto da e la sua fine è di svanire in luce e vento (Lavoro creativo e Nel parco, 1968-70, VF, OI 659 e 680)37. Tocca a Timoteo il compito di entrare nella dimensione sociale, di riconoscere l’importanza degli altri per la propria esistenza; il tentativo però fallisce, lo squallore del mondo in cui vive è un ostacolo allo strumento (lo Spemet) che egli offre per l’incontro fra due alterità (Il fabbricante di specchi, 1985, RS, OII 897). L’alchimista Memnone porta a compimento tale vicenda: dotato di conoscenze segrete e magiche, egli è in grado di compiere la mutazione da essere umano ad «angelica farfalla»38; è luce ed oscurità, spirito e carne, pensatore e abile artigiano capace di plasmare se stesso. La pazienza, la tenacia e la convinzione che gli derivano dall’attenzione a ciò che sensi e intelletto gli dicono lo portano al successo: egli sa di essere una creatura composita e complessa e, soprattutto, sa che non può controllare completamente ciò che è, sa che in lui alberga una parte che deve accettare come un mistero (1986, OII 900-01).

La tensione verso la comunione con l’altra parte di emerge in vari luoghi testuali e si arricchisce anche dell’evocazione di un’enciclopedia mitica: per la tradizione greca Memnone è figlio di Aurora, ed infatti nel racconto di Levi è «nella prima luce dell’alba» che l’alchimista entra nel mondo dopo essere fuggito dalla prigione (899). Ma l’elemento mitico più forte è la presenza di una donna-dea, Ecate, a cui Levi assegna in modo originale il ruolo di compagna di Memnone, mettendo in scena la convivenza di luce e oscurità39. Ma non è solo la sua compagna, è la personificazione di un’alterità che Memnone rispetta e che ritrova in se stesso. L’utilizzo di Ecate come controparte femminile in un racconto che tratta della tensione fra coppie di opposti è una conferma della stratificazione di senso che caratterizza il rapporto di Levi con il mito di Lilít. Vi sono infatti dei tratti convergenti fra Ecate e Lilít: primo fra tutti l’androginia attribuita alla dea greca da alcune tradizioni, ma anche altre caratteristiche più marginali come il fatto, ad esempio, che nella Bibbia Vulgata (Isaia 34:14) il nome Lilít è tradotto con Lamia, appellativo di divinità greche chiamate anche «figlie di Ecate» (Atsma, “Hecate”).

Gli aspetti di Ecate che interessano maggiormente il racconto in esame sono quello androgino, nonché il ruolo di mediatrice a lei attribuito, sia come Enodia (protettrice di porte, crocevia e delle aree liminali in genere), sia come medium tra mondo intelligibile e mondo sensibile40. Ecate e Memnone sono come Lilít e Adamo nel momento della creazione, due facce di una stessa entità in cui coesistono alla pari non solo femminile e maschile, oscurità e luce, ma anche corporeità e razionalità. Tuttavia, non è possibile istituire analogie univoche fra il mito di Ecate e il racconto leviano ma soltanto indicare delle suggestioni che nascono dal coinvolgimento della dea greca nella vicenda de Il passa-muri. In quest’ottica mi sembra significativo che vi sia una conoscenza condivisa tra i due personaggi – «fece un filtro, secondo un disegno che solo lui ed Ecate conoscevano» (899) – e anche il fatto che Memnone inizia la propria metamorfosi unendo mente e materia:

Spinse con la fronte, la sentì fondersi con la pietra, progredire lentissima, e nello stesso tempo fu invaso dalla nausea: era un turbamento doloroso, percepiva il sasso nel suo cervello e il cervello commisto al sasso. (899)

Una fusione in cui vi è l’incontro di luce e oscurità, «in un buio rotto da lampi inspiegabili» (899)41.

Oltre alle tracce delle versioni più antiche del mito di Ecate è da segnalare anche una somiglianza con un testo alchemico del XVI secolo, il Rosarium philosophorum, in cui le «nozze sacre»42 sono descritte come un processo di fusione corporea. L’unione di Memnone e Ecate, infatti, può essere intesa proprio come questo processo: «[s]trinse a la donna, e sentì il proprio confine diluirsi nel suo, le due pelli confluire e sciogliersi. Per un istante o per sempre?» (OII 900). L’interrogativo suggerisce che l’intensa esperienza dincontro con l’altro è possibile solo in una condizione in cui la parte conscia e razionale dell’individuo si attenua: la percezione corporea della coesistenza nello spazio di due alterità opposte porta Memnone a non comprendere la temporalità di tale unione, a non avere coscienza di ciò. «In un crepuscolo di consapevolezza tentò di staccarsi e di arretrare, ma le braccia di Ecate, troppo più forti delle sue, si rinserrarono» (900-01). Ecate è una parte di che non può controllare, dotata di una forza che non è sempre possibile contrastare. Ma in quel momento «[r]iprovò la vertigine che lo aveva invaso mentre migrava attraverso la pietra: non più fastidiosa adesso, ma deliziosa e mortale» (901). L’accettazione della necessaria coesistenza di due nature porta ad una sensazione ambigua, deliziosa ma anche mortale, non un ossimoro ma comunque una forma paradossale in tensione dinamica, una forma simbolica. In una situazione apparentemente incomprensibile in cui incoscienza e volontà si fondono non è più possibile distinguere fino a che punto si agisca consapevolmente: «Trascinò la donna con nella notte perpetua dell’impossibile» (901).

Nei racconti di Levi vi sono altri due esempi di processi di congiunzione che presentano forti tratti in comune con l’incontro di Ecate e Memnone. Sembra infatti che gli amplessi abbiano un potere enorme, forse proprio perché sono l’incontro fisico di due principi complementari. Così si legge in Erano fatti per stare insieme (1987, RS):

Si unirono infine, nell’oscurità e nel solenne silenzio della pianura, e furono una sola figura, delimitata da un unico contorno; e in quel magico istante, ma solo in un lampo subito svanito, balenò in entrambi l’intuizione di un mondo diverso, infinitamente più ricco e complesso, in cui la prigione dell’orizzonte era spezzata, vanificata da un cielo fulgido e concavo, e in cui i loro corpi, ombre senza spessore, fiorivano invece nuovi, solidi e pieni. Ma la visione superava il loro intendimento, e non durò che un attimo. (OII 867)

Plato e Surfa si uniscono in un’unica figura, esperendo una forma di esistenza nuova, qualcosa di diverso da ciò a cui erano abituati e che giudicano «più ricco e complesso», ma anche qualcosa che supera la loro possibilità di comprensione, una totalità relazionale che è maggiore della somma delle sue parti. È impossibile descrivere questa nuova forma nei termini di qualcos’altro, costruire un’argomentazione logica o una sequenza narrativa che la spieghino o illustrino; si può solo intuire, cercando una prospettiva che abbracci entrambi i punti di vista, ma questo tipo di comprensione non può durare che un attimo.

Analogamente, in Scacco al tempo (1986, RS) è ribadita la ricchezza emergente dall’incontro fra due alterità, ed è registrato come risultato sperimentale il valore etico (le «energie fattive» sono fondamentali per l’homo faber) derivante da una partecipazione intensa e prolungata a questo tipo di esperienza:

Esempio 6. G. G., di anni 27, laureato in lettere neustriane ma temporaneamente imbianchino. Trattato con malleato di rubidio il 25 luglio 1982. Durante il primo amplesso, lungamente desiderato, con la donna che amava, al sommo dell’orgasmo, è riuscito a porsi istantaneamente in condizione di paracronia, cioè a compiere su se stesso l’operazione che era riuscita così male a Faust. Riferisce di aver mantenuto l’esaltazione per un tempo che ha valutato in 36 ore, benché i suoi orgasmi normali non durino obiettivamente più di 5-7 secondi. Ne è uscito non soltanto riposato e lucido, ma pieno di energie fattive: attualmente si sta preparando all’ascensione in solitaria invernale della parete sud dell’Aconcagua. (OII 916)

Tutte queste unioni – eco dell’originaria comunione Adamo-Lilít, ma anche Dio-Shekhinah43 – sono la rappresentazione del processo dinamico che porta alla formazione di un simbolo. Il ruolo di Lilít nei racconti è sostanzialmente quello di ribadire l’esistenza di un’alterità irriducibile e di mettere in risalto la dinamicità di ogni relazione. Nei suoi tre aspetti di giovane, madre e vecchia – di individuo libero e ribelle, di coniuge che vive nella relazione, e di volontà sterile, vana e distruttrice – l’eco di Lilít si riverbera in molti dei personaggi femminili di Levi. Queste figure però non sono mai sole, il loro valore proattivo e simbolico in funzione dell’etica dell’autore emerge nelle relazioni che istituiscono con gli altri personaggi, nelle forme di dialogo che reclamano come un diritto e che danno buoni frutti; ma anche negli esempi negativi di dialoghi interrotti, di incontri insoddisfacenti o fallimentari. Le storie dei Golem mettono l’homo faber di fronte alla presenza dell’Altro, sottolineando la necessità di una prospettiva sociale ed ecologica che aiuti a valutare e orientare poiesi e antropopoiesi, le capacità dell’uomo di creare artefatti e modellare se stesso e il mondo. Le storie di Lilít, invece, si collegano a quelle prometeiche insistendo sul dialogo e l’incontro fra punti di vista, aspetti fondamentali di ogni costruzione di identità e di ogni etica. Non vi è una priorità logica o cronologica di Prometeo sul Golem e Lilít: i tre miti sono connessi da una complessa rete di relazioni in un’enciclopedia della creazione, un orizzonte fervido di immagini tramite le quali esplorare le possibilità d’azione e ribadire la responsabilità degli esseri umani nella costruzione di un nuovo mondo.

In una prospettiva etica che si riflette in tre miti diversi ma simili tra loro, dando origine a molteplici configurazioni narrative che raccontano vari aspetti di un universo morale in formazione, è lecito domandarsi se esista una figura mitica che possa dare coerenza al progetto etico leviano. L’inventio dell’autore trova nel centauro questa forma simbolica che fa convivere gli opposti, è però una questione dibattuta se tale creatura sia un simbolo totalizzante per Levi. Nella conclusione a questo lavoro contribuirò alla discussione cercando di capire se la figura del centauro possa effettivamente sintetizzare in sé le varie sfumature etiche esemplificate nei racconti.

1«Non la sai la storia di Lilít? Non la sapevo, e lui rise con indulgenza» (Lilít, 1979, L, OII 20).

2Tale aspetto “luminoso” di Lilít è dovuto alla dottrina mistica per cui il male ha un’origine trascendente; in questo caso, Lilít è una manifestazione del male, il quale ha origine come emanazione divina, ossia «l’elemento demoniaco scaturisce da una qualche parte della Divinità stessa» (Scholem, “La dottrina teosofica dello Zòhar” 244).

3Nel suo lavoro sulla cultura ebraica piemontese, Alberto Cavaglion afferma che a Torino non è documentato un interesse pubblico per la cabbala e il misticismo, ma non possiamo escludere che Levi abbia intrapreso autonomamente questo tipo di letture (Notizie su Argon 57–58).

4Per tutto il paragrafo, cfr. Amsallem (131–38).

5Analogamente, i frutti della creazione mistica sono saggezza e sapienza, la realizzazione materiale è solo un medium (cfr. Idel). Cfr. il racconto Protezione in cui Marta prova una profonda tristezza per il fatto di vivere in un mondo in cui la libertà e il valore del corpo e del contatto fisico sono repressi da una «legge così assurda» (1968-70, VF, OI 575).

6Nel racconto di Levi sono riportate anche le leggende in cui Lilít ha queste caratteristiche (OII 21-22).

7Charlotte Ross sottolinea giustamente come tale scena renda evidente una prospettiva non solo maschile ma anche maschilista, per cui la donna è vista principalmente come oggetto del desiderio e ogni suo gesto è interpretato da Levi come una forma di seduzione (57).

8L’accostamento del mito di Lilít e di quello del Golem è presente in modo implicito anche nella poesia di Levi (OII 543), in cui la diavolessa è descritta come una creatura umana solo dalla cintura in su, mentre al di sotto ha una forma indistinta, proprio come il Golem de Il servo (OI 713). Inoltre, sono d’accordo con Daniela Amsallem, la quale propone anche una vicinanza con la figura del centauro (141).

9Un’importanza analoga a quella del mito di Ulisse in un famoso episodio di Se questo è un uomo (1946, OI 108-11). Sull’inutilità nel lager, cfr. I sommersi e i salvati (1986, OII 1073-90).

10Tischler si sofferma però sulla separazione della coppia originaria Dio-Shekhinah (cfr. infra, par. 2.3).

11Cfr. la prefazione a La ricerca delle radici: «Tutti o quasi i brani che ho scelto contengono o sottintendono una tensione. Tutti o quasi risentono delle opposizioni fondamentali inscritte “d’ufficio” nel destino di ogni uomo cosciente: errore/verità, riso/pianto, senno/follia, speranza/disperazione, vittoria/sconfitta» (1981, OII 1365); cfr. anche la riflessione sulla «schisi» fra letteratura e scienza, nella Premessa a L’altrui mestiere (1985, OII 631-32), o la rappresentazione della tensione tra servo e padrone ne Il servo (supra, cap. 4, par. 3.3).

12Dal greco dia-ballein, «separare»; cfr. Scholem, “La dottrina teosofica dello Zòhar” 242-45; cfr. anche Franzini, I simboli e l’invisibile.

13«[I] cabalisti dicevano che anche per Dio stesso non era bene essere solo, ed allora, fin dagli inizi, si era preso per compagna la Shekinà, cioè la sua stessa presenza nel Creato; così la Shekinà è diventata la moglie di Dio, e quindi la madre di tutti i popoli. Quando il Tempio di Gerusalemme è stato distrutto dai Romani, e noi siamo stati dispersi e fatti schiavi, la Shekinà è andata in collera, si è distaccata da Dio ed è venuta con noi nell’esilio. Ti dirò che questo qualche volta l’ho pensato anch’io, che anche la Shekinà si sia fatta schiava, e sta qui intorno a noi, in questo esilio dentro l’esilio, in questa casa del fango e del dolore» (OII 22); Daniela Amsallem accosta la condizione di esilio nel lager al concetto di hester panim, eclissi di Dio, di Martin Buber (136; cfr. Buber, L’Eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia 141).

14Un comportamento analogo a quello esemplificato ne Il servo dal rapporto schismogenetico tra il rabbino Arié e il Golem: l’autorità sorda alle ragioni altrui si rivela diabolica e porta alla distruzione (cfr. supra, cap. 4, par. 3.3). Cfr. «Le forze divine nel loro insieme formano un tutto armonico, e ognuna di queste forze o qualità è santa e buona finché resta unita alle altre, e in un vivo rapporto con esse. Ciò vale innanzitutto per la qualità della giustizia in senso stretto, per il giudizio, e per la severità – in Dio e da Dio – che è la causa più profonda del male. La collera di Dio sta, come la sua mano sinistra, in intimo rapporto con la qualità della grazia e dell’amore – la sua mano destra. L’una non può manifestarsi facendo a meno dell’altra. Questa Sefirà della severità è quindi il grande “fuoco dell’ira” che avvampa in Dio, ma è continuamente addolcito e frenato dalla grazia. Se però in uno sviluppo abnorme, ipertrofico, erompe all’esterno, e infrange la sua unione con la grazia, allora sfugge con violenza al mondo della divinità, e diventa male radicale, il mondo di Satana opposto a quello divino» (Scholem, “La dottrina teosofica dello Zòhar” 243). Mi sembra una posizione non distante dall’etica laica di Primo Levi, fondata sulle «virtù dell’uomo normale» (Gordon) e sulla ragionevolezza più che su una ratio assoluta, ragione e misura universalmente valida; ed anche vicina ad una delle ipotesi di fondo del presente lavoro, ossia una concezione positiva e creatrice dei simboli impiegati ed evocati da Levi, luoghi di dialogo costruttivo tra istanze opposte.

15«Ma mi resta da raccontarti la storia più strana, e non è strano che sia strana, perché è scritta nei libri dei cabalisti, e questi erano gente senza paura» (OII 22).

16Cfr. «La difficoltà di contenere in una breve formula la concezione del male dello Zòhar sta nel fatto che esso vi appare sotto aspetti del tutto contraddittori. A volte il male è realmente un metafisico mondo dell’oscurità, del tentatore e della tentazione, già pronto ed esistente del tutto indipendentemente dal peccato umano e dalle azioni dell’uomo; altre volte sembra che solo nel momento del peccato dell’uomo esso sia divenuto realmente libero e indipendente, in quanto il peccato ha infranto la sua unione col mondo divino; e così esso sarebbe stato isolato e attualizzato solo dall’uomo. In effetti secondo l’autore dello Zòhar, il male morale rappresenta sempre o ciò che è stato staccato violentemente da una unione, e così isolato, o ciò che entra in una relazione che non gli è appropriata. Il peccato separa ciò che è unito […]» (Scholem, “La dottrina teosofica dello Zòhar” 242-43). Acquisire una comprensione del testo cabalistico come quella esemplificata nel racconto di Levi non è cosa da poco: o Tischler era un intellettuale, come intuito da molti nel lager (OII 18), e studioso della cabala, oppure tali nozioni sono state interpolate da Levi stesso nella scrittura del racconto. La seconda opzione renderebbe ancora più interessante un’indagine sulla conoscenza che Levi aveva dell’ebraismo in tutte le sue forme, una conoscenza che l’autore ha sempre ritenuto modesta.

17Nel racconto Versamina viene definito «controcane» l’animale i cui istinti sono invertiti chimicamente portandolo a comportamenti autodistruttivi (1965, SN, OI 472).

18Nel Talmud di Babilonia (Baba Bathra 73a) Lilít è madre di un demone di nome Hormin, identificato a volte con Ahriman (“Lilith”, Jewish Encyclopedia [1906]), altre volte con Ormuz (“Lilith”, Encyclopaedia Judaica [1972]). Qualora Levi conoscesse queste fonti, il racconto e la poesia per cui esse potrebbero essere rilevanti sono stati scritti prima del 1972, rendendo plausibile un’eventuale influenza solo della prima delle due interpretazioni. Il tema della corporeità è importante anche per il racconto Il sesto giorno, in cui compaiono entrambi i demoni, anche se in quel contesto la situazione è rovesciata, essendo Ormuz ad avere la parte di avatar della ragione disincarnata, mentre Ahriman (figlio di Lilít?) è un sostenitore dell’importanza del corpo (cfr. supra, cap. 2, par. 5.2).

19Ciò che qui chiamo loop è analogo a ciò che Hegel chiama «cattiva infinità», un prodotto dell’intelletto astraente che non è capace di comprendere la trama dinamica e complessa della realtà; ma il paragone con la filosofia di Hegel va interrotto qui, non mi sembra che la soluzione proposta da Levi sia comparabile alla hegeliana sintesi dialettica (cfr. Logica e metafisica di Jena (1804-1805) 140).

20In cibernetica il procedimento metalogico di uscita da un loop è chiamato bootstrapping, “tirarsi su per le stringhe” (cfr. Wiener, Cybernetics), come fece il barone di Münchhausen tirandosi per il codino fuori da una palude in cui era caduto (Raspe). Sullo sguardo altrui come condizione necessaria nella costruzione di un’etica, cfr. il cap.Lo sguardo” in Gordon.

21Sono eccezioni i casi in cui personaggi femminili sono subordinati perché hanno una funzione scenica ben precisa, come per esempio Lotte, in La bella addormentata nel frigo (1952, SN, OI 477-94), o la segretaria ne Il versificatore (caso in cui la prospettiva dialogica non è assente ma declinata nella versione uomo-macchina, grazie alla presenza di un’alterità tecnologica con un notevole livello di autonomia decisionale; 1960, SN, OI 413-33).

22Cfr. «Les points de vue imposent sans en avoir l’air des interprétations, et cela d’autant plus efficacement que cette imposition se produit sous le masque de la plus grande libéralité, comme si des perceptions étaient objectives (alors qu’elles renvoient à une origine particulière), comme si les évènements s’étaient ainsi passés, alors qu’ils renvoient à la perspective d’un des acteurs partie prenante de l’action, comme si les choses étaient ainsi alors que leur dé-coupage, leur dénomination sont tributaires d’une axiologie, d’une orientation argumentative qui entend échapper à toute discussion» (Rabatel 112-13). Tenendo conto di questa prospettiva assiologica non credo sia casuale il fatto che il narratore faccia riferimento a sé e alla propria famiglia in termini modesti – «questa nostra umiltà e docilità», «i nostri quattro palmi di terra» (OI 718) – tentando di presentarsi come un osservatore affidabile.

23Credo che questo sia un esempio di come l’importanza data da Levi all’attività manuale e all’esperienza corporea sia da interpretare non solo in termini gnoseologici bensì anche in termini etici, come possibile via per costruire relazioni (cfr. il cap. “Amicizia” in Gordon).

24Un’ipocrisia analoga ha un ruolo più di rilievo nel racconto Breve sogno (1976, L, OII 200-05). Ma già Gilberto, in Alcune applicazioni del mimete (1964, SN), nonostante il suo spirito intraprendente, si dimostra incapace di dialogare alla pari con una donna e si comporta in modo meschino nello sfruttare subdolamente la propria moglie: «Gli chiesi se non gli era venuto in mente di consigliarsi con Emma, di chiedere il suo benestare, prima di disporre di lei in un modo così inusitato. Divenne rosso fino ai capelli: aveva fatto di peggio, il sonno profondo di Emma era stato provocato, le aveva somministrato un sonnifero» (OI 462).

25«Umberto, sebbene non invitato, sedette anche lui» (OII 178).

26Sulla diversità fra allegoria e simbolo cfr. supra, cap. 1, par. 3.

27Quello del dimorfismo sessuale è un espediente utilizzato anche nel racconto Le fans di spot di Delta Cep. (1986, OII 1297-1300).

28«Ma tutto è vano in lei: ogni sua voglia» (Lilít, AOI, OII 543). Cfr. Qohèlet: la traduzione di Guido Ceronetti, ad esempio, riporta a seconda del contesto: «soffio caldo», «vapore», «fumo», «alito», «nulla», «polvere», «vento».

29È proprio una volontà esterna al corpo del Golem (gli ordini del rabbino-padrone) a provocare la «ridda senza scopo» in cui esso cade (Il servo, 1968-70, VF, OI 716-17).

30Una strategia retorica simile è utilizzata anche in Disfilassi (1978, L, OII 97-99) e Quaestio de centauris (1961, SN, OI 506-07) (cfr. infra, cap. 6, par. 2.1 e 3).

31È questa una situazione diversa da quella de La ragazza del libro, in cui si giunge ad una situazione in cui due prospettive si oppongono senza trovare punti d’incontro (1980, L, OII 175-79).

32Tischler per parlare della creatura androgina Adamo-Lilít usa la locuzione «figura con due schiene» (Lilít, 1979, L, OII 21). Cfr. anche due autori molto amati da Levi: «In età virile [Grangola] sposò Gargamella, figlia del re dei Parpaglioni, bel tocco di manigolda, e loro due d’accordo facevano spesso la bestia a due schiene sfregolandosi il lardo allegramente, così che lei rimase ingravidata di un bel fantlino che portò all’undecimo mese» (Rabelais, libro I, cap. III); «Iago: I am one, sir, that comes to tell you your daughter and the Moor are now making the beast with two backs» (Shakespeare, Othello, atto 1, scena 1).

33Cfr. «i fisici esitanti sull’orlo dell’inconoscibile» (Premessa, 1985, AM, OII 632). Sull’interesse di Levi per le scienze della complessità cfr. Mattioda, Primo Levi e Pianzola.

34Cfr. «Antonio notò un fatto sorprendente. Quando casualmente levava le mani contro il sole, o anche contro una lampada forte, la luce le attraversava come se fossero di cera; poco dopo osservò che si svegliava più presto dell’usato al mattino, e si accorse che ciò avveniva perché anche le palpebre erano più trasparenti; anzi, entro pochi giorni divennero trasparenti in misura tale che Antonio distingueva i contorni degli oggetti anche ad occhi chiusi. Lì per lì non diede peso alla cosa, ma verso la fine di maggio notò che l’intera scatola cranica si stava facendo diafana. […] Percepiva ormai la luce da qualunque direzione provenisse […]. sedette sotto una quercia ad attendere che la sua carne e il suo spirito si risolvessero in luce e in vento» (Nel parco, 1968-70, VF, OI 680). Mentre la metamorfosi di Memnone è intenzionale e ottenuta con fatica, quella di Casella è subita involontariamente, indice della sua scomparsa dalla memoria dei posteri.

35Morandi «si precipitò giù dalle scale e fuori nel sole. […] Poi si sdraiò sull’erba, con gli occhi chiusi, a contemplare il bagliore rosso del sole attraverso le palpebre. Allora si sentì come lavato a nuovo» (I mnemagoghi, 1946, SN, OI 408).

36Il numero di negazioni che si accumulano in poche righe è sorprendente, quasi a sottolineare l’angoscia per la possibilità di rimanere incatenato in solitudine in quel paese deserto e la volontà di reprimerla tacendo: «No, non occorreva fuggire, lui non sarebbe diventato così, non si sarebbe lasciato diventare così. Non ne avrebbe parlato con nessuno. Neppure con Lucia, neppure con Giovanni. Non sarebbe stato generoso» (OI 408, corsivi miei).

37Si noti l’eco del mito di Lilít, nel suo aspetto negativo, e di Qohèlet: la solitudine di Casella, come quella di Lilít nel rubare il seme altrui per procreare, non porta a nessun risultato duraturo, è uno sforzo vano che si risolve in vento, hevel.

38Potrebbe non essere casuale che la sua liberazione venga proprio descritta in questi termini: «nella prima luce dell’alba emerse nell’aria come una farfalla dalla pupa» (OII 899).

39Ecate è una divinità che accompagna le anime nel regno dei morti, ma alcuni testi antichi associano a lei anche un aspetto luminoso (cfr. Astori). Inoltre, Ecate è una dea triplice, rappresentata come giovane, madre e vecchia, e così la descrive anche Levi, in un ordine cronologico rovesciato che segue l’esperienza di Memnone: «Trovò Ecate. Lo aveva atteso ma era una vecchia; […] Ecate porse cibo a Memnone giacente. […] ne esplorò la pelle: era rimasta giovane, la sentì morbida, tesa e profumata» (OII 900). Letture sicuramente note a Levi in cui è citata Ecate sono: la Teogonia di Esiodo (vv. 404-52), Sogno di una notte di mezz’estate («And we fairies, that do run / By the triple Hecate’s team, / From the presence of the sun»; atto 5, scena 1, vv. 383-85), e Macbeth (atto 3, scena 5), in cui Ecate, dea notturna, è la regina di tutte le streghe, «un essere spettrale […] che insegn[a] stregoneria e magia» (Atsma, “Hecate”).

40Nel contesto del neoplatonismo «ad Ecate si attribuisce il potere vitale su tutti gli elementi: essa è il ventre del cosmo. […] mediatrice per eccellenza di tutti i processi vitali» (Astori).

41Cfr. l’interesse con cui Levi in un articolo commenta le osservazioni di uno scienziato olandese: «Visto attraverso le lenti di Houwink, il nostro corpo acquista tratti surreali, ora etere ora creta» (Il libro dei dati strani, 1980, AM, OII 722-23).

42Le nozze sacre (coniunctio) sono una parte della Grande Opera (opus alchemicum), ossia la «Bestia a Due Dossi» che Levi cita in Mercurio (OI 829) (cfr. Jung).

43«Nell’unione di Dio con la Shekinà è raggiunta la vera unità dinamica di Dio, al di là della molteplicità dei suoi diversi aspetti, yichùd, come i cabbalisti la chiamano» (Scholem, “La dottrina teosofica dello Zòhar” 238).