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2 Miti e creazione

In una notte come questa un poeta

Tende l’arco a cercare una parola

Che racchiuda la forza del tifone

Ed i segreti del sangue e del seme.

(Agenda, 1984, OII 613)

 

1. Letteratura e miti

Al contrario di molti altri scrittori italiani del XX secolo, nelle opere di Levi sono rare le riflessioni esplicite sul valore e la funzione dei miti e, quando compaiono, fanno quasi sempre riferimento all’accezione peggiorativa del termine, al mito come ideologia o illusione.1 Talvolta, però, compare in toni positivi un termine semanticamente affine: «favola». Levi riconosce la forza espressiva e comunicativa di tale modalità narrativa e ne è affascinato, tanto da volere che uno dei suoi racconti sia «come una favola che ridesti echi, ed in cui ciascuno ravvisi lontani modelli propri e del genere umano» (Una stella tranquilla, 1978, L, OII 78). La motivazione di tale proposito si deve anche all’influenza di Cesare Pavese, autore che Levi cita esplicitamente ne La ricerca delle radici: «come dice Pavese nell’introduzione alla sua esemplare traduzione [di Moby Dick], “la ricchezza di una favola sta nella capacità ch’essa possiede di simboleggiare il massimo numero di esperienze”» (Il pozzo buio dell’animo umano, 1985, RR, OII 1452)2. Non sorprende che tale posizione sia molto affine anche alle convinzioni di un altro autore einaudiano con cui Levi ha lavorato e discusso, Italo Calvino, secondo il quale «la fabulazione precede la mitopoiesi: il valore mitico è qualcosa che si finisce per incontrare solo continuando ostinatamente a giocare con le funzioni narrative» (“Cibernetica e fantasmi” 222).

Nonostante tali punti di incontro, vi sono però differenze notevoli fra i tre autori: se in Pavese vi è una ricerca di strategie espressive al servizio del mito, per riproporre ai lettori contemporanei quell’origine irraggiungibile che genera gli schemi dell’immaginazione affettiva (Van den Bossche, “Cesare Pavese. Leucò vicino e lontano”), Levi e Calvino, invece, si rivolgono alle «funzioni narrative» del mito: fiabe, favole e racconti mitici sono strumenti di una riflessione che muove da fonti eterogenee, da una «intuizione puntiforme» (1966, SN, OII 1434) o da «un enunciato tratto da un discorso scientifico» (Calvino, “Visibilità” 89). Pavese propone una riflessione sul mito come universale antropologico che ha «un valore assoluto di norma immobile» (“Del mito, del simbolo e d’altro” 127), quasi seguendo un processo deduttivo che a partire da tale «unicità assoluta» esplora la polivalenza e la molteplicità di senso dei miti (Van den Bossche, “Cesare Pavese. Leucò vicino e lontano” 346-47). Anche l’elaborazione narrativa di Calvino procede per deduzione, ma partendo dal dato materiale (Antonello, “Cibernetica e fantasmi. Italo Calvino fra mito e numero” 197); «Levi opera invece induttivamente, enucleando quello che il fare pratico del singolo individuo può apportare in termini di conoscenza, di saggezza, di “felicità terrena”» (“La materia, la mano, l’esperimento” 106-07). Nonostante tale differenza, il rapporto coi miti si configura in modo analogo per Levi e Calvino, ossia come procedimento di abduzione3, un processo in cui l’organizzazione retorica del racconto suggerisce che il mito può essere uno dei possibili linguaggi per esplorare il mondo contemporaneo. Resta inteso che entrambi gli autori riconoscono comunque la precipua forza espressiva dei miti, ma il riferimento può essere anche di tipo enciclopedico, suggerimento di un’ipotesi regolativa dell’interpretazione che incrementa la ricchezza semiotica del discorso4.

Nei racconti di Levi il valore dei miti non è al centro di un programma poetico, è piuttosto la presunta familiarità del lettore con i miti a motivare il riferimento intertestuale. La forza simbolica dei miti è affermata dalla narrazione solamente in modo complementare, per il fatto che essi sono un efficace repertorio di rappresentazioni, modalità espressive e modelli analogici (Van den Bossche, Il mito nella letteratura italiana del Novecento: trasformazioni e elaborazioni 35-36). A tale proposito, è riscontrabile una ulteriore affinità con la posizione di Calvino, secondo il quale:

un approccio ‘mitologico’ alla storia della scienza e della cultura mi pare il più giusto e necessario. […] La conoscenza procede sempre attraverso modelli, analogie, immagini simboliche, che fino a un certo punto servono a comprendere, e poi sono messe da parte, per ricorrere ad altri modelli, altre immagini, altri miti. C’è sempre un momento in cui un mito che funziona veramente esplica la sua piena forza conoscitiva. La cosa straordinaria è come a distanza di secoli una concezione scartata come mitica si ripresenta come feconda a un nuovo livello delle conoscenze, assumendo un nuovo significato in un nuovo contesto. (Saggi 1945-85 531)

Nonostante le opinioni del chimico-scrittore siano simpatetiche con quella del figlio di biologi appassionato di logica combinatoria, vi sono tuttavia delle differenze importanti: Calvino è decisamente programmatico nella sua riflessione sul mito e nella volontà di tradurre tali considerazioni critiche in una poetica che faccia incontrare scienza e mito; al contrario, Levi non aspira ad avere poetiche o manifesti letterari definiti. E forse anche questo è uno degli indici della distanza dal mondo letterario percepita da Levi: «troppo chimico, e chimico per troppo tempo, per sentirmi un autentico uomo di lettere» (1985, AM, OII 631). Più di ogni altra cosa egli ama sperimentare con gli elementi a sua disposizione, con atteggiamento indagatore e diffidente verso ogni previsione o profezia, perché:

[è] già difficile per il chimico antivedere, all’infuori dell’esperienza, l’interazione fra due molecole semplici; del tutto impossibile predire cosa avverrà all’incontro di due molecole moderatamente complesse. Che predire sull’incontro di due esseri umani? O delle reazioni di un individuo davanti a una situazione nuova? Nulla: nulla di sicuro, nulla di probabile, nulla di onesto. (1978, CS, OI 1093)

A volte sono le molecole dei miti ad essere adatte alle trasformazioni della chimica narrativa, altre volte sono le molecole della zoologia, oppure quelle del lavoro di un montatore. Se Levi ha un programma poetico esso è quello della comunicabilità5, e in tale ottica il ricorso al mito può essere inteso come una tecnica (téchne ma anche sophisma6) efficace per comunicare con i lettori.

Coerentemente con tale scelta comunicativa, i miti evocati da Levi con più frequenza sono molto noti o comunque presentano un primo livello di comprensibilità facilmente accessibile a tutti i lettori. Si incontrano infatti i racconti biblici della creazione e della torre di Babele, il mito di Prometeo e la figura del centauro. Qualora subentri il dubbio che il lettore possa non conoscere il riferimento, spesso nella narrazione vengono illustrati origine e tema principale della tradizione: ad esempio, è così per il mito di Lilít (Lilít, L, OII 18-23) e per la leggenda ebraica del Golem (Il servo, VF, OI 710). Inoltre, è notevole che sia solamente il rapporto con i miti meno conosciuti a poter essere concepito in termini di palese riscrittura ed «elaborazione» delle narrazioni tradizionali, proprio perché tale ripresa esplicita del mito si rivela funzionale per creare ed articolare meglio quell’enciclopedia che è in grado di garantire una maggiore ricchezza di senso al racconto. In tutti gli altri casi si hanno prevalentemente fenomeni di «trasformazione» dei miti7. E nella trasformazione non si hanno esplicite attualizzazioni storiche dei miti, piuttosto il mito è un linguaggio a cui ricorrere per sancire l’incontro tra l’uomo e il mondo in cui vive (il contesto storico, sociale, culturale, tecnologico, ecc.), un incontro che avviene tramite il racconto di vicende che apparentemente non hanno nulla di mitico, anzi, spesso legate ad una dimensione pragmatica e di quotidiane storie individuali8.

In una prospettiva che metta in relazione le trasformazioni di miti con un più ampio contesto letterario, culturale e storico, la presenza di elementi mitici può essere anche interpretata come una reazione alla strumentalizzazione e tecnicizzazione dei miti di cui si sono visti numerosi esempi nella storia del Novecento. Il più evidente fra tutti è senz’altro l’uso politico dei miti greco-romani e germanici da parte del Fascismo e del Nazismo. Al contrario, l’organizzazione retorica dei racconti leviani svincola i miti dalla servitù ad un programma ideologico, restituendo ad essi la condizione di libertà che è necessaria affinché se ne possano cogliere la densità semiotica e la forza simbolica.

Per cogliere meglio tale diversità è possibile seguire Hans Blumenberg, il quale insiste sulla produttività storica del mito, inteso come «una produzione dinamica di forme concrete di “significatività”, in cui intervengono anche operazioni del logos, come una rappresentazione sempre già trasformata, selezionata, contestualizzata e storicizzata» (69). In quest’ottica, i vari processi di trasformazione «valgono come altrettante istanze di elaborazione del mito, dato che ne esplorano le possibili ramificazioni e ne garantiscono la produttività storica» (69). Nel caso in questione, l’utilizzo da parte di Levi di figure mitiche celebrate e sfruttate dalla retorica fascista (cfr. Druker, “The Shadowed Violence of Culture”; Primo Levi and Humanism after Auschwitz 40-49), in particolare del mito di Prometeo e della figura del centauro, sarebbe un esempio di come lo stesso discorso mitico si presti a differenti ramificazioni e produzioni di senso. Una prospettiva storica permette di leggere i racconti di Levi come processi di risemantizzazione “positiva” di temi e figure già ideologizzati e politicizzati.

Ricollegandomi a quanto detto nel capitolo 1, la cifra del rapporto di Levi con i miti può essere individuata in un processo di “trasformazione responsabile”: ai miti è riconosciuto un indubbio valore epistemologico senza però attribuire ad essi nessun privilegio nella proposizione di un discorso etico e antropologico. I miti sono utilizzati come risorse retoriche al pari di altre fonti – la scienza, il lavoro, la natura, l’universo concentrazionario – da cui attingere temi, figure, stilemi, euristiche, registri discorsivi, forme di enunciazione e tecniche narrative (cfr. Porro, “Scienza”). La critica ha finora messo in luce importanti aspetti della retorica grazie alla quale Levi costruisce il proprio discorso etico, ma senza dare spazio sufficiente al ruolo giocato dai miti in tale discorso. Nel resto del presente capitolo cercherò dunque di articolare un percorso che valuti la specificità delle risorse mitiche e analizzi gli usi che Levi ne fa, per poi approfondire nei capitoli seguenti alcune delle figure mitiche più ricorrenti.

 

2. Primo Levi e i miti

2.1 Forme e funzioni

Il rapporto tra la narrativa di Primo Levi e il mito è un tema che è stato affrontato da diversi critici, rivelandosi un campo di indagine estremamente proficuo per mettere in luce aspetti importanti della scrittura dell’autore. Le differenti prospettive adottate e la scelta, più o meno ristretta, dei fenomeni narrativi e poetici presi in considerazione hanno portato a risultati molto vari; tuttavia, nonostante questa eterogeneità metodologica, si può notare un’insistenza quasi esclusiva sugli aspetti del mito che sono più espliciti (cfr. Amsallem; Linari; Hagen; Moudarres). In particolare, è stata messa in rilievo l’importanza rivestita da temi mitici quali la creazione, la torre di Babele, Prometeo, Ulisse e la figura del centauro. Questi miti, infatti, oltre ad avere un’importanza antropologica in senso lato, hanno anche un valore specifico per il sistema etico di Levi e per la sua retorica. In altri termini, il mito nei suoi vari aspetti è una forma che svolge funzioni discorsive differenti: può riguardare comportamenti e valori umani generali ma anche essere al servizio di una riflessione su condizioni di vita storicizzate e contingente. Ad esempio, in Se questo è un uomo il mito biblico della torre di Babele viene trasformato per essere integrato con elementi specifici del campo di concentramento: l’immagine della torre

rather than representing the unification of human will in a collective brotherhood, it iscemented by hate; hate and discord[1946, SQU, OI 68]. In contrast to the Bible, where the Tower is built throughone languageand destroyed through that languages confusion, in the Buna Towerfifteen to twenty languages are spoken” [67], and theconfusion of languages is a fundamental component” [32]. Whereas in the Bible, the Tower is built tomake… a namethat will reinforce unity and so prevent its builders from beingscattered abroad the face of the earth(Genesis 11:5), in the Buna, the scattered are forcefully concentrated, and the internal divisiveness is so overpowering that even the very name of the tower varies []. (HaKarmi 33)

Il rapporto di Levi con i miti si configura come un complesso sistema di relazioni che coinvolge diversi aspetti, un’enciclopedia (Eco, Lector in fabula): non si esaurisce nel recupero di eroi, creature e ambientazioni, è senza dubbio un rapporto articolato su più livelli del discorso e che può variare da racconto a racconto. Adottando i concetti di alcuni importanti studi sui miti, in tale sistema è possibile individuare tre istanze fondamentali, tre insiemi le cui intersezioni rappresentano le possibilità di base di ogni rapporto tra i racconti di Levi e i miti. Tali istanze sono: mitologema9, narrazione mitica10 e narrazione leviana.

Una rappresentazione di questo tipo può essere utile per comprendere come queste tre istanze interagiscano tra di loro in vari modi, tenendo presente che la qualità principale del sistema è che non vi sono forme o contenuti che vincolino le relazioni reciproche fra i tre insiemi.

2.2 Narrazione di Levi e narrazione mitica

A titolo di esempio, si pensi ad un racconto che rielabori il mito biblico della creazione dell’uomo (Il sesto giorno, 1957, SN, OI 529-47): esso istituisce relazioni dinamiche che possono riguardare non solo (i) la vicenda del racconto biblico, ma anche (ii) lo stile adottato in Genesi, (iii) il fatto che tale narrazione ha un valore sacro per ebrei e cristiani, e (iv) l’essere una storia della tradizione culturale cui Levi appartiene. Lo spazio di intersezione tra il racconto mitico e il racconto leviano, dunque, risulta estremamente denso poiché le istanze bibliche cui Levi può attingere come possibili forme da elaborare riguardano l’intero campo del mito, ogni forma (i, ii) e funzione (iii, iv), dalla figura sintattica più ristretta alla più ampia concezione di insegnamento morale legata ad una specifica tradizione culturale o religiosa.

Inoltre, alla densità data dagli elementi condivisi dai due insiemi si somma la varietà delle funzioni retoriche che la presenza del mito può assumere nella narrazione di Levi. L’autore può fare appello alla solennità e all’autorevolezza del mito, ma può anche ironizzare, parodiarlo e renderlo comico. Può inserire creature mitologiche nei propri racconti, attribuendo loro di volta in volta valori diversi e talvolta contrastanti; e può far interagire forme della narrazione mitica con forme di generi e modi letterari differenti, come per esempio il fantastico e la fantascienza. Le realizzazioni di queste possibilità sono molteplici e commentando i vari racconti ne prenderò in esame alcune, ma terrò anche in considerazione i mitologemi e i loro rapporti con i racconti leviani.

2.3 Narrazione di Levi e mitologemi

La presenza di elementi mitici nei racconti di Levi è inevitabilmente anche un’apertura verso il mitologema elaborato nel mito. Nell’esempio preso in considerazione, attraverso l’utilizzo di elementi di Genesi si istituisce una relazione con il mitologema della creazione. La narrazione mitica è un ponte sicuro e immediato che conduce ai temi dell’origine e della natura dell’uomo, un indice che segnala la connessione del racconto con questioni antropologiche.

Il mito però non è la sola via di accesso al mitologema: in alcuni racconti di Levi sono individuabili nuclei tematici che possono essere direttamente ricondotti a mitologemi. In particolare, vi sono molte occorrenze dei mitologemi della creazione, dell’uomo scisso tra due polarità e dell’uomo artefice11 (Kerényi). La mia ipotesi è che le modalità con cui vicende, personaggi, relazioni, oggetti, ecc. sono organizzati e configurati nei racconti di Levi talvolta siano analoghe a quelle peculiari dei miti. Ciò non toglie che in essi l’autore possa servirsi di strategie retoriche e tecniche narrative non disponibili ai trascrittori di miti antichi (Calame, Poétique des mythes en Grèce antique)12. In altre parole, vi sono racconti leviani che elaborano dei mitologemi indipendentemente dal loro legame con narrazioni mitiche o con altre elaborazioni storicamente antecedenti.

A questo proposito, credo che alcune osservazioni di Robert Gordon possano essere avvicinate al modello di lettura che sto proponendo. Egli suggerisce, infatti, che i racconti di Storie naturali affrontino tutti la questione dell’invenzione, articolando il tema in modi diversi e soffermandosi su aspetti differenti: creazione, scoperta scientifica, adattamenti di varia natura (164). Parafrasando, si potrebbe dire che le Storie naturali siano elaborazioni narrative del mitologema della creazione. Constatare ciò significa riconoscere una relazione tra i racconti di Levi e il mitologema che non implica necessariamente la mediazione di altri miti (biblico, greco-romano, ecc.)13.

All’interno di un’enciclopedia mitica, dunque, un racconto può istituire relazioni con altri elementi secondo due direttive: utilizzando forme e/o funzioni di una narrazione mitica, oppure elaborando formalmente un mitologema. Per valutare meglio le relazioni fra le tre istanze può essere utile fare riferimento ad alcune considerazioni sulle forme e funzioni peculiari dei miti.

 

2.4 Modelli del mito

Alcune indicazioni sulla questione possono essere tratte da studi di antropologia e storia delle religioni, i quali hanno individuato gli elementi costitutivi del mito in un insieme di condizioni semantiche e pragmatiche. Per quanto riguarda la forma, secondo Kerényi l’effetto profondo del mito è dovuto alla «struttura drammatica» del mitologema, al paradosso di ciò che narra, cioè la coincidenza di elementi opposti che si rivela in forma condensata in un unico elemento, sia esso una creatura, un oggetto, un avvenimento naturale o un luogo. E la differenza dei miti rispetto a favole o leggende sta nell’assenza di una giustificazione razionale o pseudo-razionale a tale compresenza degli opposti.

Paula Philippson espone un’idea analoga in termini differenti, affermando che «quale kosmos symbolikos […] il “nostro” cosmo può essere colto nella sua verità simbolica […] per mezzo del mito» (13). In tale accezione più generale, il paradosso di cui parla Kerényi è «un incontro (συμβάλλεσθαι) tra essere e divenire, quando l’essere divino e invisibile irrompe nel cosmo cronico e visibile» (13; cfr. Cacciari) e «il kosmos symbolikos, cioè l’ordinamento sorto dall’incontro dell’essere con il divenire, si contempla per mezzo del mito» (Philippson 11). Gli aspetti inconciliabili dell’essere (aión) e del divenire (chrónos) trovano una forma di espressione nel mito, il quale è concepibile quindi come una formazione di compromesso che è in grado di esprimere il divenire storico di forze e eventi considerati astorici e archetipi, i mitologemi.

Philippson riassume il suo modello interpretativo come segue:

L’incontro dell’essere col kosmos chronikos (un ordine formatosi per mezzo del divenire numericamente ordinato) produce un kosmos symbolikos.

La forma di tempo appartenente al kosmos symbolikos è il chronos symbolikos.

La forma di conoscenza contemplativa appartenente al kosmos symbolikos è il mito. (11)

Sia il modello di Kerényi sia quello di Philippson, dunque, riconoscono una funzione epistemologica al mito: esso è una forma discorsiva caratterizzata da un’organizzazione peculiare (per Kerényi è una struttura drammatica, per Philippson un ordinamento temporale simbolico) e svolge la funzione di permettere la conoscenza di un kósmos symbolikós in cui convivono due istanze opposte14.

Quindi, nel sistema di relazioni tra racconto, narrazione mitica e mitologema, oltre all’utilizzo distinto di forme e funzioni della narrazione mitica e all’elaborazione formale di un mitologema, si dà anche la possibilità che il racconto impieghi la configurazione forma-funzione specifica dei miti.

 

3. Mito, etica e creazione

3.1 L’etica come kósmos symbolikós

Una delle ipotesi preliminari su cui si basa il presente lavoro è che il modello di funzionamento del mito possa essere applicato, per estensione, anche ad altri tipi di narrazione che presentino una configurazione forma-funzione analoga. Discorsi che agiscono come miti in quanto sono in grado di condensare principi opposti e inconciliabili in una forma narrativa. In riferimento alle opere di Levi, la mia ipotesi è che i racconti di finzione creino un kósmos symbolikós, un universo che talvolta è apertamente contraddittorio, in cui non è possibile separare i processi razionali da quelli irrazionali. In questa prospettiva, i racconti hanno una funzione etica in quanto sono una forma di accesso a tale kósmos symbolikós e invitano a riflettere sulla sua contraddittorietà15.

Philippson elabora il proprio modello generativo del mito ragionando nei termini della filosofia platonica, in particolare seguendo il Timeo, e individua un’opposizione fondamentale tra «essere eterno» e «divenire cronico» (10). Tale modello, però, può essere utilizzato anche al di fuori di una filosofia idealista, ipotizzando un incontro tra due istanze contingenti e storicizzate, invece che astoriche e ideali. Nello specifico, tramite la fiction Levi presenta l’umanità come parte di in un vero e proprio kósmos symbolikós, un mondo solo parzialmente comprensibile e in continuo cambiamento a causa delle interazioni e tensioni tra gli elementi che lo costituiscono. Tale cosmo è continuamente ri-creato dai soggetti che agiscono in esso e per conoscere il suo funzionamento è necessario rivolgere continuamente la propria attenzione alle varie relazioni tra le parti, pur sapendo di non poter mai giungere ad alcuna comprensione completa. Da qui la necessità di narrazioni che abbiano la funzione di miti, cioè che possano raccontare questo universo simbolico in tutti i suoi aspetti senza fare torto alla sua complessa organizzazione e senza illuderci di aver colto la sua essenza.

Applicando il concetto di kósmos symbolikós alla narrativa leviana non si può non considerare la sua visione laica e illuminista, in accordo alla quale egli prende le distanze da ogni interpretazione religiosa della vita16. Un atteggiamento di questo tipo attribuisce all’uomo la piena responsabilità delle proprie azioni, e l’esempio più eclatante di tale concezione è l’idea che se l’uomo è stato capace di creare Auschwitz, allora questo potrebbe succedere di nuovo. Detto nei termini del modello mitologico: la compresenza di condizioni che hanno generato l’universo concentrazionario – concepibile come kósmos symbolikós, nella totalità dei suoi aspetti folli e contraddittori – si è verificata una volta, nulla toglie che tali condizioni convergano di nuovo17.

Tra le varie fonti a cui Levi attinge per il proprio discorso etico nei contesti di finzione vi è anche quell’insieme di fenomeni riconducibili al concetto di «universo concentrazionario», un universo ossimorico e complesso. Levi «racconta l’orrore del possibile, quel possibile che aveva sperimentato nell’universo rovesciato di Auschwitz, là dove la razionalità e l’irrazionalità si erano scambiate di posto producendo una realtà orrenda. I racconti di Levi […] alludono continuamente al campo di sterminio, raccontano quello che sta prima di quella possibilità, e quello che viene dopo» (Belpoliti, “Il centauro e la parodia” xi). La forma di allusione che mi interessa mettere in evidenza in questa sede è di tipo simbolico: l’universo concentrazionario entra nella fiction come enciclopedia di fenomeni paradossali e contraddittori che influenzano la riflessione etica. Levi racconta come colui che ha fatto proprio questo modello simbolico e in molte delle sue narrazioni rivela continuamente manifestazioni passate, presenti e future di aspetti dell’universo concentrazionario. Nei suoi racconti, dunque, può comparire non solamente ciò che è stato, ma anche ciò che ancora permane di quel kósmos nella società contemporanea, e altri possibili eventi futuri che abbiano le caratteristiche di quel mondo da lui vissuto. Tutto ciò anche in funzione di un discorso etico che vuole orientare la costruzione di una nuova umanità.

3.2 Origine e creazione

Philip Roth ha notato come al termine dell’esperienza di Auschwitz Levi descriva il mondo come una «dimensione mitica» (CI 85), e lo stesso Levi afferma che all’epoca

un vento alto spirava sulla faccia della terra: il mondo intorno a noi sembrava ritornato al Caos primigenio, e brulicava di esemplari umani scaleni, difettivi, abnormi; e ciascuno di essi si agitava, in moti ciechi o deliberati, in ricerca affannosa della propria sede, della propria sfera, come poeticamente si narra delle particelle dei quattro elementi nelle cosmogonie degli antichi. (1961, T, OI 226)

Le parole usate e le immagini evocate sono fondamentali in un momento in cui sembrano non esserci più punti di riferimento su cui costruire la propria vita, una condizione da cui è necessario trovare una via d’uscita. E in un momento successivo, quando la tregua viene superata, arriva il momento di gettare le fondamenta di un nuovo mondo: «l’immagine del Caos come luogo dei possibili, nel tempo primordiale della Quaestio de centauris [1961, SN, OI 506], o nel futuro anteriore di Disfilassi [1978, L, OII 97], segnala la condizione prebiotica, lo spazio originario del disordine generatore, dove avviene il gioco aleatorio da cui sorge l’organizzazione del vivente» (Porro, “Scienza” 459).

Levi ricorre al mito per raccontare momenti cruciali della propria vita e dalla storia comune: la sua narrativa fornisce alla civiltà contemporanea dei miti laici, delle forme di rappresentazione alternative al discorso razionale18. È lo stesso Levi ad adottare uno sguardo laico nei confronti dei miti: «non trascendente e divina, ma immanente e storica» (1946, SQU, OI 68), così dice a proposito della maledizione babelica rappresentata ora dalla torre della Buna, la fabbrica di gomma di Auschwitz. I miti che Levi propone, dunque, non possono che essere immanenti e storicizzati perché non Dio ma l’uomo ha creato il lager: «Auschwitz è il principio, il punto insuperabile della storia umana, dove la metamorfosi dell’uomo in automa è stata pianificata» (Mattioda, L’ordine del mondo 87)19.

Già in Se questo è un uomo vi sono elementi mitici che recano tracce di un atteggiamento etico rivolto al futuro. Levi allude alla nascita di uno spazio mitico, un luogo in cui le storie raccontate da ognuno diventano parte di una narrazione collettiva:

Storie dolorose, crudeli e commoventi; ché tali sono tutte le nostre storie, centinaia di migliaia di storie, tutte diverse e tutte piene di una tragica sorprendente necessità. Ce le raccontiamo a vicenda a sera, e sono avvenute in Norvegia, in Italia, in Algeria, in Ucraina, e sono semplici e incomprensibili come le storie della Bibbia. Ma non sono anch’esse storie di una nuova Bibbia? (1946, SQU, OI 60)

In questo brano l’incontro tra ebrei di tutto il mondo è visto come un momento originario per una nuova riflessione su ciò che è umano; è con questo ethos che Levi si propone anche come narratore di miti. Detto con le parole di Kerényi:

La mitologia «fonda» in quanto il narratore di miti si ritrova con il suo racconto vivificante nei tempi primordiali. Anzi, egli si trova di colpo, senza girare attorno e indagare, senza sforzo e studio, in quell’età degli inizi che gli interessa, in mezzo alle άρχαί, delle quali egli ci parla. […] Egli la esperimenta come la propria άρχή assoluta, come quell’inizio dal quale in poi egli è un’unità, l’unione di tutti i contrasti del suo essere e della sua vita avvenire.

[] Figuratamente si può parlare di unimmersione in noi stessi, che porta al vivo germe della nostra totalità. La pratica di questimmersione è la «fondazione» mitologica []. Chi in questa maniera si volge in se stesso e racconta, non fa che esperimentare ed annunciare il fondamento: egli «fonda». (Prolegomeni 22-23)

La funzione fondativa, dunque, è riconosciuta essere un’importante caratteristica dei miti; qui cercherò di dimostrare come talvolta i racconti di Levi presentino un’organizzazione retorica che ricerca questa funzione. Anzi, all’interno del sistema di relazioni possibili tra racconto contemporaneo, narrazione mitica e mitologemi, credo che tale funzione sia attribuibile alla maggior parte dei suoi racconti di finzione.

Sintetizzando e generalizzando quanto esposto in questa introduzione teorica: un racconto può essere considerato un’elaborazione narrativa di un mitologema (par. 2.3); può utilizzare forme retoriche di narrazioni mitiche tradizionali e fare riferimento a funzioni antropologiche e sociali attribuite a tali narrazioni (par. 2.2 e 3.2); può avere un’organizzazione retorica che permette di attribuire ad esso una funzione epistemica analoga a quella dei miti (par. 3.1); può avere un valore fondativo per una certa comunità di riferimento (par. 3.2). Applicando la cornice teoretica al caso concreto delle opere di Levi, si può affermare che nei suoi racconti: vi sono prevalentemente elaborazioni narrative del mitologema della creazione; sono utilizzati stili, tecniche narrative e figure retoriche mutuate da miti greci ed ebraici; è chiamata in causa la funzione religiosa e antropologica dei miti tradizionali; è riconoscibile l’intento di raccontare la contraddittorietà della condizione umana; si afferma la necessità di interrogarsi su questioni sociali ed etiche cruciali per poter fondare la società contemporanea.

È interessante notare che una situazione analoga a quella da me presentata è riscontrabile nel contesto giuridico: con le leggi contro il negazionismo e il revisionismo storici, infatti, la Shoah è stata trasformata in principio giuridico (cfr. Leggewie). Sembra plausibile, dunque, che la stessa esigenza civile che ha portato all’affermazione di tale principio giuridico abbia anche agito a livello dell’immaginario portando alla creazione di principi mitici. Nessuna legge in nessuna civiltà o cultura è mai stata in grado di sostituire le narrazioni nella propria funzione di affermazione e condivisione di valori etici e consuetudini sociali.

3.3 Forme del discorso: fiction e memorialistica, simboli e allegorie

Non credo sia difficile riconoscere un possibile valore fondativo dei racconti sulla Shoah, soprattutto per gli ebrei, ma anche la narrativa di finzione può svolgere questa funzione. Come ricorda Felice Beneduce, «through the fantastic Levi is able to transcend the overwhelming historical facticity imposed by canonical Shoah literature and demonstrate that, in order to become abegetter of truth(Felman and Laub 16), it is not imperative that the narration adhere unwaveringly to the canons of realism» (28; cfr. Appelfeld; Carroll; Lyotard). La fiction offre delle possibilità espressive ulteriori rispetto alla narrativa memorialistica basata su «canoni di realismo» e Levi se ne serve per rispondere alla necessità di raccontare l’universo concentrazionario. A questo proposito, le parole di Kerényi sul valore fondativo dei miti sono un’ottima chiave di interpretazione anche per molti dei racconti di finzione e sembrano anzi sintetizzare alcune delle analisi più acute finora svolte dai critici letterari.

Se si accetta la premessa del valore mitico delle narrazioni di Levi, si rende necessario tenere conto anche della dialettica tra fiction e memorialistica in rapporto ai miti: in generale, i due concetti sono maggiormente esplicativi se intesi come due modalità discorsive, due codici espressivi differenti e complementari che possono convivere e interagire nella stessa opera. Nel caso in questione, sono forme discorsive entrambe impiegabili in funzione della testimonianza (cfr. Cavaglion, “Il futuro della memoria è la letteratura?”; Mengaldo 52ss.). La questione della relazione tra la narrativa e il mito, dunque, può essere formulata in questi termini: in che modo il rapporto tra i racconti di Levi e i miti tradizionali si configura come fiction e come memorialistica? In che modo tali concetti permettono di comprendere le somiglianze e le differenze, le costanti e le varianti, tra le narrazioni leviane sulla creazione e, ad esempio, i miti di Genesi? Come operano i canoni di realismo e finzione nell’elaborazione leviana del mitologema della creazione?

Per comprendere meglio questo rapporto dialettico può essere utile considerare le tesi di uno studioso di ebraismo come Gershom Scholem. Nel saggio Tradizione e nuova creazione nel rito dei cabbalisti (1953) egli afferma infatti che nel corso dei secoli gli ebrei hanno storicizzato i propri miti, legandoli alla memoria e trasformandoli in allegorie (155)20. In quest’ottica si può affermare che, dopo un momento storico come la Shoah, per gli ebrei si è imposta la necessità di avere allegorie che raccontino questo nuovo evento della storia del loro popolo. Tuttavia, se considerare la Shoah solo come una tappa del cammino del popolo di Israele non soddisfa l’esigenza di raccontare tale esperienza, allora forse non è inappropriato parlare anche di forme simboliche (di miti piuttosto che di allegorie) per quelle narrazioni che hanno un legame prevalentemente metaforico e non memorialistico con la Shoah (cfr. supra, cap. 1, par. 3; Perelman e Olbrechts-Tyteca 425). In altri termini, la fiction concede allo scrittore una libertà figurale e uno spazio di espressione simbolica che sono invece più ristretti nella memorialistica per via della funzione storica ad essa attribuita (cfr. Yacobi, “Fiction and Silence as Testimony”).

La domanda esistenziale “che cosa è l’uomo?” entra in una dimensione nuova dopo Auschwitz, una dimensione in cui i miti tradizionali forse non sono più uno strumento sufficiente per tentare risposte soddisfacenti. Per Levi il loro valore fondativo non è più attuale: non solo perché egli è un uomo di scienza laico, ma anche perché l’umanità si trova alle soglie di un nuovo inizio. Ciò non vuol dire che i miti tradizionali debbano essere dimenticati e sostituiti, quanto piuttosto che nuovi miti sono necessari per dare voce ai mitologemi connessi alla riflessione sulla condizione umana. La questione del rapporto con i miti antichi rimane aperta e può portare a soluzioni retoriche diverse. Pertanto, l’analisi dei racconti metterà in evidenza in che modo Levi trasformi i mitologemi ed elabori i miti di varie tradizioni.

Si è visto in precedenza come una delle modalità tramite cui si configurano i rapporti tra racconto contemporaneo, miti tradizionali e mitologema sia quella della dialettica tra forme simboliche e forme allegoriche. In quest’ottica, il «materiale» del mitologema è organizzato nei racconti principalmente tramite trasformazioni simboliche21, mentre l’intersezione tra narrazione mitica tradizionale e nuovo mito è dominata da elaborazioni allegoriche, poiché i miti tramandati appartengono a una certa tradizione culturale e religiosa e sono stati elaborati in un contesto storico ben preciso. Ed è proprio la distanza storica a favorire la trasformazione degli elementi del mito tradizionale impiegati nel racconto contemporaneo, nel nuovo mito. Ad esempio, Levi può creare allegorie attingendo a episodi, luoghi, caratterizzazioni di eroi e relazioni tra personaggi narrati in Genesi, così come avviene esplicitamente nell’allegoria della nuova torre di Babele che si erge nel campo di Auschwitz. Dall’altro lato, la distanza mitica nei confronti del materiale del mitologema narrato in Genesi garantisce comunque la possibilità dell’espressione simbolica. L’allegoria, quindi, può anche essere una figura, una forma discorsiva, che contribuisce alla funzione simbolica del racconto; anzi, a volte l’autorità del racconto mitico tradizionale può accrescere la forza simbolica del racconto contemporaneo. Nel caso in cui il mito sia narrato in un testo noto e autorevole come la Bibbia questa dinamica retorica può essere molto incisiva; nel caso di miti e leggende tramandati in modo più frammentario, invece, sarà interessante valutare in che grado i racconti di Levi elaborino narrazioni tradizionali e quanto originali siano nel confrontarsi con i mitologemi.

3.4 I simboli e i miti studiati da Levi

Non è possibile stabilire con quanta consapevolezza Levi abbia costruito e organizzato i propri racconti, tuttavia, può essere interessante ricordare che egli non era estraneo a questo tipo di riflessioni sul mito. La lettura e traduzione di Natural Symbols dell’antropologa Mary Douglas e di alcune opere di Claude Lévi-Strauss lo avevano portato a familiarizzare con le contemporanee teorie sul pensiero simbolico e sulla narrazione mitica, intesi come un linguaggio alternativo alla logica razionale22. Purtroppo è difficile capire se l’interesse per questi lavori fosse dovuto a una semplice passione per l’antropologia o se invece ci vedesse modelli interpretativi applicabili anche alla propria produzione narrativa. Ad ogni modo, la lettura che sto qui proponendo deve qualcosa anche all’analisi strutturale del mito, in quanto lo stesso Lévi-Strauss afferma che «la technique du récit vise [] à restituer une expérience réelle, le mythe se borne à substituer les protagonistes» (“L’efficacité symbolique” 15), e anche che:

Le vocabulaire importe moins que la structure. Que le mythe soit recréé par le sujet ou emprunté à la tradition, il ne tire de ses sources, individuelle ou collective (entre les quelles se produisent constamment des interpénétrations et des échanges) que le matériel dimages quil met en œuvre; mais la structure reste la même, et cest par elle que la fonction symbolique saccomplit. (26)

Secondo Lévi-Strauss, è la funzione simbolica, dunque, ciò che permette di stabilire il valore mitico di un racconto, ovvero la sua forza di «restituire un’esperienza reale» che difficilmente può essere comunicata in altro modo. Questo, però, è solo uno degli aspetti del rapporto tra la narrativa di Levi e il mito, quello che riguarda il mitologema: il recupero di un materiale mitico che si dà con una struttura ben precisa (mythème), secondo Lévi-Strauss, mentre per Kerényi è una «massa» che non ha una forma immanente, è «qualcosa di solido e tuttavia mobile, materiale e tuttavia non statico, bensì suscettibile di trasformazioni» (Prolegomeni 15). Nonostante le differenze terminologiche, le posizioni dei due studiosi sono in parte avvicinabili, in quanto per entrambi «the purpose of myth is to provide a logical model capable of overcoming a contradiction» (Lévi-Strauss, “The structural study of myth” 443), in cui aspetti opposti «spint[i] agli estremi limiti, si equilibrano, anzi, nella profondità, ess[i] s’incontrano in una perfetta identità» (Kerényi, Prolegomeni 156).

Tuttavia, per indagare i rapporti tra le opere di Primo Levi e il mito, non credo si possa insistere esclusivamente sul contenuto e la struttura del mito, soprattutto perché i racconti di Levi non sono un discorso riconosciuto esplicitamente come mitico. Questo aspetto impone di essere cauti nell’analisi letteraria, tenendo sempre presente che ci si muove nel campo di un’ipotesi interpretativa che deve essere verificata, non potendo quindi escludere nessun aspetto dell’organizzazione retorica del discorso. Volendo considerare anche le relazioni con le narrazioni mitiche tradizionali, infatti, non credo sia opportuno affermare che «il vocabolario importa meno della struttura», poiché spesso sono proprio la forma narrativa e l’organizzazione retorica dei miti tradizionali a fornire gli elementi che possono essere elaborati allegoricamente in nuovi racconti.

In sintesi, l’obiettivo delle osservazioni che proporrò di seguito è di far convergere le interpretazioni di varie figure mitiche in un confronto sistematico dei rapporti tra la scrittura di Levi e le tradizioni mitiche a cui attinge: greca ed ebraica. In quest’ottica, il concetto di «figura» è mutuato dagli studi di retorica nel suo senso più ampio (Perelman e Olbrechts-Tyteca par. 44; Orlando, Per una teoria freudiana della letteratura 62), rendendo possibile considerare sia le trasformazioni simboliche sia quelle allegoriche del materiale a cui l’autore attinge. L’utilità e la forza del modello ermeneutico che ho tentato di sintetizzare nella prima parte di questo capitolo risiedono nella possibilità di prendere in considerazione in modo sistematico, oltre ai contenuti tematici, anche stili, modelli ritmici, forme narrative, ecc., permettendo dunque confronti e valutazioni organiche di tutti i possibili punti di intersezione tra mitologemi, miti tradizionali e nuovi miti leviani.

 

4. I miti di Levi

4.1 Religione e cultura classica

Nel celebre discorso con il fisico Tullio Regge, in riferimento alla sua gioventù Levi afferma che: «la religione non mi diceva niente, e in fondo anche la cultura classica non mi dava molto, la subivo con una certa insofferenza» (1987, D). Tuttavia, nonostante questa presa di distanza dalla religione e dalla cultura classica, in molte sue opere ricorrono elementi di scritture religiose (Tanakh, Talmud e Midrash), così come anche citazioni da testi classici (personaggi e concetti della cultura greco-romana sono frequenti e di fondamentale importanza). In questo caso, probabilmente, la predilezione adolescenziale per il sapere scientifico e il lavoro manuale portano Levi a sminuire il valore della religione e della cultura classica (umanistica). Al contrario, in anni più tardi egli riconoscerà un importante valore a queste forme di esperienza, ad esempio, quando afferma che «l’uomo stesso è materia ed è in conflitto con se stesso, come tutte le religioni hanno riconosciuto» (CI 151).

Constatare la presenza di elementi riconducibili a questi due campi non è certo sufficiente per affermare quale valore venga ad essi attribuito, ma è interessante che il mito abbia un ruolo importante in entrambi. All’interno di un sistema di credenze religiose, il mito ha la funzione di dare un fondamento alla Weltanschauung che la religione propone; mentre in rapporto alla cultura classica – intesa come sapere umanistico che pone le proprie radici nella filosofia e nella letteratura greco-latine – il mito svolge la funzione retorica di affermare l’origine antica e gloriosa di questa forma di sapere e, di conseguenza, ripropone tale valore nel presente.

4.2 Miti della creazione

Considerando che molti dei racconti di Levi sono elaborazioni narrative del mitologema della creazione, vorrei iniziare l’analisi da questo aspetto. Le narrazioni che «sillogizzano» (Siamo soli, 1980, RR, OII 1524) attorno a questo importante mitologema presentano caratteri di originalità nell’elaborazione retorica, utilizzando forme estranee ai miti tradizionali, utilizzandoli a volte come fonti a cui attingere topoi. In particolare, i miti a cui Levi si rivolge sono: il racconto biblico di Genesi, il mito greco di Prometeo, il mito ebraico di Lilít, e la leggenda ebraica del Golem. Tutte queste narrazioni tradizionali hanno, in modi diversi e con significati diversi, uno stretto rapporto con il mitologema della creazione. Sono miti che presentano molte affinità, ma anche differenze e opposizioni interessanti che si manifestano in vari modi nei racconti.

È bene sottolineare che i miti tradizionali in questione elaborano il mitologema della creazione ma non sono riducibili esclusivamente ad esso; vi compaiono anche altri mitologemi e presentano episodi o caratterizzazioni di personaggi che non riguardano strettamente la creazione. Questi aspetti secondari – secondari rispetto al mitologema preso in considerazione – sono ciò che Gilbert Durand definisce décor mythique e, nello schema da me presentato, corrispondono alla sola intersezione tra racconto e mito tradizionale, senza riferimenti al mitologema. Si vedrà come l’inventio leviana attinga anche a tale décor mythique nella costruzione di simboli, contribuendo in tal modo ad accrescere la densità semiotica e la complessità retorica dei racconti.

Nell’istituire confronti fra i miti presenti nei racconti di Levi, quindi, terrò in considerazioni due fattori: l’elaborazione del mitologema da parte dei miti tradizionali e il décor mythique. Ad esempio, tramite il mitologema della creazione si può stabilire una connessione tra il mito di Lilít, prima donna creata dalla terra, e il mito di Prometeo, in cui si racconta come il titano plasmi l’uomo con argilla e acqua (Ovidio, Metamorfosi 1.82ss; cfr. Atsma, “Prometheus”). Inoltre, i due miti sono affini nel mettere in scena la hybris, aspetto che non riguarda direttamente la creazione anche se è ad essa collegato:

[c]omme Prométhée, Lilith sinsurge contre la lois primordiale et ses représentants, ce qui regroupe les deux mythèmes de laltérité et de la transgressionen ce sens, elle est «titane», ce que ne manque pas de souligner Victor Hugo dans Lhomme qui rit, comme lui, elle essaie daccéder à la libertésociale, religieuse, amoureuse, ou plus simplement langagière. (Auraix-Jonchière 231)

Per non tradire la ricchezza del discorso leviano sarà interessante valutare il sistema di interrelazioni fra le tre istanze del modello ermeneutico: ad esempio, nei racconti quali aspetti delle creazione sono riconducibili al mito di Prometeo? Quali al mito di Lilít? Quali al mito biblico? Quali altri aspetti di questi miti sono presenti nella costruzione retorica dei racconti? Il décor mythique delle narrazioni tradizionali compare anche slegato dal mitologema della creazione? In che modo e in quali circostanze i vari décors si intersecano nei racconti? Quali elementi del décor compaiono più di frequente?

Queste ed altre domande simili sono doverose ogni qual volta ci si trovi di fronte ad un corpus che presenta forme di intertestualità complesse come quello dei racconti di Levi, in cui confluiscono narrazioni scritte in un arco di quarant’anni e miti con tradizioni molto ampie. In tale rete di relazioni, gli elementi derivati da miti e leggende sulla creazione sono una costante, non solo per quanto concerne direttamente il mitologema, bensì anche per un’ampia gamma di aspetti ad esso correlati, introdotti dalle quattro narrazioni mitiche menzionate. I décors mythiques di Genesi, dei miti di Prometeo, di Lilít, e delle leggende sul Golem, offrono a Levi forme che egli utilizza con varie funzioni, per creare diversi effetti retorici, a volte riflettendo sulla creazione dell’uomo, altre volte, come si vedrà, sul dolore, sul lavoro o sulla solitudine.

Tra le varie figure mitiche presenti nei racconti non ho citato finora i centauri e la cosa potrebbe sembrare assai strana, dato che Levi ne ha più volte ribadito l’importanza e che molti critici hanno ne hanno sottolineato la pregnanza (cfr. Belpoliti, “Il centauro e la parodia”). Queste creature non compaiono tradizionalmente nei miti della creazione, vi è però un’occorrenza di fondamentale rilievo in uno dei miti che ho citato, ossia la presenza del centauro Chirone nella vicenda di Prometeo, nell’importante ruolo di suo salvatore (Apollodoro, Biblioteca I vv. 119-20, II vv. 83-87). Inoltre, come si vedrà in seguito, Levi costruisce un vero e proprio mito della creazione dei centauri, integrando così nel proprio discorso sulla creazione una figura che nei miti tradizionali ha un ruolo collaterale (cfr. infra, cap. 6, par. 2.3).

Ma per quale motivo ho scelto di dare particolare attenzione ai miti della creazione? La creazione è un’istanza che è parte di un più ampio dominio retorico in cui confluiscono anche tropi e strategie che nulla hanno a che fare con le narrazioni mitiche. La creazione, infatti, non è solo un mitologema, a volte è semplicemente un tema caro a Levi, innesco di quella «intuizione puntiforme» (1966, SN, OI 1434) che egli afferma dia origine ai racconti. Spesso è l’interesse per i processi cosmici, biologici, chimici e per le ricerche scientifiche a catalizzare il tema, altre volte l’universo scientifico o tecnicizzato offre topoi adatti a sviluppare una riflessione sul mitologema. Nel complesso credo che la predilezione per il tema della creazione abba a che fare con l’atteggiamento proattivo di Levi e l’attenzione verso tutti i processi di metamorfosi e, di conseguenza, anche verso i processi di morfogenesi. La creazione è costruzione, è un dare forma alla materia e alle idee: «Il mestiere di scrivere […] concede (di rado: ma pure concede) qualche momento di creazione, come quando in un circuito spento ad un tratto passa corrente, ed allora una lampada si accende, o un indotto si muove» (1978, CS, OI 989). La scrittura è paragonata ai lavori tecnici, ai montaggi di Faussone e alle sintesi chimiche di laboratorio: l’affinità tra queste forme creative è che entrambe «possono dare la pienezza […], insegnano a essere interi, a pensare con le mani e con tutto il corpo» (989). Non sorprende quindi che Levi insista sul tema della creazione, dato che è fondamentale per il tecnico e per l’uomo in quanto creatura con la «particolare attitudine a creare ed utilizzare strumenti» (Il sesto giorno, 1957, SN, OI 532).

Pur sapendo di correre il rischio di una semplificazione, per volontà di chiarezza ho raggruppato le osservazioni sulla presenza di miti nei racconti riconducendole a quattro nuclei retorici, quattro topoi ricorrenti: il mito di Prometeo, la leggenda del Golem, il mito di Lilít e il mito dei centauri. Ad ognuno di loro è dedicato un capitolo, ma le osservazioni sul centauro sono a guisa di conclusione poiché tanto è già stato detto sulla centralità di questa figura per Levi, e il mio intento sarà dunque solo quello di metterla in relazione agli altri miti. Inoltre, ho scelto di non dedicare un capitolo intero al mito della creazione narrato in Genesi perché questo è un racconto talmente famoso e importante per la tradizione giudaico-cristiana da essere sempre presente nell’orizzonte di ogni narrazione che abbia a che fare con la creazione. Pertanto, i riferimenti a questo mito saranno di volta in volta presi in considerazione in connessione con ciascuno degli altri quattro miti. Ma per fare ciò è innanzitutto necessario dedicare una particolare attenzione al racconto che si propone fin dal titolo come un mito della creazione, Il sesto giorno. È dunque da qui che inizierò la mia esplorazione dei racconti di Primo Levi.

 

5. Il sesto giorno (1946; 1957)23

5.1 Genesi

Nel valutare il ruolo e il peso della presenza di elementi dei miti ebraici nella narrativa di Levi è da notare come compaiano in prevalenza simboli e forme del primo capitolo di Genesi, prediligendo dunque racconti sulle origini del popolo ebraico. Se si accetta l’ipotesi che Levi stia proponendo un mito fondativo per la civiltà del secondo dopoguerra, il ricorso a miti sull’origine dell’umanità si può interpretare come una strategia retorica per incrementare la forza mitica dei propri racconti.

Uno degli esempi più eloquenti dell’utilizzo di materiale mitico relativo alla creazione si trova nel racconto Il sesto giorno, un’esplicita elaborazione del mitologema, «una riscrittura in chiave comica del giorno della creazione dell’uomo, raccontata come la storia di una litigiosa commissione di esperti e di burocrati che non riesce a produrre un modello soddisfacente della nuova specie nota come Uomo, prima della scadenza assegnatale, alla fine del sesto giorno» (Gordon 157). Vi compaiono il mito biblico e, indirettamente, miti dello zoroastrismo, tramite la presenza come protagonisti delle divinità Arimane e Ormuz.

L’incipit introduce il lettore al tono burocratico utilizzato in buona parte del racconto e presenta l’operato svolto dalla commissione nella creazione del mondo e delle altre specie animali. Dopodiché sono enunciate quelle che devono essere le caratteristiche fondamentali della natura umana:

a) particolare attitudine a creare ed utilizzare strumenti;

b) capacità di esprimersi articolatamente, ad esempio mediante segni, suoni, o con qualsiasi altro mezzo che i singoli tecnici riterranno atto allo scopo;

c) idoneità alla vita sotto condizioni di servizio estreme;

d) un certo grado, da stabilirsi sperimentalmente al suo valore ottimale, di tendenza alla vita associata. (SN, OI 532-33)

Manualità, comunicazione, adattabilità e attaccamento alla vita, socialità: è questo insieme di caratteristiche che contraddistingue gli esseri umani. Tali nuclei tematici saranno poi recuperati e affrontati da Levi in molte altre opere, esplorandone proprietà, interazioni reciproche e valore etico. Questi tratti sono elencati in una direttiva del «Consiglio direttoriale esecutivo», presentati come le volontà di un’autorità superiore che non compare in scena; tuttavia, non tutti i membri della commissione di esperti sono disposti ad accettare l’autorità delle istruzioni ricevute. È il dio Ormuz a esprimere dubbi sulle possibilità di realizzazione del progetto, insinuando che la Direzione abbia formulato la propria mozione «non senza leggerezza» e che, nonostante la sua «opposizione di principio alla creazione del cosiddetto Uomo», non si tirerà indietro perché è necessario il suo intervento per permettere che questa nuova specie venga creata «senza eccessivi traumi a lunga o breve scadenza» (533).

5.2 Ormuz vs. Arimane

Ormuz è una divinità zoroastriana conosciuta anche con il nome di Ahura Mazda, creatore benevolo e saggio (cfr. Boyce). Nella forma più nota del dualismo zoroastriano, a Ormuz si oppone Angra Mainyu, creatore di tutto ciò che è male e distruttore del bene, conosciuto anche come Arimane (cfr. Duchesne-Guillemin)24. Nel racconto di Levi le caratteristiche delle due divinità non sono esplicitate ma la loro opposizione è conservata. Infatti, nella prima nota scenica riferita a Ormuz si legge: «Durante tutto il discorso di Arimane ha dato segni d’inquietudine e disapprovazione»; e nella successiva nota Arimane viene descritto come «visibilmente contrariato» (532). Il quadro che si presenta al lettore, dunque, vede da un lato Arimane, pronto ad eseguire pedestremente gli ordini della Direzione, senza interrogarsi troppo sulle implicazioni e le conseguenze delle caratteristiche che saranno proprie dell’uomo. Dall’altro lato vi è Ormuz, che si preoccupa dell’«equilibrio planetario attuale» e si oppone «di principio alla creazione del cosiddetto Uomo» (533) – pur essendovisi cimentato egli stesso in contesti differenti25 – e che sembra voglia evitare la presenza di dolore e disarmonia nel mondo, piuttosto che realizzare un prodotto efficiente che sia conforme alle direttive.

Nell’organizzazione dei ruoli delle dramatis personae si può vedere un atteggiamento critico e problematizzante dell’autore, che lo porta ad esprimere una posizione ambigua nei confronti di quelle che sono le virtù umane, virtù su cui insisterà anche in altre opere. Ad esempio, è il demone distruttore a coordinare le attività per la creazione dell’uomo, non il demone buono e creatore; e l’elogio dell’impurezza fatto da Levi in più occasioni è qui espresso dall’ambiguo Arimane, il quale deride Ormuz per i suoi tentativi di creare «Superbestie tutte raziocinio ed equilibrio, piene fino dall’uovo di geometria, di musica e di saggezza», sottolineando «la loro incompatibilità con l’ambiente che le circondava, ambiente per necessità florido e putrido insieme, pullulante, confuso, mutevole» (533)26. Tuttavia, Arimane prosegue il suo discorso con affermazioni su cui i commenti di scena ironizzano, e utilizza un linguaggio burocratizzato e aziendale che produce l’effetto di parodiare la volontà divina:

la direzione insiste e preme ora affinché venga finalmente affrontato di petto, con serietà e competenza, (ripete con intenzione) con serietà e competenza, ho detto, questo ormai vecchio problema; ed affinché faccia la sua comparsa lospite atteso, (liricamente) il dominatore, il conoscitore del bene e del male; colui insomma che il Consiglio direttoriale esecutivo ebbe elegantemente a definire come lessere costruito ad immagine e somiglianza del suo creatore. (Applausi composti ed ufficiali). (534)

Lo stesso personaggio, dunque, può esprimere tesi che sono condivise dall’autore ma anche tesi che questi rifiuta (Levi non ritiene che l’uomo debba essere dominatore della natura). Tale atteggiamento autoriale è ricorrente in molte opere di Levi, il quale spesso presenta questioni etiche e posizioni ideologiche senza fare una precisa scelta di campo. È così che l’autore costruisce la «trappola morale»: in ogni racconto vengono presentati più di un punto di vista e considerazioni etiche di varia natura, anche contrastanti. L’organizzazione retorica del racconto risulta quindi complessa, formata da più elementi interagenti senza che vi sia un principio regolatore assoluto che guidi il discorso. L’autore dispone le pedine sulla scacchiera e fa emergere la questione etica tramite una costruzione dialogica (cfr. Bachtin; Sini): la trappola morale è così innescata e sta alla responsabilità del lettore continuare la riflessione ed eventualmente agire di conseguenza27.

5.3 Arimane: con Dio o contro Dio?

Talvolta sono i personaggi stessi a presentare situazioni paradossali facendosi carico di due punti di vista apparentemente in contrasto. È il caso di Arimane, il quale sembra comportarsi in modo subdolo poiché, da un lato, agisce in ossequio ai superiori sollecitando i colleghi ad attenersi alle istruzioni ricevute. Dall’altro lato, però, enunciando le volontà della Direzione in un crescendo enfatico, inserisce anche un attributo umano – «conoscitore del bene e del male» (534) – che contraddice la tradizione biblica e rivela l’aspetto diabolico del demone zoroastriano. In Genesi l’uomo non viene creato conoscitore del bene e del male, è solamente dopo aver mangiato il frutto dell’albero proibito che egli accede a questa conoscenza. In Genesi (3:1-5) è il serpente tentatore, qui è Arimane a volere che l’Uomo trasgredisca il divieto di Dio. In questa prospettiva non sorprende che proprio la figura del serpente sia evocata nei sogni di Arimane, fantasie che lasciano presagire la possibilità che egli stia tramando qualcosa che si discosta dai progetti divini:

Non vi nascondo che, fra le molteplici forme e figure create dalla vostra arte e dal vostro ingegno, nessuna più di quella del serpente ha destato la mia ammirazione. È forte ed astuto: «La più astuta delle creature terrestri», è stato detto da ben più alto Giudice. (Tutti si alzano e si inchinano). […] È un avvelenatore abile e sicuro: non gli dovrebbe essere difficile diventare, secondo i voti, il padrone della terra; magari facendo il vuoto attorno a sé. (540)

Qui come altrove nel racconto, la nota di scena che segue la citazione biblica svela l’ironia dell’autore, gettando ulteriori dubbi sulla sincerità dell’ossequio di Arimane, il quale «ride verde» quando si trova costretto a riconoscere la veridicità delle obiezioni a lui rivolte, rivelando poi quali siano i suoi sogni segreti:

[non] vi nascondo un certo disappunto, poiché in questi ultimi tempi ho spesso pensato allaspetto suggestivo che avrebbe presentato la superficie terrestre, solcata in ogni senso da poderosi pitoni variopinti […]. (541)28

Inoltre, Arimane manifesta anche una certa preoccupazione per possibili interferenze a discapito del proprio ruolo nella gerarchia divina, rinforzando nel lettore il sospetto che non sia molto fedele alla Direzione:

E mi si dice che non basta, e che è prossima lassunzione nientemeno che di un sovrintendente delle Cose dello Spirito, che ci metta tutti sullattenti… (Si accorge che si è lasciato andare troppo lontano, tace bruscamente e si guarda intorno con un certo imbarazzo. […]). (542)

Arimane non si cura delle implicazioni legate alla specificità della natura umana, qualunque essa sia, è piuttosto interessato al mantenimento del proprio potere e all’estensione della propria influenza sul pianeta Terra, dove vorrebbe che regnasse un rettile – un essere creato a propria immagine e somiglianza, un dominatore assoluto e distruttore che faccia il vuoto intorno a sé (540). Ma alla fine accetta che l’Uomo sia uccello, confermando che fin dall’origine del mondo «le soluzioni di compromesso sono una regola più che una eccezione» (538). Non è difficile notare analogie importanti tra questa divinità zoroastriana e il Satana biblico: l’associazione col serpente (Genesi 3:1-5), la volontà che l’uomo sia conoscitore del bene e del male (3:1-5, 3:22) e la possibilità di estendere il proprio regno sulla Terra (Matteo 4:8-9; Luca 4:5-7)29. A questo proposito mi sembra rilevante che in Giobbe uno dei libri del Tanakh di cui si ha la certezza che Levi avesse una conoscenza approfondita (cfr. Il giusto oppresso dall’ingiustizia, 1980, RR, OII 1369) – Satana appare come un servitore, proprio come Arimane; non è ancora un avversario propriamente detto, bensì uno dei «figliuoli di Dio» (Giobbe 1-2).

5.4 Ormuz e l’origine della «spaccatura paranoica»

È Ormuz colui che espone tutte le debolezze e le fragilità connesse al «progetto Uomo». Il fatto che sia una divinità positiva e solare a contrastare i piani del Dio ebraico che si nasconde dietro l’appellativo «la Direzione» accresce ulteriormente la complessità dell’organizzazione retorica del racconto, poiché mette in scena un conflitto tra due divinità – quella zoroastriana e quella ebraica – con molti tratti in comune e che dovrebbero avere una funzione simile nell’ordine del cosmo.

Nella sua arringa finale, il saggio Ormuz – un personaggio che si prende molto sul serio, al contrario di Arimane, il quale risulta comico il più delle volte – espone in modo appassionato ma razionale le proprie perplessità sulla compresenza nella stessa creatura di un cervello sviluppato e di istinti sessuali. Per questo esorta la commissione ad una responsabilità etica, la stessa su cui Levi insisterà anche in altre opere, un richiamo alla consapevolezza delle proprie azioni30, perché «colui che sta per nascere sarà nostro giudice. Non solo i nostri errori, ma tutti i suoi, per tutti i secoli a venire, peseranno sul nostro capo» (OI 545). Nella fattispecie, secondo l’ordinata razionalità di Ormuz31, il quale ragiona seguendo «il Bene e il Vero» (544), se la commissione commetterà l’errore di creare un Uomo dalla duplice natura questa sarà una loro colpa poiché «il fardello che dovrà portare sarà grave». Il timore di questa divinità benigna nasce dalla considerazione che «il sesso è stato in primo luogo una spaventosa complicazione, ed in secondo, una fonte permanente di pericoli e di grane» che non sempre possono essere limitati dall’intervento del cervello.

Un dio cui sta a cuore l’«uniformità di comportamento» non può che essere spaventato da questa creatura duplice che «sarà un centauro, uomo fino ai precordi e di qui belva», con un’anatomia che «non potrà apparire altrimenti, a questo animale pensante, che un simbolo beffardo, una confusione abietta e conturbante, il segno del sacro-sozzo, della sragione bicipite, del caos, incastonato nel suo corpo, irrinunciabile, eterno»32. Il dio razionale e sapiente difende le proprie convinzioni e suggerisce che la specificità dell’uomo è di essere una creatura pensante, proprio come le «Superbestie» raziocinanti e sagge che egli aveva tentato di creare in epoche precedenti.

Tramite i discorsi di Ormuz, l’autore esprime in modo enfatico il disagio per l’ossimorica condizione umana di essere una creatura in cui convivono due nature inconciliabili: è questa la prima rappresentazione della celebre «spaccatura paranoica» (1966, CI 107). L’uomo è destinato a sentirsi diviso e contrastato, e in più occasioni Levi tenterà di rappresentare questo tratto della condizione esistenziale umana, ricorrendo in particolare alla figura del centauro, ma anche tramite altri miti. Il passo appena citato, però, è l’unico luogo in cui sia spiegato perché questa spaccatura esistenziale sia «paranoica». La motivazione proposta è che il corpo umano sia un «simbolo» permanente di questa divisione, un «segno» sempre presente della tensione connaturata all’uomo. «Irrinunciabile» e «eterno» sono gli aggettivi utilizzati per descrivere il rapporto tormentato con il corpo e le passioni, due qualificazioni che affermano che l’uomo non può sfuggire alla propria condizione (ecco l’origine della paranoia) e che nonostante la sua natura pensante non potrà mai dominare definitivamente il caos presente in se stesso e nel mondo.

Si ricorderà come nell’introdurre la possibilità della funzione mitica dei racconti abbia insistito, piuttosto che sugli aspetti individuali, sul più ampio valore fondativo per una nuova società. Il discorso di Ormuz, però, presenta anche la struttura drammatica tipica dei miti, mostrando come all’essere umano sia connaturata una tensione indissolubile. Quindi, da un lato vi sono elementi che rimandano all’aspetto etnologico-sociale del mito, dall’altro a quello psicologico-individuale. Non credo comunque che sia necessario soffermarsi su questa distinzione poiché i due aspetti sono strettamente legati e i riflessi dell’uno sono visibili nell’altro. Nei racconti che si focalizzano sulla spaccatura paranoica, infatti, questa non è mai solo un problema del singolo individuo: Levi sa riproporre il conflitto interiore vissuto da ogni essere umano come un problema etico che riguarda i rapporti interpersonali e l’organizzazione della società. Si potrebbe affermare con Martin Buber che «il processo nell’anima dell’uomo diventa processo nel mondo: venendo conosciuta, l’antiteticità, sempre latente nella creazione, irrompe nella realtà attuale; diviene esistente» (Buber, Immagini del bene e del male 23)33. E seguendo la stessa logica in direzione inversa, il fatto di esperire l’antiteticità del mondo può spingere l’uomo (in modo paranoico oppure no) alla ricerca dell’origine di tale condizione conflittuale in se stesso. La piena comprensione di questa condizione non è possibile, ma il percorso di conoscenza che permetta di avvicinarsi alla comprensione è costituito dalla formazione di un kósmos symbolikós.

5.5 La creazione biblica

Il racconto si conclude con una prova brillante dell’umorismo di Levi, grazie ad una soluzione narrativa capace di condensare in un unico sintagma quattro figure retoriche che amplificano l’un l’altra il proprio effetto scenico: l’intervento deus ex machina, la citazione, l’allusione e la metanarrazione. Mi riferisco al seguente paragrafo:

Non ci hanno aspettati: non avevo ragione di avere fretta? Ancora una volta, hanno voluto farci vedere che noi non siamo necessari, che sanno fare da soli, che non hanno bisogno di anatomisti, di psicologi, di economi. Possono ciò che vogliono. (OI 546; corsivo mio)

Il narratore agisce come deus ex machina ponendo fine alla discussione dei consiglieri e lo fa per mezzo della celebre citazione dantesca (Inferno III, vv. 95-6), la quale allude al Dio ebraico-cristiano che interviene nel racconto, ed è anche un commento metanarrativo sull’intervento arbitrario del narratore, il quale a sua volta può fare ciò che vuole per portare il racconto allo scioglimento della tensione narrativa34.

Se sul piano retorico la soluzione risulta eccellente, non si può dire lo stesso della soluzione biblica al problema della creazione dell’uomo. Il testo religioso è infatti bersaglio di scetticismo e il personaggio che Levi ritiene più adatto a farsi carico di questa accusa è Arimane, con il suo modo di fare da comico burocrate, piuttosto che il polemico ma serioso Ormuz. In questo modo il racconto si conclude con un tono umoristico, il quale è legato in un primo momento alla rappresentazione di un Consiglio sorpreso e perplesso di fronte alle procedure adottate per la creazione dell’uomo e della donna, ed è poi mantenuto elencando gli oneri burocratici ad essa connessi. L’umorismo che vira verso il nonsense mette in dubbio l’efficacia del mito biblico e presenta l’insolubile dilemma che ossessionerà questa «anomala creatura»: «Se e quanto esso corrisponda ai requisiti che ci erano stati proposti, o se non si tratti invece di un uomo per pura definizione e convenzione, non ho elementi per stabilire» (OI 547).

Sintetizzando, nel racconto Il sesto giorno, già dal titolo, è l’uomo ad essere al centro del discorso e la narrazione si sviluppa attorno alla questione della condizione esistenziale umana. La funzione mitica di questo racconto, quindi, si esplica in riferimento al mitologema della creazione dell’uomo e della donna. Per quanto riguarda la configurazione forma-funzione propria dei miti, è la conclusione a mettere in evidenza tale proprietà: in tutto il racconto sono esposte le difficoltà e la complessità del progetto Uomo, compreso il dramma della compresenza di ragione e passione, ma nella conclusione tutto ciò rimane un mistero insoluto e incomprensibile, da accettare così com’è in quanto volontà di un imperscrutabile progetto divino:

… No, signori, non so molti particolari. Non so se si siano consultati con qualcuno, o se abbiano seguito un ragionamento, o un piano lungamente meditato, o l’intuizione di un attimo. […] In questa creatura hanno infuso non so che alito, ed essa si è mossa. Così è nato l’Uomo, o signori, lontano dal nostro consesso: semplice, non è vero? (547)

Tutt’altro che semplice, ovviamente. Con la sua organizzazione retorica, la sua «struttura drammatica», questo mito leviano presenta l’essere umano come una creatura anomala e complessa, combattuta tra due poli contrastanti, tra volontà ordinatrice e desiderio.

Nella breve introduzione al passo di Giobbe antologizzato ne La ricerca delle radici, Levi attribuisce a Dio un epiteto a mio avviso fondamentale per comprendere l’origine della condizione umana in quanto scissione fra poli antitetici: «Dio creatore di meraviglie e di mostri» (Il giusto oppresso dall’ingiustizia, 1980, RR, OII 1369)35. In una prospettiva umana – non metafisica e senza pretese ontologiche – da Dio vengono sia il bene sia il male, e «“[c]onoscenza del bene e del male” non significa altro che conoscenza delle antitesi che l’antica letteratura del genere umano indica con questi due concetti» (Buber, Immagini del bene e del male 20). Il Dio ebraico di Genesi 1-3 è colui che

conosce le antitesi dell’essere, nate dal suo atto creativo; le abbraccia senza esserne toccato, si trova rispetto a loro in una condizione di assoluta superiorità e, insieme, di assoluta intimità, mantiene con loro una relazione diretta (questo è manifestamente il significato originario del verbo ebraico «conoscere»: avere un contatto immediato) proprio in quanto sono i poli opposti dell’essere del mondo. […] La «conoscenza» acquisita dall’uomo per aver assaggiato il frutto miracoloso è sostanzialmente diversa. È negata la capacità di abbracciare in modo dominante e insieme intimo gli opposti a colui che, malgrado l’immagine-e-somiglianza, partecipa soltanto dello stato di creatura, ma non alla creazione, a colui che è atto soltanto a generare e a procreare, ma non a creare. Bene e male, condizione positiva e condizione negativa dell’esistenza, entrano nella sua conoscenza viva; mai però possono essergli presenti assieme. Egli conosce l’antiteticità solo trovandosi in essa […]. (21-22)36

Credo che dai racconti di Levi emerga una concezione della specificità dell’uomo che è simile a quanto sostiene Buber, ed è forse per questo motivo che Levi ama così tanto la storia di Giobbe: «[p]erché questa storia splendida e atroce racchiude in sé le domande di tutti i tempi, quelle a cui l’uomo non ha trovato risposta finora né la troverà mai, ma la cercherà sempre, perché ne ha bisogno per vivere, per capire se stesso e il mondo» (Il giusto oppresso dall’ingiustizia, 1980, RR, OII 1369). A causa della propria limitata possibilità di comprensione, all’uomo sembrerà sempre di vivere «una contesa diseguale: Dio creatore di meraviglie e di mostri lo schiaccia sotto la sua onnipotenza». Una situazione non molto diversa da quella raccontata ne Il sesto giorno.

Tale conflitto è presente nel racconto in modi diversi e su tre livelli: nella figura di Arimane, personaggio ambiguo che segue gli ordini divini ma è guidato anche dai propri desideri; nell’opposizione tra Arimane e Ormuz, araldi di “passione” e “ragione”; e nella soluzione anatomica ibrida che la commissione sceglie per l’Uomo. Nessuno dei conflitti, però, trova una pacificazione: l’uomo «conosce l’antiteticità solo trovandosi in essa», cioè vivendo in uno stato di tensione. L’unica soluzione attuabile è lo scioglimento della tensione narrativa: il racconto, come il mito, risulta essere l’unica formazione di compromesso possibile per affrontare la spaccatura paranoica37.

Il racconto Il sesto giorno è un buon esempio di come un racconto novecentesco possa avere una funzione mitica, ossia proporre figure che siano simboli di una condizione esistenziale, mostrandone i limiti e i vincoli ma senza proporre uninterpretazione definitiva di tale condizione. Al contrario dell’allegoria, grazie alle forme simboliche che costruisce, il mito non irrigidisce l’immaginazione, ne orienta invece le possibilità di sviluppo mettendo in risalto l’imprevedibilità del creato e della creatività. Anche nei miti di cui tratterò nei prossimi capitoli la forza della creazione emerge come caratteristica fondamentale dell’esistenza, quasi come se Levi, avendone afferrato l’importanza, si cimentasse con questo tema trattandolo da prospettive diverse e con vari strumenti. Fra questi scegliendo anche di ricorrere ad un’enciclopedia mitica in cui si incontrano titani, Golem, diavolesse e centauri.

1Cfr. «quanto sia vano il mito dell’uguaglianza originale fra gli uomini» (1946, SQU, OI 89); «mito amatorio nazionale» (1962, T, OI 276); «Ligi al mito collettivo» (Un lungo duello, 1984, AM, OII 835); «mito del superuomo» (1985, SES, OII 1074); «lacerazione del mito» (1985, SES, OII 1113).

2«In Moby Dick c’è tutto quello che mi aspetto da un libro, ma anche molto di più. C’è l’esperienza umana, i mostri, il mondo reale che si rispecchia in un mondo visionario, la caccia-ricerca sentita come condanna e giustificazione dell’uomo, il pozzo buio dell’animo umano. È una favola» (Il pozzo buio dell’animo umano, 1985, RR, OII1452).

3«L’abduzione è il processo di formazione di un’ipotesi esplicativa. […] [L]’abduzione suggerisce semplicemente che qualcosa può essere» (Pierce §171; cfr. Eco, I limiti dell’interpretazione 233-38).

4«[U]n’ipotesi regolativa in base alla quale, in occasione delle interpretazioni di un testo (sia esso una conversazione all’angolo della strada o la Bibbia), il destinatario decide di costruire una porzione di enciclopedia concreta che gli consenta di assegnare o al testo o all’emittente una serie di competenze semantiche» (Eco, Semiotica e filosofia del linguaggio 111). Per un’interpretazione analoga dei racconti di Calvino, cfr. Antonello, “Cibernetica e fantasmi. Italo Calvino fra mito e numero” 201.

5«Salvo casi di incapacità patologica, comunicare si può e si deve […]. Negare che comunicare si può è falso: si può sempre. Rifiutare di comunicare è colpa» (1985, SES, OII 1059); «Non si dovrebbero mai imporre limiti o regole allo scrivere creativo», «uno scritto ha tanto più valore, e tanta più speranza di diffusione e di perennità, quanto meglio viene compreso e quanto meno si presta ad interpretazioni equivoche» (Dello scrivere oscuro, 1976, AM, OII 676 e 677). Tale affermazione è in apparente contraddizione con quanto Levi afferma a proposito della polisemia e ambiguità del discorso letterario (1986,“Il gusto dei contemporanei” 7; cfr. supra, cap. 1, par. 3), ma lo “scrivere chiaro” è invece una condizione che facilità una positiva ambiguità: più un testo è compreso e condiviso con altri, più possibilità vi sono che abbia interpretazioni differenti, aumentando così il proprio valore.

6Abilità artigiana ma anche abilità semiotica; cfr. Eschilo, Prometeo incatenato par. 477, e infra, cap. 3, par. 2, sui doni di Prometeo all’uomo.

7Il processo di «elaborazione» riguarda il «“lavoro” storico sul mito», il suo «riconoscimento come invariante astorica e decontestualizzata del patrimonio culturale umano» che viene storicizzata nella narrazione. La «trasformazione», invece, «riguarda i vari modi in cui si manifesta in un testo letterario la relazione transtestuale con un mito» (Van den Bossche. Il mito nella letteratura italiana del Novecento 37 e 38).

8Questo processo avviene anche per un episodio extra-ordinario narrato in Se questo è un uomo, il racconto di Ulisse di Inferno XXVI a Pikolo, nel quale il riferimento al mito consacra un momento di «consapevolezza di sé nel presente», è una forma simbolica che provoca un «insight: il riconoscimento della propria umanità avviene tramite l’adesione al mito» (Linari, “La narrativa dal dopogerra agli anni Settanta. Tra Ulisse e Orfeo” 474). È doveroso aggiungere che per i racconti più tardi diventa rilevante anche lo studio compiuto da Levi in preparazione alla scrittura di Se non ora, quando? (1982), dal quale emerge «una dimensione epica e mitica che rispecchiava la ricerca di radici ebraiche ideali» (Nezri-Dufour, Primo Levi: una memoria ebraica del Novecento 137).

9«[U]n’antica massa di materiale tramandata in racconti ben conosciuti che tuttavia non escludono ogni ulteriore modellamento, “mitologema” è per essa il migliore termine greco, racconti intorno a dèi, esseri divini, lotte di eroi, discese agli inferi» (Jung e Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia 15).

10Il termine «mito» inteso come narrazione può essere usato in due accezioni: in riferimento ad uno specifico racconto tradizionale, oppure in riferimento all’insieme di racconti che riguardano la stessa vicenda (Jung e Kerényi).

11Inteso sia come caso particolare del mitologema della creazione, come per esempio nelle storie sul Golem (cfr. infra, cap. 4), ma anche nella propria autonomia specifica di mitologema che riguarda la creatività umana e la capacità di produrre artefatti (cfr. infra, cap. 3).

12Per un esempio cfr. infra, cap. 6, par. 3.1, sulla variazione di enunciazione e sull’uso del discorso riportato nel racconto Quaestio de centauris.

13È bene sottolineare che parlare di mitologemi in riferimento a racconti scritti nel XX secolo non implica necessariamente che essi si configurino come narrazioni mitiche. Un racconto riconducibile ad un nucleo mitico potrebbe altresì essere organizzato discorsivamente come una favola o una leggenda (cfr. Bascom; Kirk).

14«È da sottolineare espressamente che συμβάλλεσθαι=incontrarsi, coincidere, e tutto ciò che deriva da questo verbo (simbolico, symbolikos) significa qui letteralmente “unire per mezzo dell’incontro”. […] Così qui kosmos symbolikos significa in modo univoco un cosmo che sorge da un incontro (dell’essere con il kosmos chronikos) e la cui qualità è condizionata appunto da questo incontro» (Philippson 12).

15La conoscenza simbolica non è possibile se non viene riconosciuta la possibilità di un’epistemologia che accetti la coesistenza di contraddizioni, una cosa che lo stesso Levi ammette: «Pietà e brutalità possono coesistere, nello stesso individuo e nello stesso momento, contro ogni logica; e, del resto, la pietà stessa sfugge alla logica» (1977, SES, OII 1033). Conoscenza pratica e riflessione sono complementari nel discorso leviano; si ricordi, ad esempio, il ripetersi nella poesia Shemà di verbi quali «considerate […] considerate […] meditate […] ripetete» (1946, SQU, OI 525).

16«Al mio ritorno dalla prigionia è venuto a visitarmi un amico più anziano di me. Era contento di ritrovarmi vivo e sostanzialmente indenne. Mi disse che l’essere io sopravvissuto non poteva essere stata opera del caso, di un accumularsi di circostanze fortunate (come sostenevo e tuttora sostengo io), bensì della Provvidenza. Ero un contrassegnato, un eletto: io, il non credente, ed ancor meno credente dopo la stagione di Auschwitz, ero un toccato dalla Grazia, un salvato. E perché proprio io? Non lo si può sapere, mi rispose. Forse perché scrivessi, e scrivendo portassi testimonianza. Questa opinione mi parve mostruosa» (1985, SES, OII 1054).

17«Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano» (1947, SQU, OI 5).

18Il termine «mito» è stato utilizzato altre volte in riferimento alla Shoah, spesso in accezione negativa per sostenere idee antisioniste (cfr. Garaudy), mi sembra quindi doveroso specificare che utilizzo questo termine nel senso attribuitogli da Kerényi e non come espressione di una strumentalizzazione ideologica o politica di fatti storici. Ovvero, le narrazioni di Primo Levi offrono dei miti genuini, non miti tecnicizzati (cfr. Kerényi, Religione antica 17-35; “Dal mito genuino al mito tecnicizzato” 113-26). La possibile portata “universale” dell’evento vissuto e della conseguente testimonianza sono ribadite da Levi stesso: alcuni sopravvissuti «[p]arlano perché sanno di essere testimoni di un processo di dimensione planetaria e secolare» (1985, SES, OII 1109). Ma ricordo che il discorso fatto in questa sede va oltre la funzione di testimonianza e vede il mito come fondamento per la costruzione di una civiltà.

19Parlando della continuità tra tecnica e natura, Pierpaolo Antonello accosta l’atteggiamento di Levi a quello di Giuseppe O. Longo ed è curioso che lo «scrittore-ingegnere» parli di nuovi miti: «l’homo technologicus non è ‘homo sapiens più tecnologia’, bensì ‘homo sapiens’ trasformato dalla tecnologia», dunque è «un’unità evolutiva profondamente nuova, è un’entità organica, mentale, corporea, psicologica, sociale e culturale senza precedenti, che se partecipa ancora dei miti, dei desideri e delle necessità dell’uomo ‘tradizionale’, crea anche miti, necessità e desideri suoi propri e inediti» (Homo technologicus 57; citato in Antonello. “La materia, la mano, l’esperimento” 100).

20Hans Blumemberg chiama questo processo Elaborazione del mito (cfr. supra, par. 1).

21Sempre considerando i racconti di Levi come miti genuini; nel caso di miti tecnicizzati, invece, si ha un’elaborazione allegorica del mitologema.

22Belpoliti vede in Levi addirittura «una forma di spontaneo strutturalismo, l’idea che esistano delle invarianti, ad esempio linguistiche, e dunque concettuali» (Primo Levi traduttore, OII 1589). Le traduzioni compiute da Levi sono: Mary Douglas. Simboli naturali. Torino: Einaudi, 1979 (ma completata già nel 1975); Claude Lévi-Strauss. Lo sguardo da lontano. Torino: Einaudi, 1984; La via delle maschere. Torino: Einaudi, 1985.

23«Racconto pensato tra il 1946 e il ’47, […] reca come data di conclusione il 22 dicembre 1957» (Note ai testi, OI 1432).

24Giacomo Leopardi, nell’inno “Ad Arimane” (abbozzo del 1833), lo definisce «Re delle cose autor del mondo, arcana / malvagità, sommo potere e somma / intelligenza, eterno / dator dei mali e reggitor del moto».

25Arimane ricorda «la sua [di Ormuz] interessante relazione sul discutibile risultato di esperimenti similari da lei stesso condotti in varie epoche e su altri pianeti, al tempo in cui avevamo tutti le mani più libere» (533).

26Sulla necessità del caos per i processi creativi, cfr. infra, cap. 6, par. 2.3, il commento al racconto Quaestio de centauris.

27Ma si ricordi anche che «lingua e scrittura sono per lui organi dell’indefettibile ‘responsabilità’ dello scrittore e ne recano il peso» (Mengaldo. “Lingua e scrittura in Levi” 196).

28Cfr. il saggio Covare il cobra (1986, RS, OII 990-93) in cui il serpente è simbolo degli esiti dannosi cui può portare la ricerca scientifica. Anche lì, come nel racconto Il sesto giorno, vi è un’esortazione alla responsabilità etica di coloro che sono creatori, inventori, ricercatori, ovvero artefici del futuro dell’umanità. Cfr. anche: «Il serpente aderisce alla terra, è terra, mangia terra (Gen 4:14), come il verme, di cui è una versione ingrandita, e il verme è il figlio della putredine» (Bisogno di paura, 1984, AM, OII 848-52).

29Cfr. «[Angra Mainyu] had to flee from the face of the earth (Yt. 17.19) when Zoroaster was born. He nevertheless tempted the prophet, promising him the sovereignty of the world, if he would only reject the faith of Mazdā (Vd. 19.6ff.)» (Duchesne-Guillemin).

30«È questo un tasto su cui Levi insiste molto e a tutti i livelli: “La malattia più grave, fra le molte che ci affliggono è il rifiuto della responsabilità” [Lettera a Lattanzio: «Dia le dimissioni», 1977, OI 1220]; “di colpa e errori si deve rispondere in proprio, altrimenti ogni traccia di civiltà sparisce dalla faccia della terra” [Un testamento, 1977, L, OII 146]; Parini è “un galantuomo” e un poeta “responsabile di ogni parola che abbia mai scritto” (Gli hobbies, 1977, RR, OII 1396)» (Antonello, “La materia, la mano, l’esperimento” 112-13).

31Entrambi i discorsi pronunciati da Ormuz iniziano con l’affermazione «non ho mai fatto mistero» (533 e 543), quasi a voler rimarcare la volontà di trasparenza implicata dal discorso razionale.

32Cfr. «[p]oiché l’uomo è centauro, groviglio di carne e di mente, di alito divino e di polvere» (Argon, 1973, SP, OI 746). Cfr. anche «the centaur remains a prime example of the monstrous, whose absolute Otherness renders it a quintessential polysemic representation of what is repressed by a hegemonic and falsely homogeneous culture» (Punday 820, citato in Beneduce 36).

33Cfr. «Tewje sente la spaccatura che divide il mondo, ed egli stesso è dolorosamente diviso; in quanto ebreo diasporico, il suo destino è la lacerazione» (Un loico indomito, 1980, RR, OII 1473).

34Cfr. «[I]nterviene Dio Padre con tutta la sua autorità, li esautora, e in un istante crea un uomo mammifero, vagamente scimmiesco» (Itinerario di uno scrittore ebreo, 1982, OII 1223).

35Sulla dialettica fra meraviglia e mostruosità, cfr. anche infra, cap. 4, par. 2.

36In riferimento alla capacità creativa dell’uomo, cfr. infra le osservazioni su Prometeo (cap. 3, par. 2) e sul Golem (cap. 4, par. 3.2); ma cfr. anche infra, cap. 5, par. 2.3, a proposito dei limiti di Dio in relazione alla Shekhina-Lilít.

37Una tesi analoga è sostenuta da Marco Belpoliti, il quale insiste sul carattere parodico dei racconti di Levi: «Possiamo dire che la parodia è una soluzione di compromesso tra le sue differenti identità o polarità: ex deportato e scrittore, chimico e scrittore. […] Ogni racconto di Levi, anche quelli più divertenti, spiritosi, amabili, leggeri, ritorna là, a quella natura duale, allo spazio che si estende tra il sogno e la realtà, spazio che le sue parole abitano in modo così apparentemente sereno, intelligente, e sempre problematico» (“Il centauro e la parodia” xiii-xiv). A mio avviso, questo è vero anche per il racconto Il sesto giorno, ma la parodia è solo uno degli aspetti che contribuiscono alla formazione di compromesso.