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1 Testimonianza, etica e fiction

il dolore è la sola forza che si crei dal nulla, senza spesa e senza fatica. Basta non vedere, non ascoltare, non fare. (1985, SES, OII 1058)

1. Tra pessimismo delle idee e ottimismo degli atti

Le ragioni che rendono interessante un discorso sul modo in cui Primo Levi si misura con la fiction sono molteplici, ma un aspetto in particolare mi sembra estremamente importante per una maggiore comprensione della poetica e retorica dell’autore, ossia il fatto che tramite i racconti di finzione egli elabora ed articola quel passaggio «dalla testimonianza all’etica» messo in evidenza da Robert Gordon (Primo Levi’s Ordinary Virtues: From Testimony to Ethics).

Nel quadro di tale prospettiva etica risulta particolarmente rilevante il fatto che i racconti di finzione siano l’esempio più notevole di quel «pessimismo nelle idee e ottimismo negli atti» professato da Levi (“Conversazione con Daniela Amsallem” 69). La formula è molto nota e rivendicazioni analoghe si possono trovare nelle opere di Kant, Romain Rolland, Gramsci, Pavese e Calvino, è quindi doveroso specificare la portata – psicologica, sociale, politica – che tale proposito etico ha per Levi, nonché indagare la corrispondenza tra intenzioni autoriali e realizzazioni narrative.

Oltre a tale scissione conclamata, a complicare il quadro dei rapporti tra etica e finzione, si aggiunge un aspetto messo in evidenza da David Bidussa, ossia che nei racconti «si consegna al lettore un contenuto che spesso è distonico rispetto a ciò che perlocutivamente Levi stesso intende sostenere» (505). Se si interpreta l’affermazione del critico alla luce delle intenzioni dello scrittore, si potrebbe intendere che perlocutivamente Levi comunichi idee ottimiste ma che sia tuttavia percepibile un pessimismo dissimulato. L’analisi di Bidussa porta alla luce una dissonanza tra intenzioni autoriali e percezione del lettore: «se sul piano dell’argomentazione sembra prevalere l’ipotesi della possibile superabilità di Auschwitz, sul piano della narrazione si afferma il paradigma esattamente opposto: la sua insuperabilità. Anzi, per esser più precisi: la sua perennità» (506). Insieme all’etica e alla fiction questo è il terzo tema del presente capitolo: la memoria storica, alla quale Bidussa – e con lui buona parte della critica leviana – assegna un ruolo chiave nell’indagine sul rapporto tra etica e finzione. Secondo questa lettura l’intenzione autoriale di «comportarsi come se si fosse ottimisti» (Levi, “Conversazione con Daniela Amsallem” 69) soccomberebbe alla pervasività di un pessimismo latente.

Interpretazioni di questo tipo sollevano quesiti interessanti che non riguardano solamente la distonia tra l’autore, il quale si dichiara consapevole e capace di modellare la propria poetica in accordo alle proprie credenze, e il critico le cui analisi evidenziano il costante ritorno dei fantasmi del passato. A mio avviso, ciò che emerge è anche la necessità di riconsiderare il ruolo di testimone che è stato assegnato a Primo Levi nel contesto culturale e letterario dell’Occidente, e che spesso agisce da ideale che egemonizza la lettura delle sue opere. Di recente, una posizione simile è stata sostenuta da Francesco Cassata:

Nelle ambizioni e speranze di Levi la fantascienza avrebbe dovuto configurarsi come un «ritorno alla realtà», come la sperimentazione di una nuova scrittura, l’evasione – problematica e complessa – dagli angusti confini della narrazione di testimonianza. La recezione critica di Storie naturali e di Vizio di forma segnò per molti aspetti il drammatico fallimento di questo tentativo. I racconti leviani vennero infatti per lo piú sepolti sotto una coltre interpretativa capace di cogliervi non un originale esperimento di dialogo fra le «due culture», ma soltanto l’ennesima variazione sul tema del Lager. (Fantascienza?)

Cassata, inoltre, riassume l’intento della propria opera critica con un’affermazione forte e, a mio avviso, estremamente importante:

L’interesse di Levi per la fantascienza […] è stato precoce, strutturale e finalizzato all’esplorazione di due problemi specifici: sul piano etico-filosofico, i racconti fantascientifici di Levi sviluppano un lungo ragionamento sulle potenzialità e i limiti della ricerca scientifica, all’indomani della «curvatura» del razionalismo contemporaneo prodotta da Auschwitz; dal punto di vista letterario, essi rappresentano un concreto e originale esercizio di «mutuo trascinamento» tra cultura scientifica e cultura umanistica, secondo il modello di scrittura piú volte auspicato dallo stesso Levi. (Fantascienza?)

È una posizione che sottoscrivo a pieno e che credo valga non solo per la fantascienza, bensì anche per molti altri racconti di finzione. Di recente anche Domenico Scarpa ha documentato come

the need to bear witness to Auschwitz before the world (and to create a language suitable for communicating the experience) was accompanied from the start—from 1946, at least—by another, complementary vocation: one that led Levi to compose fantastic stories based on a vast technical-scientific knowledge, stories that are transparent but complex, in which the spark of invention and the organizing logic have roles of equal importance.
Thus Levi the witness and Levi the writer were born simultaneously, and simultaneously began to function. (Notes on the Texts)

Vorrei dunque proporre una prospettiva critica che tenti di svincolare fiction ed etica da un discorso sulla memoria storica, ma prima di andare a fondo di tale questione è opportuno prendere in considerazione come queste tre istanze interagiscono nella narrazione.

1.1 La perennità di Auschwitz

Nel panorama della critica leviana è possibile individuare due tesi complementari a proposito della funzione del raccontare per il sopravvissuto del lager. Da un lato, alcuni critici sostengono che Levi riesca ad essere quel narratore descritto da Benjamin, «una persona di “consiglio” per chi lo ascolta», che agisce tramite racconti utili alla comunità (Benjamin, “Il narratore”; cfr. Bertone 245-47; Gordon 211-12; Giglioli 405; Belpoliti, Primo Levi di fronte e di profilo); dall’altro lato, l’analisi di Bidussa mette in evidenza un aspetto fondamentale della narrazione leviana, l’insuperabilità storica di Auschwitz. Secondo Bidussa, «Auschwitz, per Levi, non inaugura un tempo nuovo, né consolida o distrugge un tempo storico che lo precede. Più semplicemente il tempo della storia si è fermato sul meridiano di Auschwitz» (506).

Personalmente ritengo che le conclusioni a cui giunge Bidussa siano solamente parziali; la mia proposta, invece, è che la «perennità di Auschwitz» rilevata sul piano della narrazione possa essere interpretata retoricamente anche come fondazione di un tempo mitico, come l’affermazione che «ciò che è stato» deve essere sempre presente agli uomini e che la loro storia futura non può trascendere quell’evento originario. Le osservazioni di Bidussa mettono in opposizione il piano argomentativo e il piano narrativo ma, forse, può essere più utile un’interpretazione retorica che esplori i complessi rapporti tra forme narrative e funzioni argomentative (cfr. Perelman e Tyteca; Rabatel).

Il rapporto tra storia e mito è un tema controverso e nel caso dell’opera di Levi lo è ancora di più, per due motivi: perché si articola sullo sfondo di un discorso etico che deve tenere conto dell’intensità emotiva e della complessità cognitiva di un evento storico come la Shoah, e perché i racconti di Levi sono inevitabilmente legati alla tradizione ebraica, ricca di miti e leggende proprie. La peculiarità di quest’ultima condizione nel rapporto tra storia e mito si può cogliere sinteticamente nelle parole di Yosef Yerushalmi: «se la memoria del passato è sempre stata una componente fondamentale dell’esperienza ebraica, perché non è mai stato compito dello storico quello di custodirla e tramandarla?» (10; cfr. infra, par. 2.3; Gordon 54-56). Yerushalmi mette in luce il ruolo della narrazione profetica e rabbinica nella costruzione della storia e dell’identità del popolo di Israele, insistendo sul valore che le componenti rituale e recitativa hanno nella memoria ebraica. Analogamente, credo che concepire il manifestarsi dell’univers concentrationnaire[1] come il momento mitico in cui ha origine il tempo cronologico sia un modo di porre retoricamente le basi della propria storia. «[L]a poesia di Levi procede dal dato essenziale, “questo è stato” (l’equivalente della dichiarazione dell’unità divina, la verità fondamentale) al suo duro, tangibile incidersi nella memoria, al nostro obbligo di integrarlo nella nostra vita quotidiana, la vita “normale”» (Gordon 66). La storia, individuale e collettiva, che si costruisce tramite la narrazione può essere anche segnata da un «tempo fermo» ma ciò non indica necessariamente l’insuperabilità di un trauma o un’assenza di speranza per il futuro. Al contrario, se inteso come evento che ha sconvolto la storia – e che pone l’esigenza di riconsiderare i diritti umani, l’organizzazione sociale e i valori morali – il continuo riferimento alla Shoah può essere indice di una tenace volontà di riuscire a comunicare agli altri che «questo è stato» e la nuova etica non deve permettere che accada di nuovo (cfr. Adorno). A questo proposito, Stefano Bartezzaghi definisce Levi «scrittore paracronico»: ferma il tempo e «lo inverte nel continuo viaggio fra l’oggi e il passato della storia, della mitologia, della memoria individuale», ma anche «lo proietta verso il futuro della scienza o quello della profezia» (11). Resta inteso che non è possibile escludere che i fantasmi testuali del lager siano il segno di una insuperabilità psicologica del trauma, ma ciò non toglie che possano anche essere indice di un atteggiamento reattivo o proattivo, che muove necessariamente da quell’esperienza ma mostra fiducia nelle possibilità umane di avanzare e costruire la propria storia.[2]

«Ottimisti non si può essere, ragionandoci sopra, non siamo in un mondo buono. Però bisognerebbe comportarsi come se si fosse ottimisti. Se no ci si siede e tutto finisce, se ci si lascia scavalcare dagli avvenimenti» (1980, “Conversazione con Daniela Amsallem”).[3] Adottando un’interpretazione mitica del momento che ha originato la scrittura, la distonia rilevata da Bidussa può essere attenuata riconoscendo che Levi non è un ottimista ingenuo e, pertanto, sarebbe improbabile che i suoi racconti comunicassero un’incondizionata fiducia nel progresso dell’umanità o un appello a sperare in un futuro migliore.[4] D’altronde, è Levi stesso ad ammettere «il fallimento della tecnica come fattore di progresso» (1971, “Primo Levi – Vizio di forma”). Tuttavia, nelle sue opere, la necessità di non lasciarsi scavalcare dagli avvenimenti, di non contribuire allo «sfacelo», emerge nonostante la disperazione con cui si afferma l’inevitabilità della sofferenza. Nemmeno nei racconti più catastrofici la negatività della rappresentazione è in grado di scalfire la convinzione che l’uomo deve essere fabbro di se stesso, deve «costruirsi dalle radici» (1970, VF, OI 625) ed ha la piena responsabilità delle proprie azioni e del mondo che crea. Anzi, la tragedia e il male rappresentati possono essere funzionali all’affermazione delle virtù che costituiscono l’etica di Levi.

È piuttosto noto il brano del racconto Cromo in cui si narra il superamento del trauma di Auschwitz; vale la pena riportarlo per intero poiché sono particolarmente interessanti le osservazioni sulla scrittura:

Lo stesso mio scrivere diventò un’avventura diversa, non più l’itinerario doloroso di un convalescente, non più un mendicare compassione e visi amici, ma un costruire lucido, ormai non più solitario: un’opera di chimico che pesa e divide, misura e giudica su prove certe, e s’industria di rispondere ai perché. Accanto al sollievo liberatorio che è proprio del reduce che racconta, provavo ora nello scrivere un piacere complesso, intenso e nuovo, simile a quello sperimentato da studente nel penetrare l’ordine solenne del calcolo differenziale. Era esaltante cercare e trovare, o creare, la parola giusta, cioè commisurata, breve e forte; ricavare le cose dal ricordo, e descriverle col massimo rigore e il minimo ingombro. Paradossalmente, il mio bagaglio di memorie atroci diventava una ricchezza, un seme; mi pareva, scrivendo, di crescere come una pianta. (1972-74, SP, OI 872-73)

I commenti sul processo creativo hanno una loro utilità per interpretare i riferimenti all’esperienza del lager e ciò che ne emerge è la consapevolezza che l’autore ha dell’aspetto sociale e comunitario della propria scrittura, nonché della propria capacità di trasformare la memoria e la sofferenza in materiale creativamente fecondo. Mario Barenghi sostiene addirittura che «[t]utto il suo impegno di testimone è rivolto alla salvaguardia attiva del futuro, non a una conservazione del passato fine a sé stessa», e ciò è visibile nel brano da Cromo citato sopra, «con il passaggio dalla condivisione emotiva, centrata sul soggetto individuale, alla condivisione razionale, interesse dell’intera comunità umana)» (“Secernere parole”). Le parole di Levi e l’interpretazione che qui propongo suggeriscono che «il bagaglio di memorie atroci» non sia impiegato ed elaborato narrativamente con un’intenzione apotropaica, bensì con un’intenzione costruttiva e formativa: «mi pareva, scrivendo, di crescere come una pianta».[5] Lo stesso brano offre anche un’indicazione utile per indagare il ruolo della memoria nelle opere successive a tale svolta, ossia che i riferimenti all’universo concentrazionario possono intendersi come scelte retoriche che riguardano l’inventio, cioè la «“ricerca e ritrovamento” degli argomenti idonei a rendere attendibile una tesi» (Mortara Garavelli 61). Levi «cerca», «trova», «crea» e «ricav[a] le cose dal ricordo» (Cromo, 1972-74, SP, OI 872-73) utilizzando i meccanismi tipici dell’inventio, «un processo produttivo esauriente [che] scopre (excogitatio) nella res le sue più o meno nascoste possibilità di sviluppare idee» (Lausberg 146, traduzione mia). L’esperienza del lager è quindi anche una risorsa retorica per il Levi narratore.

Indagare in questi termini il rapporto tra esperienza vissuta e fiction permette di valutare il ruolo della memoria storica nelle opere di finzione tenendo conto della funzione di testimonianza ma anche del più ampio valore etico che essa può avere. Cioè vuol dire riconoscere che

[l]a scrittura di Levi è retta da […] pragmatici strumenti d’interpretazione e di analisi e, come conseguenza, non vi è mai, in lui, il vuoto ontologico o morale successivo all’Olocausto, mai il silenzio radicale condizionato dal male radicale che altri hanno evocato, ma solo la terribile responsabilità di dover includere anche questo tratto, perfino questo, nella definizione di ciò che è umano. (Gordon 24)[6]

 

1.2 Dalla resistenza alla (ri)costruzione

Secondo quanto appena detto, nella composizione retorica dei racconti dovrebbe dunque essere visibile la dichiarata fiducia di Levi nelle capacità dell’uomo di superare Auschwitz. Se così fosse, sarebbe allora limitante interpretare l’innegabile «perennità di Auschwitz» solamente come insuperabilità del trauma. La complessità della questione è stata messa in evidenza da molti altri critici e riconosciuta dallo stesso Bidussa (507)[7], il quale afferma che in molte opere vi è una costante rielaborazione dell’esperienza del lager, la quale, oltre ad essere l’occasione che ha reso Levi uno scrittore, è un’esperienza che viene trasformata nei processi della memoria, della testimonianza e della fiction. È questo un aspetto ribadito anche da Sophie Nezri, con un’attenzione particolare alla poetica dell’autore:

[l]’iterazione tra esperienza e finzione, esplicita o implicita in Levi, è una delle chiavi della sua intensa creatività. La sua opera è infatti una vasta iterazione – o una vasta allegoria iterativa – della sua esperienza primordiale, che egli cercò sia di ripetere sia di trasformare. […] Se è essenziale all’interno di una frase, di una stessa pagina o di uno stesso libro, può anche manifestarsi da un libro all’altro, in modo più o meno mascherato, per esprimere un’ossessione, un “autobiografismo metaforizzato”. In questo senso, l’opera leviana presenta spesso, in filigrana, un’unità psicologica e poetica sorprendente.
Certi personaggi, nati spesso ad Auschwitz, diventano così ricorrenti. Errano, quali fantasmi o dibbuk, da un racconto all’altro, per diventare progressivamente paradigmatici. Alimentano una tipologia di figure che, in quanto creazioni artistiche, corrispondono ad una visione idealizzata – nel senso di “primordiale” – dell’uomo leviano. (“Iterazioni” 374)

Le osservazioni di Nezri sintetizzano l’interconnessione tra gli aspetti principali dell’opera di Levi: l’intento di testimonianza, lo stretto rapporto tra memoria e finzione, e l’importanza di ciò che è originario, primordiale. Ho già introdotto alcune possibili linee di indagine riguardanti i primi due aspetti; a proposito del terzo basti per ora ricordare che in più di un’occasione Levi afferma l’importanza del tempo primordiale: ad esempio, nel racconto Una stella tranquilla viene esplicitata la modalità di scrittura che si vuole adottare: «come una favola che ridesti echi, ed in cui ciascuno ravvisi lontani modelli propri e del genere umano» (1978, L, OII 78). Questa dichiarazione di poetica rivela l’interesse di Levi per il valore antropologico dell’immaginazione e della narrazione, un’interesse che, a mio avviso, è molto profondo e lo porta ad attingere ai miti in quanto enciclopedie di simboli che possono arricchire il suo discorso etico.

Tenendo presente il rapporto tra testimonianza, fiction e miti, nelle pagine che seguono mi concentrerò sul ruolo della fiction nella retorica e nell’etica dell’autore, affrontando nel capitolo 2 la questione dello specifico valore dei miti. L’interesse per questo argomento nasce dalla convinzione che i contesti di finzione generino una relazione particolare con l’evento storico che permette all’autore di giocare più liberamente con l’immaginario e con gli strumenti retorici a sua disposizione. Non è però trascurabile il fatto che l’atteggiamento proattivo di Levi sia già visibile nei testi più legati all’esperienza concentrazionaria. A tale proposito, per esempio, Mario Rigoni Stern ha affermato che La tregua è «l’Odissea moderna […], il libro del ritorno alla vita e del recupero dell’uomo dopo la discesa agli inferi» (“Primo Levi, moderna Odissea” 150; cfr. Porro, “Scienza” 458-59). Ma la minaccia di una nuova distruzione di massa che Levi avverte come sempre presente (I padroni del destino, 1982, AM, OII 782-85; Lettera 1987, VF, OI 571) pone la necessità che gli uomini non concepiscano quel catastrofico evento – ed elaborino un rapporto con esso – solamente nei termini della memoria e della testimonianza, cioè con uno sguardo che lega il pensiero al passato, che concepisce la scrittura intorno all’universo concentrazionario solamente come esempio di resistenza, come reazione ad esso. Ciò che emerge dai saggi e dai racconti di Levi è la necessità di un effettivo superamento di Auschwitz sul piano etico e sociale, di un atteggiamento e di un discorso che permettano di includere tale evento nella storia della civiltà occidentale, per poter vivere senza dimenticare ciò che è avvenuto.

In questa prospettiva è interessante il lavoro di Robert Gordon, il quale ha messo in luce che le opere di Levi non si presentano esclusivamente come elaborazione e superamento psicologico della Shoah, bensì fin dalle pagine di Se questo è un uomo, e poi maggiormente nelle opere successive, l’autore costruisce un passaggio «dalla testimonianza all’etica». Gordon indica come Levi

apporti[i] alle sue osservazioni un insieme di valori riconoscibili, racchiusi nella sua scrittura. Tali valori lo accompagnano costantemente in tutti i suoi scritti, pur assumendo forme sempre diverse, e le vicissitudini che insieme essi attraversano, nella memoria o nella finzione, sono la linfa vitale delle sue storie e dei suoi saggi. […] [Q]uesti valori, come personaggi di un romanzo, sono a volte ridotti a mal partito dagli eventi e altre volte resistono, in una lotta incessante per la sopravvivenza […] È proprio col narrare racconti morali in sfida ad Auschwitz che Levi ingaggia una lotta drammatica per la conservazione della nozione stessa di valore, per quanto fragile o instabile. (22-23)

Secondo questa tesi, Levi non vuole dunque limitarsi a testimoniare ma denuncia anche la necessità di un più ampio progetto educativo ed etico:

Il processo Eichmann e la documentazione delle nefandezze naziste hanno un indubbio valore educativo, ma non bastano. La loro efficacia, la loro portata, non sarà grande finché permane, in Germania ed anche in Italia, l’ambiguo clima di vacanza morale che è stato instaurato dal fascismo, e gli sopravvive parte per inerzia, parte per sciocco calcolo.
Questa necessaria restaurazione morale non può che venire dalla scuola. (Levi, “La questione ebraica” 1961; cfr. Gordon 20)

Levi si impegna in prima persona in tale processo «sociale, politico e morale» e il tradursi in azione di questa consapevolezza «si potrebbe riassumere nel passaggio dalla deposizione come testimone alla composizione come scrittore» (Gordon 20)[8]. «La sua etica liberale e illuminista è sopravvissuta ad Auschwitz, sebbene scossa alle radici, radicalmente spiazzata e rimodellata da quell’esperienza traumatica, e tuttavia intatta» (24). La «restaurazione morale» di cui parla Levi, dunque, riguarda la dimensione metaetica: la riaffermazione della «nozione di valore» (23) e dell’esigenza di un’educazione all’etica. Non significa recupero di valori e sistemi etici antecedenti alla Shoah, in quanto questi sono stati radicalmente sconvolti e necessitano quindi di essere fondati nuovamente, costruendoli dalle radici, andando all’origine dell’etica.

Queste considerazioni sono alla base della mia interpretazione della scrittura di Levi come esempio di atteggiamento proattivo, in cui il valore formativo della narrazione è elemento centrale; una scrittura che, pertanto, non può prescindere dalla dimensione comunitaria e sociale della letteratura. Nelle parole di Levi:

Credo che occorra una certa dose di ottimismo, senza la quale non si fa nulla e non si vive bene. «Non c’è più nulla da fare» è un’affermazione intrinsecamente sospetta, che non ha utilità pratica; serve soltanto, a chi la enuncia, come esorcismo, cioè serve a poco. […] Questa non è altro che la proposta di un incompetente: candida, presuntuosa, o addirittura ridicola, ma è una proposta, non è una interiezione né un ritornello né un sospiro sconsolato. Chi la giudica assurda le deve contrapporre un’altra proposta; dovrebbe essere questa la regola del gioco, ed è un gioco la cui posta è alta. (Le lance diventino scudi, 1981, OII 936)

Ogni forma di vita sociale ha delle regole e per Levi una delle norme di comportamento fondamentali è quella di «proporre», di fare qualcosa per migliorare la vita di tutti. Un’atteggiamento condiviso anche da altri autori che professano un’ottimismo della volontà nonostante il pessimismo della ragione, affermando la necessità della prassi come fondamento per un’etica e un mondo nuovi, perché «quando si riesce a introdurre una nuova morale conforme a una nuova concezione del mondo, si finisce con l’introdurre anche tale concezione» (Gramsci 46).

 

2. Fiction

2.1 Etica dell’invenzione

I racconti di finzione hanno un ruolo cruciale nell’elaborazione di una proposta per il futuro dopo Auschwitz. Tale ipotesi è stata formulata anche da Frediano Sessi:

[p]er Primo Levi […] il racconto di finzione sembra essere possibile, proprio a partire da ciò che a detta di molti lo renderebbe impossibile, se non immorale, ingannatorio. Si tratta, forse, di proseguire nell’opera di resistenza, ricostruendo mediante l’invenzione uno spazio comune, fuori dal campo della morte, dentro la società civile. (332)

Tuttavia, come già osservato per i commenti di Rigoni Stern, una prospettiva critica che consideri le opere di Levi come atti di resistenza alla Shoah corre il rischio di prendere in considerazione esclusivamente il rapporto dell’autore con il passato, intendendo la testimonianza come memoria e tentativo di comprensione di ciò che è stato. In tale prospettiva, «ricostru[ire] mediante l’invenzione uno spazio comune, fuori del campo della morte, dentro la società civile» rende possibile la condivisione della memoria. Secondo Sessi è la fiction a permettere questo importante passo nell’elaborazione storica e civile di quegli eventi, ed è con Se non ora, quando? e I sommersi e i salvati che Levi porta a compimento la propria testimonianza:

egli ha compiuto la sua opera di resistenza civile contro il carnefice aprendo lo spazio a una letteratura che sappia essere espressione del patire dei sommersi e delle vittime della storia. Autentica testimonianza anche se ancorata alla fiction. (335)

Queste osservazioni sono fondamentali per comprendere la portata del valore testimoniale e memorialistico delle opere di Levi, tuttavia non tengono in considerazione il valore etico che va oltre la testimonianza. «Capire l’essere umano in condizioni estreme getta luce sul presente e sul futuro e trasforma in testimoni anche coloro che non hanno vissuto l’esperienza dello sterminio» (335), ma il ponte tra passato e futuro non è costruibile solamente sui pilastri della testimonianza e, soprattutto, la fiction di Levi non costruisce tale ponte solamente con una funzione di testimonianza. Vi è un discorso etico per il futuro che è più ampio e non riconducibile ad essa, un discorso che si alimenta anche della formazione culturale di Levi, del contesto in cui è cresciuto e ha vissuto, delle sue competenze e dei suoi interessi (Gordon 21-24). E tra le fonti di finzione più generose a cui attingere per tale discorso vi sono i miti, come cercherò di dimostrare.

2.2 La fiction nell’epistemologia di Levi

Per poter comprendere al meglio il valore etico della fiction è opportuno prendere in considerazione la sua funzione nell’epistemologia dell’autore, quindi valutare il ruolo dell’etica in rapporto a una visione del mondo e a una possibilità di azione che vadano oltre la testimonianza. A questo proposito, nel solco della prospettiva già delineata da Gordon, Pierpaolo Antonello ha ribadito come Levi sia non solo «osservatore del lager» bensì anche «della modernità post-bellica» (“La materia, la mano, l’esperimento” 89), e ha messo in evidenza il modo in cui l’autore elabora un discorso etico tramite la narrazione:

[l]’etica corrisponderebbe quindi a una tecnica della costruzione del sé. Techné che prevede sia un contesto di trasmissione socio-culturale (le «radici», la conoscenza «comunicabile attraverso esempi e non precetti»), sia una esperienza fattuale, hands-on (il laboratorio, il lavoro), e che si definisce secondo un principio continuo di autocorrezione. In questo senso sia Il sistema periodico che La chiave a stella sono dei Bildungroman [sic], dei percorsi di apprendistato, di costruzione del sé psicologico, epistemico, morale e artistico. (115)[9]

In questo brano Antonello menziona due delle chiavi di accesso al sistema etico di Levi: la trasmissione delle radici e la competenza tecnica. Entrambi sono aspetti della vita dell’autore che devono molto al passato ma sono anche proiettati verso il futuro, verso un’umanità che sia responsabile. La «ricerca delle radici» e la loro trasmissione è fondamentale per una crescita solida che dia buoni frutti, e il «saper fare» è uno strumento indispensabile per tale crescita:

la sua etica non è mai prescrittiva, ma dispiega appunto un know-how etico: «interessa quello che uno fa, non quello che uno è. Uno è i suoi atti, passati e presenti: niente altro» [Psicofante, 1968-70, VF, OI 688]; «La teoria è futile e si impara per strada, le esperienze degli altri non servono, l’essenziale è misurarsi» [Zinco, 1972-74, SP, OI 766]. (114-15)

La volontà di Levi di contribuire a costruire un nuovo mondo è evidente anche nei saggi: «le fondazioni della nostra civiltà tecnologica devono essere consolidate da misure e definizioni precise» (La misura di tutte le cose, 1980, RR, OII 1493). Levi si preoccupa di quali saranno le basi su cui si svilupperà l’umanità, i valori e i principi su cui costruire una nuova «civiltà tecnologica» che non ripeta gli errori del passato. In particolare, è da sottolineare l’atteggiamento che assume nel voler partecipare alla costruzione del futuro e i toni del suo discorso: «non è un moralista strictu senso, non ha un sistema morale a priori, la sua etica non è mai prescrittiva» (Antonello, “La materia, la mano, l’esperimento” 114). Questa osservazione di Antonello trova conferma nelle parole con cui Levi nega la possibilità che ci sia qualcuno in grado di assumere il ruolo di vate:

[i]l nostro futuro non è scritto, non è certo: ci siamo svegliati da un lungo sonno, ed abbiamo visto che la condizione umana è incompatibile con la certezza. Nessun profeta ardisce più rivelarci il nostro domani, e questa, l’eclissi dei profeti, è una medicina amara ma necessaria. Il domani dobbiamo costruircelo noi, alla cieca, a tentoni; costruirlo dalle radici, senza cedere alla tentazione di ricomporre i cocci degli idoli frantumati, e senza costruircene di nuovi. [Eclissi dei profeti, 1984, AM, OII 856]

La prospettiva nei confronti del futuro, dunque, è caratterizzata dall’«emergenza di un atteggiamento pragmatico nei confronti della realtà, come costruzione della propria storia e della conseguente narrazione» (Antonello, “La materia, la mano, l’esperimento” 115). A tale proposito, oltre che tramite la «ricerca delle radici» e l’abilità tecnica, Antonello afferma che «per tenere assieme un mondo concettuale popolato di centauri e anfibi, di figure miste e molteplici, Levi non ha potuto che affidarsi alla parola creativa, all’invenzione letteraria» (88), e fa alcune fondamentali riflessioni sull’utilizzo della fantascienza come istanza conoscitiva[10]. L’etica di Primo Levi, dunque, è costruita e promossa anche tramite una praxis poetica che utilizza i contesti di finzione come un ambiente fertile per la generazione di forme e figure che trasformino le esperienze passate – non solo quelle del lager – in possibili occasioni future.

Oltre alla fantascienza, genere particolarmente adeguato per una riflessione su un tema – l’incontro fra natura e tecnica – molto frequentato dall’autore, vi è un altro tipo di letteratura che ritorna nei racconti: il mito. È sempre Antonello, nella sua approfondita analisi dei rapporti tra cultura umanistica e cultura scientifica in Levi, a notare come

[n]el momento del distacco dall’esclusivo ruolo testimoniale, così da diventare un po’ più scrittore e un po’ più chimico, Levi sembra prepararsi il terreno, mitologizzando i propri presupposti epistemologici, scegliendo il centauro come proprio simbolo araldico, facendo riferimento a quell’universo di proto-scienza che è l’immaginazione mitica, «poesia delle origini», «intuizione panica dell’universo» [La Cosmogonia di Queneau, 1982, AM, OII 769]. (Antonello, “La materia, la mano, l’esperimento” 84)[11]

La presenza di elementi fantascientifici e mitici è interpretabile come ricorso a forme che permettono di far convergere nel discorso letterario le contraddizioni dell’universo e le forze centrifughe che agitano la condizione umana: la fantascienza tramite la creazione ed esplorazione di ibridi artificiali, il mito tramite l’«intuizione panica» e le figure simboliche tramandate dalla tradizione.

Questo pensare per ossimori, questo enucleare le contraddizioni insite nei fenomeni umani ha uno scopo concettuale importante, ad un tempo etico, pedagogico e epistemologico: il mettere in guardia contro le derive di un pensiero troppo sicuro di sé, contro giudizi discriminanti che comportano sempre un’espulsione, una purificazione ‘eccessiva’: «perché la ruota giri, perché la vita viva, ci vogliono le impurezze, e le impurezze delle impurezze: anche nel terreno, come è noto, se ha da essere fertile» [Zinco, 1972-74, SP, OI 768]. (Antonello, “La materia, la mano, l’esperimento” 89-90)

Scienza, letteratura, fantascienza e mito sono tutte istanze che hanno ruoli cruciali nella poetica e nella retorica di Levi, e se dei primi due è stato scritto molto, fantascienza e mito non hanno goduto della stessa popolarità fra la critica. Il mio proposito è di contribuire a colmare una di queste lacune.[12] Prima di occuparmi di miti, però, è fondamentale per il mio discorso chiarire in che modo gli elementi di finzione intervengono nel passaggio dalla testimonianza all’etica, da un’atteggiamento reattivo ad uno proattivo.

 

2.3 Procedimenti retorici nei contesti di fiction

Tra coloro che si sono occupati di fiction nelle opere di Levi, David Bidussa affronta la questione in un modo che offre spunti interessanti. Egli ritiene che i racconti di finzione abbiano un aspetto tragico e malinconico in quanto, nonostante il ricorso alla fiction, l’autore non riesce a superare l’esperienza di Auschwitz. Secondo il critico, nei racconti di Storie naturali, Vizio di forma e nella sezione “Futuro anteriore” di Lilít si ha

la percezione che la categoria di testimonianza costituisca allo stesso tempo una dimensione obbligata, ma insufficiente. Una dimensione che non permette di elaborare metafore, ma solo di costruire una macroallegoria: ossia non determinare un processo di comprensione per comparazione, ma solo la riproduzione imperfetta di un complesso cui al massimo si accede per allusione, ma in forma incompleta e, soprattutto, incompiuta. (514-15)

Tale constatazione si basa sulla tesi del «tempo fermo» sostenuta da Bidussa, secondo la quale i racconti fantastici sono necessariamente legati alla categoria della testimonianza perché Levi non riesce a liberarsi degli incubi del passato[13]. Il giudizio sull’esito dell’intento testimoniale della fiction, però, è negativo:

[s]e all’inizio la scrittura allude a un processo di «rimemorizzazione collettiva», ora non rimane che un processo bloccato, un tempo fermo. La questione della memoria pubblica, della costruzione di un costume della mente che permetta la costruzione per figure di una catena di significati, si dissolve […]. (515)

L’argomento con cui Bidussa spiega la sua interpretazione dei racconti fantastici fa appello alla concezione di «allegoria» sviluppata da Benjamin, secondo il quale «l’allegoria mostra agli occhi dell’osservatore la facies hippocratica della storia come irrigidito paesaggio originario» (“Il dramma barocco tedesco” 202); «le allegorie sono, nel regno del pensiero, quello che sono le rovine nel regno delle cose» (184; cfr. Bidussa 515, nota 36). Per Bidussa, quindi, «il pessimismo intorno alla categoria di progresso» (514) e i paesaggi distopici dipinti nei racconti fantastici e fantascientifici sono il segno dell’ossessione per Auschwitz, sono allegoria di quel «paesaggio originario» che è il lager[14]. Lo sguardo di Levi, dunque, è costantemente rivolto alla prigionia e al bisogno di testimoniare quegli eventi. Per dirla ancora con Benjamin, «[s]e è la fantasia che offre al ricordo le corrispondenze, è però il pensiero che gli dedica le allegorie. Il ricordo porta fantasia e pensiero al loro punto di congiunzione» (“Appunti e materiali, Baudelaire”). In accordo con tale concezione, nel momento in cui «la questione della memoria pubblica […] si dissolve», Bidussa vede emergere nei racconti «una contorta logomachia in cui ciò che conta è la descrizione delle psicologie dell’accerchiamento» (515). Quello descritto da Bidussa è lo stesso atteggiamento poetico esibito da chi trasforma gli oggetti in allegoria, il malinconico descritto da Benjamin: «[s]e l’oggetto diventa allegorico sotto lo sguardo della melanconia, se questa lascia scorrere la vita via da esso e l’oggetto rimane come morto, ma assicurato in eterno, eccolo affidato alle mani dell’allegorista, nella buona e nella cattiva sorte» (“Il dramma barocco tedesco” 219).

In sintesi, secondo Bidussa, i racconti di finzione di Levi sono allegorie dell’universo concentrazionario, il segno di un’ossessione di cui l’autore non riesce a liberarsi e che lo fa vivere ancorato al passato. Il sopravvissuto può solo vivere nella dimensione del ricordo e costruire allegorie, al massimo sognando il proprio futuro.[15] Come già sottolineato da Bidussa, tale lettura è distonica rispetto a quanto comunicato da Levi sul piano argomentativo, sia nei saggi sia nelle narrazioni: contraddice la fiducia nelle capacità dell’homo faber di costruirsi da sé, nega ogni possibilità di azione condannando il sopravvissuto a languire malinconicamente rivivendo il proprio passato, sebbene trasformato dall’allegoria. Che sia volontario recupero del passato (Baudelaire) o sofferto imprigionamento in un incubo impossibile da superare (Levi, secondo Bidussa), l’allegoria permette di esprime una tensione vissuta, ma non propone nessuna forma di azione per allentare tale tensione. In questo senso l’allegoria è una forma di “organizzazione del pessimismo” (Trentin)[16].

Il valore allegorico di personaggi, cose e scenari non è certo da escludere, ma non credo che tale interpretazione sia soddisfacente. A mio avviso, i racconti di finzione sono anche discorsi tramite i quali Levi dà delle coordinate per la storia futura. Queste funzioni sono individuabili nelle opere in due modalità retoriche distinte: vi sono allegorie del passato ma anche simboli di un possibile futuro. È questo l’aspetto proattivo a cui ho accennato in precedenza. Nei contesti di finzione e tramite la creazione di universi immaginari Levi costruisce simboli che gli permettono di comunicare un’etica e contribuiscono alla riflessione sulla condizione umana e sui limiti dell’uomo; una riflessione rivolta al futuro, alle possibilità e alle opportunità che l’umanità ha dopo Auschwitz, per far sì che esso non si ripeta.

 

3. Simboli e allegorie

L’esperienza del lager è «tutt’altro che simbolica o simbolizzabile, non riducibile a schema visivo astratto» (Bertone 244), tuttavia nei racconti di finzione Levi attinge a quell’esperienza per costruire simboli. Così come trova topoi adatti alle sue esigenze espressive anche nei domini della fantascienza e del mito.

Sia la nozione di «simbolo» sia quella di «allegoria» sono state intese ed utilizzate in molti modi;[17] per comprendere in che modo tali concetti possono aiutare nell’interpretazione delle opere di Levi può essere utile citare un testo di Umberto Eco in cui si definisce il concetto di «simbolo» facendo riferimento ad un precedente lavoro di Francesco Orlando su Mallarmé:

Francesco Orlando considera un poema in prosa di Mallarmé, Frisson d’hiver (1867). Il poema non presenta particolari difficoltà di interpretazione tropica, le metafore o gli altri traslati sono contenuti e comprensibili. Ciò che in esso colpisce è la descrizione ossessiva di una pendola, di uno specchio, e di altri elementi di arredamento: fuori posto perché insistiti, fuori posto perché la complessiva confortevolezza dell’arredamento contrasta con l’apparizione, tra un paragrafo e l’altro, di ragnatele tremolanti nell’ombra delle volte. Si trascurano altri indici di spaesamento, dovuti alle poche battute di dialogo di una interlocutrice misteriosa, e dall’appello che il poeta le rivolge. Il critico è costretto a riconoscere subito che quegli oggetti di arredamento non possono stare soltanto per se stessi. «Che in tutto il testo sia presente una carica simbolica… è reso indubbio dalla stessa irrazionalità del parlare di ciò di cui si parla, così come se ne parla». Di lì il tentativo di interpretazione, che da un lato lega il significato di quegli oggetti a una enciclopedia testuale mallarméana, dall’altro li collega tra loro, in un sistema co-testuale di rimandi. L’operazione interpretativa investe quegli oggetti di contenuti abbastanza delimitati (distanza temporale, desiderio di regressione, rifiuto del presente, antichità…) e quindi ritaglia una zona di enciclopedia a cui le espressioni rimandano. Ma non si tratta di un fissaggio allegorico: non c’è elaborazione di codice, al massimo un orientamento ai codici possibili. Non si ha qui l’infinità incontrollabile del simbolo mistico, perché il contesto controlla la proliferazione dei significati: ma nello stesso tempo, sia pure entro i confini del campo semantico della ‘temporalità’, il simbolo rimane aperto, continuamente reinterpretabile. Tale è la natura del simbolo poetico moderno. (“Simbolo” 909-10; cfr. Orlando, “Le due facce dei simboli in un poema in prosa di Mallarmé” 380)[18]

In questa accezione, il simbolo «moderno» non esaurisce la propria capacità di esemplificazione in un insieme di significati facilmente strutturabile, bensì induce a interrogarsi sul senso del simbolo stesso. L’organizzazione retorica del testo crea una relazione anomala tra il contesto (co-testo, ma anche enciclopedia) e l’oggetto simbolico, suscitando nel lettore uno «spaesamento» che alimenta uno o più tentativi di interpretazione del simbolo. Leggendo si è così portati a creare connessioni tra il simbolo e altri elementi contestuali per dare un senso al sistema di relazioni testuali incontrato. Ma la peculiarità del simbolo rispetto all’allegoria è il fatto di «rimane[re] aperto, continuamente reinterpretabile», di non concedere mai la possibilità di trovare un senso che risolva definitivamente l’anomalia e ricomponga un’unità di significato (cfr. Franzini, I simboli e l’invisibile). È Levi stesso a dire che «un libro, o anche un racconto, ha tanto più valore quanto più numerose sono le chiavi in cui può essere letto e quindi sono vere tutte le interpretazioni, anzi più interpretazioni un racconto può dare, più un racconto è ambiguo. Insisto su questa parola, ambiguo: un racconto deve essere ambiguo se no è una cronaca, perciò vale tutto, vale la razionalità, vale il mondo fantascientifico e vale anche la sensazione dei sogni» (1986, “Il gusto dei contemporanei” 7).

Nelle sue opere l’esempio più noto di simbolo è probabilmente quello del centauro: figura che, nella narrativa, nella poesia e nella saggistica, di volta in volta può significare la condizione dell’umanità, del popolo ebraico o dell’autore; e di quest’ultimo, a volte la scissione tra chimico e scrittore, a volte quella tra ebreo e italiano, o tra testimone e narratore (cfr. Belpoliti, “Io sono un centauro”). Ma ciascuna occorrenza del simbolo non è riconducibile esclusivamente ad una delle possibili condizioni appena citate: da un lato è vero che ogni rappresentazione del centauro orienta il lettore verso un’interpretazione contestualmente più rilevante, dall’altro, in virtù della relazione con un’enciclopedia più ampia, il simbolo-centauro rimanda ogni volta anche a tutte le altre interpretazioni plausibili all’interno del dominio di riferimento[19] (a differenza del simbolo mistico, soglia d’accesso ad un’infinità di significati).

Il procedimento appena descritto è quello di un «orientamento ai codici possibili» per l’interpretazione simbolica, processo che Eco oppone all’«elaborazione di codice» tipica del «fissaggio allegorico». Tale opposizione, però, non è in grado di cogliere la concezione di «allegoria» utile per discutere la proposta di Bidussa, ossia la lezione di Benjamin. La staticità dell’allegoria menzionata da Eco è analoga quella degli stereotipi di cui parla Levi: tale tropo non è mai scevro dal rischio di un’interpretazione fissata e codificata. La riflessione benjaminiana, invece, salva l’allegoria da tale rischio: «[l]e figure, i frammenti fissati nella loro caducità, esitano, sull’abisso di un senso irrimediabilmente perduto, tra un significato e l’altro. Ma è sulla ricchezza di questa ambiguità, con la quale si entra nel campo delle “antinomie dell’allegorico” […] che Benjamin punta lo sguardo» (Pedretti 10).

Ogni personaggio, ogni cosa, ogni situazione può significare qualsiasi altra cosa. Questa possibilità equivale a un giudizio distruttivo, benché giusto, sul mondo profano. Esso viene caratterizzato come un mondo in cui i dettagli a rigore non contano nulla. Eppure è innegabile che questi oggetti significanti acquistino, proprio col loro continuo rimandare ad altro, un potere che li fa apparire incommensurabili con le cose profane e che può sollevarli su un piano più alto, il piano del sacro. Di conseguenza nella concezione allegorica, il mondo profano viene al tempo stesso innalzato di rango e svalutato. (Benjamin, “Il dramma barocco tedesco” 210)

Personaggi, cose e situazioni si presentano come delle rovine, sono i dettagli di qualcosa che non c’è più che sopravvivono nel presente perché fissati dall’allegoria. «Ciò che è colpito dall’intenzione allegorica viene estrapolato dai nessi della vita: viene distrutto e conservato allo stesso tempo. L’allegoria resta fedele alle macerie. E dà l’immagine dell’inquietudine irrigidita» (“Parco centrale” 187). Così, secondo Bidussa, nei racconti di finzione (soprattutto nella sezione “Futuro anteriore” di Lilít e altri racconti) e ne I sommersi e i salvati, troviamo le macerie di Auschwitz, scene che ricordano la vita nel lager: la difficoltà di uscire dalle dinamiche di gruppo, anche qualora il conformarsi ad esse generi malessere (I gladiatori, 1976, L, OII 82-86); la concreta possibilità che si verifichino situazioni che sembrano assurde e insensate (La bestia nel tempio, 1977, L, OII 87-92); l’esorcizzazione del dolore tramite il linguaggio e l’arte (Calore vorticoso, 1978, L, OII 100-03); il sentirsi preda di cacciatori che non lasciano scampo (I costruttori di ponti, 1978, L, OII 104-08); riflessioni metanarrative sull’incapacità del linguaggio e dei testimoni indiretti di descrivere fenomeni extra-ordinari (Una stella tranquilla, 1978, L, OII 77-81), ecc.

In questi racconti vi è un rapporto con il passato dominato da una «memoria consolatrice» (Bidussa 514-15), un rapporto esprimibile solamente da una «contorta logomachia» tramite la quale il sopravvissuto cerca disperatamente di alleviare la propria angoscia. Angoscia per l’impossibilità che la ferita infertagli dai carnefici si rimargini, angoscia per il fatto che mai riuscirà a superare il trauma. Tale sentimento è alimentato anche dal lavoro dei revisionisti storici, «testardi militanti della memoria» che vogliono riscrivere il passato, e facendo ciò riaprono vecchie ferite. Anzi, sostengono che le ferite dei deportati siano il frutto della paranoia, del loro vedersi come vittime di un complotto. Se gli strumenti di riflessione più usati da Levi sono «l’analitica del terrore subíto, della costruzione della morte come industria» – strumenti ancora utilizzati in Storie naturali e Vizio di forma, grazie all’ironia, nella sezione “Passato prossimo”, oltre che nella narrativa documentaristica e nei saggi, fino a I sommersi e i salvati (Bidussa 515, nota 38) – la sua retorica contraddice la riflessione esplicita e afferma l’impossibilità di difendersi dal doloroso ricordo di Auschwitz. L’unica possibilità di resistenza è nella battaglia verbale con cui si tenta a tutti i costi di ribadire la distanza tra carnefici e vittime, anche per rispondere ai revisionisti della storia. Tale spasimo dialettico è caratterizzato dalla «descrizione delle psicologie dell’accerchiamento» che fa scadere il racconto nella «vecchia storia del complotto», fino al punto in cui le vittime sono rappresentate come «ingenui Venerdì minacciati da perfidi Robinson» (515).

In sintesi, tale interpretazione considera i racconti di Levi come delle «macroallegorie» nel senso benjaminiano, cogliendo la trasformazione del rapporto con la storia, il passaggio dalla «memoria pubblica» alla «memoria consolatrice»: dallo sforzo per la «costruzione di un costume della mente che permetta la costruzione per figure di una catena di significati» (515) condivisibili si giunge all’atteggiamento del malinconico che dissemina i propri discorsi con dettagli del passato, e per il quale «[i]l ricordo può fare […] del compiuto (il dolore) un incompiuto» (“Appunti e materiali, Baudelaire” 528), «trasfigurarlo al fine di farlo apparire sopportabile. È questa la tendenza progressiva dell’allegoria» (538).

Come giustamente colto da Bidussa, tale atteggiamento arresta lo scorrere del tempo nell’istante immobilizzato dall’allegoria, è il «tempo della storia [che] si è fermato sul meridiano di Auschwitz» (506). Tuttavia, l’interpretazione allegorica non rende giustizia all’ampio spettro di significati offerti dalle opere di Levi. In particolare, è la diversa impostazione epistemologica di Benjamin e Levi a esigere l’introduzione di altri strumenti ermeneutici. Benjamin afferma che «[l]o stupore perché le cose che viviamo sono ‘ancora’ possibili nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico. Non è all’inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi» (“Sul concetto di storia” 76). Levi, al contrario, non pronuncia mai parole così negative a proposito della possibilità di conoscere, né a proposito dell’idea di storia. L’atteggiamento di Levi è senz’altro critico ma raramente distruttivo: vi sono numerosi esempi che possono attestare il suo sforzo conoscitivo e le riflessioni su di esso, così come vi sono esempi in cui si mette in dubbio l’idea di progresso. In ogni caso, però, sono critiche costruttive, e anche nei tesi in cui vengono rappresentati scenari di devastazione vi sono tracce che possono condurre alla fondazione di idee e valori validi per il futuro. Le argomentazioni di Levi per il superamento di Auschwitz sono evidenti anche a Bidussa, sul piano narrativo, invece, sarà l’interpretazione simbolica a permettere la ricostruzione delle tracce sparse nei racconti di finzione.

Talvolta, allegorie e simboli sono ben distinguibili, altre volte le stesse forme narrative possono svolgere entrambe le funzioni. Come le allegorie, anche i simboli costruiti da Levi possono sorgere dalle rovine del passato, dal passato storico ma anche da un passato mitico, dall’origine dell’uomo e della civiltà. L’intenzione autoriale è di fondare simboli che orientino il futuro, che siano buone radici per costruirsi da sé, per vivere con gli altri e per incentivare un uso responsabile delle capacità umane[20]. Nei simboli sono condensati il processo di conoscenza del proprio passato – la ricerca delle radici – e la possibilità di costruzione del proprio futuro. E, tra le possibili fonti da cui attingere materiale per la costruzione di simboli, l’inventio di Levi ricorre spesso al dominio del mito.


  1. Uso questo termine, più ampio di Shoah, perché i racconti e la riflessione di Levi superano i limiti dell’appartenenza al popolo ebraico per includere la totalità delle esperienze legate al campo di concentramento e alla persecuzione nazifascista.
  2. Uso qui il termine «proattivo» nel senso di assumersi la responsabilità del cambiamento attraverso l’azione, piuttosto che limitarsi a subire o reagire al cambiamento delle condizioni esterne (Frankl). Sull’ottimismo di Levi cfr. Anissimov; Cases; Parussa; Porro “Scienza”. Parussa riconduce l’ottimismo di Levi alla tradizionale attesa messianica dell’ebraismo, Cases e Anissimov al suo razionalismo illuminista, Porro all’impulso biologico di organizzazione del vivente.
  3. Sulla necessità dell’azione cfr. la poesia Delega (1986, OII 624).
  4. A conferma di ciò si potrebbe citare la predilezione di Levi per la teoria evoluzionistica stocastica di Darwin, piuttosto che per l’evoluzionismo teleologico di Lamarck; cfr. il brano da L’origine delle specie antologizzato in La ricerca delle radici (1981, OII 1383-87); cfr. anche Belpoliti. “Darwin, Charles”. Inoltre, ne Gli stregoni (1977-80, L, OII 151-61) la costruzione retorica della narrazione e il contrasto con la parte didascalica che chiude il racconto suggeriscono una critica al concetto di progresso.
  5. La distinzione è ancora quella tra atteggiamento reattivo e atteggiamento proattivo. Non è comunque possibile escludere una funzione consolatrice e apotropaica (cfr. Bidussa).
  6. «Levi ci dice che non possiamo tirarci fuori dalla responsabilità di essere uomini» (Antonello, “La materia, la mano, l’esperimento” 90). Sulla fiducia nelle capacità dell’uomo che Levi mantiene anche dopo l’esperienza del lager hanno scritto in molti, cfr. la sintesi di Charlotte Ross (6-7).
  7. Cfr. anche la tesi di Cavaglion, secondo il quale tutti i testi successivi a Se questo è un uomo sono una glossa alla prima opera (“Il termitaio” 76-90).
  8. Cfr. «Questo passaggio dalla testimonianza alla riflessione ha un parallelo nel passaggio intenso da psicopatologia a riflessione, nella scrittura di Se questo è un uomo […], che suggerisce un importante parallelo fra testimonianza e trauma (superare la testimonianza equivale a superare il trauma)» (Gordon 254, nota 17).
  9. La citazione «comunicabile attraverso esempi e non precetti» è da Polanyi (54).
  10. Altrettanto importanti sono i lavori di Anna Baldini sui racconti di finzioni di Levi (“Disertare la vita”; “Le operette morali di Primo Levi”; “Lavoro creativo, Nel parco”) e quello di Francesco Cassata (Fantascienza?).
  11. Il «momento del distacco» a cui si fa riferimento coincide con la pubblicazione del racconto Il cemtauro Trachi sul quotidiano Il Mondo, il 4 aprile 1961.
  12. Non mi occupo direttamente dell’aspetto fantascientifico dei racconti anche se, come si vedrà, fantascienza e miti si intersecano in molte occasioni nei racconti di Levi. Inoltre, è interessante sottolineare che la presenza di elementi fantascientifici contribuisce all’emergere di un’atteggiamento proattivo, poiché la specificità del genere fantascientifico è quella di mostrare un orizzonte utopico, la possibilità di agire per raggiungere una forma di esistenza alternativa che sia migliore di quella presente e passata (Suvin, “Science Fiction and the Novum”; cfr. Cassata). Roberta Mori suggerisce che quelle di Levi siano «distopie critiche»: «“a negative cousin of the Utopia proper” ([Moylan] 198) inasmuch as it develops from a positive notion of humankind’s social perspectives; thus its point of view is akin to utopia»; «Primo Levi used the language of sf [science fiction] to exercise a form of social activism (Proietti 93)» (“Worlds of ‘Un-knowledge’” 286).
  13. Mi permetto di sviluppare qui e nel paragrafo 3 la tesi di Bidussa – a mio avviso espressa troppo sinteticamente nel saggio “Verbi” – poiché è un buon punto di partenza per valutare gli echi dell’esperienza concentrazionaria nei racconti di finzione ed anche un utile termine di paragone per indagare la costruzione di simboli.
  14. Tale affermazione pare confermata dalle parole di Levi: «Ho esordito come scrittore d’“occasione”: alcuni importanti avvenimenti della Storia mi hanno coinvolto, mi hanno reso testimone di fatti che non potevo tenere per me, mi hanno imposto di scrivere. Quando questa mia funzione si è esaurita, mi sono accorto di non poter insistere sul registro autobiografico, e insieme di essere stato troppo “segnato” per poter scivolare nella narrativa ortodossa: mi è sembrato allora che un certo tipo di fantascienza potesse soddisfare il desiderio di esprimermi che ancora provavo, e si prestasse ad una forma moderna di allegoria. D’altronde la maggior parte delle mie Storie naturali è stata scritta prima della pubblicazione di La tregua» (Barberis, 1972, OI 1442).
  15. È questa la visione benjaminiana per cui il passato getta la propria ombra sul futuro, in un processo di foreshadowing che si realizza tramite il pensiero rammemmorante che costruisce allegorie: «il ricordo, simile a raggi ultravioletti, indica ad ognuno nel libro della vita una postilla che invisibile, come profezia, interpreta il testo» (“Strada a senso unico” 455).
  16. È proprio la concezione della storia di Benjamin a ostacolare la possibilità dell’azione: tramite l’allegoria, «il dramma barocco tedesco si seppellisce per intero nella disperata desolazione della realtà terrena. Se esso conosce una via di salvezza, questa sarà nel cuore stesso dell’angoscia» (“Il dramma barocco tedesco” 220; si veda anche il celebre brano sulla figura dell’angelo in “Sul concetto di storia”). Non è solo questa la prospettiva di Levi: «[a] un’ora incerta quell’agonia ritorna. Ogni tanto. Non è che io ci viva, dentro questo mondo. Altrimenti non avrei scritto La chiave a stella, non avrei messo su famiglia, non farei tante cose che mi piacciono. Ma è vero che, ad un’ora incerta, queste memorie ritornano. Sono un recidivo» (Calcagno). La distanza di Levi da Benjamin pare la stessa che intercorre tra il filosofo tedesco e Paul Valéry, le cui figure-simbolo sintetizzano una volontà di «prender dal mondo (visibile) solo alcune forze – e non alcune forme, ma di che fare alcune forme. Niente storia – niente scene – ma lo stesso senso della materia, roccia, aria, acqua, fibra vegetale. Voglio le azioni e le fasi – non gli individui e la loro memoria» (Monsieur Teste 96; cfr. Franzini, Il mito di Leonardo 182-85). Dal passato e dal mondo è possibile attingere materiale grezzo da trasformare in nuove forme, le quali possono anche rompere gli schemi di percezione utilizzati nel presente o nel passato.
  17. Levi prende le distanze da una possibile interpretazione simbolica dei propri racconti fantascientifici e preferisce invece parlare di «raccontare in altri termini», cioè una delle accezioni possibili del termine «allegoria», ma non nel senso attribuitogli da Benjamin (cfr. supra, nota 14). «Ho scritto una ventina di racconti e non so se ne scriverò altri. Li ho scritti per lo più di getto, cercando di dare forma narrativa ad una intuizione puntiforme, cercando di raccontare in altri termini (se sono simbolici lo sono involontariamente) una intuizione» (1966, SN, OI 1434; corsivo mio).
  18. Cfr. Eco, Lector in fabula, per il significato dei termini «co-testo» e «enciclopedia testuale», e per una migliore comprensione delle modalità di intervento del lettore nella costruzione del senso del discorso.
  19. Per un approfondimento sulla figura del centauro, cfr. infra, capitolo 6. Sophie Nezri fa delle osservazioni simili a proposito dell’idea di «guerra», sintagma che eccede il riferimento all’esperienza bellica e concentrazionaria: «[l]’opera leviana è così legata a una rete di immagini molto precise che si amplificano e si completano di continuo attraverso iterazioni contenutistiche e stilistiche» (376).
  20. Tale opinione è condivisa anche da lavori recenti come quelli di Charlotte Ross (Primo Levi’s Narratives of Embodiment 92) e Angela di Fazio (Altri simulacri. Automi, vampiri e mostri della storia nei racconti di Primo Levi 13), rinforzando la mia convinzione della necessità di una divulgazione dell’opera di Levi che sia più consapevole del valore di tutte le fonti della sua scrittura e degli spunti di riflessione offerti.