Prefazione

Mario Barenghi

La bibliografia critica su Primo Levi, che all’epoca della scomparsa dell’autore era ancora relativamente esigua, ha acquistato nell’arco di tre decenni dimensioni imponenti. Sono usciti saggi, atti di convegni, numeri speciali di riviste, monografie, commenti, nonché due edizioni complessive delle opere, a vent’anni di distanza l’una dall’altra, l’ultima delle quali comprensiva di un prezioso volume di interviste. Alla consolidata attenzione degli studiosi italiani ha fatto riscontro un interesse crescente all’estero, sia in paesi europei (Francia e Gran Bretagna soprattutto, ma non solo), sia negli Stati Uniti, dove è apparsa di recente una traduzione integrale delle opere che rappresenta un unicum per la letteratura italiana contemporanea.
E tuttavia – come sovente accade – nel corso di questa formidabile campagna di studi l’impegno degli interpreti non si è distribuito in maniera uniforme. Vi sono zone della produzione di Primo Levi tuttora poco esplorate, ovvero prese bensì in esame, ma sulla base di un implicito assunto limitativo: d’accordo, c’è anche questo, ma il Primo Levi che conta rimane un altro. E tra i titoli meno fortunati dell’opera di Levi ci sono senza dubbio i racconti d’invenzione, ossia la fiction propriamente intesa, nella quale ha largo spazio la dimensione fantastica.
A questo settore negletto no, ma certamente sottovalutato dell’opera primoleviana si è dedicato Federico Pianzola. Molti sono i meriti di questo lavoro. Innanzi tutto, la ricognizione analitica e sistematica di libri come Storie naturali, Vizio di forma, Lilít è inquadrata all’interno di un’immagine complessiva della figura di Levi. Nessuna antinomia rispetto alle opere più famose e celebrate, più o meno direttamente legate all’esperienza del Lager: i racconti di finzione trovano la loro collocazione e giustificazione all’interno di un itinerario creativo coerente (ancorché articolato e stratificato), che a partire dall’urgenza testimoniale muove nel senso della costruzione di un’etica. In secondo luogo, la disamina valorizza un aspetto cruciale dell’opera di Levi, ossia l’intertestualità. Levi appartiene alla categoria degli scrittori capaci di appropriarsi archetipi e modelli così intimamente da riuscire a essere sé stesso anche e soprattutto quando cita opere testi immagini parole altrui (cita, evoca, rielabora). In terzo luogo, l’organizzazione del discorso attorno a quattro figure-simbolo – Prometeo, il Golem, Lilít, il Centauro – conferisce alla trattazione una chiarezza espositiva non artefatta, non velleitaria, bensì intimamente legittimata dalla materia.
Dunque, Primo Levi e i miti. Un argomento quanto mai suggestivo, che Pianzola affronta senza mai perdere di vista presupposti e implicazioni d’ordine metodologico. Particolarmente interesse a me pare rivestano le considerazioni d’ordine retorico, ma è evidente che l’autore di queste pagine tiene in egual misura all’orizzonte dell’epistemologia; e assai proficuo sul piano interpretativo risulta l’utilizzo della categoria di punto di vista, maneggiato con sicura competenza teorica. Nell’insieme, quello che emerge dalla esplorazione di questo dark side del pianeta Primo Levi è il convergere di una grande densità problematica con una straordinaria ricchezza immaginativa, non di rado nel segno di un arguto umorismo. Levi ragiona sui temi della creazione, dell’evoluzione, delle relazioni fra le specie, dell’ibridismo, dei rapporti tra maschile e femminile, individuo e collettività, uomo e ambiente. Non sono molte le opere capaci di dare un’impressione così vivida della contiguità (o dell’intreccio) fra creazione artistica, esperimento mentale e dilemma etico. Il tutto, come si diceva, in un affascinante dialogo con la mitologia classica e biblica, con le leggende ebraiche, con la fantascienza.
La parola «fascino», nella sua intrinseca ambivalenza, mi sembra la più appropriata. Nel mito alberga una forza d’incanto, una malìa, che cela anche insidie. Trasponendola sul piano di un visione razionalmente laica, Primo Levi parla di trappole: «trappole morali», appunto, secondo la formula del risvolto di copertina delle Storie naturali (titolo che già di per sé implicava richiami intertestuali, da Plinio il Vecchio al prediletto Rabelais). Questa la prospettiva da cui Pianzola invita a rileggere un corpus di racconti d’invenzione non ancora apprezzati quanto meritano, ma che – al pari di altre zone a lungo in ombra, come la saggistica dell’Altrui mestiere – potrebbero rivelarsi suscettibili di resistere al tempo quanto i protocolli di Auschwitz.

Mario Barenghi