Prefazione

Gli equivoci della condivisione. Quando il “buon senso” non basta.

di Stefano Moriggi
(Università di Milano Bicocca)

Mai quanto adesso cambiare comportamento ed espandere la conoscenza ha richiesto la disposizione ad abbandonare non solo vecchie soluzioni, ma vecchi problemi.
John Dewey

“Condividere e sapere condividere è una virtù preziosa1. Esordiva così Francesco I in San Pietro nell’Udienza Generale dello scorso 11 novembre. Ma, al di là delle apparenze, il suo non era un discorso sulle tecnologie. Anche se, a ben vedere, in un passaggio di quel sermone, il Vescovo di Roma osservava: una famiglia “in cui a tavola non si parla ma si guarda la televisione, o lo smartphone, è una famiglia ‘poco famiglia’. Quando i figli a tavola sono attaccati al computer, al telefonino, e non si ascoltano fra loro, questo non è famiglia, è un pensionato”2.

Come prevedibile, non è mancato chi ha ingenuamente inteso o liberamente interpretato le considerazioni del Pontefice come una riflessione – oltre che una raccomandazione – sull’utilizzo delle tecnologie; sebbene dovrebbe essere evidente ai più che, condivisibili o meno, le parole in questione non vadano oltre il buon senso di un padre… di famiglia.

Di recente, commentando la sopracitata dichiarazione durante un seminario sulla didattica tecnologicamente aumentata, una docente non lontana dal traguardo della pensione ricordava che, quando era poco più che una bambina, i suoi genitori, per gli stessi motivi indicati da Bergoglio, le proibivano di presentarsi a tavola con un libro. Certo, anche il libro è una tecnologia – per quanto di questi tempi si fatichi non poco a riconoscerlo e a considerarlo in quanto tale. Tuttavia, immaginare che un’identica raccomandazione possa valere per imbastire un rapporto significativo ed equilibrato con “macchine” tra loro così diverse (libro, televisione e smartphone), e illudersi al contempo che le buone maniere che tutelano la convivialità di un desco possano addirittura rivelarsi appropriate per gestire la complessità del rapporto con le tecnologia (ancorché nel più ristretto, ma non meno delicato contesto domestico) pare ingenuo, per non dire irresponsabile.

E, d’altra parte, non va molto più lontano chi invece è incrollabilmente persuaso di venire a capo della questione con provvedimenti quantitativi: ossia, individuando caso per caso le opportune somministrazioni di tecnologia, oltre le quali l’interazione con tali strumenti degenererebbe in un anomalo abuso.

Per costoro, insomma, rinunciare alle tecnologie è impensabile, abusarne è disdicevole. E chi potrebbe negare che si tratti di una posizione di “buon senso”? Nessuno, appunto. Questo, infatti, è il problema. Ancora una volta, ci si trova di fronte a un approccio tanto generico quanto intuitivo, che (per lo meno a prima vista) pare funzionare sia quando si tratta, poniamo, di regolamentare l’utilizzo dello smartphone dei propri figli; sia per impedire ai più golosi indigestioni di marmellata – che, però, se assunta per modiche quantità, non può fare che bene. E per quanto a parole sia palese ai più la necessità di approcci diversificati, nei fatti, invece, è difficile riscontrare negli adulti la capacità di gestire la loro relazione (o quella dei loro figli) con la tecnologia diversamente da come si rapportano con un barattolo di confettura.

A scanso di equivoci, allora, è forse il caso di fare un po’ di chiarezza sui termini – a partire proprio da buon senso. E un filosofo in particolare può venirci in soccorso. Come noto, infatti, René Descartes nella Prima Parte del suo Discorso sul metodo (1637) sosteneva che il “buon senso è a questo mondo la cosa meglio distribuita”3. Al punto che – aggiungeva il pensatore francese, non senza una qualche sfumatura retorica – “ognuno pensa di esserne così ben provvisto che anche i più incontentabili sotto ogni altro aspetto, di solito, non ne desiderano di più”4. Ecco, si presti attenzione al fatto che, nel vocabolario cartesiano, quel “buon senso” (bon sens) sulle evidenze del quale il filosofo di Le Haye ha cercato di edificare un criterio efficace per “giudicare rettamente, discernendo il vero dal falso”5 era sinonimo di ragione (raison). E nulla aveva a che spartire con la costellazione di credenze e convinzioni che, in genere, ci appaiono a tal punto evidenti da assumerle come ovvie e scontate.

In quest’ottica, semmai, la ragione diviene lo strumento che, pur senza spingersi fino alla radicalità iperbolica del dubbio di Cartesio, dovrebbe quanto meno aiutarci a sospettare di pratiche e idee tanto diffuse e condivise. Il che, anche agli occhi di chi non esercita il mestiere del filosofo, sarebbe bene risultasse auspicabile specie in contesti e circostanze in cui è in atto un (qualsiasi) cambiamento autentico. Ovvero, una profonda evoluzione di pratiche e consuetudini (concrete e concettuali) che – nel caso specifico preso in esame in Social family da Rossella Dolce, Marco Giacomello e Fiorenzo Pilla – è scandita e regolata dall’uso sempre più pervasivo di dispositivi connessi alla rete. O per dirla altrimenti, da quei media che molti continuano a definire (e a considerare) new solo perché non sono ancora riusciti a “metabolizzarli” culturalmente.

Ora, metabolizzare culturalmente la transizione al digitale delle nostre esistenze, dentro e fuori la famiglia, significa anzitutto realizzare – a partire dalla quotidianità di ciascuno – che non ci si trova di fronte a un banale aggiornamento informatico delle competenze necessarie per utilizzare al meglio le potenzialità dei più recenti device disponibili sul mercato. Ma che, al contrario, si tratta di analizzare il come e il perché l’interazione con tali strumenti stia di fatto rimodellando i modi e tempi della comunicazione, i ritmi e la tipologia delle relazioni, gli stili e i metodi dell’apprendimento, per non dire poi delle competenze e delle abilità richieste in ambito professionale.

Rassegnamoci, in questa prospettiva il “buon senso” non può esserci d’aiuto. E questo proprio perché, come si accennava più sopra, siamo gli attori (più o meno consapevoli) di un cambiamento che richiede, categorie e coordinate inedite per essere inteso nelle sue molteplici sfaccettature. E non semplicemente di un mero svecchiamento di concetti e approcci familiari e diffusi.

Facile a dirsi… Ma il punto è che noi non siamo mai davvero pronti a cambiare. E questo, per quanto paradossale possa sembrare, dipende proprio dal fatto che siamo (e fin troppo!) donne e uomini di “buon senso”. Lo aveva capito molto bene un altro Francesco. Ossia quel Francis Bacon che, nel suoNovum Organum (1620), descriveva con cura l’inclinazione degli individui a interpretare fatti, eventi o, più in generale, informazioni nel tentativo diconfermare e consolidare le proprie convinzioni pregresse, ben al di là di quanto consentito dalle evidenze effettivamente disponibili. Più nel dettaglio, il Lord Cancelliere annotava che anche se “la forza o il numero delle istanze contrarie è maggiore, tuttavia o [l’intelletto] non ne tien conto per disprezzo, oppure le confonde con istruzioni e le respinge, non senza grave e dannoso pregiudizio, pur di conservare indisturbata l’autorità delle sue prime affermazioni”6.

Oggi parleremmo, più tecnicamente, di “pregiudizio della conferma” (Confirmation Bias); ma, in estrema sintesi, si tratta di prendere atto che, finchénon si è disposti a mettere in discussione quel “buon senso” a cui, chi più chi meno, tutti tendiamo a ridurre la complessità del mondo, di certo non potremo disporre degli strumenti (quanto meno intellettuali) per affrontare – e prima ancora per riconoscere – un vero cambiamento: incluso, ovviamente, quello innescato da una società sempre più connessa.

Pertanto, svincolarsi dal “dannoso pregiudizio” di cui parla Bacone è un compito senza fine: da svolgere sempre e di nuovo, ogni volta che una mutazione radicale, quale che sia, faccia irruzione nel presente delle nostre esistenze, cogliendoci inevitabilmente impreparati. Purtroppo, però, analizzando il dibattito che ormai da anni gravita attorno alle “nuove tecnologie”, pare che (specie in Italia!) tale “pregiudizio della conferma” dilaghi incontrastato. Da un lato si schierano gli apocalittici, dall’altro gli integrati: due fronti estremisti e dogmatici, spesso vittime degli stessi equivoci ancorché interpretati in modo opposto. Nel mezzo, al posto di una qualche virtù, si posiziona invece il gruppo dei teorici del “buon senso”: che, prevedibilmente, si propone come la ragionevole sintesi dei due poli contrapposti.

È sullo sfondo di questa scena che, troppo spesso non percepito, si staglia il bisogno di una cultura tecnologica e scientifica dentro la quale far maturare un approccio critico e disincantato, fondamentale per imparare ad abitare insieme un mondo riscritto da “macchine” che son qui per restare. Ci piaccia o meno.

Libri come Social family rappresentano, pertanto, contributi essenziali per portare a consapevolezza pratiche e dinamiche di un orizzonte – quello digitale – in cui bambini e ragazzi proiettano e disegnano parti non trascurabili delle loro vite. Un orizzonte molto lontano dal nostro “buon senso” e costruito su logiche della condivisione piuttosto diverse da quelle raccomandabili per un pranzo o una cena in famiglia…

2 Ibidem

3 R. Descartes, Discorso sul metodo, tr. it. M. Garin, introduzione di T. Gregory, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 3.

4 Ibidem

5 Ibidem

6 F. Bacone, Novum Organon, ed it. a cura di E. De Mas, Roma-Bari 1968, p. 23.